IL PROBLEMA SOCRATE La filosofia del martello di Nietzsche contro l’Etica socratica e la storia del pensiero, e la trasvalutazione di tutti i valori.
1. LA DECADENZA “Cerco di capire da quale idiosincrasia provenga l’equazione socratica di ragione = virtù = felicità”. In questa formula di Nietzsche (“Il crepuscolo degli idoli”, 1888), letta in negativo, è condensata per intero la filosofia morale di Socrate. Il 13 febbraio 1869, all’età di 25 anni, Nietzsche era diventato titolare della cattedra di lingua e letteratura greca, all’Università di Basilea, come esperto di filologia classica. Nella stessa data aveva chiesto l'annullamento della cittadinanza prussiana, e la risposta gli arrivò il 16 aprile: “Da quel giorno in poi Nietzsche, in conformità alla legge dello Stato, non era più prussiano e nemmeno tedesco, ma... apolide, o secondo la terminologia usata in Svizzera a quel tempo, "senza-patria", particolarmente appropriata per Nietzsche.” (Kurt Paul Janz, “Biografia di Nietzsche”, Monaco, 1978). Pur avendo servito la patria come volontario nel reggimento di artiglieria a cavallo (1867), e come infermiere al fronte, nella guerra franco-prussiana (1870-71), per sua scelta era diventato apolide. Nel 1878, all’età di 34 anni, per motivi di salute, si ritira dall’insegnamento, e comincia a vagare per l’Europa, in cerca di climi favorevoli, con soggiorni in località marine e montane in Svizzera, Francia e Italia e sporadici viaggi in Germania. Cagionevole di salute, soffriva di forti e frequenti emicranie, vivendo poveramente con i proventi della modesta pensione dell’Università di Basilea, iniziò la sua vita di apolide, viandante senza né casa né patria, che si concluse nel 1889 a Torino con il crollo psichico, il rimpatrio in Germania, l’internamento in manicomio, e la morte intervenuta nel 1900, con le esequie religiose volute dalla famiglia. Abbiamo delineato un breve schizzo della vita di Nietzsche, per raffrontarla con quella di Socrate, e cogliere alcuni aspetti di affinità di comportamento sociale, che affiorano nella coscienza del filosofo tedesco e vengono proprio per questo rimossi con la veemenza e il disprezzo tipici del suo pensiero e del suo linguaggio. Pur essendo vissuto per tutta la sua vita in patria ad Atene, al contrario di Nietzsche che era un espatriato, anche Socrate, come quest’ultimo, era in conflitto con i suoi concittadini. Socrate dava la prevalenza ai suggerimenti della sua coscienza (daimon) rispetto alle scelte di carattere politico, anche a rischio della vita, soccombendo alla fine. Nietzsche era in conflitto con i suoi compatrioti, non risparmiava il suo sarcasmo contro i tedeschi, la sua critica distruttiva (filosofia del martello) però non andava soltanto contro la sua nazione, ma contro tutti valori della civiltà occidentale, l’Europa e le sue radici culturali greco-romane ed ebraico-cristiane. [1] ___________________
[1] “Non tutta l’Europa è compresa nel concetto culturale di “Europa”, bensì solo quei popoli e parti di essi, che nella grecità, nella romanità, nell’ebraismo, nel cristianesimo hanno un passato comune.” (“Il viandante e la sua ombra”, 215,
Nel pensiero morale di Socrate e la filosofia platonica ideale, Nietzsche vedeva un sintomo di decadenza di quella grecità nobile, che aveva segnato l’età omerica, ed aveva i connotati della poesia di Pindaro, della tragedia di Eschilo e Sofocle, l’arte scultorea di Fidia, l’aristocratica democrazia di Pericle. Nella sua opera giovanile, “La nascita della tragedia dallo spirito della musica” (1872), egli mostra come già in Euripide si possano scorgere i segni della decadenza: “Quando fiorì un nuovo genere artistico, che onorava la tragedia come sua precorritrice e maestra, si constatò con orrore che esso aveva i lineamenti della madre, ma proprio quelli che essa mostrò nella sua lunga lotta con la morte. Questa lotta contro la morte della tragedia la combatté Euripide; quel posteriore genere artistico conosciuto come nuova commedia attica. In essa sopravvisse la figura degenerata della tragedia, come monumento del suo trapasso penoso e violento.” Agli occhi di Nietzsche il peccato commesso da Euripide contro la tragedia morente, in cui Dioniso, il dio straziato, eternamente sofferente, appariva dietro le sue numerose maschere, divinizzando così la tragedia, era un peccato di empietà: “Che cosa volevi, empio Euripide, quando cercasti di piegare ancora una volta al tuo servizio questo morente?” Con questo interrogativo accusatorio, Nietzsche rimprovera ed ammonisce Euripide, responsabile di avere piegato la divinità dell’antica tragedia classica di Eschilo e Sofocle, riducendo il dramma alla scena umana, e pagando la sua colpa: “E poiché abbandonasti Dioniso [la passione], anche Apollo [la ragione] abbandonò te; scova pure dalla loro tana tutte le tue passioni ed esorcizzale nel tuo cerchio magico, aguzza ed affila per i discorsi dei tuoi eroi una dialettica sofisticata – anche i tuoi eroi hanno solo passioni imitate e mascherate, e pronunciano solo discorsi imitati e mascherati.” E se anche lo stesso Euripide cercò di rovesciare alla fine questa sua tendenza, con la messa in scena di Dioniso, il dio in persona, nelle sue “Baccanti”, fu troppo tardi, perché la sua tendenza aveva già vinto. “Dioniso era stato rimosso dalla scena tragica, scacciato da una potenza demoniaca, che parlava per bocca di Euripide. Anche Euripide era in un certo senso solo maschera: la divinità che parlava in lui non era Dioniso, e neppure Apollo, ma un demone appena nato, chiamato Socrate.” Quindi, dopo avere dimostrato come Euripide non sia riuscito a fondare il dramma soltanto sull’apollineo, smarrendo la sua tendenza anti-dionisiaca in una tendenza naturalistica non artistica, Nietzsche enuncia la legge del socratismo estetico: “Tutto deve essere ragionevole per essere bello”, accompagnata dalla proposizione parallela: “Soltanto colui che sa è virtuoso”. E questo diventa il canone di Euripide, un metodo razionalistico, che trova conferma in quella leggenda diffusa in Atene, secondo cui Socrate era solito aiutare Euripide a poetare. Celebre era invece l’avvicinamento dei due nomi nel responso dell’oracolo delfico, che designava Socrate come il più saggio degli uomini ed assegnava ad Euripide il secondo premio nella gara della saggezza. “Senonché a Socrate l’arte tragica non sembrava nemmeno “dire la verità”, senza considerare che essa si rivolge a chi “non ha un grande intelletto”, e quindi non ai filosofi.” E qui, con il suo solito stile sarcastico, così Nietzsche commenta la sua osservazione: “Una doppia ragione per starsene lontani.”
