ALIENAZIONE La vita di Io altri dall’Io nella coscienza dell’Io
La stesura e pubblicazione del testo del mimo risale al tempo di un mio viaggio a Zurigo, secondo una certa mia consuetudine di affidare le mie riflessioni a questa modalità di espressione letteraria, quando avevo tempo per riflettere, lontano da pensieri professionali o domestici, durante un viaggio di svago, come appunto quello mio a Zurigo, oppure anche di lavoro, in genere in Italia. E il mimo riflette ovviamente le mie letture o gli orientamenti di interesse letterario, comprensivi soprattutto di filosofia, ma anche di psicologia o critica letteraria, del momento. Era una maniera di affrontare questi temi del pensiero, concomitanti con la lettura, nonché la mia diretta composizione di opere letterarie, consistenti in romanzi, racconti e saggi letterari e filosofici, più che altro studi questi ultimi, prima ancora che vere opere di saggistica. Nell’esaminare quindi il mimo – “Le voci improprie della coscienza. – Sulle tracce della propria identità smarrita e dubbi sulla consistenza di quest’ultima in conseguenza dell’alienazione psichica ed altri discorsi manicomiali.” – seguiremo il metodo di frazionare il testo in componenti successive, che verranno illustrate progressivamente una alla volta, a cominciare dal titolo qui riportato. Allora, la prima domanda che ci rivolgiamo è la seguente: quali sono le voci della coscienza, e perché le definiamo improprie? L’improprietà delle voci può essere definita in relazione al suo contrario ossia la loro proprietà, ovvero la corrispondenza e l’identità tra le voci e la coscienza del soggetto sorpreso ad ascoltarle. Ma è proprio così? Ora però ci coglie questo dubbio. Come fare allora per scioglierlo? Andiamoci a leggere il passo dove viene citato l’episodio riferito da Jung. Nella sua biografia, a quanto pare, Jung riferisce un certo accadimento, a lui occorso. Un giorno, mentre stava dipingendo e scrivendo le sue fantasie, si domandò: “Cosa sto facendo realmente?... Al che una voce in me disse: “È arte”. Fui sorpreso, non mi era mai passato per la testa che le mie fantasie potessero avere a che fare con l’arte. Allora pensai: “Forse il mio inconscio ha dato forma ad una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute”. Sapevo per certo che la voce proveniva da una donna, e vi riconoscevo la voce di una paziente, una intelligente psicopatica che aveva per me un forte transfert…” La nostra attenzione si concentra sulla riflessione di Jung sull’episodio occorsogli: “Forse il mio inconscio ha dato forma ad una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute.” Nella persona di Jung, diciamo il suo Io cosciente, si era insediata, a quanto egli ritiene, un’altra personalità, un altro Io, non sappiamo se cosciente. Lasciamo in sospeso il giudizio se questo altro Io fosse o meno cosciente, indubbiamente incosciente possiamo pensare, come ogni altra realtà immateriale da noi immaginata – ecco perché Jung parla di Inconscio. Ma, ed è questo il punto, risalendo dall’inconscio alla luce della coscienza, diventa un’altra personalità, acquistando coscienza nella coscienza di Jung – la psicopatica vive in Jung, in cui si è trasferita (transfert), e tocca allo psicoterapeuta, ossia il curatore della sua anima, trasformarla allo stesso modo con cui l’alchimia cercava di mutare il metallo in oro. Abbandoniamo, adesso, il piano delle nostre speculazioni, in cui volevamo darci una certa aria di serietà scientifica, quanto meno nel tentativo di essere in linea con dottrine più accreditate, quali la psicologia del profondo (inconscio) di Jung, e rientriamo nel nostro piano, dove possiamo indossare maschere clownesche, onde celare la nostra mancanza di studio e di conoscenze, e così parlare di quei temi in maniera tra il serio e il faceto, comunque più faceta che seria.
