domenica 12 maggio 2024

Filosofia

 

           Il gigante Caso



5 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

IL GIGANTE CASO

Noi guardiamo il mondo, ovvero il mondo si riflette nel nostro sguardo. Prima di soffermarci a pensare e riflettere su quello che abbiamo appena detto, cercando di definire che cosa sia “sguardo” e che cosa sia “mondo”, esprimiamo altri pensieri, commentando magari un pensiero altrui. Nell’occasione, commentiamo il pensiero del filosofo Emanuele Severino sulla figura dell’eterno ritorno di Nietzsche.
L’interpretazione del pensiero dell’eterno ritorno da parte di Severino si fonda sull’osservazione che lo scorrere temporale delle cose e quindi la volontà creatrice viene ritenuta da Nietzsche come l’evidenza (verità) originaria, ma è in realtà una fede nel divenire, quindi priva dei tratti della verità. Chi conosce il pensiero di Severino sa che l’idea di fondo della sua filosofia consiste nel “destino della necessità”, dove la fede nel divenire viene considerata come la follia più estrema. Pensare il divenire significa pensare che le cose provengono dal nulla, ossia vengono create ex nihilo, e ritornano nel nulla. E questo significa pensare che un ente prima di venire ad essere è un non-ente, un niente. In tal senso il processo creativo della volontà nietzschiana si fonda sulla fede nel divenire. [1]
Secondo quanto abbiamo detto all’inizio, lo sguardo di Nietzsche sul mondo, per Severino è la fede nel divenire. Il mondo diveniente di tutti i giorni, la sua storia fatta dagli uomini, le cui cronache scorrono sotto il nostro sguardo e coinvolgono anche noi come parte di una società specifica (politica) e più in generale dell’intera umanità, è per noi l’evidenza, quella che Severino definisce fede nel divenire. Se vogliamo poi risalire all’indietro, registrando (res gestae) il corso della Storia e investigando sulla Natura (physis) dell’Universo, il tempo cosmico, per giungere all’origine fondante del tutto e comprendere il tutto in un solo sguardo, quella che andiamo cercando non è più l’evidenza corrente, diciamo così, ma quella originaria (orizein), che circoscrive l’intero orizzonte degli uomini e della natura.
L’evidenza originaria, la fede nel divenire di Nietzsche è la volontà creatrice, figura pensata sullo sfondo del pensiero di Schopenhauer. Non così fu, il passato immobile e immodificabile, ma così volli, il destino redento dalla volontà creatrice. Abbiamo usato la parola “destino” nel senso che ad essa conferisce Severino, la cui fede, l’evidenza originaria, secondo il suo modo di vedere, è il “Destino della Necessità”. Tutto “sta”, “de stin-are”, stare stabilmente, secondo necessità, nec-caedere.
Tutto sta, nulla diviene, dunque? Ma non è il pensiero di Nietzsche, il peso più grande, quello che fa digrignare i denti o sentire divini, l’eternità?
“Fermati, nano! - dissi – Io, oppure tu! Ma io sono dei due il più forte: tu non conosci l’abisso del mio pensiero! Né lo potresti sopportare.”

Silvio Minieri ha detto...