In questo passaggio della sua opera giovanile, possiamo già cogliere il primo segno di quel rovesciamento dei valori, la trasvalutazione annunciata nell’opera posteriore dell’età matura: “Il crepuscolo degli idoli” (1888). All’inizio, nel paragrafo: “Il problema Socrate”, ossia la filosofia, s’interroga derisorio e feroce: “La saggezza comparirebbe forse sulla terra come un corvo, che un lieve odore di carogna manda in estasi?” Se nella tragedia antica scomparsa si rivelava la passione dionisiaca della vita, nella filosofia e dialettica di Socrate e Platone si avvertivano i primi segni della decadenza, quella appunto apportata nella vita dalla ragione. “Poiché soprattutto questo deve esserci chiaro, a nostra umiliazione ed esaltazione, che tutta la commedia dell’arte non viene affatto rappresentata per noi, per una nostra educazione e formazione, in quanto noi non siamo minimamente i veri creatori di quel mondo dell’arte. Al contrario possiamo supporre di essere per il suo vero creatore immagini e proiezioni artistiche, e di acquisire la nostra massima dignità nel significato di opere d’arte, poiché solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati – comunque la nostra coscienza di quel nostro significato è appena diversa da quella dei guerrieri dipinti sulla tela hanno sulla battaglia su di essa raffigurata. Quindi tutto il nostro sapere dell’arte è in fondo completamente illusorio, perché come esperti non siamo un’unica e identica cosa con l’essere, che come creatore e spettatore di quella commedia dell’arte, si procura un eterno godimento. Dunque, solo nell’atto della creazione artistica il genio si fonde con quell’artista originario del mondo, cogliendo qualcosa dell’eterna essenza dell’arte. In quella situazione, infatti, egli è meravigliosamente simile alla perturbante immagine della fiaba, che può girare gli occhi e guardare sé stessa: allora egli è allo stesso tempo soggetto e oggetto, contemporaneamente poeta, attore e spettatore.” Diciamo che il genio artistico è un tutt’uno con il dionisiaco divino del mondo, la tragedia e l’essenza tragica della vita rappresentata in immagine. Fuori, invece, si pone il sapere illusorio, la saggezza, Socrate, che sanziona la morte della tragedia con le sue proposizioni: “Virtù è sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice.” “Chi è costui che in solitudine osa negare la natura greca, quella che attraverso Omero, Eschilo, attraverso Fidia, Pericle, Pizia e Dioniso, attraverso il più profondo abisso e la più alta cima è certa della nostra stupita adorazione? Quale forza demonica è questa che può ardire di gettare nella polvere un tale filtro magico? Quale semidio è questo, a cui il coro degli spiriti più nobili deve gridare: – Ahi! Ahi! Tu l’hai distrutto, il bel mondo, con pugno possente, esso precipita, si dissolve!” Con questi roboanti interrogativi, Nietzsche punta l’indice contro la figura di Socrate l’iniziatore della decadenza della grecità, rivelando un impensabile carattere di anti-grecità. Quei valori tradizionali, espressi nella Grecia classica dall’aretè, la virtù, consistente nel realizzarsi come uomini kaloi kai agathoi e raggiungere così la felicità, con l’avvento della dialettica socratica, subivano un mutamento nella vita sociale e politica della comunità. Se nell’età omerica, ai tempi delle società guerriere, la virtù si identificava con il coraggio e l’onore dimostrati in battaglia, nell’Atene democratica di Pericle, si attribuiva maggior valore ad abilità di altra natura, come l’eloquenza e l’oratoria, per l’importanza che assumevano nel corso di dispute nelle assemblee e nei tribunali. Da questi mutamenti politici e sociali, dovuti a fattori storici, scaturisce l’indignazione e l’invettiva di Nietzsche contro Socrate, il plebeo che aveva osato opporsi alla vera natura greca, rovesciandone la nobiltà dei valori.
2. LA MALATTIA “Socrate apparteneva, per origine, al popolino: Socrate era plebaglia. Si sa, lo si vede ancora, quanto fosse brutto. Ma la bruttezza, di per sé un'obiezione, presso i Greci è quasi una confutazione. Socrate fu del tutto un Greco? La bruttezza è abbastanza spesso l'espressione di uno sviluppo per incroci, ostacolato dall'ibridazione. Altrimenti essa appare come uno sviluppo che va declinando. Gli antropologi criminalisti ci dicono che il tipico criminale è brutto: monstrum in fronte, monstrum in animo. Ma il criminale è un décadent. Socrate fu un criminale tipico? — Ciò per lo meno non sarebbe in contrasto con il giudizio dato da quel famoso fisiognomo [Zopiro], che suonò tanto sconveniente per gli amici di Socrate. Uno straniero che si intendeva di volti, passando per Atene, disse in faccia a Socrate che era un monstrum — che nascondeva in sé ogni brutto vizio e ogni brama. E Socrate rispose semplicemente: «Lei mi conosce, signore!» Nietzsche, “Il crepuscolo degli idoli”) Ma la mostruosità di Socrate era stata proclamata da Nietzsche già nella “Nascita della Tragedia”(13): “In Socrate l’istinto diventa critica, la coscienza si trasforma in creatrice – una vera mostruosità per defectum.” E questa è una vera aberrazione: dove l’istinto è il genio creativo, in Socrate difetta, diventa critico, come dire giudizio, ragione. “Più precisamente noi avvertiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica.” L’istinto appare logico, ma non si rivolge contro sé stesso, e con raccapriccio si scopre che esso si manifesta oltre sé stesso, radicato in forze superiori. Nel dramma messo in scena da Nietzsche, egli prefigura per Socrate una diversa sorte, e vedremo qui non si può non riscontrare un tratto relativo alla coscienza di Nietzsche stesso, al suo destino. In questa relazione con l’aldilà di sé stesso di Socrate, così scrive: “Che egli stesso presagisse questa relazione, si esprime nella maestosa serietà con cui fece valere dovunque, e ancor di più di fronte ai giudici, la sua vocazione divina. […] Per questo insolubile conflitto veniva offerta, una volta che egli fu condotto davanti al tribunale dello Stato greco, una sola forma di condanna: l’esilio; lo si sarebbe potuto scacciare oltre i confini, come qualcosa di irriducibilmente enigmatico, non classificabile, inesplicabile, senza che la posterità potesse mai avere il diritto di incolpare gli ateniesi di un atto ignominioso. Ma sembra che lo stesso Socrate abbia voluto, con assoluta limpidezza e senza il naturale brivido di fronte alla morte, che per lui fosse sentenziata la morte; andò incontro alla morte con quella stessa calma con cui, secondo la descrizione platonica, lasciò il simposio, ultimo dei bevitori, ai primi albori, per cominciare il nuovo giorno, mentre dietro a lui restavano i convitati addormentati sui sedili e sulla terra , per sognare di Socrate, il vero erotico. Il Socrate morente divenne l’ideale, mai prima contemplato, della nobile gioventù greca: prima di tutti Platone, il tipico giovane ellenico, si gettò ai piedi di questa immagine con tutta l’ardente devozione della sua anima entusiasta.”