In questo senso, possiamo riprendere il mimo, ritornando alle sue battute iniziali. “- Decio Livio, noi non siamo noi. - No? - No. - Traseo Nera, ma se noi non siamo noi, allora di grazia chi siamo? - Siamo “altro” da noi. - Non ho capito, amico, spiegati meglio. - Le voci. - Quali voci? - Quelle che ci raggiungono dal silenzio.” Se partiamo dalla definizione della coscienza come un teatro interiore, sulla cui scena vengono rappresentate le commedie provenienti dalle immagini della realtà, sotto la direzione di un homunculus, individuabile in una regione della mappa del cervello, possiamo dare una certa concretezza alle ombre illusorie generate dalla coscienza, assegnando loro un certo ruolo di attori e personaggi di una determinata recita fantasma. Ed il mimo che andiamo illustrando, nella sua finzione artistica, costituisce un esempio, con pretese paradigmatiche, dell’esposta teoria. Una tale interpretazione del cervello come depositario della coscienza è stata messa in discussione da una diversa teoria della mente proposta dal filosofo statunitense Daniel Dennett (1942-2024), che ha contestato la tradizione ereditata da Cartesio di un dualismo tra mente (res cogitans) e cervello (res extensa). Egli ritiene illusioni quegli stati coscienti, che la concezione tradizionale registra come qualità percepite in maniera chiara e distinta da tutti gli altri stati mentali. Dennett ha definito “qualia” queste qualità, che ci fanno presumere di avere “immagini mentali” di un “teatro cartesiano” interiore, accessibili solo a noi stessi, in cui consisterebbe la coscienza. A questa teoria tradizionale della mente, separata dal cervello, la cui connessione Cartesio aveva identificato nella glandola pineale, Dennett oppone il suo modello della coscienza come “multiple versioni”, che non necessitano di nessuna cabina di regia o centrale di controllo, localizzabile nella mappa del cervello, dove “tutto si riunisce e la coscienza accade”. Figurativamente se uno dovesse entrare nel cervello vedrebbe come un grande insieme di meccanismi e congegni senza mai incontrare il padrone di casa (l’inesistente homunculus). Per Dennett, il cervello è la composizione di numerosi sottosistemi minori, operanti in parallelo, ognuno con le sue specifiche funzioni collegate tra loro. L’insieme di questi sottosistemi elaborano costantemente i segnali in entrata, gli input, e generano uscite, output, dando luogo a un flusso perpetuo di attività mentale che converge su un modello stabile solo in maniera occasionale. Le “versioni multiple” si riferiscono alle diverse interpretazioni degli input sensoriali costantemente promossi dai nostri sottosistemi nervosi. Sospendiamo ogni ulteriore indagine sui meccanismi del cervello, in primis perché incompetenti ossia ignoranti di neuroscienze, e poi perché a noi interessa più il software (la mente) che l’hardware (il cervello), quale che sia la connessione tra loro, non importando se si tratti di un teatro cartesiano o di un insieme di sottosistemi sottoposti al flusso di input e output, in ogni caso comunque generatore di immagini mentali – generazione questa ultima necessaria ai nostri fini, per il funzionamento del nostro teatrino della coscienza.
