giovedì 3 ottobre 2024

Narrativa

 

          

            L'uomo caduco





14 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

L’UOMO CADUCO


“L’uomo caduco stretto a me conduco
Con mano forte a sua sicura sorte.”
(Ananke, la dea della Necessità)


INTRODUZIONE
Un racconto nella mia vita mi parla di Vito Stefani, il giovane protagonista di “Rethor Magister”, la sua storia di frequentatore dell’Accademia di Retorica di Via Savoia, a Roma. Il racconto è diviso in due parti: “La maestra di retorica” e “Sull’orlo della giostra”. Riporto la Postilla alla prima parte e la Premessa alla seconda.
“Postilla – Il giovane Vito Stefani, fresco del titolo accademico, si avvia per la via Nomentana. Dove andrà? Chissà chi lo sa! Noi non conosciamo il suo futuro, sarà il passato, trascorsi gli anni della sua vita, a renderci la sua storia. Rivedremo questo Rhetor Magister? Il suo muoversi sul palcoscenico del mondo non è ancora tramontato. È abbastanza verosimile che presto o tardi avremo ulteriori sue notizie.”
“Premessa – E infatti, eccolo! Sono passati un bel po' d’anni, tantissimi appostamenti e tantissime attese, ma alla fine l’ho beccato! Lasciatemi esprimere la mia soddisfazione per un lavoro che mi è costato tanto tempo e tanta fatica, ma alla fine la mia ostinazione, la mia pazienza impossibile, nel senso specifico di patire, sopportare l’insopportabile, ha vinto. Dopo tantissime lunghe ore, lunghe mattinate, lunghe giornate, sprecate e andate a vuoto, lunghe settimane, mesi, alcuni anni, quasi una disperazione nera, ma alla fine, ecco l’illuminazione. Che gioia! E spiegheremo anche queste parole ultime, ultimissime non si può dire, è un errore grammaticale, dicono. È successo a Porta Pia, l’ho visto, un tuffo al cuore e l’ho rincorso con lo sguardo sulla Nomentana, il mio Rhetor Magister, mio, esclusivamente mio, e di nessun altro, e sono diventato Lui, una trasmigrazione del mio Io.”
Ecco, il racconto dell’uomo caduco ha inizio qui, con una diversa trasmigrazione della mia Anima (occhio all’Anima e all’Io), quella che viveva nel mio Io di narratore di Rethor Magister, in quest’altro Io che io sono, narratore e protagonista dell’uomo caduco, una nuova veste dell’uomo camuffato e dell’uomo differito, che dell’uomo camuffato è il seguito letterario, oggi dico, e poi spiego, un secondo Chisciotte.

Silvio Minieri ha detto...

LA FERITA MORTALE
Forse mi ero addormentato, sicuramente ero lievemente assopito, quando sentii il bip del mio telefonino. Ero disteso sul divano del salotto, quello disposto di lato al televisore, dove potevo guardare lo schermo, seppure in leggera posizione obliqua. Il segnale, come al solito, destò Fischer, il mio animale domestico, un cane golden retriever, accucciato più in là accanto al divano centrale, che faceva angolo con quello dove ero disteso io. Fischer balzò in piedi, volevo dire sulle quattro zampe, e voltatosi verso di me, mi fissò con i suoi occhi scuri, il solito sguardo interrogativo, come faceva ad ogni squillo del telefonino o al cicalino del citofono. Chi è? Mi domandava. Ed io, quando c’era ancora Lina, gridavo: “La nonna, la nonna!” e balzavo in piedi, per accorrere al suo ritorno con la spesa. Oppure era Edy, la nostra figlia adolescente, padroncina del cane e della sua vita spensierata, alle soglie dell’entrata nella giovane età adulta. Ora non è più così, e la mia vita va avanti senza di loro, ahimè!
Digitai sul verde e lessi il messaggio: “Tra poco di telefono.” Chi era? Mi domandai e guardai Fischer, che pure attendeva una risposta. Se mi vedeva immobile, perché leggevo i messaggi, e d’abitudine chiudevo subito cancellandoli, assediato com’ero dalla pubblicità dei call center di operatori telefonici, finanziari, turistici e così via allora dopo un po' tornava ad accucciarsi per il suo riposo. Altre volte telefonavano, ma io rifiutavo la chiamata, per non interrompere subito dopo la comunicazione, come accadeva prima, quando rispondevo e sentivo le loro proposte, che venivano poi da me troncate, prima a metà e poi all’inizio, ed ora opponendo il rifiuto.
Recentemente, però, aspettando una comunicazione, non ricordo bene quale, ad una chiamata di quei numeri ormai divenuti familiari, risposi: “Pronto, chi parla?” Dopo un certo silenzio, sentii una voce femminile, come da una lontananza, che si decise: “Pronto”, quindi agganciò. Aveva fatto la sua telefonata quotidiana ad una delle tante utenze del suo data base, per la rendicontazione programmata, e la mia come certo quella di tante altre era catalogata come una di quelle mute. Doveva essere rimasta sorpresa da quella mia inopinata risposta, ecco perché aveva esitato e poi risposto con voce debole, chiudendo senza avviare la conversazione.
La solitudine contribuisce alla creazione di un mondo illusorio, soprattutto quando uno svolge una vita ormai lontana da attività lavorative, come la mia, preoccupato soltanto dalle piccole esigenze quotidiane. Chi è preso dagli affari professionali o da altre incombenze di lavoro per vivere, attacca il telefono, e neppure ci pensa più. Io, invece, la risposta esitante di quella voce femminile lontana, avevo già iniziato ad inserirla nella trama di un mio racconto o, come si dice, avevo già cominciato a girare un film nella mia testa. L’impressione di allora, l’avevo metabolizzata e definita dopo: ecco, mi sembrava fosse una voce proveniente dall’oltretomba.
Ho detto “dopo”, ossia dopo l’episodio, più che altro una particolare conversazione telefonica, quella che mi sto accingendo a raccontare.