Questa stessa sceneggiatura del dramma Socrate, Nietzsche la replicò sedici anni dopo in “Il crepuscolo degli idoli”, ma con una novità che riguardava da vicino lo sceneggiatore: la malattia. Nel 1882, Nietzsche pubblica uno dei suoi libri di aforismi, il continua di “Aurora” in conformità al suo stile espressivo, con una seconda edizione del 1887, in cui aggiunge il titolo: “La gaia scienza”. Leggiamo che cosa scrive nella Introduzione, a proposito della salute e della malattia: “Forse, a questo libro sarebbe necessario qualcosa d’altro che una semplice prefazione […] Esso sembra scritto nella lingua del vento dello sgelo: c’è in esso orgoglio, inquietudine, contraddizione, tempo d’aprile, così che si pensa costantemente tanto alla vicinanza dell’inverno quanto alla vittoria sull’inverno, la quale viene, deve venire, forse è già venuta... La riconoscenza prorompe continuamente, quasi fosse successo appunto ciò che non era atteso, la riconoscenza di un guarito, — perché la guarigione fu questa cosa inattesa. “Gaia scienza»: ciò significa i Saturnali di uno spirito che ha pazientemente resistito ad una terribile e lunga pressione — pazientemente, severamente, freddamente, senza assoggettarsi, ma senza speranza —, e che ora è assalito di colpo dalla speranza, dalla speranza della guarigione, dall’ebrezza della guarigione. […] Ma lasciamo i! signor Nietzsche: che ci importa che il signor Nietzsche abbia ricuperata la salute? Lo psicologo conosce poche questioni così attraenti come quelle sui rapporti fra la salute e la filosofia, e nel caso ch’egli stesso si ammali porta con sé nella malattia tutta la sua curiosità scientifica. Perché, supposto che si sia una persona, vi è anche per necessità la filosofia della propria persona: ma qui c’è una notevole differenza. In uno sono i suoi difetti quelli che fanno della filosofia, in un altro, le sue ricchezze e le sue forze. Il primo ha bisogno della sua filosofia, come sostegno, riposo, medicina, liberazione, elevazione, oblio di sé; per l’altro essa è solo un bel lusso, nel miglior caso la gioia di una gratitudine trionfante, che da ultimo deve iscriversi in cosmiche lettere maiuscole nel cielo delle idee. Ma in altri casi più comuni, quando le sofferenze filosofeggiano, come avviene di tutti i pensatori infermi, — e forse i pensatori infermi prevalgono nella storia della filosofia —, che cosa diventerà il pensiero stesso che è portato sotto la pressione della malattia? Questa è la domanda che importa agli psicologi.” Glia anni in cui Nietzsche medita questi pensieri, poi raccolti come aforismi in “La gaia scienza”, sono gli stessi in cui ripensando al cammino percorso nelle sue opere precedenti, culminano con la stesura (1988)e la pubblicazione (1889) di “Il crepuscolo degli idoli” , in cui presenta il “Problema Socrate”, seguito dal mondo vero divenuto favola di Platone, come dire l’inizio della filosofia. È quello il momento in cui nella storia del pensiero, la filosofia della Natura diventa anche filosofia morale, occupandosi dell’uomo, presentandosi cioè come paideia, educazione e formazione della persona umana. È appunto la filosofia di Socrate e Platone, quella tramandata nei “dialoghi”, come insegnamento essoterico, a cui si devono aggiungere le dottrine non scritte, c. d. esoteriche, consistenti nel suo insegnamento orale all’Accademia, ricostruite da Giovanni Reale: “Per una nuova interpretazione di Platone” (1984).
È questo l’inizio del pensiero e tutta la storia della filosofia lungo il corso della civiltà occidentale, che Nietzsche distrugge con la filosofia del martello, decretandone la fine: “Dio è morto”. Il mondo ideale platonico-cristiano è giunto alla fine, ed alla fine di questa storia del pensiero c’è Nietzsche-Dioniso, il cui sacrificio culmina nella follia mentale e nella morte. Entrando in conflitto con la storia dell’Occidente, Nietzsche entrava in conflitto con sé stesso, ponendo il principio del conflitto tra la coscienza individuale e quella collettiva, che vedremo meglio. Adesso, soffermiamoci sul problema della malattia di cui dice soffriva Socrate, la Vita. Quando Nietzsche si domanda, nel brano sopracitato della “gaia scienza”, che cosa è il pensiero sotto la pressione della malattia, la malattia del pensare, del ricercare la verità, ricerca intesa come mancanza di pudore [1], ha in mente l’arte: “Oh, questi Greci! Sapevano vivere, loro! E per questo occorre il coraggio di restare alla superficie, alle pieghe esteriori, alla pelle, d’adorare le forme, di credere a tutto l’Olimpo dell’apparenza. Questi Greci erano superficiali – perché profondi! E noi, bravacci dello spirito, che abbiamo scalato la vetta più alta e più pericolosa del pensiero moderno, e di lassù ci siamo guardati intorno e di lassù abbiamo guardato in basso, non torneremo proprio là dov’essi furono? Non siamo noi, precisamente in questo, Greci? Adoratori delle forme, dei suoni, delle parole? E proprio per questo, artisti?” Ma per quanto si voglia definire artista, ed in certa misura lo era come poeta, Nietzsche non poteva resistere alla malattia del pensare, da cui riteneva di essere guarito. Ed infatti dopo l’allegro conoscere di una scienza giocosa e ilare, ecco “incipit tragoedia” (342), il prologo dello “Zarathustra”, il suo vangelo, preceduto dalla dottrina dell’eterno ritorno: “Il peso più grande” (341). [2] Abbiamo detto lo “Zarathustra” il suo vangelo, ma egli sapeva bene che poteva cogliersi in esso la parodia e lo dice nella Introduzione: “ «Incipit tragoedia» si dice alla fine di questo libro piacevole-spiacevole. Si stia in guardia! Si annuncia qualche cosa di squisitamente cattivo e maligno: «incipit parodia», su questo non c’è dubbio.” In quest’altalena, Nietzsche non sfugge a quel principio logico, di cui parla Aristotele nel “Protreptico”: ”Sia che si debba filosofare, sia che non si debba filosofare, bisogna filosofare, ma poiché fra il filosofare e il non filosofare non si dà altra scelta, si deve in ogni caso filosofare.” E questo è come dire che se si vuole affermare che non si deve filosofare, allora questo è filosofare, il “martello” di Nietzsche. Ed è con il “martello” che si scaglia contro Socrate, aggredendone prima l’aspetto esteriore, la bruttezza, ben sapendo che non poteva fermarsi all’apparenza, per suscitarne il disgusto: “Quando quel fisiognomo [Zopiro] ebbe svelato a Socrate chi egli fosse, un antro di tutte le peggiori brame, quel grande ironico pronunciò anche un’altra frase, che ci fornisce la chiave per giungere a lui: “È vero” disse “ma io sono diventato signore di tutti loro.” Socrate aveva compreso, dice Nietzsche, che tutti avevano bisogno di lui.
