“Dovremmo essere molto grati per il fatto che esista qualcosa come la canaglia umana. Si tratta di esseri inferiori, e io non sono inferiore; ringrazio il cielo per aver incontrato persone che sono inferiori – ora so dove si trova l’inferiorità.” Karl Gustav Jung.
1. La sorgente avvelenata Nelle nostre note sul termine “accozzaglia”, abbiamo citato parole contigue, come plebaglia, marmaglia, gentaglia, rilevandone il significato spregiativo, suggerito dalle desinenze. Un termine ancora più forte di queste è “canaglia”, dove è più accentuato non solo il disprezzo, ma soprattutto l’aspetto negativo della malvagità. Il termine deriva dal latino canalia, frotta di cani, neutro plurale dell’aggettivo canalis, canino, e indica una banda di individui ignobili e malvagi, dediti a comportamenti e azioni abiette, in tale attitudine equiparabili a un branco di cani arrabbiati. È ovvio che questa definizione di canaglia è abbastanza generica, perché il termine assume una diversa sfumatura più o meno grave, al di là del significato ironico con cui si qualifica ad es. piccola canaglia un certo birbantello, o un amico che ci ha giocato un brutto tiro. E così si parla della peggiore canaglia, in relazione a individui che compiono vere e proprie azioni delittuose, rispetto ad altri che mantengono condotte riprovevoli soltanto da un punto di vista morale e sociale. Ma bisogna anche mettere in risalto da chi viene proferito quest’epiteto e nei confronti di quali persone. Una descrizione abbastanza realistica di certi personaggi e dei loro comportamenti ci viene data dalla letteratura, e in proposito ci riferiamo a qualche mirabile pagina del Manzoni. [1] Intanto, ci sembra opportuno parlare del tema da un punto di vista psicologico e filosofico, per sondare a fondo il tema della “canaglia”, attraverso un’attenta disanima di un passo dello “Zarathustra” di Nietzsche, illustrato da Jung. Si tratta del capitolo intitolato: “Della canaglia”. [2] Chiariamo che la citazione in epigrafe delle parole di Jung si presenta in una luce ambigua, perché estrapolata dal testo; infatti, subito dopo la prima impressione di sconcerto, si avverte l’ironia della dichiarazione e se ne afferra il senso. E questo diviene ancora più chiaro, quando si scopre che da un punto di vista psicologico, quella frase esprime il pensiero di Nietzsche. “La vita è una sorgente di diletto; ma dove anche la canaglia si abbevera, tutte le sorgenti vengono avvelenate.” Così commenta Jung questo primo versetto del capitolo: “Dobbiamo sempre tenere a mente che quando Nietzsche parla […] della canaglia, egli intende una cosa che per lui è fonte di particolare disturbo; vale a dire una cosa che si trova dentro di lui, e che per questo motivo è particolarmente molesta.” Quindi prosegue, generalizzando ed estendendo il giudizio: “Vedete, le cose che noi malediciamo di più sono quelle che ci sono più vicine; le qualità più irritanti sono le nostre. Se una cosa ci è assolutamente estranea, se non ci tocca sul vivo, ne saremo soltanto sorpresi e non capiamo e non troviamo neppure le parole necessarie per censurarla. Ma quando si tratta di una nostra mancanza, diveniamo loquaci e disponiamo di tutto un corredo di attributi e osservazioni negative per biasimare o denigrare quella cosa particolare.”
Jung poi torna su Nietzsche, in cui la contraddizione psicologica è più estrema e quindi più evidente, ma il suo discorso resta sempre generale: “Perciò quando Nietzsche parla della canaglia, egli intende riferirsi alla canaglia che ha dentro di sé; ciò gli fornisce l’emozione necessaria, e di certo tutti hanno dentro di sé della canaglia.” Ma quando viene fuori questa “canaglia”? Nell’esperienza noi possiamo vederne l’opera, attraverso le malefatte delle persone singole o anche attraverso i crimini di certi regimi politici, per i quali si è adottata la definizione, abbastanza controversa, di stati-canaglia ("rogue state"). Ora, Nietzsche impazzì e certe sue trasgressioni si riferiscono a stati deliranti, ma fin quando la sua mente non vacillò, egli non fece altro che teorizzare per sé stesso situazioni psicologiche estreme. E questa fu materia ideale per Jung, perché nello studio dello “Zarathustra”, riusciva a scorgere i sintomi della follia. Infatti, quando l’opera fu pubblicata, egli era convinto come tanti che l’autore fosse un pazzo, perché portava alla luce quei lati inquietanti della personalità umana, che tutti detestiamo, in quanto parte di noi. In questo lo “Zarathustra”, per l’interprete, è una miniera ricca e affascinante, che custodisce non soltanto preziose verità psicologiche, ma anche chiare idee e principi filosofici. E questo vale anche per il passo sulla “canaglia”, ecco perché ne appare conveniente un’attenta disamina. Jung riesce a dosare anche la quantità percentuale di canaglia presente nell’uomo singolo, attraverso una semplice equazione: “Una certa percentuale dell’umanità consiste di canaglia, e dato che siamo tutti parte di quell’umanità, dentro di noi si ritrova la stessa percentuale.” L’equazione appare discutibile da un punto di vista matematico, ma a Jung serve per proseguire il suo discorso, spiegandone la dinamica: “Ora, finché la canaglia non viene – come diciamo noi – costellata, noi evitiamo di menzionare il fatto.” Quando essa è sparsa qua e là, a sprazzi come nelle costellazioni, preferiamo non saperne nulla, ma “non appena c’innalziamo un po' troppo in alto”, ecco che la distinzione risalta, la canaglia acquista visibilità e allora cominciamo a lanciarle insulti contro. E l’effetto di questo elevarsi in alto, perdendo il terreno sotto i piedi, come dire l’equilibrio tra sensi e spirito, Jung lo vede spesso nelle immagini che lo stesso Nietzsche propone. E siccome questi ha dichiarato che Dio è morto, ossia l’elemento spirituale che noi chiamiamo Dio, dice Jung, ha trovato un sostituto nella figura di Zarathustra, con cui finendo per identificarsi, diventa solo aria e spirito e perde la connessione con la realtà sensibile, a cui noi uomini apparteniamo. “Nietzsche, inflazionato dalla sua identificazione con Zarathustra, è senza alcun dubbio troppo elevato, troppo distinto, troppo meraviglioso; e a questo punto la canaglia acquista importanza, e lui deve rimuoverla.”