Silvio Minieri ha detto...

All’SMS seguì la telefonata annunciata: “Pronto, chi parla?” Sentii la voce di un uomo, non quella di una donna, come forse mi aspettavo: “Sono io.” Fischer balzato su mi fissava con occhi interrogativi. Guardai distratto il mio amico fedele in attesa, mentre rispondevo: “Io chi?” Colsi il ghigno del mio interlocutore: “Che fai? Fingi di non riconoscermi?” Riconoscevo quel sarcasmo: è lo stesso di sconosciuti, che ti trattano familiarmente come se ti conoscessero molto meglio di quanto tu, come ogni altro, non creda. Uno normale s’inquieta, capisce subito di trovarsi di fronte ad un possibile, come dire? Deviato? Non delinquente, ma forse tale, nel senso che in quel sarcastico approccio, ti sembra di riconoscere una di quelle persone che ti auguri di non dovere mai incontrare, ma che, pure non frequentemente, ti accade di incontrare.
“Ah! Sei tu.” La mia risposta dovette sorprenderlo, perché subito disse: “Allora, mi conosci!” La conversazione scadeva di tono: “Il solito rompi” stavo per dire e troncare ogni ulteriore battuta, ma stetti al gioco: “E certo!” Esclamai. Ormai doveva aver capito che l’avevo riconosciuto, anche se lui sapeva bene che io non lo conoscessi, chissà cominciava a sospettare. “Ah, ecco!” Disse con tono conciliante. In quel suo modo di dire, e fors’anche per la variazione del tono di voce, forse lo riconobbi sul serio: eh, sì! Era lui. “Sei tu, dunque.” “E chi altri dovrei essere? Certo che sono io, e tu sai bene chi sono.” “Ma non eri morto?” “Certo che sono morto.” “E allora io come faccio ad essere vivo?” “E questo è il bello!” Infatti, se io, come sapevo, ero lui che mi stava telefonando, e al tempo stesso ero io che gli rispondevo, come facevo nel medesimo tempo ad essere vivo e morto? Non era un’incongruenza, questa?
Esposi al lui me stesso il mio dubbio. Non si scompose e mi domandò: “Ma tu non sei l’uomo differito?” Ah, già! “Sì, hai ragione,” dissi, “io sono l’uomo differito, l’uomo ferito mortalmente.” Dall’altra parte avvertii il silenzio, allora continuai, con la mia memoria digitale: “Differenza proviene dalla parola continua differentia, simmetrica alla parola greca diaforà. Il dis, prefisso di differentia, corrisponde al dis di diaforà; il tema di entrambe le parole è riconducibile al verbo fero, che suona identico nella lingua greca e latina. In entrambe, fero esprime in sostanza la stessa area semantica e in modo primario il senso del portare; mentre il dis e dia indicano l’attraversamento che si dispiega nel portarsi e che è delimitato da ciò che inizialmente è il portantesi e ciò che esso è al termine dell’attraversamento.” Feci una pausa e sentii l’altro concludere: “Differenza è ciò che è divenuto altro e permane come risultato del divenire altro, per divenire poi a sua volta il punto di partenza di un nuovo divenire altro.” Tacque. Era la teoria del divenire, la filosofia predicata da Emanuele Severino in ogni suo testo e quindi anche nel saggio, di cui io e il mio anonimo interlocutore, o meglio in verità, un lui che ero io, avevamo recitato qualche brano. Perché questa recita? Non era una recita, io dovevo spiegargli perché ero l’uomo differito, e quindi anche quello camuffato, divenuto caduco nel mio divenire, alla luce della esposta e riassunta teoria del divenire delle cose del mondo nella loro differenza.
“Una differenza”, dice Severino “è il risultato del divenire, del movimento, dunque del tempo, della storia. Differenze sono le cose che si manifestano nel mondo.” Questi pensieri del filosofo bresciano non furono però da noi enunciati.

Silvio Minieri ha detto...