La sua vicenda è l’emblema di quel cambiamento storico epocale, che andava maturando nella società ateniese del suo tempo, che lui aveva indovinato: “Socrate indovinò anche di più. Egli vide “dietro” i suoi nobili ateniesi, comprese che il “suo” caso, il caso della sua idiosincrasia già non era più un caso eccezionale. La stessa specie di degenerazione si preparava dovunque in silenzio: la vecchia Atene andava verso la fine. – E Socrate comprese che tutti avevano bisogno di lui – dei suoi rimedi, della sua cura, del suo metodo personale di conservazione di sé. Dappertutto gli istinti erano in anarchia; dovunque si era vicinissimi all’eccesso il monstrum in animo era il pericolo universale. «Gli istinti vogliono giocare al tiranno: bisogna inventare un controtiranno più forte» […] Come fu che Socrate si rese padrone di sé stesso? — In fondo il suo non era che il caso estremo, quello che saltava agli occhi di quanto allora cominciava ad essere la calamità generale. Nessuno era più padrone di sé stesso, gli istinti si rivolgevano gli uni contro gli altri. Socrate affascinava essendo quel caso estremo — la sua spaventevole bruttezza lo designava agli occhi di chiunque: egli affascinava, naturalmente, ancor più come risposta, come soluzione, come apparenza della cura necessaria in quel caso.” Ed ecco che viene individuata la malattia nella ragione e la salute negli istinti: “Allorché si è forzati a fare della ragione un tiranno, come ha fatto Socrate, deve esserci anche il pericolo che qualche altra cosa pure faccia il tiranno. Fu allora che si scoprì la ragione liberatrice; né Socrate né i suoi malati erano liberi di essere ragionevoli, — il che fu de rigueur, fu il loro ultimo rimedio […]Il moralismo dei filosofi greci dopo Platone è determinato patologicamente: così pure il loro apprezzamento della dialettica. Ragione=virtù=felicità, ciò vuol dire soltanto: bisogna imitare Socrate e stabilire contro gli oscuri appetiti una luce del giorno in permanenza — un giorno che sarebbe la luce della ragione.” Quindi Nietzsche conclude con il rovesciamento dei valori: “Il caso di Socrate fu un malinteso; tutta la morale di perfezionamento, compresa la morale cristiana, fu un malinteso... La più viva luce, la ragione ad ogni costo, la vita chiara, fredda, prudente, cosciente, sprovvista d’istinti, in lotta contro gli istinti non fu essa stessa che una malattia, una nuova malattia — e niente affatto un ritorno alla «virtù», alla «salute», alla felicità... Essere forzato di lottare contro gli istinti — è quella la formula della decadenza: fintanto che la vita è ascendente, felicità ed istinto sono identici.” Socrate è stato il grande malato: “Ha capito ciò lui stesso, egli che è stato il più prudente tra coloro che ingannarono sé stessi? Se lo è finalmente detto, nella saggezza del suo coraggio verso la morte?... Socrate voleva morire: — non fu Atene, fu egli stesso che si diede la coppa di veleno, egli forzò Atene alla coppa di veleno... « Socrate non è un medico, si disse egli piano: qui solo la morte guarisce... Socrate soltanto fu molto tempo malato... »
3. IL SACRIFICIO Per Hegel, la condanna contro Socrate fu giusta, perché egli ponendo il vero nell’interiorità della propria coscienza entrò in contrasto con i valori etici di giustizia e verità dei suoi concittadini. “Il popolo ateniese aveva dunque non solo il diritto, ma anche il dovere di reagire secondo le leggi: infatti esso considerò il nuovo principio come un crimine. Questa è in generale nella storia universale la posizione degli eroi, che schiudono un mondo nuovo, il cui principio è in contrasto con quello fino allora vigente e lo dissolve: essi appaiono violenti offensori delle leggi. Individualmente, quindi, incontrano la rovina, ma la pena distrugge soltanto l’individuo, non il principio, e lo spirito del popolo ateniese non si è mai più riavuto dal superamento del suo principio. La forma illegittima dell’individualità viene cancellata e violentemente con una pena, ma il principio più avanti si farà strada, sebbene sotto altro aspetto, e si innalzerà fino a diventare una forma dello spirito universale. Questo modo universale, in cui il nuovo principio si affaccia e sotterra il precedente, è il vero.” Quindi, per Hegel, “gli Ateniesi hanno veduto giusto, allorché ritennero che questo principio non fosse già mera opinione o dottrina, ma fosse propriamente destinato a distruggere direttamente, come nemico, la realtà dello spirito greco, e agirono in conformità a questo principio. Quindi, il corso delle vicende di Socrate non è casuale, ma sin dal principio condizionato necessariamente [da questo conflitto].” (Hegel, “Lezioni sulla storia della filosofia”, 1825-26) (Segue)
IMMAGINE Il filosofo viaggia alla ricerca del silenzio: in fuga dal suo insopportabile mal di testa, Nietzsche trova pace e ispirazione a Sils Maria, a 1.812 metri sopra il mondo. Katrin Schumacher
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
9 commenti:
IL PROBLEMA SOCRATE
La filosofia del martello di Nietzsche contro l’Etica socratica e la storia del pensiero, e la trasvalutazione di tutti i valori.