E nell’immagine delle sorgenti d’acqua avvelenata contaminata dalla canaglia che vi si abbevera, Jung riconosce i simboli della sua dottrina sull’Inconscio: “Se ti identifichi con una figura di distinzione, in una tale immagine tutte le qualità minori non avranno spazio, ma ne saranno escluse e si accumuleranno fino a coprire la fonte della vita, che naturalmente è l’inconscio. La sorgente vitale scaturisce dall’inconscio, e ciò che non accetti in te stesso ricadrà senza dubbio in quella sorgente e l’avvelenerà; quando non riconosci certi fatti, questi formano nell’inconscio uno strato che per emergere, l’acqua della vita dovrà attraversare, e verrà avvelenata da tutte quelle cose che hai lasciato là sotto.” Questa è la diagnosi, e subito dopo, Jung indica la terapia: “Se vengono accolte nella tua vita cosciente, allora si troveranno combinate con altre sostanze più pure e di maggior valore, e le qualità odiose delle funzioni inferiori verranno più o meno a scomparire. Formeranno solo delle piccole ombre qua e là, e saranno spezie utili per dare sapore alle cose buone.” Certo, il discorso junghiano è facilmente comprensibile e immediatamente intuibile dalle persone normali, mentalmente sane (datemi un uomo sano ed io lo curerò, dice Jung), ma quello che interessa nello “Zarathustra” sono le immagini che Nietzsche propone, vere e proprie visioni oniriche, ricche di simboli, che lo psicologo interpreta, per la sua dottrina sull’inconscio, ma in cui si ritrovano anche gli elementi del suo pensiero filosofico, il Superuomo.
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[1] Cfr. I MONATTI
[2] DELLA CANAGLIA “La vita è una sorgente di diletto; ma dove anche la canaglia si abbevera, tutte le sorgenti vengono avvelenate. Io prediligo tutto quanto è pulito; ma non posso vedere i musi ghignanti e la sete degli impuri. Hanno gettato il loro occhio nel fondo della fonte: e ora mi arriva su dalla fonte il riflesso del loro sorriso ributtante. L’acqua sacra mi hanno avvelenato con la loro libidine; e quando chiamarono piacere i loro sogni sporchi, hanno avvelenato anche le parole. Sdegnosa diventa la fiamma, quando essi mettono al fuoco i loro cuori madidi; anche lo spirito gorgoglia fumigante, dove la canaglia si avvicina al fuoco. Dolciastro e frollo diventa il frutto nelle loro mani: il loro sguardo rende caduco al vento e secco nelle fronde l’albero fruttifero. E molti che si allontanarono dalla vita, volevano solo allontanarsi dalla canaglia: non volevano condividere la fonte e la fiamma e il frutto con la canaglia. E molti che andarono nel deserto a soffrire la sete con le belve, altro non volevano che non sedersi attorno alla cisterna insieme a sporchi cammellieri. E molti che vennero come distruttori e come grandine per i campi fruttiferi, non volevano se non cacciare il piede nelle fauci della canaglia e così tapparne la gola. E il boccone per me più difficile da inghiottire non è stato il sapere che la vita stessa ha bisogno di inimicizia, e di morte e di croci di martirio: così una volta chiesi, quasi soffocando la mia domanda: come? È "necessaria" per la vita anche la canaglia? Sono necessarie fonti avvelenate e fuochi puzzolenti e sogni insozzati e vermi nel pane della vita? Non l’odio, lo schifo ha insaziabilmente roso la mia vita! Ah, spesso presi a tedio anche lo spirito, quando trovai che anche la canaglia ha spirito!