“Ehi, tu!” dissi “Hai capito?” “Sei tu che non hai capito.” “Che cosa?” “Tutto questo.” “Il Tutto, di cui parla il nostro filosofo in quel suo libro, “Destino della Necessità”, forse il più letto e il meno capito, come quasi tutti gli altri che ha scritto, s’intende.” “Sì?” Sentii l’altro che interloquiva con voce sarcastica. Da dove gli proveniva questo sarcasmo? Forse non aveva condiviso quel “nostro”. Prendeva le distanze. Chissà!
Ripresi a parlare, riportando le parole del pensatore bresciano: “All’inizio della storia dell’Occidente le cose sono pensate dai Greci come tà ònta, gli enti. Ente è ciò che è. La filosofia pensa qualcosa di mai prima pensato: che il differire delle differenze sia l’attraversare la distanza infinita che separa il nulla da ciò che è, e ciò che è da nulla.” Tacqui, anche l’altro taceva. Allora, ripresi: “Non è un caso la vicinanza fonetica di fero e ferio, che significa ferisco. Il differire è un ferire. Portarsi al di fuori di sé, divenendo altro, è una ferita.” Tacqui, anche l’altro taceva, forse non mi ascoltava. “La differenza - la cosa in quanto differenza – è il luogo del fondamento del dolore e della morte, e dell’angoscia di fronte ad essi. Differire è, da ultimo, morire.” Tacqui, silenzio. “Il differire è l’andare nel nulla da parte della felicità e della vita, l’andare là dove non è possibile alcun ritorno.” Avevo pronunciato queste ultime parole con tono enfatico, quasi compiacendomi per come avevo infine recitato. Attendevo una risposta, quasi un complimento anche se magari venato d’ironia. Qualche istante dopo, scandendo le parole una ad una, una voce minacciosa sibilò: “Se a fine mese, non mi dai la somma che mi devi, io… ti ammazzo!” Staccai l’orecchio dal telefonino e mi guardai intorno, paralizzato. Di chi era quella voce? Guardai di nuovo verso il telefonino, tenendolo a distanza, con l’allungare il braccio, aspettando anch’io non so che cosa. Che uscisse il genio della lampada, pardon! del telefonino? Vedere chi aveva parlato, l’autore della minaccia. Nell’assenza della comparsa di un’immagine, riaccostai il telefonino all’orecchio. Sentii il segnale intermittente di chi aveva attaccato. Ma chi era? E che cosa voleva? “La somma che mi devi”? Ma quale?
“È evidente, per i mortali, che il differire è il ferire che conduce dinanzi alla morte, ma è imprevedibile quando venga inferta la ferita mortale; è evidente che proviene da altro, ma ci si trova ad esistere senza alcun preavviso, esposti alla cieca agli accadimenti del mondo, all’incalzare delle differenze. Quando il differire viene dal nulla e vi ritorna, l’imprevedibilità dell’altro verso cui si va diventa assoluta, e assoluta diventa la mancanza di preavviso. L’angoscia appartiene a quel differente – l’uomo – che in modo sempre più radicale ha dinanzi agli occhi il proprio essere un differente.”
Ecco, l’uomo differito, ferito, ferito mortalmente. Come sfuggire a questa morte, questa esistenza di morte? Pagare entro un termine perentorio – la vita – il prezzo dovuto? Sarà così? Ma pagare a chi? Chi era venuto a minacciarmi da lontano? Posai il telefonino sul tavolinetto di vetro, accanto al divano e guardai verso la vetrata, dall’altra parte del salone, dove all’angolo c’era la scala interna che conduceva al piano superiore. Ecco, la scala, salire la scala interna, non avevo altra scelta.

NOTA – Le citazioni sono tratte dal libro di Emanuele Severino: “Democrazia, tecnica, capitalismo”, Morcelliana, Brescia, 2009, p.21 e seg.

Silvio Minieri ha detto...

LA SCALA INTERNA
Avevo posato il telefonino e salii sulla scala interna, arrivando al corridoio, in fondo. “Alla fine del corridoio trovai una nuova scala, una porta. Entrai in un ambiente fumoso e maleodorante, una taverna, un bistrot, un bar orientale, camerieri di colore, avventori sudaticci, spiedini grassi e boccali di birra. Uscivo dalla porta come uno che fosse già lì, e fosse andato a orinare. Nessuno mi notò, o forse l'uomo della cassa che, vedendomi emergere dal fondo, mi fece un segno impercettibile con gli occhi socchiusi, un okay, come per dire ho capito, passa, io non ho visto niente.”
Ecco, ero fuggito dalla filosofia di Severino – l’imprevedibilità degli accadimenti del mondo – e mi ero ritrovato in un romanzo di Umberto Eco: “Il pendolo di Foucault.” E adesso che dovevo fare? Seguire le tracce del protagonista del “Pendolo”. Et voilà!
“Ero uscito dal bar e mi ero trovato tra le luci della Porte St-Martin. Orientale era la taverna da cui ero uscito, orientali le altre botteghe intorno, ancora illuminate. Odore di cuscus e di falafel, e folla. Giovani a frotte, affamati, molti col sacco a pelo, comitive. Non potevo entrare in un bar a bere qualcosa. Avevo chiesto a un ragazzo cosa succedeva. La manifestazione, il giorno dopo c'era la grande manifestazione contro la legge Savary. Arrivavano coi pullman. Un turco — un druso, un ismailita travestito mi invitava in cattivo francese a entrare in qualche luogo. Giammai, fuggire da Alamut. Non so chi sia al servizio di chi. Diffidare. Attraverso l'incrocio. Ora odo solo il rumore dei miei passi. Il vantaggio delle grandi città, ti sposti di pochi metri e ritrovi la solitudine. Ma di colpo, dopo pochi isolati, alla mia sinistra, il Conservatoire, pallido nella notte. Dall'esterno, perfetto. Un monumento che dorme il sonno del giusto. Proseguo a sud, verso la Senna. Avevo una meta in mente, ma non mi era chiara.”
E anch’io non avevo una meta chiara, in questo vagare per le strade parigine. Recarsi all’aeroporto di Orly, no a Roissy. Sono arrivato nella giornata grigia e piovosa, sono andato al banco di accettazione, un volo per Fiumicino, domandai; ma il giovane che stava davanti a me nella coda in attesa, protestò: “Parlo io, se parli tu, non mi fai capire niente.” Tacqui, e il giovane, rivolgendosi in inglese alla banconista, chiese del volo per Roma. In Italia, c’era lo sciopero del trasporto aereo, bisognava rimandare la partenza all’indomani e cercare un hotel. C’era quello dell’aeroporto, abbastanza costoso, frequentato soprattutto dai piloti e dai dipendenti delle compagnie aeree, che provvedevano al rimborso spese. Mi decisi, e insieme al giovane italiano, che parlava inglese (io parlavo francese), e a una donna, che parlava italiano, forse sua madre, andai a prenotare una suite all’hotel. L’alloggio, molto confortevole, era per due persone, c’era anche una bottiglia di champagne. Depositai il bagaglio, vennero dall’altra suite madre e figlio, e ordinammo la cena per tutti e tre. Alla fine, il giovane se ne tornò nella sua suite, e restammo io e la donna. Mi guardò e bruscamente disse: “Ci vogliamo andare a coricare?” “E il tuo bagaglio?” “Ce l’hai tu, cretino!” Ma questa donna come si permetteva? Non solo, prese una delle mie due valigie, e cominciò a frugare, estraendo le sue robe, vestaglia da notte compresa, poi andò a chiudersi in bagno. Io uscii e andai a farmi un giro in giro per le sale dell’aeroporto, quindi da una vetrata mi fermai ad osservare la pista bagnata di pioggia e gli aerei allineati, l’aria grigiastra della sera. Ma chi ero io? Non me n’ero ancora accorto, ma ero uscito dal romanzo di Umberto Eco. E allora chi ero, adesso? Lafleur, l’uomo differito. Ah!