1. LA DECADENZA
“Cerco di capire da quale idiosincrasia provenga l’equazione socratica di ragione = virtù = felicità”. In questa formula di Nietzsche (“Il crepuscolo degli idoli”, 1888), letta in negativo, è condensata per intero la filosofia morale di Socrate.
Il 13 febbraio 1869, all’età di 25 anni, Nietzsche era diventato titolare della cattedra di lingua e letteratura greca, all’Università di Basilea, come esperto di filologia classica. Nella stessa data aveva chiesto l'annullamento della cittadinanza prussiana, e la risposta gli arrivò il 16 aprile: “Da quel giorno in poi Nietzsche, in conformità alla legge dello Stato, non era più prussiano e nemmeno tedesco, ma... apolide, o secondo la terminologia usata in Svizzera a quel tempo, "senza-patria", particolarmente appropriata per Nietzsche.” (Kurt Paul Janz, “Biografia di Nietzsche”, Monaco, 1978).
Pur avendo servito la patria come volontario nel reggimento di artiglieria a cavallo (1867), e come infermiere al fronte, nella guerra franco-prussiana (1870-71), per sua scelta era diventato apolide. Nel 1878, all’età di 34 anni, per motivi di salute, si ritira dall’insegnamento, e comincia a vagare per l’Europa, in cerca di climi favorevoli, con soggiorni in località marine e montane in Svizzera, Francia e Italia e sporadici viaggi in Germania. Cagionevole di salute, soffriva di forti e frequenti emicranie, vivendo poveramente con i proventi della modesta pensione dell’Università di Basilea, iniziò la sua vita di apolide, viandante senza né casa né patria, che si concluse nel 1889 a Torino con il crollo psichico, il rimpatrio in Germania, l’internamento in manicomio, e la morte intervenuta nel 1900, con le esequie religiose volute dalla famiglia.
Abbiamo delineato un breve schizzo della vita di Nietzsche, per raffrontarla con quella di Socrate, e cogliere alcuni aspetti di affinità di comportamento sociale, che affiorano nella coscienza del filosofo tedesco e vengono proprio per questo rimossi con la veemenza e il disprezzo tipici del suo pensiero e del suo linguaggio.
Pur essendo vissuto per tutta la sua vita in patria ad Atene, al contrario di Nietzsche che era un espatriato, anche Socrate, come quest’ultimo, era in conflitto con i suoi concittadini. Socrate dava la prevalenza ai suggerimenti della sua coscienza (daimon) rispetto alle scelte di carattere politico, anche a rischio della vita, soccombendo alla fine. Nietzsche era in conflitto con i suoi compatrioti, non risparmiava il suo sarcasmo contro i tedeschi, la sua critica distruttiva (filosofia del martello) però non andava soltanto contro la sua nazione, ma contro tutti valori della civiltà occidentale, l’Europa e le sue radici culturali greco-romane ed ebraico-cristiane. [1]
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[1] “Non tutta l’Europa è compresa nel concetto culturale di “Europa”, bensì solo quei popoli e parti di essi, che nella grecità, nella romanità, nell’ebraismo, nel cristianesimo hanno un passato comune.” (“Il viandante e la sua ombra”, 215,
Nel pensiero morale di Socrate e la filosofia platonica ideale, Nietzsche vedeva un sintomo di decadenza di quella grecità nobile, che aveva segnato l’età omerica, ed aveva i connotati della poesia di Pindaro, della tragedia di Eschilo e Sofocle, l’arte scultorea di Fidia, l’aristocratica democrazia di Pericle. Nella sua opera giovanile, “La nascita della tragedia dallo spirito della musica” (1872), egli mostra come già in Euripide si possano scorgere i segni della decadenza: “Quando fiorì un nuovo genere artistico, che onorava la tragedia come sua precorritrice e maestra, si constatò con orrore che esso aveva i lineamenti della madre, ma proprio quelli che essa mostrò nella sua lunga lotta con la morte. Questa lotta contro la morte della tragedia la combatté Euripide; quel posteriore genere artistico conosciuto come nuova commedia attica. In essa sopravvisse la figura degenerata della tragedia, come monumento del suo trapasso penoso e violento.” Agli occhi di Nietzsche il peccato commesso da Euripide contro la tragedia morente, in cui Dioniso, il dio straziato, eternamente sofferente, appariva dietro le sue numerose maschere, divinizzando così la tragedia, era un peccato di empietà: “Che cosa volevi, empio Euripide, quando cercasti di piegare ancora una volta al tuo servizio questo morente?” Con questo interrogativo accusatorio, Nietzsche rimprovera ed ammonisce Euripide, responsabile di avere piegato la divinità dell’antica tragedia classica di Eschilo e Sofocle, riducendo
il dramma alla scena umana, e pagando la sua colpa: “E poiché abbandonasti Dioniso [la passione], anche Apollo [la ragione] abbandonò te; scova pure dalla loro tana tutte le tue passioni ed esorcizzale nel tuo cerchio magico, aguzza ed affila per i discorsi dei tuoi eroi una dialettica sofisticata – anche i tuoi eroi hanno solo passioni imitate e mascherate, e pronunciano solo discorsi imitati e mascherati.” E se anche lo stesso Euripide cercò di rovesciare alla fine questa sua tendenza, con la messa in scena di Dioniso, il dio in persona, nelle sue “Baccanti”, fu troppo tardi, perché la sua tendenza aveva già vinto. “Dioniso era stato rimosso dalla scena tragica, scacciato da una potenza demoniaca, che parlava per bocca di Euripide. Anche Euripide era in un certo senso solo maschera: la divinità che parlava in lui non era Dioniso, e neppure Apollo, ma un demone appena nato, chiamato Socrate.” Quindi, dopo avere dimostrato come Euripide non sia riuscito a fondare il dramma soltanto sull’apollineo, smarrendo la sua tendenza anti-dionisiaca in una tendenza naturalistica non artistica, Nietzsche enuncia la legge del socratismo estetico: “Tutto deve essere ragionevole per essere bello”, accompagnata dalla proposizione parallela: “Soltanto colui che sa è virtuoso”. E questo diventa il canone di Euripide, un metodo razionalistico, che trova conferma in quella leggenda diffusa in Atene, secondo cui Socrate era solito aiutare Euripide a poetare. Celebre era invece l’avvicinamento dei due nomi nel responso dell’oracolo delfico, che designava Socrate come il più saggio degli uomini ed assegnava ad Euripide il secondo premio nella gara della saggezza. “Senonché a Socrate l’arte tragica non sembrava nemmeno “dire la verità”, senza considerare che essa si rivolge a chi “non ha un grande intelletto”, e quindi non ai filosofi.” E qui, con il suo solito stile sarcastico, così Nietzsche commenta la sua osservazione: “Una doppia ragione per starsene lontani.”