E a coloro che dominano ho vòlto le spalle, quando ho visto che cosa essi oggi chiamano dominare: mercanteggiare vilmente sulla potenza con la canaglia! Ho abitato tra popoli di lingua straniera con le orecchie tappate: affinché la lingua del loro traffichio mi restasse straniera e il loro mercanteggiare la potenza. E turandomi il naso sono passato con disgusto attraverso tutto l’ieri e l’oggi: davvero, tutto l’ieri e l’oggi emana cattivo odore di canaglia che scrive! Come uno storpio, diventato sordo e cieco e muto: così ho vissuto per lungo tempo, per non vivere con la canaglia del potere, della penna e dei piaceri. Faticosamente il mio spirito ha salito le scale, e circospetto; elemosine di piacere furono il suo ristoro; appoggiata al bastone, avanzava lentamente la vita per il cieco. Ma che cosa mi accadde? Come mi salvai dal disgusto? Chi ringiovanì il mio occhio? Come potei raggiungere a volo l’altezza dove nessuna canaglia più siede alla fonte? È stato il mio stesso disgusto a crearmi ali ed energie presaghe di sorgenti? In verità, bisognava ch’io volassi alla massima altezza per ritrovare la sorgente del diletto! Oh, fratelli, io l’ho trovata! Qui sulla vetta sgorga per me la sorgente del diletto! E vi è una vita alla quale non attinge la canaglia! Quasi troppo violento è per me il tuo corso, fonte del diletto! E spesso torni a vuotare il calice volendo riempirlo! E io devo ancora imparare ad avvicinarmi più modestamente a te: con troppa irruenza scorre incontro a te il mio cuore: Il mio cuore, sul quale arde la mia estate, corta, ardente, melanconica, beatissima: come il mio cuore estivo anela alla tua frescura! Finita l’indugiante tetraggine della mia primavera! Passata la cattiveria dei miei fiocchi di neve a giugno! Estate io sono diventato tutto, e meriggio estivo! Un’estate sulle cime con fredde sorgenti e silenzio beato: oh, venite, amici, perché il silenzio diventi anche più beato! Perché questa è la "nostra" altura e la nostra patria: a una troppo ripida altezza noi abitiamo qui, per tutti gli impuri e la loro sete. Gettate – vi prego – i vostri occhi puri nella fonte del mio diletto, amici! Come potrebbe intorbidarsi per ciò! Con la "sua" purezza essa deve sorridervi incontro. Sull’albero futuro noi costruiamo il nostro nido; aquile debbono portare nel becco il cibo a noi solitari! Invero non un cibo che sia permesso mangiare anche agli impuri! Fuoco crederebbero di trangugiare e si brucerebbero le fauci! Invero noi non abbiamo qui rifugi per gli impuri! Una caverna di ghiaccio significherebbe per i vostri corpi la nostra gioia, e per i vostri spiriti! E come venti vigorosi noi vogliamo vivere al di sopra di loro, vicini alle aquile, vicini alla neve, vicini al sole: così vivono venti vigorosi. E un giorno voglio soffiare come un vento anche tra loro e col mio spirito togliere il fiato al loro spirito: così vuole il mio futuro. In verità, Zarathustra è un vento impetuoso per tutte le bassure; e questo consiglio dà ai suoi nemici e a tutto quanto vomita e sputa: «guardatevi dallo sputare contro il vento!». Così parlò Zarathustra.”
“E tra ’l fuoco e tra ’l fumo e le faville E ’l grandinar de la rovente scaglia Ti gittasti feroce in mezzo a i mille, Santa canaglia.” Giosuè Carducci - Giambi ed Epodi (1906) Libro I - Nel vigesimo anniversario dell'8 agosto 1848.
La data ricorda l’insurrezione contro le truppe austriache dei cittadini bolognesi e la battaglia combattuta vittoriosamente nei pressi della Montagnola. È noto l’entusiasmo rivoluzionario del Carducci, che sin dagli anni giovanili si mostrò sostenitore dei diritti del popolo, la forza che muove il corso della storia, ostentando uno spirito anticlericale e repubblicano, fino ad un evento simbolico, l’incontro con la regina Margherita. Il poeta mutò il suo anonimo da rivoluzionario in patriottico e la “santa canaglia” divenne lo strumento per le battaglie nazionalistiche. L’ossimoro poetico del Carducci si presenta di grande interesse sotto un duplice profilo: quello proprio della figura retorica, che evidenzia una contraddizione propria dell’animo umano, da esaminare sotto un profilo psicologico; e l’altro di carattere socio-politico, per la doppia valenza che può attribuirsi al termine, dispregiativo da un lato, glorificante dall’altro, a seconda della prospettiva da cui si guarda. Nella sua analisi psicologica dello “Zarathustra”, a Jung non poteva certo sfuggire l’occasione di esaminare questa contraddizione, quando si presenta nei suoi aspetti più estremi. Nel riflesso della sorgente, Nietzsche non sopporta di vedere “i musi ghignanti”, “la sete degli impuri”, “il loro sorriso ributtante”. “L’acqua sacra mi hanno avvelenato con la loro libidine; e quando chiamarono piacere i loro sogni sporchi, hanno avvelenato anche le parole.” Di chi sono i sogni più sporchi? Jung risponde: “Naturalmente, i sogni più sporchi li fanno i santi. È un fatto sfortunatamente. Sant’Agostino per esempio affermava di ringraziare Dio per non averlo reso responsabile dei propri sogni. Non dice quali fossero e ho avuto sempre la curiosità di saperlo – devono essere stati piuttosto forti.” (Segue)
“– Lascia fare a me, – gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un cadavere un laido cencio, l'annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: – aspetta, canaglia! – A quell'atto, fuggirono tutti, inorriditi.”
“Dopo qualche momento, s'apre un poco una finestra; una donna fa capolino, guardando chi era, con un viso ombroso che par che dica: monatti? vagabondi? commissari? untori? diavoli? – Quella signora, – disse Renzo guardando in su, e con voce non troppo sicura: – ci sta qui a servire una giovine di campagna, che ha nome Lucia? – La non c'è più; andate, – rispose quella donna, facendo atto di chiudere. – Un momento, per carità! La non c'è più? Dov'è? – Al lazzeretto –; e di nuovo voleva chiudere. – Ma un momento, per l'amor del cielo! Con la peste? – Già. Cosa nuova, eh? Andate. – Oh povero me! Aspetti: era ammalata molto? Quanto tempo è ...? Ma intanto la finestra fu chiusa davvero. – Quella signora! quella signora! una parola, per carità! per i suoi poveri morti! Non le chiedo niente del suo: ohé! – Ma era come dire al muro. Afflitto della nuova, e arrabbiato della maniera, Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l'alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest'agitazione, si voltò per vedere se mai ci fosse d'intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma la prima, l'unica persona che vide, fu un'altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch'esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert'occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d'artigli, come se cercasse d'acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno non se n'accorgesse. Quando s'incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa. – Che diamine...? – cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all'improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: – l'untore! dàgli! dàgli! dàgli all'untore! – Chi? io! ah strega bugiarda! sta' zitta, – gridò Renzo; e fece un salto verso di lei, per impaurirla e farla chetare. Ma s'avvide subito, che aveva bisogno piuttosto di pensare ai casi suoi. Allo strillar della vecchia, accorreva gente di qua e di là; non la folla che, in un caso simile, sarebbe stata, tre mesi prima; ma più che abbastanza per poter fare d'un uomo solo quel che volessero. Nello stesso tempo, s'aprì di nuovo la finestra, e quella medesima sgarbata di prima ci s'affacciò questa volta, e gridava anche lei: – pigliatelo, pigliatelo; che dev'essere uno di que' birboni che vanno in giro a unger le porte de' galantuomini.
Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un'occhiata a destra e a sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là. Rispinse con un urtone uno che gli parava la strada; con un gran punzone nel petto, fece dare indietro otto o dieci passi un altro che gli correva incontro; e via di galoppo, col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra' piedi. La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: – dàgli! dàgli! all'untore! – Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo. L'ira divenne rabbia, l'angoscia si cangiò in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a' suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: – chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l'ungerò io davvero con questo. Ma, con maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i suoi persecutori s'eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che, seguitando a urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati, come a gente che venisse di lontano dietro a lui. Si voltò di nuovo, e vide (ché il gran turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un carro che s'avanzava, anzi una fila di que' soliti carri funebri, col solito accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un altro mucchietto di gente che avrebbero voluto anche loro dare addosso all'untore, e prenderlo in mezzo; ma eran trattenuti dall'impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio voto. Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate. – Bravo! bravo! – esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de' quali seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l'orribil cosa com'era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. – Bravo! bel colpo! – Sei venuto a metterti sotto la protezione de' monatti; fa' conto d'essere in chiesa, – gli disse uno de' due che stavano sul carro dov'era montato. I nemici, all'avvicinarsi del treno, avevano, i più, voltate le spalle, e se n'andavano, non lasciando di gridare: – dàgli! dàgli! all'untore! – Qualcheduno si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con gesti di minaccia, a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i pugni in aria. – Lascia fare a me, – gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un cadavere un laido cencio, l'annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: – aspetta, canaglia! – A quell'atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere. Tra i monatti s'alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un – uh! – prolungato, come per accompagnar quella fuga.
– Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel monatto: – val più uno di noi che cento di que' poltroni. – Certo, posso dire che vi devo la vita, – rispose Renzo: – e vi ringrazio con tutto il cuore. – Di che cosa? – disse il monatto: – tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine. Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non quando son morti; che, per ricompensa della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci voglion fare impiccar tutti. Hanno a finir prima loro che la morìa, e i monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano. – Viva la morìa, e moia la marmaglia! – esclamò l'altro; e, con questo bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt'e due le mani, tra le scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: – bevi alla nostra salute. – Ve l'auguro a tutti, con tutto il cuore, – disse Renzo: – ma non ho sete; non ho proprio voglia di bere in questo momento. – Tu hai avuto una bella paura, a quel che mi pare, – disse il monatto: – m'hai l'aria d'un pover'uomo; ci vuol altri visi a far l'untore. – Ognuno s'ingegna come può, – disse l'altro. – Dammelo qui a me, – disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al carro, – ché ne voglio bere anch'io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che si trova qui in questa bella compagnia... lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella carrozzata. E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello su cui stava il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor più bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: – si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l'abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura. E poi, già a loro signori il vino fa subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono. E tra le risate de' compagni, prese il fiasco, e l'alzò; ma, prima di bere, si voltò a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert'aria di compassione sprezzante: – bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto, sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un bell'aiuto –. E tra un nuovo scroscio di risa, s'attaccò il fiasco alle labbra. – E noi? eh! e noi? – gridaron più voci dal carro ch'era avanti. Il birbone, tracannato quanto ne volle, porse, con tutt'e due le mani, il gran fiasco a quegli altri suoi simili, i quali se lo passaron dall'uno all'altro, fino a uno che, votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò a fracassarsi sulle lastre, gridando: – viva la morìa!
– Dietro a queste parole, intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s'accompagnaron tutte l'altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnìo de' campanelli, al cigolìo de' carri, al calpestìo de' cavalli, risonava nel voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il cuore de' pochi che ancor le abitavano. Ma cosa non può alle volte venire in acconcio? cosa non può far piacere in qualche caso? Il pericolo d'un momento prima aveva resa più che tollerabile a Renzo la compagnia di que' morti e di que' vivi; e ora fu a' suoi orecchi una musica, sto per dire, gradita, quella che lo levava dall'impiccio d'una tale conversazione. Ancor mezzo affannato, e tutto sottosopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d'essere uscito d'un tal frangente, senza ricever male né farne; la pregava che l'aiutasse ora a liberarsi anche da' suoi liberatori; e dal canto suo, stava all'erta, guardava quelli, guardava la strada, per cogliere il tempo di sdrucciolar giù quatto quatto, senza dar loro occasione di far qualche rumore, qualche scenata, che mettesse in malizia i passeggieri. Tutt'a un tratto, a una cantonata, gli parve di riconoscere il luogo: guardò più attentamente, e ne fu sicuro. Sapete dov'era? Sul corso di porta orientale, in quella strada per cui era venuto adagio, e tornato via in fretta, circa venti mesi prima. Gli venne subito in mente che di lì s'andava diritto al lazzeretto; e questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l'ebbe per un tratto speciale della Provvidenza, e per buon augurio del rimanente. In quel punto, veniva incontro ai carri un commissario, gridando a' monatti di fermare, e non so che altro: il fatto è che il convoglio si fermò, e la musica si cambiò in un diverbio rumoroso, Uno de' monatti ch'eran sul carro di Renzo, saltò giù: Renzo disse all'altro: – vi ringrazio della vostra carità: Dio ve ne renda merito –; e giù anche lui, dall'altra parte. – Va', va', povero untorello, – rispose colui: – non sarai tu quello che spianti Milano.”