Silvio Minieri ha detto...

L’UOMO VESTITO DI BIANCO
“Abbiamo toccato terra. L'aeroplano perde velocità ed infine, dopo avere rallentato sulla pista, finalmente si blocca. Possiamo incominciare a slacciare le cinture e prepararci a scendere. Molti si alzano in piedi. Salutiamo hostess e steward, mentre varchiamo la soglia dell'uscita anteriore del velivolo, per introdurci nel condotto, che porta direttamente all'edificio dell'aeroporto. Ed io pensavo che anche questo attraversare il varco d'uscita con il portellone dell'aereo spalancato eternamente ritornava ed io dovevo (dovevo?) dire Sì, "decidere" l'attimo, "volendolo" dunque. Non vi sembra che questo mio introdurmi nel condotto assieme agli altri passeggeri, per avviarmi verso l'edificio dell'aeroporto, debba essere già accaduto e che questo attimo trascini con sé tutte le cose da venire e per conseguenza anche sé stesso? […]
E dicevo tra me e me che non era possibile che una simile giostra fosse installata in quel luogo, il secondo piano del padiglione delle "Partenze e Arrivi dei Voli Nazionali" dell'aeroporto internazionale "Leonardo da Vinci", tempio dedicato al genio dell'italico volo. E come prova di questa mia incredulità portavo il ricordo ora emergente di avere visto in quel luogo, quando vi ero passato poco prima con la testa tra le nuvole, sebbene fossimo già atterrati, una figura bianca scivolare verso un'uscita laterale, lì dove invece la realtà sensoriale mi costringeva ad ammettere, come potevo riscontrare voltandomi, e mi sono voltato ed ho riscontrato, l'esistenza della giostra. […] La figura bianca e l'uscita laterale nell'atrio in penombra, di cui dicevo, dal livello subliminale ora sembrava essere emersa ed entrata definitivamente nell'orizzonte della mia coscienza: un uomo con un vestito di lino bianco e scarpe bianche, un viaggiatore per i caldi climi del Sud America verosimilmente e quella non improbabile uscita di lato dell'atrio in penombra. Sì, ora, il ricordo è netto. Mentre inconsciamente seguivo la giovane donna pilota, che mi conduceva alla sala d'attesa della "Italaviolinee", più che altro attirato dalla divisa blu scuro, con i gradi d'oro sulla manica della giacca di comandante d'aeronave, ho distinto bene quest'altra figura in bianco, scivolata alla mia sinistra, che si rivolgeva al gendarme di frontiera aerea, anch'egli in divisa blu, lo stesso colore dei naviganti dell'aria.”

Silvio Minieri ha detto...

L’ARTE E LA VITA
Fu la domanda postami all’esame della maturità classica circa sessant’anni fa: La vita è arte? Ma che cosa c’entra questo mio dato biografico con l’uomo caduco? È una delle caducità in cui si rivela l’uomo caduco, il mortale, l’uomo ferito a morte (dalla nascita), in questo senso l’uomo differito, ma anche una certa filosofia buddista. E siccome non posso ora parlare della filosofia buddista (ma si può parlare di filosofia buddista?), passo oltre. Dobbiamo rispondere alla domanda fatta all’esame: tu, io, noi che cosa abbiamo risposto? Tu è il mio rivolgermi a me stesso, io nominativo, me accusativo. Io sono io, e potrei essere un altro? Certo, ma dico in maniera apofantica: io sono io. Apofantica (assertiva) è una proposizione che può essere vera o falsa, rispetto all’asserzione stessa. Con questi apparenti giochini sui pronomi personali, siamo entrati nella filosofia analitica, derivata dall’empirismo “inglese”, e improntata sugli enunciati, ma ne usciamo subito e rientriamo in quella “continentale”, quella classica tradizionale, come dire la logica aristotelica, e non quella di Russell, che pure richiama i topici aristotelici, e Wittgenstein, che non li aveva mai letti, così pare.
Quindi, tronchiamo con i sillogismi dei topici e ricominciamo con la grammatica italiana. Noi che cosa abbiamo risposto alla domanda, fatta ad arte, se la vita è arte? Il mio ricordo è ancora vivo: accennai subito di sì, ma feci subito marcia indietro, vedendo il membro interno della commissione (un ecclesiastico) scuotere il capo. La professoressa (una laica) mi guardava, non so se avesse colto la disapprovazione esternata dall’esaminatore suo vicino. Io cominciai a parlare dell’arte, affermando che si può condurre una vita artistica, da esteta, forse avevo in mente Oscar Wilde. L’esaminatrice non si fece convincere, aveva posto un quesito filosofico, era l’esame di filosofia, che comunque superai. E voglio credere che quella donna, dall’aspetto fisico diversamente bello, bassina e claudicante, conoscesse la filosofia esistenzialista di Abbagnano. E che c’entra l’aspetto estetico? Ma l’arte non è estetica, sensibilità? Come? Senti, diamoci un taglio. Domanda: la vita è arte? Risposta: non me ne frega niente, se non mi dai i soldi che mi devi, io… ti ammazzo. Ah! È così? E come doveva essere? Te l’ho detto sin dall’inizio, e tu che fai? Parli di filosofia, gli esami di sessanta anni fa. Non so parlare di altro: guarda il mio blog. Il tuo blog? Almeno il post sulla filosofia esistenzialista di Abbagnano. Quale? Quella prossima, relativa al tema: esistenza e arte. Sì, ma io non dimentico. Che cosa? La somma che mi devi. Tu mi minacci, questa è un’estorsione, io ti denuncio, e io… ti ammazzo.