Siamo al capitolo dello “Zarathustra”, intitolato: “La visione e l’enigma”. Zarathustra si è inerpicato su un aspro sentiero di montagna, in mezzo ai dirupi, solitario, senza erba e arbusti, e sale sempre più in alto, contrastando lo spirito di gravità, il nano, che montatogli in groppa, lo spinge sempre più in giù, verso l’abisso. Poi, mentre sosta, Zarathustra si sente più leggero, il nano gli è saltato giù dalle spalle e si è accoccolato su un sasso di fronte a lui. Ma proprio dove si erano fermati vi era una porta.
“ – Vedi la soglia [2] di questa porta, nano! – continuai, – essa volge in due direzioni. S’incontrano qui due strade: nessuno ancora ne raggiunse la fine. Il cammino indietro dura un’eternità, e il cammino in avanti dura un’altra eternità. Sono due direzioni opposte, cozzano l’una contro l’altra, ed è qui sulla soglia di questa porta che s’incontrano. Il nome della porta è scritto lassù: “Attimo”. Ma se qualcuno seguisse una di queste strade, e andasse avanti, e sempre più avanti: credi tu, nano, che queste strade si contraddirebbero sempre? – Tutto ciò che è dritto mente – mormorò il nano sprezzante. – Ogni verità è curva; il tempo stesso è un circolo.”
A questo punto, Zarathustra ha una reazione inaspettata: “O spirito della gravità – dissi con ira. – Non prendere troppo alla leggera la cosa. Se no ti abbandono sul tuo sasso, o storpio; eppure ti portai in alto!”
Perché Zarathustra ha questa reazione irosa contro il nano? E soprattutto chi è il nano? Se in questo passaggio Zarathustra non è Nietzsche, ma soltanto ne esprime il pensiero, il nano è il suo pensiero, come dire il pensiero di Nietzsche che contraddice sé stesso. Ecco perché il pensatore si adira e minaccia di abbandonare il nano lì sul sasso, dove è accoccolato, sebbene egli l’abbia portato così in alto, contrastando il suo spirito di gravità. Il nano è il daimon di Nietzsche, un demone maligno, “mio demonio e mortale nemico”, lo aveva definito. Se lo spirito vuole volare ancora più in alto, quel che c’è di pesante, la materia, il corpo, lo trascina verso il basso. La risposta del nano è troppo semplicistica, la linea dritta s’incurva e il tempo diventa un circolo. È un inganno che la linea sia retta, la verità è curva. Si potrebbe obiettare che il nano abbia riferito un’ovvia verità, addirittura anticipando la teoria dello spazio curvo di Einstein: se lo spazio vuoto è piano, dritto, la massa lo incurva e devia la luce. La previsione fu confermata dall’esperimento dell’astronomo Arthur Eddington, che si recò appositamente nel golfo della Nuova Guinea, in occasione dell’eclissi solare del 29 maggio 1919. Una verità scientifica, dunque, anche se non filosofica, ma perché adirarsi tanto? Uno scontro tra la scienza e la filosofia?
Nietzsche non era uno scienziato, era un filosofo e anche un poeta, non misurava o calcolava, ma come filosofo pensava con la ragione, prima di sprofondare nel buio della follia, e come poeta avvertiva ed esprimeva le sue emozioni poeticamente, come il testo in commento dimostra ampiamente. Dopo l’ira e il rimbrotto, l’invito: “Guarda, – proseguii, – questo attimo! Dalla soglia di questa porta, l’attimo, corre all’indietro una lunga eterna strada: dietro a noi c’è un’eternità.”
Bisogna riflettere più a fondo, “non prendere alla leggera la cosa”, per capire quello che Zarathustra sta dicendo. “Guarda l’attimo!” Si può “guardare” l’attimo, pensarlo? Nell’atto di pensarlo, l’attimo non è già passato? L’ora (nunc), il momento, l’attimo è fuggito. Nietzsche ha intitolato il capitolo: “La visione e l’enigma”. La sua “visione” è quella dell’attimo. Che cosa significa questo?

Silvio Minieri ha detto...