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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LA CANAGLIA
“Dovremmo essere molto grati per il fatto che esista qualcosa come la canaglia umana. Si tratta di esseri inferiori, e io non sono inferiore; ringrazio il cielo per aver incontrato persone che sono inferiori – ora so dove si trova l’inferiorità.” Karl Gustav Jung.
1. La sorgente avvelenata
Nelle nostre note sul termine “accozzaglia”, abbiamo citato parole contigue, come plebaglia, marmaglia, gentaglia, rilevandone il significato spregiativo, suggerito dalle desinenze. Un termine ancora più forte di queste è “canaglia”, dove è più accentuato non solo il disprezzo, ma soprattutto l’aspetto negativo della malvagità. Il termine deriva dal latino canalia, frotta di cani, neutro plurale dell’aggettivo canalis, canino, e indica una banda di individui ignobili e malvagi, dediti a comportamenti e azioni abiette, in tale attitudine equiparabili a un branco di cani arrabbiati.
È ovvio che questa definizione di canaglia è abbastanza generica, perché il termine assume una diversa sfumatura più o meno grave, al di là del significato ironico con cui si qualifica ad es. piccola canaglia un certo birbantello, o un amico che ci ha giocato un brutto tiro. E così si parla della peggiore canaglia, in relazione a individui che compiono vere e proprie azioni delittuose, rispetto ad altri che mantengono condotte riprovevoli soltanto da un punto di vista morale e sociale. Ma bisogna anche mettere in risalto da chi viene proferito quest’epiteto e nei confronti di quali persone.
Una descrizione abbastanza realistica di certi personaggi e dei loro comportamenti ci viene data dalla letteratura, e in proposito ci riferiamo a qualche mirabile pagina del Manzoni. [1] Intanto, ci sembra opportuno parlare del tema da un punto di vista psicologico e filosofico, per sondare a fondo il tema della “canaglia”, attraverso un’attenta disanima di un passo dello “Zarathustra” di Nietzsche, illustrato da Jung. Si tratta del capitolo intitolato: “Della canaglia”. [2]
Chiariamo che la citazione in epigrafe delle parole di Jung si presenta in una luce ambigua, perché estrapolata dal testo; infatti, subito dopo la prima impressione di sconcerto, si avverte l’ironia della dichiarazione e se ne afferra il senso. E questo diviene ancora più chiaro, quando si scopre che da un punto di vista psicologico, quella frase esprime il pensiero di Nietzsche.
“La vita è una sorgente di diletto; ma dove anche la canaglia si abbevera, tutte le sorgenti vengono avvelenate.” Così commenta Jung questo primo versetto del capitolo: “Dobbiamo sempre tenere a mente che quando Nietzsche parla […] della canaglia, egli intende una cosa che per lui è fonte di particolare disturbo; vale a dire una cosa che si trova dentro di lui, e che per questo motivo è particolarmente molesta.” Quindi prosegue, generalizzando ed estendendo il giudizio: “Vedete, le cose che noi malediciamo di più sono quelle che ci sono più vicine; le qualità più irritanti sono le nostre. Se una cosa ci è assolutamente estranea, se non ci tocca sul vivo, ne saremo soltanto sorpresi e non capiamo e non troviamo neppure le parole necessarie per censurarla. Ma quando si tratta di una nostra mancanza, diveniamo loquaci e disponiamo di tutto un corredo di attributi e osservazioni negative per biasimare o denigrare quella cosa particolare.”
Jung poi torna su Nietzsche, in cui la contraddizione psicologica è più estrema e quindi più evidente, ma il suo discorso resta sempre generale: “Perciò quando Nietzsche parla della canaglia, egli intende riferirsi alla canaglia che ha dentro di sé; ciò gli fornisce l’emozione necessaria, e di certo tutti hanno dentro di sé della canaglia.”
Ma quando viene fuori questa “canaglia”? Nell’esperienza noi possiamo vederne l’opera, attraverso le malefatte delle persone singole o anche attraverso i crimini di certi regimi politici, per i quali si è adottata la definizione, abbastanza controversa, di stati-canaglia ("rogue state").
Ora, Nietzsche impazzì e certe sue trasgressioni si riferiscono a stati deliranti, ma fin quando la sua mente non vacillò, egli non fece altro che teorizzare per sé stesso situazioni psicologiche estreme. E questa fu materia ideale per Jung, perché nello studio dello “Zarathustra”, riusciva a scorgere i sintomi della follia. Infatti, quando l’opera fu pubblicata, egli era convinto come tanti che l’autore fosse un pazzo, perché portava alla luce quei lati inquietanti della personalità umana, che tutti detestiamo, in quanto parte di noi. In questo lo “Zarathustra”, per l’interprete, è una miniera ricca e affascinante, che custodisce non soltanto preziose verità psicologiche, ma anche chiare idee e principi filosofici. E questo vale anche per il passo sulla “canaglia”, ecco perché ne appare conveniente un’attenta disamina.
Jung riesce a dosare anche la quantità percentuale di canaglia presente nell’uomo singolo, attraverso una semplice equazione: “Una certa percentuale dell’umanità consiste di canaglia, e dato che siamo tutti parte di quell’umanità, dentro di noi si ritrova la stessa percentuale.” L’equazione appare discutibile da un punto di vista matematico, ma a Jung serve per proseguire il suo discorso, spiegandone la dinamica: “Ora, finché la canaglia non viene – come diciamo noi – costellata, noi evitiamo di menzionare il fatto.” Quando essa è sparsa qua e là, a sprazzi come nelle costellazioni, preferiamo non saperne nulla, ma “non appena c’innalziamo un po' troppo in alto”, ecco che la distinzione risalta, la canaglia acquista visibilità e allora cominciamo a lanciarle insulti contro. E l’effetto di questo elevarsi in alto, perdendo il terreno sotto i piedi, come dire l’equilibrio tra sensi e spirito, Jung lo vede spesso nelle immagini che lo stesso Nietzsche propone. E siccome questi ha dichiarato che Dio è morto, ossia l’elemento spirituale che noi chiamiamo Dio, dice Jung, ha trovato un sostituto nella figura di Zarathustra, con cui finendo per identificarsi, diventa solo aria e spirito e perde la connessione con la realtà sensibile, a cui noi uomini apparteniamo.