In questo passaggio della sua opera giovanile, possiamo già cogliere il primo segno di quel rovesciamento dei valori, la trasvalutazione annunciata nell’opera posteriore dell’età matura: “Il crepuscolo degli idoli” (1888). All’inizio, nel paragrafo: “Il problema Socrate”, ossia la filosofia, s’interroga derisorio e feroce: “La saggezza comparirebbe forse sulla terra come un corvo, che un lieve odore di carogna manda in estasi?” Se nella tragedia antica scomparsa si rivelava la passione dionisiaca della vita, nella filosofia e dialettica di Socrate e Platone si avvertivano i primi segni della decadenza, quella appunto apportata nella vita dalla ragione.
“Poiché soprattutto questo deve esserci chiaro, a nostra umiliazione ed esaltazione, che tutta la commedia dell’arte non viene affatto rappresentata per noi, per una nostra educazione e formazione, in quanto noi non siamo minimamente i veri creatori di quel mondo dell’arte. Al contrario possiamo supporre di essere per il suo vero creatore immagini e proiezioni artistiche, e di acquisire la nostra massima dignità nel significato di opere d’arte, poiché solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati – comunque la nostra coscienza di quel nostro significato è appena diversa da quella dei guerrieri dipinti sulla tela hanno sulla battaglia su di essa raffigurata. Quindi tutto il nostro sapere dell’arte è in fondo completamente illusorio, perché come esperti non siamo un’unica e identica cosa con l’essere, che come creatore e spettatore di quella commedia dell’arte, si procura un eterno godimento. Dunque, solo nell’atto della creazione artistica il genio si fonde con quell’artista originario del mondo, cogliendo qualcosa dell’eterna essenza dell’arte. In quella situazione, infatti, egli è meravigliosamente simile alla perturbante immagine della fiaba, che può girare gli occhi e guardare sé stessa: allora egli è allo stesso tempo soggetto e oggetto, contemporaneamente poeta, attore e spettatore.” Diciamo che il genio artistico è un tutt’uno con il dionisiaco divino del mondo, la tragedia e l’essenza tragica della vita rappresentata in immagine. Fuori, invece, si pone il sapere illusorio, la saggezza, Socrate, che sanziona la morte della tragedia con le sue proposizioni: “Virtù è sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice.”
“Chi è costui che in solitudine osa negare la natura greca, quella che attraverso Omero, Eschilo, attraverso Fidia, Pericle, Pizia e Dioniso, attraverso il più profondo abisso e la più alta cima è certa della nostra stupita adorazione? Quale forza demonica è questa che può ardire di gettare nella polvere un tale filtro magico? Quale semidio è questo, a cui il coro degli spiriti più nobili deve gridare: – Ahi! Ahi! Tu l’hai distrutto, il bel mondo, con pugno possente, esso precipita, si dissolve!”
Con questi roboanti interrogativi, Nietzsche punta l’indice contro la figura di Socrate l’iniziatore della decadenza della grecità, rivelando un impensabile carattere di anti-grecità. Quei valori tradizionali, espressi nella Grecia classica dall’aretè, la virtù, consistente nel realizzarsi come uomini kaloi kai agathoi e raggiungere così la felicità, con l’avvento della dialettica socratica, subivano un mutamento nella vita sociale e politica della comunità. Se nell’età omerica, ai tempi delle società guerriere, la virtù si identificava con il coraggio e l’onore dimostrati in battaglia, nell’Atene democratica di Pericle, si attribuiva maggior valore ad abilità di altra natura, come l’eloquenza e l’oratoria, per l’importanza che assumevano nel corso di dispute nelle assemblee e nei tribunali. Da questi mutamenti politici e sociali, dovuti a fattori storici, scaturisce l’indignazione e l’invettiva di Nietzsche contro Socrate, il plebeo che aveva osato opporsi alla vera natura greca, rovesciandone la nobiltà dei valori.
2. LA MALATTIA
“Socrate apparteneva, per origine, al popolino: Socrate era plebaglia. Si sa, lo si vede ancora, quanto fosse brutto. Ma la bruttezza, di per sé un'obiezione, presso i Greci è quasi una confutazione. Socrate fu del tutto un Greco? La bruttezza è abbastanza spesso l'espressione di uno sviluppo per incroci, ostacolato dall'ibridazione. Altrimenti essa appare come uno sviluppo che va declinando. Gli antropologi criminalisti ci dicono che il tipico criminale è brutto: monstrum in fronte, monstrum in animo. Ma il criminale è un décadent. Socrate fu un criminale tipico? — Ciò per lo meno non sarebbe in contrasto con il giudizio dato da quel famoso fisiognomo [Zopiro], che suonò tanto sconveniente per gli amici di Socrate. Uno straniero che si intendeva di volti, passando per Atene, disse in faccia a Socrate che era un monstrum — che nascondeva in sé ogni brutto vizio e ogni brama. E Socrate rispose semplicemente: «Lei mi conosce, signore!» Nietzsche, “Il crepuscolo degli idoli”)
Ma la mostruosità di Socrate era stata proclamata da Nietzsche già nella “Nascita della Tragedia”(13): “In Socrate l’istinto diventa critica, la coscienza si trasforma in creatrice – una vera mostruosità per defectum.” E questa è una vera aberrazione: dove l’istinto è il genio creativo, in Socrate difetta, diventa critico, come dire giudizio, ragione. “Più precisamente noi avvertiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica.” L’istinto appare logico, ma non si rivolge contro sé stesso, e con raccapriccio si scopre che esso si manifesta oltre sé stesso, radicato in forze superiori.
