Severino sa bene che l’esordio di questa parola, la “Gioia”, nel linguaggio filosofico, apparirà problematico, soprattutto in relazione alla originalità d’impiego del termine: “Il Tutto è la Gioia.” Infatti, nella prefazione di un testo di qualche anno successivo, La Strada, così si esprime: “Nel sottosuolo della nostra coscienza, già da sempre sappiamo di essere: il “centro della terra” e cioè, per quanto strana possa sembrare l’espressione, la “gioia del tutto”. Successivamente, acquistando confidenza con il linguaggio ricco ed immaginoso, saremmo tentati di dire poetico, della filosofia di Severino, la Gioia diverrà un termine familiare, perdendo completamente il carattere di stranezza, conservato all’inizio. Nella Gloria, quindi, la Gioia viene a rivelarsi come il destino della verità dell’Essere libero dal contrasto con la solitudine della Terra. Infine, in La morte e la terra, leggiamo che “l’istante che appare dopo la morte” è “l’albeggiare della Gioia non più contrastata dalla terra isolata” ed in conclusione: “L’avvento della terra che salva è l’apparire della necessità del sopraggiungere della salvezza. È il mattino della Gioia. Si dispiega all’infinito verso il suo mezzogiorno.” A questo punto, legittima sorge la domanda: “Nei versi di Quasimodo di Ed è subito sera la Gioia di Severino dov’è?” Restando al significato comune delle parole, quello segnato nei vocabolari, che ovviamente non contengono il significato delle parole filosofiche di Severino né tanto meno quelle poetiche di Quasimodo, nei brevi versi incontriamo i seguenti termini, che poi ritroviamo nei testi del filosofo, se non proprio gli stessi, quanto meno quelli affini: “solitudine” e “terra”; altri termini comuni non ci sembra d’incontrare, tranne a voler compiere accostamenti arbitrari. E allora, dove trovare una consonanza? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo a nostra volta porre una domanda e interrogare le parole della poesia. La lirica celebra la condizione dell’uomo: qual è questa condizione? La condizione dell’uomo è quella della solitudine: “Ognuno sta solo sul cuore della terra”. Prima che su “solitudine” e “terra”, dovremmo portare la nostra attenzione su un altro termine ed investigarne l’essenza del pensiero in esso contenuto: stare. Qual è la portata filosofica di questo verbo? Orbene, nel suo lungo discorso (logos), Severino non ha mai mancato di sottolineare come destino è termine ancorato al suo etimo, che appunto è: de-stinare, dove la radice -stinare è la forma allungata di -stare, stare fermo stabilmente, come rafforzato dal prefisso de-, che qui ha significato intensivo e non di separazione. Ora, possiamo affermare che la parola destino è quella originaria della filosofia di Severino, quella che testimonia la Verità, lo stare secondo necessità (katà tò kreòn) del Tutto, il destino della necessità. Lo sguardo del filosofo testimonia uno stare che non può non stare, un Essere che in quanto tale non può essere non-Essere, secondo i versi del poema di Parmenide, “Sulla Natura”: èsti gàr eînai, medèn d'ouk éstin, l’essere è, il non essere non è. (Parmenide, Perí Physeos fr.6, vv.1.2) Il destino è lo stare del Tutto, che esclude qualsiasi instabilità, possibilità di svanire nel Nulla: l’impossibilità di ogni divenire, che implica nell’ente diveniente il non-ente, il niente. Lo stare del destino, la sua necessità, è il fondamento, il “centro”, verso cui ogni sguardo del pensiero si volge. La filosofia vede la verità dell’essere, ne testimonia il destino, lo stare indissolubilmente legato ad ogni altro stare, per necessità.