“Nietzsche, inflazionato dalla sua identificazione con Zarathustra, è senza alcun dubbio troppo elevato, troppo distinto, troppo meraviglioso; e a questo punto la canaglia acquista importanza, e lui deve rimuoverla.”
E nell’immagine delle sorgenti d’acqua avvelenata contaminata dalla canaglia che vi si abbevera, Jung riconosce i simboli della sua dottrina sull’Inconscio: “Se ti identifichi con una figura di distinzione, in una tale immagine tutte le qualità minori non avranno spazio, ma ne saranno escluse e si accumuleranno fino a coprire la fonte della vita, che naturalmente è l’inconscio. La sorgente vitale scaturisce dall’inconscio, e ciò che non accetti in te stesso ricadrà senza dubbio in quella sorgente e l’avvelenerà; quando non riconosci certi fatti, questi formano nell’inconscio uno strato che per emergere, l’acqua della vita dovrà attraversare, e verrà avvelenata da tutte quelle cose che hai lasciato là sotto.” Questa è la diagnosi, e subito dopo, Jung indica la terapia: “Se vengono accolte nella tua vita cosciente, allora si troveranno combinate con altre sostanze più pure e di maggior valore, e le qualità odiose delle funzioni inferiori verranno più o meno a scomparire. Formeranno solo delle piccole ombre qua e là, e saranno spezie utili per dare sapore alle cose buone.” Certo, il discorso junghiano è facilmente comprensibile e immediatamente intuibile dalle persone normali, mentalmente sane (datemi un uomo sano ed io lo curerò, dice Jung), ma quello che interessa nello “Zarathustra” sono le immagini che Nietzsche propone, vere e proprie visioni oniriche, ricche di simboli, che lo psicologo interpreta, per la sua dottrina sull’inconscio, ma in cui si ritrovano anche gli elementi del suo pensiero filosofico, il Superuomo.
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[1] Cfr. I MONATTI
[2] DELLA CANAGLIA
“La vita è una sorgente di diletto; ma dove anche la canaglia si abbevera, tutte le sorgenti vengono avvelenate. Io prediligo tutto quanto è pulito; ma non posso vedere i musi ghignanti e la sete degli impuri.
Hanno gettato il loro occhio nel fondo della fonte: e ora mi arriva su dalla fonte il riflesso del loro sorriso ributtante.
L’acqua sacra mi hanno avvelenato con la loro libidine; e quando chiamarono piacere i loro sogni sporchi, hanno avvelenato anche le parole.
Sdegnosa diventa la fiamma, quando essi mettono al fuoco i loro cuori madidi; anche lo spirito gorgoglia fumigante, dove la canaglia si avvicina al fuoco.
Dolciastro e frollo diventa il frutto nelle loro mani: il loro sguardo rende caduco al vento e secco nelle fronde l’albero fruttifero.
E molti che si allontanarono dalla vita, volevano solo allontanarsi dalla canaglia: non volevano condividere la fonte e la fiamma e il frutto con la canaglia.
E molti che andarono nel deserto a soffrire la sete con le belve, altro non volevano che non sedersi attorno alla cisterna insieme a sporchi cammellieri.
E molti che vennero come distruttori e come grandine per i campi fruttiferi, non volevano se non cacciare il piede nelle fauci della canaglia e così tapparne la gola.
E il boccone per me più difficile da inghiottire non è stato il sapere che la vita stessa ha bisogno di inimicizia, e di morte e di croci di martirio: così una volta chiesi, quasi soffocando la mia domanda: come? È "necessaria" per la vita anche la canaglia?
Sono necessarie fonti avvelenate e fuochi puzzolenti e sogni insozzati e vermi nel pane della vita? Non l’odio, lo schifo ha insaziabilmente roso la mia vita! Ah, spesso presi a tedio anche lo spirito, quando trovai che anche la canaglia ha spirito!
E a coloro che dominano ho vòlto le spalle, quando ho visto che cosa essi oggi chiamano dominare: mercanteggiare vilmente sulla potenza con la canaglia!
Ho abitato tra popoli di lingua straniera con le orecchie tappate: affinché la lingua del loro traffichio mi restasse straniera e il loro mercanteggiare la potenza.
E turandomi il naso sono passato con disgusto attraverso tutto l’ieri e l’oggi: davvero, tutto l’ieri e l’oggi emana cattivo odore di canaglia che scrive!
Come uno storpio, diventato sordo e cieco e muto: così ho vissuto per lungo tempo, per non vivere con la canaglia del potere, della penna e dei piaceri.
Faticosamente il mio spirito ha salito le scale, e circospetto; elemosine di piacere furono il suo ristoro; appoggiata al bastone, avanzava lentamente la vita per il cieco.
Ma che cosa mi accadde? Come mi salvai dal disgusto? Chi ringiovanì il mio occhio? Come potei raggiungere a volo l’altezza dove nessuna canaglia più siede alla fonte?
È stato il mio stesso disgusto a crearmi ali ed energie presaghe di sorgenti? In verità, bisognava ch’io volassi alla massima altezza per ritrovare la sorgente del diletto!
Oh, fratelli, io l’ho trovata! Qui sulla vetta sgorga per me la sorgente del diletto! E vi è una vita alla quale non attinge la canaglia!
Quasi troppo violento è per me il tuo corso, fonte del diletto! E spesso torni a vuotare il calice volendo riempirlo!