Silvio Minieri ha detto...

ESISTENZA E ARTE
A che cosa serviva poi tutto il teatrino finale? A tenere desta l’attenzione, questa dell’uomo caduco è una storia romanzata. Per ora un grande caos psichico. Ma noi lo ordineremo a cosmo. Riassumi il pensiero di Nicola Abbagnano. Cito alcuni passi da un suo libro: “Introduzione all’esistenzialismo” (1965). L’esame è dello stesso anno, l’esaminatrice poteva non averlo letto. Ma un precedente saggio del filosofo è del 1939: “La struttura dell’esistenza”. Quindi avrebbe potuto conoscerlo.
“È il primo saggio italiano dedicato alla filosofia dell’esistenza, nel quale sono riprese le tematiche affrontate da Jaspers e Heidegger, proponendone una soluzione che non sfocia nell’esperienza dello scacco o dell’angoscia. Abbagnano riconosce che il problema autenticamente filosofico è quello del rapporto tra l’uomo e il proprio essere. Su tale rapporto, sempre problematico, in quanto mai definito una volta per tutte, si costituisce l’esistenza umana, della quale la filosofia ha il compito di rivelare il senso, proponendosi come metafisica esistenziale. Per connaturata problematicità sua propria, l’esistenza umana si manifesta quale “possibilità”, la cui stessa attuazione non si spoglia mai della natura di possibile realizzazione dell’iniziale possibilità, vale a dire di possibilità della possibilità, e quindi possibilità trascendentale. L’inscindibile unità che congiunge il momento iniziale e quello finale del darsi della possibilità è chiamata da Abbagnano “struttura dell’esistenza”: è grazie a questa che l’esistenza umana si configura non solo come radicale libertà da ogni vincolo ontologico, ma anche come effettivo rischio, come intrinseca finitudine suggellata e garantita dalla morte. […] Contrariamente all’atteggiamento negativo con cui Heidegger e Jaspers guardavano si rischi fallimentari dell’esistenza, Abbagnano ne sottolinea invece gli aspetti creativi e positivi. – G. F. Frigo”, “Dizionario delle opere filosofiche”, a cura di Franco Volpi (Bruno Mondadori, 2000).

Silvio Minieri ha detto...

Ed ora concentriamo l’attenzione sul tema “Esistenza e Arte”, che costituisce l’ultimo capitolo del citato saggio del ’65, scegliendo alcune proposizioni essenziali. Va bene. “Il ritorno alla natura come fondamento dell’intelligenza dell’arte. – […] Intendo per ritorno alla natura un movimento essenziale, costitutivo dell’arte, un movimento che si può presumere, più o meno evidentemente, ma sempre necessariamente connesso con l’essenza stessa dell’arte. […] La considerazione di questo movimento può dunque aprire la strada all’intelligenza dell’arte. Ma è evidente che esso dovrà essere considerato nella pienezza della sua totalità, cioè rispetto a tutti i termini che sono in esso coinvolti. […] Conseguentemente, né la natura, che è il termine del movimento, né il soggetto che ritorna alla natura e che è il principio di esso, possono essere considerati separatamente e indipendentemente dal movimento di ritorno. […] La sensibilità come naturalità primitiva. – Il ritorno alla natura suppone dunque come prima condizione l’appartenenza alla natura del soggetto ritornante, l’essere esso stesso natura. Questa naturalità primitiva, che non sussiste se non per divenire originaria nel ritorno e attraverso il ritorno è la sensibilità. […] Ora la sensibilità è quel rapporto tra l’uomo e la natura, per il quale l’uomo è parte o elemento della natura e la natura è la totalità che include in sé l’uomo come un elemento o sua parte. […] La sensibilità pura od artistica implica la determinazione di un oggetto. Ma si tratta di un oggetto che non vale più come cosa o strumento, ma solo come realizzazione in forma finale della sensibilità come tale. L’oggetto dell’arte non è una cosa: ridiventa cosa solo nel caso che in esso la sensibilità pura non si riconosca e non si attui come tale.” Ed ora fai attenzione – faccio attenzione – non è uno scherzo – e chi scherza? – ma fai attenzione a quel che dice Abbagnano. – Che dice? – Non dice quel che pensa di te, perché egli non pensa le nullità. – E che cosa pensa? – Quello che dice. – E allora sbrigati e smettila di ciurlare nel manico. – “Ora, è evidente che il ritorno alla natura caratterizza e definisce l’uomo nella sua esistenza.” E quindi? È l’equazione tra Vita e Arte. – No, non è così, mi dispiace. – E com’è allora? – Continua. – “Se l’animale (per quel che possiamo dirne) è natura, l’uomo è natura che sa di essere tale.” Qui, il filosofo sta dicendo che la vita dell’uomo è vita cosciente di essere tale. – E quella dell’animale? – Lascia in sospeso la questione. – Io, no. – Lo so, e dico così non per fare la rima. – E allora dimmi quel che sai. – Tu hai un cane? – Sì, Fischer, il mio amato golden retriever. – Ebbene, se guardiamo con attenzione prima te e poi Fischer, e poi guardiamo Fischer e poi te, e se di nuovo spostiamo lo sguardo da te a Fischer, allora ci accorgiamo che non è possibile distinguere tra i due. – Bene, bravo! Hai parafrasato il finale della fattoria degli animali di George Orwell. – Quale?