Acquisita l’interpretazione della coscienza come teatro interiore, con copione e regia esterni (homunculus?), in ordine al quale gli attori recitano il ruolo di personaggi, esaminiamo il nostro mimo, la scena che essi interpretano. Possiamo dire che i personaggi sono Traseo Nera e Decio Livio, due personaggi comuni a quasi tutta l’intera serie dei mimi di mia produzione, idealmente raccoglibile in un virtuale “Libro dei mimi”. Nel mimo in esame, essi avvertono di essere personaggi altri da sé stessi, pur sapendosi tali, ma interpreti di un altro ruolo. Qui, per chiarire il senso di quanto diciamo, dobbiamo distinguere tra “attori”, altrimenti definibili come “attanti” o “funzioni narrative”, secondo i canoni propri di diverse dottrine di narratologia, dai “personaggi” che gli attori interpretano, rivestiti con le maschere delle loro diverse personalità. In questo senso, Traseo Nera e Decio Livio, svestiti del loro ruolo di personaggi, sono attori che salgono sulla scena per interpretare il copione della commedia, quali interpreti di storie scritte da un autore esterno, che fa anche da regista dell’azione. Ecco, essi interpretano coscientemente questo dramma di essere stati spossessati della loro personalità e di sentirsi estranei a sé stessi, avendo perduto la loro “storia” propria di essere i teatranti Traseo Nera e Decio Livio. Perché questo accade? Perché si domandano: “noi non siamo noi”? Perché si sentono alienati da sé stessi? Essendo ombre e immagini di una coscienza, sulla cui scena acquistano l’esistenza e vivono le loro storie, se la coscienza si estranea da sé stessa, anche loro vengono a perdere la loro essenza della coscienza perduta. Ed ecco che il loro discorso scivola sulle “voci”. Da quali lontananze li raggiunge la loro eco? La risposta ci dice: “dal silenzio”. Ma non sembra una risposta molto appropriata, ed in effetti non lo è. Nel dare voce a queste voci, forse, ma senza forse, l’autore era influenzato da un’altra voce, nel contesto dissonante, ma in sé invece molto intonata, quella di Mina interprete di “La voce del silenzio”. Ma questo sbandamento – e chi non sbanda dietro la voce inimitabile di quella cantante e il brano musicale (e i brani musicali) da lei interpretato/i? – viene subito ricondotto in riga da uno degli attanti: “Ma che cosa stai dicendo? Forse hai perduto l’orientamento e non riesci più a tenere un discorso lineare, scosso come sei nel tuo equilibrio, quello psichico, intendo.” Ecco, lo sbandamento è l’inconscio movimento di deviare verso passioni indistinte dell’animo, non certo congruenti con la chiarezza di un discorso razionale, e già nominare la congruenza è il freddo della ragione che gela la calda passionalità dei sentimenti. Ecco perché nel titolo le voci – il risuonare di quelle voci – vengono definite improprie. Ma esaminiamo meglio le successive proposizioni del mimo.
Il discorso si muove sul presente di quelle figure della coscienza dell’autore, che rievoca nel registro dei ricordi la sua passeggiata per Zurigo, la mente rivolta a Jung e al Burghölzli. Ma perché il nostro autore, l’Io del mio Io, ha la mente rivolta al Burghölzli, la celebre clinica psichiatrica dell'Università di Zurigo, sita sulle colline a sud-est della città svizzera? Hic sunt busillis – In diebus illis, ovvero in quei giorni, la corretta lettura. non in die busillis, come sbagliò il chierico. Quale chierico? Tu! Ecco il pazzo! La fulminea risposta “Tu!” Uno fa una domanda quieta, non ironica e provocatoria, e l’altro gli risponde aggressivo: Tu! Ecco il tema delle malattie nervose quello trattato nell’evocazione di un altro mimo: “Giorni di pioggia”. È in quella direzione che ci indirizzano le battute degli attanti: “- È un po’ di tempo che stiamo dietro a quest’autore [Jung], ottimo amico: un nostro discorrere su storie di malati di nervi, nella “invenzione”, nel senso di “rinvenimento” e “scoperta” del testo: “Giorni di pioggia”. Non è così? - Certo, è così. E come ben vedi, Livio, se non proprio le voci, almeno gli echi, quelli ritornano. - Un flusso di pensieri che ci sovrasta… - ed avvolge.” Ci siamo! Qui convergono le due teorie contrastanti delle scene del teatro cartesiano interiore e dei flussi continui dell’attività mentale (Dennett) – nel mimo definiti: “un flusso di pensieri che ci sovrasta … ed avvolge.” Che cos’è questa