Guardando alle spalle, verso la strada che va all’indietro, Zarathustra vede l’eternità del passato e così commenta: “Non devono forse tutte le cose che possono correre aver percorso già una volta questa strada? Tutto ciò che può accadere non deve già una volta essere accaduto, essersi compiuto, esser passato?” Da dove viene fuori questa convinzione a Zarathustra, posta in forma interrogativa? Se una cosa che accade non fosse già accaduta da dove cade? Dal gigante Caso? [3]
“E se tutto già fu: che pensi tu, nano, di questo momento?” Passando, il momento confluirà nel già fu, e quindi: “Non deve questa soglia della porta (l’attimo) essere già stata?” Guardare l’attimo, pensarlo, significa pensare la sua eternità. “E non sono collegate tutte le cose in modo che questo momento trascini seco tutte le cose venture? E per conseguenza anche sé stesso?” Il momento che “può” (“kann”) venire e quindi anche non venire, “deve” (“muss”) venire. Il suo essere stato è eterno, e in quanto eterno, non può non tornare. “Giacché tutto quello che può correre, anche su questa lunga strada in avanti, deve correre ancora!”
Ma non si può interrompere il processo di questo eterno divenire e sparire nel Nulla? L’obiezione (il nichilismo) è latente perché tutto il discorso di Zarathustra è dubitativo, essendo formato da tutta una serie di interrogativi, sebbene concatenati tra loro. Infatti dirà di avere paura dei propri pensieri e di quello che dietro ad essi si celava, appunto il latente nichilismo. Andando avanti però, ci accorgiamo che il tono diventa sempre più emotivo, la voce più flebile: “E questo ragno lento che striscia al chiaro di luna e lo stesso chiaro di luna ed io e te che sulla soglia di questa porta bisbigliamo di cose eterne, non dobbiamo già tutti essere stati una volta?”
Nel silenzio della notte, al chiaro di luna, Nietzsche fanciullo intravede un ragno che striscia lentamente tra i rami dell’albero, uno spettacolo sognante, sorgente dal registro del cuore, che suscita l’interrogativo sospeso: “Non dobbiamo già essere stati tutti una volta?” L’interrogativo è sospeso tra un passato tinto di nostalgia e un avvenire carico di attesa, una buia attesa: “ – e ritornare, per correre sull’altra strada, dinanzi a noi, su questa lunga, lugubre strada: non dobbiamo noi forse eternamente tornare?” Il chiaro di luna è alle spalle e ora si stende davanti al viandante (Wanderer) una lunga lugubre (schaurig) strada, una modulazione romantica e gotica, questa variazione dalla luce lunare nel buio del cammino. Una scena poetica che ci ricorda l’atmosfera e le immagini della notte del “Canto notturno del viandante” di Goethe e del “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia” di Giacomo Leopardi.
In verità l’interpretazione del Nietzsche fanciullo incantato davanti al ragno che striscia tra i rami dell’albero al chiaro di luna va un po' al di là del testo, ricollegandosi però a quanto poco più avanti evocato dall’autore: “D’improvviso udii un cane ululare vicino. Avevo mai udito un cane ululare così? Ritornò indietro il mio pensiero. Sì! Quando ero bambino, nella mia più lontana fanciullezza.”
Qui, abbandonata la maschera di Zarathustra, Nietzsche confida il suo stato d’animo, attraverso particolari biografici. Il ricordo e la nostalgia dell’infanzia e di quell’attimo incantato al chiaro di luna, in cui contempla il lento strisciare del ragno sul ramo dell’albero, si confronta e accompagna al suo lugubre avvenire, il suo stato di vita sofferente da adulto. È quello che abbiamo definito il “registro del cuore”, la storia (registro, res gestae) dei sentimenti della sua vita , il cuore della sua vita, il ricordo, come vuole la parola, richiamo del cuore (re-cordis).

Silvio Minieri ha detto...

[1] Cfr. “Nota” di “L’anello nuziale”.