Silvio Minieri ha detto...

– “Ma non avevano percorso venti metri che si fermarono di botto. Un clamore di voci veniva dalla casa colonica. Si precipitarono indietro e di nuovo spiarono dalla finestra. Sì, era scoppiato un violento litigio.[…] Non c'era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due.” – E allora? – Orwell scrive una satira, tu invece dici così per burla. – Ma la tua anima non è trasmigrata in quella di Fischer e quella di Fischer nella tua? – E anche se così fosse? – Allora, per questo tu sai che la vita di un animale può essere vita cosciente. – E tu vuoi sapere dove è trasmigrata la tua anima? – No. – No, eh? – No. – Vogliamo tornare ad Abbagnano? – Sì. – “L’esistenza dell’uomo non è natura se non perché ritorno alla natura. Esistere per l’uomo significa non già abbandonarsi alla naturalità, ma riconoscerla e porla in atto come forma originaria e finale. La realizzazione autentica della naturalità dell’uomo è l’arte come sensibilità pura.” – E quindi? – Non ti sembra che egli stia dicendo che la vita dell’uomo, la sua realizzazione sia arte come sensibilità pura. Ti ricordo che in senso etimologico estetica (αἴσθησις) significa sensibilità. Bene, hai dato dimostrazione della tua erudizione, uomo erudito, uomo caduco e anche un po' ciuco. – Non potevi esimerti dalla tentazione di fare la rima? – No, siamo in età universitaria, come dire goliardica. – Hai superato l’esame di maturità? – Sì, ora sono in quella età che i poeti chiamano “sulla soglia della vecchiaia”. – Ma quale soglia? Tu sei decrepito! – Ignorante! – Ti sei risentito? – No, tu non sai che questa espressione “sulla soglia della vecchiaia” (ἐπὶ γήραος οὐδῷ), usata da Omero, nell’Iliade, XXII, 60, e ripresa da Platone, “Repubblica” (I, 329 b), indica l’estrema vecchiezza, e non come si è portati a credere il confine tra l’età matura e quella appunto della vecchiezza. – Ma che cos’è questa vecchiezza? – È quella stessa citata in Odissea, XV, 348, ed Esiodo, “Opere e giorni”, 331. – Hai letto la nota a margine del testo? – L’uomo erudito non si nasconde dietro un dito. – Per cortesia, non scivoliamo su questo versante delle rime, che ci conduce solo ad asinerie. – Quali? – Quella tipo dell’uomo caduco che si rivela sempre un ciuco. – Ecco! - Fine.

Silvio Minieri ha detto...

LA SCELTA AUTENTICA
L’arte è vita? – Di nuovo? – Gli esami non finiscono mai. – Avevamo concluso che l’arte può considerarsi come una dimensione della vita. – Abbagnano parla di “opzione autentica”. – Leggiamo il testo. – Va bene. – “Tuttavia l’arte è per l’esistenza umana soltanto un’opzione. La sensibilità pura non è una determinazione necessariamente connessa, in linea di fatto, all’esistenza umana come tale. Il ritorno alla natura può e deve esser deciso dall’uomo, ma non è una determinazione univoca ed infallibile della sua esistenza. Esso offre all’uomo la possibilità, l’unica possibilità, di realizzarsi autenticamente come natura; ma l’uomo può trascurare, può tenere in non cale tale possibilità. L’esistere come natura significa per l’uomo la possibilità di una scelta.”
Quale scelta? Quella autentica: “L’uomo può anche, invece di abbandonarsi alla natura, ritornare alla natura.” Che significa? “La sua sensibilità si raccoglie e si approfondisce, perché invece di svagarsi dietro i suoi termini estrinseci, si rivolge in sé e si attua nel suo rapporto con sé stessa. L’uomo afferma allora la sua libertà di fronte al mondo.” Questo è il tratto esistenzialista del pensiero di Abbagnano: la vita come scelta autentica. E in tale prospettiva, egli intende l’arte come realizzazione autentica dell’uomo: “Il ritorno alla natura include ed attua l’intera metafisica dell’arte, riannodandola strettamente alla realizzazione autentica dell’esistenza umana come tale. […] È artista o intende l’arte soltanto l’uomo che non lascia inascoltato l’appello della sua umanità. La connessione tra l’uomo e il mondo viene nell’arte ricondotta alla sua condizione trascendentale. […] L’arte realizza la condizione trascendentale della sensibilità; e con ciò realizza l’uomo nel suo esistere concreto e originario, nella sua individualità autentica. Ma realizza l’uomo solamente nell’atto in cui all’uomo rivela la natura stessa nella sua unità e nella sua ultima radice esistenziale.” Punto. Hai capito quello che scrive Abbagnano o ti sei limitato soltanto a copiare? Ho capito quasi tutto. E allora? In ragione della sua struttura, la sua radice esistenziale, l’esistenza umana si configura non solo come radicale libertà, ma anche come effettivo rischio, come intrinseca finitudine suggellata e garantita dalla morte. E quindi? Nel suo essere per la morte, nel tratto della sua esistenza, l’uomo deve scegliere la sua vita, solo allora realizza una scelta autentica, che nell’arte trova la sua realizzazione. Hai detto essere per la morte? Sì, secondo l’espressione di Heidegger, raccolta da Abbagnano. Hanna Arendt la intende diversamente: essere per la vita, il tratto esistenziale segnato dalla nascita, non dalla morte. Ah, ecco! Ho capito. Come? “Nati non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza.” Ecco, bravo! Promosso a pieni voti, e bacio accademico. No, il bacio te lo fai dare tu dalla tua insegnante di filosofia. Quale? Quella diversamente bella. E tu, invece? Da Calloné. E chi è? La dea della bellezza. Un capolavoro! Io sono un artista autentico. Io, invece, sono calvo, e quindi, inorridito a sentirti dire questo, non posso mettermi le mani nei capelli. Mettiti una parrucca. Il solito teatrino finale: mi sai dire perché? Perché noi siamo i burattini, figure illusorie del quarto quadrante del quadrato della realtà fittizia. Questa poi me la devi spiegare. Dopo, ora vorrei parlare del Bello. D’accordo.