sovrastante ed avvolgente corrente di pensieri? La coscienza dell’autore del mimo, secondo la teoria della coscienza di Dennett, un’entità emergente da meccanismi fisici, chimici e biologici, che determinano l’attività del nostro cervello, ma invisibile e difficilmente localizzabile. Nel mimo, la corrente di flussi che investe il cervello, mettendone in opera i meccanismi dei suoi sottosistemi, genera le fantasie nella mente dell’autore, riprodotte nelle immagini del suo teatro interiore (la coscienza). Scopro ora che la coscienza non era, come credevo, soltanto la mia scena interiore, calcata dai personaggi delle mie fantasie, che rappresentavano il dramma delle loro storie, ma anche il flusso generato da meccanismi fisici, biologici e chimici, che in ogni caso concorrono a formare quelle immagini in movimento. È come dire che io non sono l’autore e il regista dei miei fantasmi, ma che essi mi investono autonomamente dall’esterno. Ma io avevo mai dubitato di questa esterna invasione? Non mi sembra. Diciamo anzi che io, sulla scia di Jung, e forse andando oltre, non so, ritengo che questi spiriti esterni diventino personalità viventi nella mia coscienza. È questo il tema centrale del mimo, l’improprietà delle voci della coscienza, nel loro non essere proprie dell’Io della coscienza, ma proprie di altri Io, che si trasferiscono (transfert) nella coscienza dell’Io, come personalità autonome. In questo, il ricordo riferito da Jung, nella sua autobiografia, sulla voce della psicopatica, che veniva ad acquistare una sua autonoma personalità nella sua coscienza, è abbastanza preciso: “Forse il mio inconscio ha dato forma a una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute”. Ecco, forse nel tempo in cui elaboravo il testo del mimo, vivevo questa condizione: un altro spirito, un Io altro dal mio Io, si è venuto ad insediare nella mia coscienza con una sua personalità autonoma. E quindi dovevo dargli voce esprimendomi in una mia forma artistica narrativa, per dare vita ad un nuovo testo: “Giorni di pioggia”, che poi esamineremo. Intanto, devo aggiungere che forse è stata la spontanea stesura di quel testo a rivelarmi la presenza di quello spirito estraneo insediatosi nella mia coscienza, generatore di sé stesso come personaggio e di altre figure ruotanti intorno a lui.
Ovviamente, si può obiettare che ogni narratore fantastica storie con personaggi, di cui trae spunto dalla vita reale. Certo, ma il mio interesse era proprio quello di cercare di conoscere, sperimentandolo nell’arte della narrazione, il processo di formazione di queste figure generate dall’inconscio, come insegna Jung. Ora, dopo il riferimento a “Giorni di pioggia”, uno degli attanti tenta di distrarre il discorso dal tema psicologico, chiamiamolo così, per spostarlo sulla vita reale, attirando l’attenzione dell’amico su più concrete visioni, quelle riguardanti la bellezza femminile. E qui il riferimento platonico, nell’occasione il “Fedro”, è d’obbligo, e da questo riferimento scaturisce l’osservazione dell’attante sulla causa del loro stato di alienazione, vale a dire uno stato di innamoramento. “- Definisci la bellezza come vuoi, platonico Nera; intanto perdersi nella sua scia è forse il nostro modo di alienarci, divenire altro da noi, come tu avevi esordito in questo nostro chiacchierare, quando abbiamo lasciato i giardini della Spielplatz Blatterwiese. Intendevi dire questo, forse?” Ma viene corretto dall’amico che allude a un diverso piano del discorso: “- Non proprio, Decio Livio, anzi per niente; seguivo tutto un altro piano del discorso. - E quale, allora, amico, smarrito tra le nuvole? - In verità, nel cielo brilla il sole, almeno oggi; comunque sul nostro alienarci e perdere l’identità di noi stessi altro era il mio intendere e domandare.” Semplificando, diciamo che il discorso viene spostato dal tema dell’amore a quello dell’arte. Quest’ultimo genera le osservazioni sulla realtà della finzione, nel cui ambito è possibile distinguere tra vero e falso, nello stesso modo di quello in cui si distinguono nella realtà della vita, quella vera, non finta. Qui si rende necessaria – anche se non è proprio necessaria – una digressione sulla descrizione platonica della biga alata, che rimandiamo al Post Scriptum, per non perdere il filo del commento progressivo alle proposizioni del testo del mimo. Forse