Ora, la domanda che poniamo è la seguente: “Questo stare nel modo della necessità ovvero dell’impossibilità di stare diversamente dallo stare stesso è la condizione di solitudine dell’uomo cantata da Quasimodo?” L’uomo che sta solo sul “cuore della terra” non giace ma sta: il poeta vede e canta uno stare, non un giacere, un essere attraversato per sempre dalla luce, “trafitto da un raggio di sole”. Il dardo luminoso non raggiunge mortalmente l’uomo, che colpito cade riverso a terra e giace: il poeta canta tutt’altro da questa immagine. Il trafiggere del sole, che illumina l’uomo e lo fissa per sempre nella sua luce è un oltre-passare (trans-figere), un andare oltre, che già da sempre (ab aeterno) custodisce in questa sua luce la solitudine della terra dell’uomo. Per interpretare i primi due versi di Quasimodo, ricorriamo alle parole della filosofia di Severino: “Nella Gioia è già da sempre tracciato anche il Sentiero del Giorno, cioè l’oltrepassamento compiuto della solitudine della terra e del testimone della solitudine, l’Occidente. Nella Gioia il mortale è già da sempre un passato.” Il destino dell’uomo, lo stare solo dell’ogni uno che l’uomo è sul “cuore della terra”, “trafitto da un raggio di sole” è un modo poetico di dire il pensiero filosofico dell’oltrepassamento compiuto della solitudine della terra nella luce della Gioia: il “centro della terra”, il “cuore della terra” è la “gioia del tutto”. In questo accostamento, le immagini della poesia e le parole-idee (trasparenza del discorso) della filosofia si illuminano a vicenda, rivelando il “centro”, il fondamento della Verità, il suo destino, che è lo stare sul “cuore” della terra già da sempre oltrepassato nella luce della Gioia. Qual è questa luce, in cui il mortale è già da sempre un passato? È lo stesso Severino a rivelarlo: “I nostri morti ci aspettano. Ora sono degli Dèi. Per ora stanno fermi nella luce… Lasciandosi alle spalle il dolore e la morte, quella luce mostrerà all’infinito una gioia sempre più infinita.” (Il mio ricordo degli eterni). Legittima ora si pone l’obiezione: “Ma è mai possibile che il pallido raggio di un sole morente, incombendo le ombre della sera, corrisponda alla luce infinita della Gioia? Non vi è da una parte l’ultima luce al tramonto e la “sera” e dall’altro il “mattino” della Gioia che si dispiega all’infinito verso il suo mezzogiorno? Non è una contraddizione questa?” In verità noi ci siamo fermati ai primi due dei tre versi di Quasimodo, tacendo quello finale e così significativo tanto da esprimere il titolo della brevissima lirica: “Ed è subito sera”. Qual è la sera di Quasimodo? La domanda sorge opportuna e la risposta non può esserlo da meno. È quella che avvolge la terra dove il sole tramonta, l’Occidente (Abendland), la Terra della Sera, dove l’uomo sta in solitudine al “centro”, sul “cuore”, perché l’uomo è il “centro”, il “cuore” della terra.
Per la filosofia di Severino, l’Occidente è il testimone della solitudine della terra, il cui percorso è quel Sentiero della Notte, evocato da Parmenide, in cui errano i mortali, in contrapposizione al Sentiero del Giorno, dove risplende la luce della Verità. “Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine o all’oltrepassamento della solitudine?” Questo interrogativo è posto a conclusione di Destino della Necessità. La risposta è data nei testi successivi a quello, legati nella sua riflessione: La Gloria, Oltrepassare e La morte e la terra. La Gloria è il dispiegarsi della Gioia, il destino della verità dell'Essere libero dal contrasto con la solitudine della Terra. Il dispiegarsi è uno svelare e quindi un rivelare: nella Gloria il destino della solitudine della terra si rivela come oltrepassato dalla “terra che salva”. Da sempre l’uomo ha cercato un rimedio contro il dolore della morte: il destino, lo stare eterno della gioia rivelato dalla gloria è il rimedio (filosofia), testimoniato dalla “terra che salva” dal nulla della morte. Oltrepassare rappresenta il compimento del pensiero della Gloria, dove la “terra che salva” destina l’uomo alla più ampia arcata