[2] Thorweg, il termine ottocentesco usato da Nietzsche, nella traduzione “Montinari” viene correttamente reso con “porta carraia”. La lingua tedesca è ricca di vocaboli composti da due o più parole, e Thorweg si compone di Thor, porta, e Weg, strada, carreggiata; quindi, letteralmente Thorweg significa “porta carraia”, quella tipica di un grande edificio, da cui entrano ed escono le autovetture. Ora, per immaginare le due strade che confluiscono e si dipartono dalla porta carraia, questa più facilmente va immaginata aperta. Tale immagine, peraltro, rivela allo sguardo la continuità tra le due strade e al tempo stesso la sua divisione in due. L’osservazione è importante soprattutto per discutere alcuni aspetti della critica portata al pensiero dell’eterno ritorno dal traduttore italiano di Nietzsche, Sossio Giametta, il quale per conto di Montinari ha compiuto la versione dello “Zarathustra”. Ma di questo rimandiamo altrove, qui, vogliamo soltanto mantenerci nella dimensione linguistica e considerare l’immagine che la parola suscita. Quel che risalta nell’immagine della “porta carraia” è il carattere di “passaggio”, quell’area di transito per le autovetture, detta appunto “passo carrabile”. Ora, nello “Zarathustra”, sin dal suo inizio il motivo ricorrente è quello di passaggio, ponte: “L’uomo è una corda tesa tra l’animale e il superuomo, una corda al di sopra di un abisso”. Così si esprime Nietzsche nell’introdurre l’episodio del funambolo, e aggiunge: “La grandezza dell’uomo sta nell’essere un ponte e non una meta: l’uomo può essere amato perché è un passaggio e un tramonto.”
L’associazione di questa idea dell’uomo come “passaggio” all’immagine di una porta carraia, luogo di transito di autovetture, come noi moderni la intendiamo, provoca una dissonanza nella lettura del testo. Nietzsche, scrittore dell’Ottocento, adopera per “porta” un termine che nella lingua tedesca ha subito una modifica lessicale: non più “thor”, ma “tor”. E sembra quasi che alla modifica del lemma si sia accompagnata l’evoluzione del significato stesso della parola in relazione ai tempi. Storicamente la porta di una strada è quella posta all’ingresso di una città, un luogo obbligato di passaggio a piedi o in carrozza per chi vuole entrare o uscire dall’agglomerato urbano. E nella toponomastica delle città è rimasta quest’accezione, e spesso anche la struttura che un tempo qualificava il luogo, costituita principalmente da un passaggio stradale sovrastato da una costruzione ad arco. È questa l’immagine che il testo nietzschiano ci rimanda, il limite che congiunge due strade in una. Nello “Zarathustra” troviamo l’impiego di questo termine anche in un altro capitolo: “Della saggezza degli uomini”. “Ich sitze am “Thorwege” für jeden Schelm” “Siedo alla “porta delle strade” esposto al passaggio di gente di ogni risma.”
Sulla base di queste considerazioni, ho preferito tradurre il termine con “soglia” della porta, trovando non molto adeguato il termine “parta carraia”, che indica il passaggio in strada proprio delle autovetture. Altri autori traducono, invece, con atrio o portico, atrio appunto come portico esterno di accesso a un edificio. Esempio tipico di portico come passaggio stradale pubblico è la Porta di Brandeburgo a Berlino.

Silvio Minieri ha detto...

[3] Il “gigante Caso” è un’espressione che troviamo nel capitolo “La virtù donatrice”: “Ancora combattiamo, passo per passo, contro il gigante Caso, e sopra l’intera umanità dominò finora l’assurdo e l’insensato.” La risposta, che in quest’occasione Zarathustra non dà, porta il discorso verso un’altra riva che non è quella metafisica, ma quella etica. Questa risposta taciuta, nella sua valenza metafisica, sta invece alla sorgente di ogni possibile etica, quella fonte appunto ricercata da Nietzsche nella “genealogia della morale”. Qual è questa sorgente? È quella che non finisce di stupire il filosofo Emanuele Severino, quella sotterranea sorgente che egli non si stanca di definire come l’estrema follia dell’Occidente, la persuasione inconscia della cultura e della civiltà occidentale che l’essere è il nulla. È quella persuasione che il filosofo italiano imputa al pensiero di ogni filosofo ed anche al pensatore tedesco, come abbiamo illustrato nella Nota [1]. Quell’ente, che possiamo definire il “momento” o “attimo”, nel linguaggio di Severino un “eterno”, da dove scaturisce? Nietzsche si volge a guardare il passato, il “già fu” immodificabile. Se l’attimo passa e finisce nel passato, il passato immodificabile, un macigno che la volontà digrignando i denti non riesce a smuovere, allora l’attimo rimane immodificato eternamente. E se l’attimo è un eterno, allora ogni attimo venturo non deve essere già stato? In questa prospettiva l’attimo giunge dal passato. Allora è il passato il gigantesco Caso?