non mi era ancora chiaro quello che volevo dire sulla distinzione tra vero, falso e finto, o comunque avevo l’urgenza - e vediamo subito da che cosa era dettata questa urgenza - di procedere oltre, e così il discorso che attraversava le battute degli attanti è risultato poco chiaro e ingarbugliato. E gli attanti ne sono venuti fuori, con il ricorso a Jung e alla voce della psicopatica, e quindi al transfert, con una nuova allusione al tema dell’amore. Ecco, ora viene in chiaro che la mia condizione di allora non era quella dell’innamoramento – ed anche qui rinviamo ad un secondo Post Scriptum una relativa digressione sull’incantamento – ma di un transfert improprio, narrato con le batture degli attanti, e la figurazione del loro lamentarsi, e spiegheremo una volta anche questa storia del lamento delle creature nei confronti del loro signore. – Una preghiera di essere sollevati dalla loro condizione creaturale? E poi la beatitudine? Vedremo in proposito, magari aiutandoci con i testi di Aristotele e Agostino.
“- Allora, nel nostro caso, tragico e comico a un tempo, l’artista, signore e creatore delle nostre inconsistenti ed effimere vite, quando una voce risuona nel silenzio della sua coscienza, sa bene a quale identità appartiene, nevvero? - Questo velleitario imitatore di ben altri grandi artisti, certo. - Poi, siccome è in ogni caso anche lui un “fingitore”, creatore di “finzioni” artistiche, estranea da sé le voci della sua coscienza, nel senso che le esteriorizza, attraverso il nostro parlare, questo discorrere tra me e te, Decio Livio. Non è così? - Sì, è così. - Pertanto quelle voci, che non appartengono al nostro artista, risuonanti nella sua coscienza da un “altrove”, di cui non sappiamo, ma che sospettiamo esista, non sono affatto “sue” e quindi neppure “nostre”, ammesso il nostro stato di creature ipostatizzate, rappresentazioni “figurate” delle sue emozioni ed interiori sentimenti. Non sembra anche a te che la situazione stia in questo modo, vero? - Sì, mi sembra. - Quindi, in questo senso, come conseguenza dello smarrimento della sua anima in sogni altrui, anche noi, Decio Livio, finiamo per perdere la nostra vera identità, nevvero? - È vero. - Noi, dèmoni della sua coscienza, veniamo ad alienarci nell’identità di altri sconosciuti dèmoni, estranei alla nostra esistenza, pur restando, tu, Decio Livio, ed io, Traseo Nera, integri nella nostra struttura ontologica, se così si può dire. - Ma, allora, Nera, noi deprivati della nostra identità, chi siamo veramente?” Ecco uno dei punti nodali del testo, dove il nodo viene sciolto con il riferimento alle dottrine gnostiche – e qui occorre un ennesimo rinvio, quello ad uno dei miei primi mimi. Intanto, questa è la risposta: - Anime perdute nella coscienza folle di un dio impazzito, che ha smarrito la sapienza, Sofia, e parla con le voci dell’alienazione mentale. - Alla stessa guisa della psicopatica intelligente, la cui voce risuonò nella coscienza dell’illustre medico, attuale spettro dell’inconscio di questa graziosa cittadina, allora pur sempre un uomo con tutta la sua sensibilità e come tale soggetto al contro transfert. - Adesso, non esageriamo. - “Amor che a nullo amato amar perdona.” - Qui amant ipsi sibi somnia fingunt. -- Gli innamorati creano (fingunt, “fingono”) da sé i propri sogni.” Il motto latino è di Virgilio, “Bucoliche”. Da ultimo, immagino che non vi siano spiegazioni ulteriori da dare sul sottotitolo di questo commento, a completamento del concetto di “alienazione”, ovvero l’alienarsi dell’Io della coscienza dell’uno in quella dell’altro, ovvero il transfert dell’alienato, che può dar luogo al contro transfert. Intendiamoci, sono stati psichici pericolosi questi trasferimenti (transfert) di anime in altre anime, ovvero falsi innamoramenti, sia nella finzione dell’arte che nella realtà della vita, non rispecchiano la verità dell’amore. E qual è questa verità? Rinviamo la risposta alla lettura del “Fedro” e del “Simposio”. E siccome siamo nella Zurigo di Jung, non possiamo non accennare al caso di Sabina Spielrein, una paziente da lui curata e con cui intrattenne una relazione d’amore. Una volta guarita, la donna si laureò e divenne anche lei a sua volta una psicanalista. La sua storia è stata raccontata in un saggio dello psicanalista Aldo Carotenuto: “ Diario di una segreta simmetria”.