Silvio Minieri ha detto...

ESTETICA DEL RIMEDIO
“Quando parliamo di estetica abbiamo l’impressione che questa disciplina si interessi del superfluo, perché i bisogni primari dell’uomo sono altri: la sopravvivenza, la tranquillità dell’anima. L’estetica ha contribuito a diffondere questa impressione, quella cioè che il proprio contenuto sia un bene superfluo. I contenuti della religione, della scienza, della filosofia e della tecnica avrebbero invece a che fare con i beni necessari, indispensabili.” È l’incipit di una Conferenza di Emanuele Severino “Il Bello” (2011). È quello “Stesso” che sull’arte, come dire l’estetica (filosofia dell’arte), dice anche Abbagnano, con parole diverse. Io direi, un pensiero diverso. I filosofi dicono sempre lo Stesso. Sì, certo, lo Stesso, non il Medesimo. Ecco! Heidegger? Sì. Gioca sulle parole. Perché? Lo Stesso viene inteso come l’argomento, la “ragione”, comune a tutti; il Medesimo, quello singolo. Sì, ma a entrambi diamo uno statuto ontologico. Non ci perdiamo in chiacchiere, e andiamo avanti. Ma quali chiacchiere? Questi sono pensieri autentici. Senti. Eh? Procediamo con Severino. Va bene.
Il filosofo, nella sua Conferenza, richiama sue osservazioni sul fenomeno della festa come centro da cui si irradiano tutte le forme di vita che noi conosciamo, di cui qui riportiamo una sintesi: “C’è bisogno della festa se ci si sente dei mortali, c'è bisogno della teoria. Ecco perché la parola greca teoria anticamente in Grecia significa appunto contemplazione, ma contemplazione festiva, il guardare la liberazione dal peso quotidiano del lavoro, della morte, del dolore, sollevandosi al di sopra di questo peso, e al contempo stando in una dimensione soprastante che in qualche modo salva. C'è una sapienza originaria del linguaggio che precede quanto con esso viene poi espresso già dall'inizio con i grandi miti, perché il linguaggio dice appunto the e la parola teoria è costruita su quella radice the che è comune a un gruppo di parole decisive. The ora qui è la contemplazione, ma the è anche la radice di quel the (Fe) che è la base della parola Felix, quindi lo stare nella teoria è lo stare nella felicità. E questa radice the sta alla base anche per esempio della parola greca thele (θηλή), il seno materno, la poppa che allatta il poppante, così alimentandolo e tenendolo in vita. Felix, Fest il linguaggio ci dice che siamo nello stesso luogo: il luogo della felicità, il luogo della festa, il luogo del seno materno che ci mantiene in vita. Ma se teniamo presente che da questa radice the viene fuori addirittura Theo, Dio, il modo in cui il dio viene pronunciato dai greci, allora ecco il gruppo di dimensioni semantiche che emergono pronunciando la parola festa, il festivo, la felicità, la maternità, la divinità. Ecco perché il giorno della festa è il giorno dedicato al divino.”

Silvio Minieri ha detto...