Nel dramma messo in scena da Nietzsche, egli prefigura per Socrate una diversa sorte, e vedremo qui non si può non riscontrare un tratto relativo alla coscienza di Nietzsche stesso, al suo destino. In questa relazione con l’aldilà di sé stesso di Socrate, così scrive: “Che egli stesso presagisse questa relazione, si esprime nella maestosa serietà con cui fece valere dovunque, e ancor di più di fronte ai giudici, la sua vocazione divina. […] Per questo insolubile conflitto veniva offerta, una volta che egli fu condotto davanti al tribunale dello Stato greco, una sola forma di condanna: l’esilio; lo si sarebbe potuto scacciare oltre i confini, come qualcosa di irriducibilmente enigmatico, non classificabile, inesplicabile, senza che la posterità potesse mai avere il diritto di incolpare gli ateniesi di un atto ignominioso. Ma sembra che lo stesso Socrate abbia voluto, con assoluta limpidezza e senza il naturale brivido di fronte alla morte, che per lui fosse sentenziata la morte; andò incontro alla morte con quella stessa calma con cui, secondo la descrizione platonica, lasciò il simposio, ultimo dei bevitori, ai primi albori, per cominciare il nuovo giorno, mentre dietro a lui restavano i convitati addormentati sui sedili e sulla terra , per sognare di Socrate, il vero erotico. Il Socrate morente divenne l’ideale, mai prima contemplato, della nobile gioventù greca: prima di tutti Platone, il tipico giovane ellenico, si gettò ai piedi di questa immagine con tutta l’ardente devozione della sua anima entusiasta.”
Questa stessa sceneggiatura del dramma Socrate, Nietzsche la replicò sedici anni dopo in “Il crepuscolo degli idoli”, ma con una novità che riguardava da vicino lo sceneggiatore: la malattia.
Nel 1882, Nietzsche pubblica uno dei suoi libri di aforismi, il continua di “Aurora” in conformità al suo stile espressivo, con una seconda edizione del 1887, in cui aggiunge il titolo: “La gaia scienza”. Leggiamo che cosa scrive nella Introduzione, a proposito della salute e della malattia: “Forse, a questo libro sarebbe necessario qualcosa d’altro che una semplice prefazione […] Esso sembra scritto nella lingua del vento dello sgelo: c’è in esso orgoglio, inquietudine, contraddizione, tempo d’aprile, così che si pensa costantemente tanto alla vicinanza dell’inverno quanto alla vittoria sull’inverno, la quale viene, deve venire, forse è già venuta... La riconoscenza prorompe continuamente, quasi fosse successo appunto ciò che non era atteso, la riconoscenza di un guarito, — perché la guarigione fu questa cosa inattesa. “Gaia scienza»: ciò significa i Saturnali di uno spirito che ha pazientemente resistito ad una terribile e lunga pressione — pazientemente, severamente, freddamente, senza assoggettarsi, ma senza speranza —, e che ora è assalito di colpo dalla speranza, dalla speranza della guarigione, dall’ebrezza della guarigione. […] Ma lasciamo i! signor Nietzsche: che ci importa che il signor Nietzsche abbia ricuperata la salute? Lo psicologo conosce poche questioni così attraenti come quelle sui rapporti fra la salute e la filosofia, e nel caso ch’egli stesso si ammali porta con sé nella malattia tutta la sua curiosità scientifica. Perché, supposto che si sia una persona, vi è anche per necessità la filosofia della propria persona: ma qui c’è una notevole differenza. In uno sono i suoi difetti quelli che fanno della filosofia, in un altro, le sue ricchezze e le sue forze. Il primo ha bisogno della sua filosofia, come sostegno, riposo, medicina, liberazione, elevazione, oblio di sé; per l’altro essa è solo un bel lusso, nel miglior caso la gioia di una gratitudine trionfante, che da ultimo deve iscriversi in cosmiche lettere maiuscole nel cielo delle idee. Ma in altri casi più comuni, quando le sofferenze filosofeggiano, come avviene di tutti i pensatori infermi, — e forse i pensatori infermi prevalgono nella storia della filosofia —, che cosa diventerà il pensiero stesso che è portato sotto la pressione della malattia? Questa è la domanda che importa agli psicologi.”
Glia anni in cui Nietzsche medita questi pensieri, poi raccolti come aforismi in “La gaia scienza”, sono gli stessi in cui ripensando al cammino percorso nelle sue opere precedenti, culminano con la stesura (1988)e la pubblicazione (1889) di “Il crepuscolo degli idoli” , in cui presenta il “Problema Socrate”, seguito dal mondo vero divenuto favola di Platone, come dire l’inizio della filosofia. È quello il momento in cui nella storia del pensiero, la filosofia della Natura diventa anche filosofia morale, occupandosi dell’uomo, presentandosi cioè come paideia, educazione e formazione della persona umana. È appunto la filosofia di Socrate e Platone, quella tramandata nei “dialoghi”, come insegnamento essoterico, a cui si devono aggiungere le dottrine non scritte, c. d. esoteriche, consistenti nel suo insegnamento orale all’Accademia, ricostruite da Giovanni Reale: “Per una nuova interpretazione di Platone” (1984).
È questo l’inizio del pensiero e tutta la storia della filosofia lungo il corso della civiltà occidentale, che Nietzsche distrugge con la filosofia del martello, decretandone la fine: “Dio è morto”. Il mondo ideale platonico-cristiano è giunto alla fine, ed alla fine di questa storia del pensiero c’è Nietzsche-Dioniso, il cui sacrificio culmina nella follia mentale e nella morte. Entrando in conflitto con la storia dell’Occidente, Nietzsche entrava in conflitto con sé stesso, ponendo il principio del conflitto tra la coscienza individuale e quella collettiva, che vedremo meglio. Adesso, soffermiamoci sul problema della malattia di cui dice soffriva Socrate, la Vita.
Quando Nietzsche si domanda, nel brano sopracitato della “gaia scienza”, che cosa è il pensiero sotto la pressione della malattia, la malattia del pensare, del ricercare la verità, ricerca intesa come mancanza di pudore [1], ha in mente l’arte: “Oh, questi Greci! Sapevano vivere, loro! E per questo occorre il coraggio di restare alla superficie, alle pieghe esteriori, alla pelle, d’adorare le forme, di credere a tutto l’Olimpo dell’apparenza. Questi Greci erano superficiali – perché profondi! E noi, bravacci dello spirito, che abbiamo scalato la vetta più alta e più pericolosa del pensiero moderno, e di lassù ci siamo guardati intorno e di lassù abbiamo guardato in basso, non torneremo proprio là dov’essi furono? Non siamo noi, precisamente in questo, Greci? Adoratori delle forme, dei suoni, delle parole? E proprio per questo, artisti?”