d’Immenso. Infine, in La morte e la terra, Severino scrive: “La terra che dapprima sopraggiunge appare nel suo essere isolato dalla verità del destino: è il luogo in cui appare ogni agire e ogni sapienza dell’uomo, rivolti alla Terra e al Cielo e anche all’assolutamente altro da essi: la terra isolata è “questa nostra vita”, che, includendo Terra, Cielo e Altro, si considera come l’orizzonte ultimo e inoltrepassabile dell’esser uomo. Su “questa nostra vita” – si potrebbe dire – incombe la morte, e continuamente vi irrompe. Ma, propriamente, è l’isolamento della terra a manifestare “questa nostra vita” e la morte che la circonda e la attraversa.” Con queste ultime parole la filosofia illustra la condizione dell’uomo cantata da Quasimodo: la solitudine dell’uomo sulla terra. Questa terra, dove il sole tramonta, l’Occidente, è la terra della sera, vale a dire “questa nostra vita”, su cui incombe la morte, dove subito è sera. Qui, il dubbio che la parola discorsiva, vale a dire concettuale o filosofica, dicendo della infinita luce della Gioia non riesca a contrastare l’immagine poetica dell’ombra avvolgente della sera, che incombe (subito) sulla solitudine della terra, si ripropone e permane. Come risolverlo? L’interrogativo non sfugge al filosofo, che infatti s’interroga: “L’attesa della terra che salva [la terra libera dal contrasto con la terra isolata] continua anche dopo la morte (e che cosa appare in questo prolungarsi oltre l’attesa? Sonno, sogni, incubi?), oppure con la morte ha compimento anche l’attesa?” Severino dice: “Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi all’Immenso della terra che salva e della Gioia.” Una situazione, a cui segue l’altra già indicata nella riflessione filosofica: “L’istante che appare dopo la morte” è “l’albeggiare della Gioia non più contrastata dalla terra isolata” e in conclusione: “L’avvento della terra che salva è l’apparire della necessità del sopraggiungere della salvezza. È il mattino della Gioia. Si dispiega all’infinito verso il suo mezzogiorno.”
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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Severino sa bene che l’esordio di questa parola, la “Gioia”, nel linguaggio filosofico, apparirà problematico, soprattutto in relazione alla originalità d’impiego del termine: “Il Tutto è la Gioia.” Infatti, nella prefazione di un testo di qualche anno successivo, La Strada, così si esprime: “Nel sottosuolo della nostra coscienza, già da sempre sappiamo di essere: il “centro della terra” e cioè, per quanto strana possa sembrare l’espressione, la “gioia del tutto”. Successivamente, acquistando confidenza con il linguaggio ricco ed immaginoso, saremmo tentati di dire poetico, della filosofia di Severino, la Gioia diverrà un termine familiare, perdendo completamente il carattere di stranezza, conservato all’inizio. Nella Gloria, quindi, la Gioia viene a rivelarsi come il destino della verità dell’Essere libero dal contrasto con la solitudine della Terra. Infine, in La morte e la terra, leggiamo che “l’istante che appare dopo la morte” è “l’albeggiare della Gioia non più contrastata dalla terra isolata” ed in conclusione: “L’avvento della terra che salva è l’apparire della necessità del sopraggiungere della salvezza. È il mattino della Gioia. Si dispiega all’infinito verso il suo mezzogiorno.”
A questo punto, legittima sorge la domanda: “Nei versi di Quasimodo di Ed è subito sera la Gioia di Severino dov’è?” Restando al significato comune delle parole, quello segnato nei vocabolari, che ovviamente non contengono il significato delle parole filosofiche di Severino né tanto meno quelle poetiche di Quasimodo, nei brevi versi incontriamo i seguenti termini, che poi ritroviamo nei testi del filosofo, se non proprio gli stessi, quanto meno quelli affini: “solitudine” e “terra”; altri termini comuni non ci sembra d’incontrare, tranne a voler compiere accostamenti arbitrari. E allora, dove trovare una consonanza? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo a nostra volta porre una domanda e interrogare le parole della poesia.