Riallacciandosi a questi suoi pensieri, Severino così introduce il suo discorso sul Bello: “Se ci si riferisce alla festa arcaica – quindi anche a ciò che noi oggi chiamiamo arte e bellezza – essa perde il proprio carattere di bene superfluo e acquista un carattere di bene essenziale; d’altra parte, se vogliamo dare una connotazione psicologica e sociologica, chi si circonda della bellezza assicura in certo modo la propria esistenza. La bellezza è una forma di rassicurazione della propria esistenza, la bellezza rende sicuri: le belle forme, i begli oggetti, i begli edifici… Già da questo punto di vista la categoria ornamentale della bellezza si trova in prossimità del pericolo in cui consiste la vita; in una prossimità che l’estetica, come disciplina, non lascia sospettare. L’estetica ci porta a pensare di trovarci in una situazione di contemplanti, in qualche modo fuori dal mondo, là dove i bisogni reali della vita sono modificati.”
Il discorso di Severino qui sta scivolando verso una sua tipica forma di pensiero: la filosofia, in questo caso l’Estetica, intesa come Rimedio, Riparo dal pericolo della vita.
“Sotto il tavolo – Un pomeriggio dalla luce grigio-pervinca che precede il temporale e un bambino sui quattro anni seduto per terra sotto il grande tavolo della cucina. Dai lati scendono i lembi della stoffa che lo ricopre. La mamma si muove nella stanza. Sta aspettando la nuova ragazza che avrebbe aiutato in casa e che finalmente entra. Il bambino, ora, è più tranquillo – ma per quanto? Fuori ha incominciato a piovere.”
(Emanuele Severino, “Il mio ricordo degli eterni – Autobiografia”, 2011)
È l’incipit del primo capitolo. L’autore ha voluto iniziare con questo ricordo d’infanzia la sua autobiografia. Il bambino impaurito si rifugia sotto il tavolo per trovare il riparo dalla paura che gli incute il temporale. E questa prima emblematica immagine viene ripresa nel capitolo terzo: “Il sogno e il riparo. – Il dominio del sogno, cioè dell’errare, della fede, della volontà. Ognuno di questi significati implica gli altri. Domina la volontà di vivere, che è insieme volontà di allontanare il dolore e la morte. Domina, quindi, innanzitutto, la convinzione che le cose siano un diventar altro da ciò che sono. Il diventar altro è la morte di ciò che si è. Tale convinzione è la negazione, perlopiù inconsapevole, del destino. Ed è la radice dell’angoscia e della sofferenza umana. Propriamente, l’uomo è questa radice. (Ma noi siamo infinitamente di più dell’uomo.) È quindi inevitabile che, da che nasce, l’uomo avverta come prioritario andare alla ricerca di un Rimedio, di un Riparo che gli consenta di sopportare o addirittura di vincere l’angoscia, la sofferenza, la morte. Nascere è avvertirle da subito, sia pur confusamente. L’istinto animale, in forma ancor più confusa, è questo avvertire. Lo scopo essenziale, fondamentale di ogni forma di civiltà e di cultura è il continuo potenziamento del Riparo. Ogni gesto, azione, pensiero, affetto della vita quotidiana è sin dalla nascita un’espressione della volontà di essere al Riparo, cioè dalla volontà di potenza e di salvezza. Anche il bambino che in un pomeriggio di luce grigio-pervinca che precede il temporale sta sotto il grande tavolo della cucina ad aspettare un estraneo si sta mettendo al Riparo. […] È la stessa fede del cristiano profondamente convinto, che crede di potersi unire a Cristo e a Dio e vivere all’interno del Riparo, in qualche modo identificandovisi.”

Silvio Minieri ha detto...

Hai capito? Tutto. Quale Tutto? Quel Tutto, che fa dire al filosofo, come testimone del linguaggio del destino: “Noi siamo infinitamente più dell’uomo”. L’oltre uomo? Più o meno, anzi no, lo sguardo del destino. Spiegati meglio. La negazione del destino è la radice dell’angoscia e della sofferenza, che porta l’uomo a cercare un Rimedio, un Riparo. E questo accade perché si nega il destino, lo stare (destino deriva dal latino de-stinare, de rafforzativo di stare) senza cedere (nec-cēdĕre) per necessità: “Destino della Necessità”. Scusa, ma questo Destino non è un Riparo o Rimedio, e non siamo punto e daccapo? No. E perché? Perché è destino che non sia così. Una negazione indimostrata. No, perché è destino che sia una negazione indimostrata. Senti. Eh? Mi hai stufato. No, è destino che io ti abbia stufato. Adesso telefono alla Neuro. No, perché non puoi sfuggire allo sguardo del destino … Basta! Tu sei pazzo. È destino che tu dica che io sia pazzo. Quando sei uscito? Da dove? Dal manicomio. Da sempre. Ah!
“Da sempre il mondo avverte di essere guardato dal destino; anche se non sa dirlo; da quando il linguaggio che testimonia il destino parla del mondo, il mondo avverte questo suo esser parlato, anche se non ne può parlare.” Ma che stai dicendo? Leggo il testo, l’Autobiografia, capitolo nono, il paragrafo: “All’ombra del sole”. Parla anche della moglie Esterina. Ah, sì? E che dice?
“Ma è proprio vero che a parlare in questo modo sia soltanto quel pover’uomo che sono io? O è soltanto una fede di vista corta anche quella per cui si crede che una donna che passi la sua vita con un uomo che scrive e pensa queste cose sia destinata al manicomio?” Sic! La pazzia è contagiosa, ma il filosofo non desiste e confessa: “È comunque indispensabile che queste cose le scriva – se non altro per mostrare il tratto più importante del mio carattere (supposto che abbia qualche importanza mostrarlo).” Va bene, abbiamo capito, adesso ritorniamo alla Conferenza sul Bello.
“Vorrei condurre la mia conversazione, richiamando il carattere di rimedio della bellezza. Perché l’uomo fa festa? Per trovare un rimedio al pericolo della vita. Il rimedio come festa include, unifica ciò che poi verrà chiamata religione, filosofia, tecnica, arte; la bellezza può venire intesa come un aspetto del rimedio. Tutti conosciamo il “Simposio” di Platone…” Ecco, alt! Che succede? Se tutti conosciamo il “Simposio” di Platone, lo conosco anch’io e vorrei parlare di Calloné. Va bene, intanto lasciamo Severino alla sua Conferenza sulla Bellezza come Rimedio e dall’illustre filosofo passiamo all’illustre sconosciuto, che rimarrà tale. Non fa niente.