Ma per quanto si voglia definire artista, ed in certa misura lo era come poeta, Nietzsche non poteva resistere alla malattia del pensare, da cui riteneva di essere guarito. Ed infatti dopo l’allegro conoscere di una scienza giocosa e ilare, ecco “incipit tragoedia” (342), il prologo dello “Zarathustra”, il suo vangelo, preceduto dalla dottrina dell’eterno ritorno: “Il peso più grande” (341). [2]
Abbiamo detto lo “Zarathustra” il suo vangelo, ma egli sapeva bene che poteva cogliersi in esso la parodia e lo dice nella Introduzione: “ «Incipit tragoedia» si dice alla fine di questo libro piacevole-spiacevole. Si stia in guardia! Si annuncia qualche cosa di squisitamente cattivo e maligno: «incipit parodia», su questo non c’è dubbio.” In quest’altalena, Nietzsche non sfugge a quel principio logico, di cui parla Aristotele nel “Protreptico”: ”Sia che si debba filosofare, sia che non si debba filosofare, bisogna filosofare, ma poiché fra il filosofare e il non filosofare non si dà altra scelta, si deve in ogni caso filosofare.” E questo è come dire che se si vuole affermare che non si deve filosofare, allora questo è filosofare, il “martello” di Nietzsche. Ed è con il “martello” che si scaglia contro Socrate, aggredendone prima l’aspetto esteriore, la bruttezza, ben sapendo che non poteva fermarsi all’apparenza, per suscitarne il disgusto: “Quando quel fisiognomo [Zopiro] ebbe svelato a Socrate chi egli fosse, un antro di tutte le peggiori brame, quel grande ironico pronunciò anche un’altra frase, che ci fornisce la chiave per giungere a lui: “È vero” disse “ma io sono diventato signore di tutti loro.” Socrate aveva compreso, dice Nietzsche, che tutti avevano bisogno di lui.
La sua vicenda è l’emblema di quel cambiamento storico epocale, che andava maturando nella società ateniese del suo tempo, che lui aveva indovinato: “Socrate indovinò anche di più. Egli vide “dietro” i suoi nobili ateniesi, comprese che il “suo” caso, il caso della sua idiosincrasia già non era più un caso eccezionale. La stessa specie di degenerazione si preparava dovunque in silenzio: la vecchia Atene andava verso la fine. – E Socrate comprese che tutti avevano bisogno di lui – dei suoi rimedi, della sua cura, del suo metodo personale di conservazione di sé. Dappertutto gli istinti erano in anarchia; dovunque si era vicinissimi all’eccesso il monstrum in animo era il pericolo universale. «Gli istinti vogliono giocare al tiranno: bisogna inventare un controtiranno più forte» […] Come fu che Socrate si rese padrone di sé stesso? — In fondo il suo non era che il caso estremo, quello che saltava agli occhi di quanto allora cominciava ad essere la calamità generale. Nessuno era più padrone di sé stesso, gli istinti si rivolgevano gli uni contro gli altri. Socrate affascinava essendo quel caso estremo — la sua spaventevole bruttezza lo designava agli occhi di chiunque: egli affascinava, naturalmente, ancor più come risposta, come soluzione, come apparenza della cura necessaria in quel caso.” Ed ecco che viene individuata la malattia nella ragione e la salute negli istinti: “Allorché si è forzati a fare della ragione un tiranno, come ha fatto Socrate, deve esserci anche il pericolo che qualche altra cosa pure faccia il tiranno. Fu allora che si scoprì la ragione liberatrice; né Socrate né i suoi malati erano liberi di essere ragionevoli, — il che fu de rigueur, fu il loro ultimo rimedio […]Il moralismo dei filosofi greci dopo Platone è determinato patologicamente: così pure il loro apprezzamento della dialettica. Ragione=virtù=felicità, ciò vuol dire soltanto: bisogna imitare Socrate e stabilire contro gli oscuri appetiti una luce del giorno in permanenza — un giorno che sarebbe la luce della ragione.” Quindi Nietzsche conclude con il rovesciamento dei valori: “Il caso di Socrate fu un malinteso; tutta la morale di perfezionamento, compresa la morale cristiana, fu un malinteso... La più viva luce, la ragione ad ogni costo, la vita chiara, fredda, prudente, cosciente, sprovvista d’istinti, in lotta contro gli istinti non fu essa stessa che una malattia, una nuova malattia — e niente affatto un ritorno alla «virtù», alla «salute», alla felicità... Essere forzato di lottare contro gli istinti — è quella la formula della decadenza: fintanto che la vita è ascendente, felicità ed istinto sono identici.” Socrate è stato il grande malato: “Ha capito ciò lui stesso, egli che è stato il più prudente tra coloro che ingannarono sé stessi? Se lo è finalmente detto, nella saggezza del suo coraggio verso la morte?... Socrate voleva morire: — non fu Atene, fu egli stesso che si diede la coppa di veleno, egli forzò Atene alla coppa di veleno... « Socrate non è un medico, si disse egli piano: qui solo la morte guarisce... Socrate soltanto fu molto tempo malato... »
3. IL SACRIFICIO
Per Hegel, la condanna contro Socrate fu giusta, perché egli ponendo il vero nell’interiorità della propria coscienza entrò in contrasto con i valori etici di giustizia e verità dei suoi concittadini. “Il popolo ateniese aveva dunque non solo il diritto, ma anche il dovere di reagire secondo le leggi: infatti esso considerò il nuovo principio come un crimine. Questa è in generale nella storia universale la posizione degli eroi, che schiudono un mondo nuovo, il cui principio è in contrasto con quello fino allora vigente e lo dissolve: essi appaiono violenti offensori delle leggi. Individualmente, quindi, incontrano la rovina, ma la pena distrugge soltanto l’individuo, non il principio, e lo spirito del popolo ateniese non si è mai più riavuto dal superamento del suo principio. La forma illegittima dell’individualità viene cancellata e violentemente con una pena, ma il principio più avanti si farà strada, sebbene sotto altro aspetto, e si innalzerà fino a diventare una forma dello spirito universale. Questo modo universale, in cui il nuovo principio si affaccia e sotterra il precedente, è il vero.” Quindi, per Hegel, “gli Ateniesi hanno veduto giusto, allorché ritennero che questo principio non fosse già mera opinione o dottrina, ma fosse propriamente destinato a distruggere direttamente, come nemico, la realtà dello spirito greco, e agirono in conformità a questo principio. Quindi, il corso delle vicende di Socrate non è casuale, ma sin dal principio condizionato necessariamente [da questo conflitto].” (Hegel, “Lezioni sulla storia della filosofia”, 1825-26)
(Segue)
IMMAGINE
Il filosofo viaggia alla ricerca del silenzio: in fuga dal suo insopportabile mal di testa, Nietzsche trova pace e ispirazione a Sils Maria, a 1.812 metri sopra il mondo.
Katrin Schumacher
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