E io devo ancora imparare ad avvicinarmi più modestamente a te: con troppa irruenza scorre incontro a te il mio cuore: Il mio cuore, sul quale arde la mia estate, corta, ardente, melanconica, beatissima: come il mio cuore estivo anela alla tua frescura!
Finita l’indugiante tetraggine della mia primavera! Passata la cattiveria dei miei fiocchi di neve a giugno! Estate io sono diventato tutto, e meriggio estivo!
Un’estate sulle cime con fredde sorgenti e silenzio beato: oh, venite, amici, perché il silenzio diventi anche più beato!
Perché questa è la "nostra" altura e la nostra patria: a una troppo ripida altezza noi abitiamo qui, per tutti gli impuri e la loro sete.
Gettate – vi prego – i vostri occhi puri nella fonte del mio diletto, amici! Come potrebbe intorbidarsi per ciò! Con la "sua" purezza essa deve sorridervi incontro.
Sull’albero futuro noi costruiamo il nostro nido; aquile debbono portare nel becco il cibo a noi solitari!
Invero non un cibo che sia permesso mangiare anche agli impuri! Fuoco crederebbero di trangugiare e si brucerebbero le fauci!
Invero noi non abbiamo qui rifugi per gli impuri! Una caverna di ghiaccio significherebbe per i vostri corpi la nostra gioia, e per i vostri spiriti!
E come venti vigorosi noi vogliamo vivere al di sopra di loro, vicini alle aquile, vicini alla neve, vicini al sole: così vivono venti vigorosi.
E un giorno voglio soffiare come un vento anche tra loro e col mio spirito togliere il fiato al loro spirito: così vuole il mio futuro.
In verità, Zarathustra è un vento impetuoso per tutte le bassure; e questo consiglio dà ai suoi nemici e a tutto quanto vomita e sputa: «guardatevi dallo sputare contro il vento!». Così parlò Zarathustra.”
2. La santa canaglia
“E tra ’l fuoco e tra ’l fumo e le faville
E ’l grandinar de la rovente scaglia
Ti gittasti feroce in mezzo a i mille,
Santa canaglia.”
Giosuè Carducci - Giambi ed Epodi (1906)
Libro I - Nel vigesimo anniversario dell'8 agosto 1848.
La data ricorda l’insurrezione contro le truppe austriache dei cittadini bolognesi e la battaglia combattuta vittoriosamente nei pressi della Montagnola.
È noto l’entusiasmo rivoluzionario del Carducci, che sin dagli anni giovanili si mostrò sostenitore dei diritti del popolo, la forza che muove il corso della storia, ostentando uno spirito anticlericale e repubblicano, fino ad un evento simbolico, l’incontro con la regina Margherita. Il poeta mutò il suo anonimo da rivoluzionario in patriottico e la “santa canaglia” divenne lo strumento per le battaglie nazionalistiche.
L’ossimoro poetico del Carducci si presenta di grande interesse sotto un duplice profilo: quello proprio della figura retorica, che evidenzia una contraddizione propria dell’animo umano, da esaminare sotto un profilo psicologico; e l’altro di carattere socio-politico, per la doppia valenza che può attribuirsi al termine, dispregiativo da un lato, glorificante dall’altro, a seconda della prospettiva da cui si guarda.
Nella sua analisi psicologica dello “Zarathustra”, a Jung non poteva certo sfuggire l’occasione di esaminare questa contraddizione, quando si presenta nei suoi aspetti più estremi. Nel riflesso della sorgente, Nietzsche non sopporta di vedere “i musi ghignanti”, “la sete degli impuri”, “il loro sorriso ributtante”.
“L’acqua sacra mi hanno avvelenato con la loro libidine; e quando chiamarono piacere i loro sogni sporchi, hanno avvelenato anche le parole.”
Di chi sono i sogni più sporchi? Jung risponde: “Naturalmente, i sogni più sporchi li fanno i santi. È un fatto sfortunatamente. Sant’Agostino per esempio affermava di ringraziare Dio per non averlo reso responsabile dei propri sogni. Non dice quali fossero e ho avuto sempre la curiosità di saperlo – devono essere stati piuttosto forti.”
(Segue)
I MONATTI
“– Lascia fare a me, – gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un cadavere un laido cencio, l'annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: – aspetta, canaglia! – A quell'atto, fuggirono tutti, inorriditi.”
“Dopo qualche momento, s'apre un poco una finestra; una donna fa capolino, guardando chi era, con un viso ombroso che par che dica: monatti? vagabondi? commissari? untori? diavoli? – Quella signora, – disse Renzo guardando in su, e con voce non troppo sicura: – ci sta qui a servire una giovine di campagna, che ha nome Lucia? – La non c'è più; andate, – rispose quella donna, facendo atto di chiudere. – Un momento, per carità! La non c'è più? Dov'è? – Al lazzeretto –; e di nuovo voleva chiudere. – Ma un momento, per l'amor del cielo! Con la peste? – Già. Cosa nuova, eh? Andate. – Oh povero me! Aspetti: era ammalata molto? Quanto tempo è ...? Ma intanto la finestra fu chiusa davvero. – Quella signora! quella signora! una parola, per carità! per i suoi poveri morti! Non le chiedo niente del suo: ohé! – Ma era come dire al muro. Afflitto della nuova, e arrabbiato della maniera, Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l'alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest'agitazione, si voltò per vedere se mai ci fosse d'intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma la prima, l'unica persona che vide, fu un'altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch'esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert'occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d'artigli, come se cercasse d'acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno non se n'accorgesse. Quando s'incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa. – Che diamine...? – cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all'improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: – l'untore! dàgli! dàgli! dàgli all'untore! – Chi? io! ah strega bugiarda! sta' zitta, – gridò Renzo; e fece un salto verso di lei, per impaurirla e farla chetare. Ma s'avvide subito, che aveva bisogno piuttosto di pensare ai casi suoi. Allo strillar della vecchia, accorreva gente di qua e di là; non la folla che, in un caso simile, sarebbe stata, tre mesi prima; ma più che abbastanza per poter fare d'un uomo solo quel che volessero. Nello stesso tempo, s'aprì di nuovo la finestra, e quella medesima sgarbata di prima ci s'affacciò questa volta, e gridava anche lei: – pigliatelo, pigliatelo; che dev'essere uno di que' birboni che vanno in giro a unger le porte de' galantuomini.
Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un'occhiata a destra e a sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là. Rispinse con un urtone uno che gli parava la strada; con un gran punzone nel petto, fece dare indietro otto o dieci passi un altro che gli correva incontro; e via di galoppo, col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra' piedi. La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: – dàgli! dàgli! all'untore! – Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo. L'ira divenne rabbia, l'angoscia si cangiò in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a' suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: – chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l'ungerò io davvero con questo. Ma, con maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i suoi persecutori s'eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che, seguitando a urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati, come a gente che venisse di lontano dietro a lui. Si voltò di nuovo, e vide (ché il gran turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un carro che s'avanzava, anzi una fila di que' soliti carri funebri, col solito accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un altro mucchietto di gente che avrebbero voluto anche loro dare addosso all'untore, e prenderlo in mezzo; ma eran trattenuti dall'impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio voto. Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate. – Bravo! bravo! – esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de' quali seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l'orribil cosa com'era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. – Bravo! bel colpo! – Sei venuto a metterti sotto la protezione de' monatti; fa' conto d'essere in chiesa, – gli disse uno de' due che stavano sul carro dov'era montato. I nemici, all'avvicinarsi del treno, avevano, i più, voltate le spalle, e se n'andavano, non lasciando di gridare: – dàgli! dàgli! all'untore! – Qualcheduno si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con gesti di minaccia, a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i pugni in aria. – Lascia fare a me, – gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un cadavere un laido cencio, l'annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: – aspetta, canaglia! – A quell'atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere. Tra i monatti s'alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un – uh! – prolungato, come per accompagnar quella fuga.
– Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel monatto: – val più uno di noi che cento di que' poltroni. – Certo, posso dire che vi devo la vita, – rispose Renzo: – e vi ringrazio con tutto il cuore. – Di che cosa? – disse il monatto: – tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine. Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non quando son morti; che, per ricompensa della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci voglion fare impiccar tutti. Hanno a finir prima loro che la morìa, e i monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano. – Viva la morìa, e moia la marmaglia! – esclamò l'altro; e, con questo bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt'e due le mani, tra le scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: – bevi alla nostra salute. – Ve l'auguro a tutti, con tutto il cuore, – disse Renzo: – ma non ho sete; non ho proprio voglia di bere in questo momento. – Tu hai avuto una bella paura, a quel che mi pare, – disse il monatto: – m'hai l'aria d'un pover'uomo; ci vuol altri visi a far l'untore. – Ognuno s'ingegna come può, – disse l'altro. – Dammelo qui a me, – disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al carro, – ché ne voglio bere anch'io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che si trova qui in questa bella compagnia... lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella carrozzata. E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello su cui stava il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor più bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: – si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l'abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura. E poi, già a loro signori il vino fa subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono. E tra le risate de' compagni, prese il fiasco, e l'alzò; ma, prima di bere, si voltò a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert'aria di compassione sprezzante: – bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto, sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un bell'aiuto –. E tra un nuovo scroscio di risa, s'attaccò il fiasco alle labbra. – E noi? eh! e noi? – gridaron più voci dal carro ch'era avanti. Il birbone, tracannato quanto ne volle, porse, con tutt'e due le mani, il gran fiasco a quegli altri suoi simili, i quali se lo passaron dall'uno all'altro, fino a uno che, votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò a fracassarsi sulle lastre, gridando: – viva la morìa!
– Dietro a queste parole, intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s'accompagnaron tutte l'altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnìo de' campanelli, al cigolìo de' carri, al calpestìo de' cavalli, risonava nel voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il cuore de' pochi che ancor le abitavano. Ma cosa non può alle volte venire in acconcio? cosa non può far piacere in qualche caso? Il pericolo d'un momento prima aveva resa più che tollerabile a Renzo la compagnia di que' morti e di que' vivi; e ora fu a' suoi orecchi una musica, sto per dire, gradita, quella che lo levava dall'impiccio d'una tale conversazione. Ancor mezzo affannato, e tutto sottosopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d'essere uscito d'un tal frangente, senza ricever male né farne; la pregava che l'aiutasse ora a liberarsi anche da' suoi liberatori; e dal canto suo, stava all'erta, guardava quelli, guardava la strada, per cogliere il tempo di sdrucciolar giù quatto quatto, senza dar loro occasione di far qualche rumore, qualche scenata, che mettesse in malizia i passeggieri. Tutt'a un tratto, a una cantonata, gli parve di riconoscere il luogo: guardò più attentamente, e ne fu sicuro. Sapete dov'era? Sul corso di porta orientale, in quella strada per cui era venuto adagio, e tornato via in fretta, circa venti mesi prima. Gli venne subito in mente che di lì s'andava diritto al lazzeretto; e questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l'ebbe per un tratto speciale della Provvidenza, e per buon augurio del rimanente. In quel punto, veniva incontro ai carri un commissario, gridando a' monatti di fermare, e non so che altro: il fatto è che il convoglio si fermò, e la musica si cambiò in un diverbio rumoroso, Uno de' monatti ch'eran sul carro di Renzo, saltò giù: Renzo disse all'altro: – vi ringrazio della vostra carità: Dio ve ne renda merito –; e giù anche lui, dall'altra parte. – Va', va', povero untorello, – rispose colui: – non sarai tu quello che spianti Milano.”
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