La lirica celebra la condizione dell’uomo: qual è questa condizione? La condizione dell’uomo è quella della solitudine: “Ognuno sta solo sul cuore della terra”. Prima che su “solitudine” e “terra”, dovremmo portare la nostra attenzione su un altro termine ed investigarne l’essenza del pensiero in esso contenuto: stare. Qual è la portata filosofica di questo verbo? Orbene, nel suo lungo discorso (logos), Severino non ha mai mancato di sottolineare come destino è termine ancorato al suo etimo, che appunto è: de-stinare, dove la radice -stinare è la forma allungata di -stare, stare fermo stabilmente, come rafforzato dal prefisso de-, che qui ha significato intensivo e non di separazione. Ora, possiamo affermare che la parola destino è quella originaria della filosofia di Severino, quella che testimonia la Verità, lo stare secondo necessità (katà tò kreòn) del Tutto, il destino della necessità. Lo sguardo del filosofo testimonia uno stare che non può non stare, un Essere che in quanto tale non può essere non-Essere, secondo i versi del poema di Parmenide, “Sulla Natura”: èsti gàr eînai, medèn d'ouk éstin, l’essere è, il non essere non è. (Parmenide, Perí Physeos fr.6, vv.1.2)
Il destino è lo stare del Tutto, che esclude qualsiasi instabilità, possibilità di svanire nel Nulla: l’impossibilità di ogni divenire, che implica nell’ente diveniente il non-ente, il niente. Lo stare del destino, la sua necessità, è il fondamento, il “centro”, verso cui ogni sguardo del pensiero si volge. La filosofia vede la verità dell’essere, ne testimonia il destino, lo stare indissolubilmente legato ad ogni altro stare, per necessità.
Ora, la domanda che poniamo è la seguente: “Questo stare nel modo della necessità ovvero dell’impossibilità di stare diversamente dallo stare stesso è la condizione di solitudine dell’uomo cantata da Quasimodo?” L’uomo che sta solo sul “cuore della terra” non giace ma sta: il poeta vede e canta uno stare, non un giacere, un essere attraversato per sempre dalla luce, “trafitto da un raggio di sole”. Il dardo luminoso non raggiunge mortalmente l’uomo, che colpito cade riverso a terra e giace: il poeta canta tutt’altro da questa immagine. Il trafiggere del sole, che illumina l’uomo e lo fissa per sempre nella sua luce è un oltre-passare (trans-figere), un andare oltre, che già da sempre (ab aeterno) custodisce in questa sua luce la solitudine della terra dell’uomo. Per interpretare i primi due versi di Quasimodo, ricorriamo alle parole della filosofia di Severino: “Nella Gioia è già da sempre tracciato anche il Sentiero del Giorno, cioè l’oltrepassamento compiuto della solitudine della terra e del testimone della solitudine, l’Occidente. Nella Gioia il mortale è già da sempre un passato.” Il destino dell’uomo, lo stare solo dell’ogni uno che l’uomo è sul “cuore della terra”, “trafitto da un raggio di sole” è un modo poetico di dire il pensiero filosofico dell’oltrepassamento compiuto della solitudine della terra nella luce della Gioia: il “centro della terra”, il “cuore della terra” è la “gioia del tutto”.
In questo accostamento, le immagini della poesia e le parole-idee (trasparenza del discorso) della filosofia si illuminano a vicenda, rivelando il “centro”, il fondamento della Verità, il suo destino, che è lo stare sul “cuore” della terra già da sempre oltrepassato nella luce della Gioia. Qual è questa luce, in cui il mortale è già da sempre un passato? È lo stesso Severino a rivelarlo: “I nostri morti ci aspettano. Ora sono degli Dèi. Per ora stanno fermi nella luce… Lasciandosi alle spalle il dolore e la morte, quella luce mostrerà all’infinito una gioia sempre più infinita.” (Il mio ricordo degli eterni).
Legittima ora si pone l’obiezione: “Ma è mai possibile che il pallido raggio di un sole morente, incombendo le ombre della sera, corrisponda alla luce infinita della Gioia? Non vi è da una parte l’ultima luce al tramonto e la “sera” e dall’altro il “mattino” della Gioia che si dispiega all’infinito verso il suo mezzogiorno? Non è una contraddizione questa?” In verità noi ci siamo fermati ai primi due dei tre versi di Quasimodo, tacendo quello finale e così significativo tanto da esprimere il titolo della brevissima lirica: “Ed è subito sera”. Qual è la sera di Quasimodo? La domanda sorge opportuna e la risposta non può esserlo da meno. È quella che avvolge la terra dove il sole tramonta, l’Occidente (Abendland), la Terra della Sera, dove l’uomo sta in solitudine al “centro”, sul “cuore”, perché l’uomo è il “centro”, il “cuore” della terra.
Per la filosofia di Severino, l’Occidente è il testimone della solitudine della terra, il cui percorso è quel Sentiero della Notte, evocato da Parmenide, in cui errano i mortali, in contrapposizione al Sentiero del Giorno, dove risplende la luce della Verità. “Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine o all’oltrepassamento della solitudine?” Questo interrogativo è posto a conclusione di Destino della Necessità. La risposta è data nei testi successivi a quello, legati nella sua riflessione: La Gloria, Oltrepassare e La morte e la terra. La Gloria è il dispiegarsi della Gioia, il destino della verità dell'Essere libero dal contrasto con la solitudine della Terra. Il dispiegarsi è uno svelare e quindi un rivelare: nella Gloria il destino della solitudine della terra si rivela come oltrepassato dalla “terra che salva”. Da sempre l’uomo ha cercato un rimedio contro il dolore della morte: il destino, lo stare eterno della gioia rivelato dalla gloria è il rimedio (filosofia), testimoniato dalla “terra che salva” dal nulla della morte. Oltrepassare rappresenta il compimento del pensiero della Gloria, dove la “terra che salva” destina l’uomo alla più ampia arcata d’Immenso. Infine, in La morte e la terra, Severino scrive: “La terra che dapprima sopraggiunge appare nel suo essere isolato dalla verità del destino: è il luogo in cui appare ogni agire e ogni sapienza dell’uomo, rivolti alla Terra e al Cielo e anche all’assolutamente altro da essi: la terra isolata è “questa nostra vita”, che, includendo Terra, Cielo e Altro, si considera come l’orizzonte ultimo e inoltrepassabile dell’esser uomo. Su “questa nostra vita” – si potrebbe dire – incombe la morte, e continuamente vi irrompe. Ma, propriamente, è l’isolamento della terra a manifestare “questa nostra vita” e la morte che la circonda e la attraversa.” Con queste ultime parole la filosofia illustra la condizione dell’uomo cantata da Quasimodo: la solitudine dell’uomo sulla terra. Questa terra, dove il sole tramonta, l’Occidente, è la terra della sera, vale a dire “questa nostra vita”, su cui incombe la morte, dove subito è sera. Qui, il dubbio che la parola discorsiva, vale a dire concettuale o filosofica, dicendo della infinita luce della Gioia non riesca a contrastare l’immagine poetica dell’ombra avvolgente della sera, che incombe (subito) sulla solitudine della terra, si ripropone e permane. Come risolverlo?
L’interrogativo non sfugge al filosofo, che infatti s’interroga: “L’attesa della terra che salva [la terra libera dal contrasto con la terra isolata] continua anche dopo la morte (e che cosa appare in questo prolungarsi oltre l’attesa? Sonno, sogni, incubi?), oppure con la morte ha compimento anche l’attesa?” Severino dice: “Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi all’Immenso della terra che salva e della Gioia.” Una situazione, a cui segue l’altra già indicata nella riflessione filosofica: “L’istante che appare dopo la morte” è “l’albeggiare della Gioia non più contrastata dalla terra isolata” e in conclusione: “L’avvento della terra che salva è l’apparire della necessità del sopraggiungere della salvezza. È il mattino della Gioia. Si dispiega all’infinito verso il suo mezzogiorno.”
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