LA FOLLA DEGLI SPIRITI Vorrei aggiungere ancora qualche spiegazione sulla linearità logica nella lettura del sottotitolo di “Alienazione”: “La vita di Io altri dall’Io nella coscienza dell’Io”. Gli Io altri poteva essere scritto anche con il trattino: Io-altri; in tal modo si capiva subito che questi Io, diversi dall’Io proprio della coscienza, sono appunto una pluralità di Io. Potevo anche scrivere: “La vita degli Io altri…”; in tal caso però si perdeva quella sfumatura di singolarità, che la preposizione semplice mantiene rispetto a quella articolata. Una tale sfumatura fa leggere l’espressione in questo modo: “La vita di ogni Io diverso dall’Io…” È come dire che un solo Io alla volta può venire ad insediarsi nella coscienza di un altro Io, e questa prevalenza dell’insediamento singolare può essere meglio intesa laddove si traduca Io con Personalità. In tal caso, una diversa personalità dell’uno penetra e quasi si sostituisce nella coscienza di un altro, estraniandolo e stravolgendone la personalità. Ora è chiaro che la coscienza dell’Io rimane turbata, avvertendo la presenza in sé di un altro spirito, e ancora di più se lo spirito è più d’uno, e così la sua turbativa aumenta in crescendo con l’aumentare della turba degli spiriti, che si insediano nella sua coscienza, per cui si rende necessaria una liberazione. “Nel 1916, in una condizione di profonda crisi personale e d'intensa esperienza visionaria, Carl Gustav Jung è visitato da "spiriti" di ritorno da Gerusalemme. "Cominciò con uno stato di inquietudine dentro di me, ma non sapevo che cosa significasse, o che cosa si volesse da me. C'era intorno a me un'atmosfera sinistra: avevo la strana sensazione che l'aria fosse pregna di entità spettrali. (...) . Gli spiriti, provenienti dalla "terra dei morti", sono "le voci dell'Inesplicabile, dell'Irrisolto, dell'Irredento". Gli straordinari "Sette sermoni ai morti" con cui Jung cerca di portarli a consapevolezza e di placarli, scritti in una condizione prossima all'esperienza medianica, sono a un tempo una Teogonia, una Cosmogonia, una Psicogenesi, in un lucidissimo e controllatissimo "mythologein". Pagine complesse e ricchissime, imbarazzanti per gli stessi cultori di Jung, qui proposte attraverso un puntuale commento filosofico e teologico, sempre in rigorosa aderenza al pensiero di Jung.” https://books.google.it/books/about/Sette_Sermoni_AI_Morti.
L’ASSEDIO DEI FANTASMI Questa è l’esperienza di Jung, e devo dire che anche me, anni fa, è capitato di essere assediato da una turba di spiriti, un’esperienza senza dubbio meno mistica di quella di Jung. In quell’occasione anch’io mi liberai di quegli esseri spettrali, dandone conto in uno scritto che ho già proposto altre volte sul blog. Forse ero stato suggestionato dalle mie letture dei testi di Jung, per cui quella mia esperienza può sembrare più un’invenzione letteraria di fantasia che una vera esperienza di vita vissuta. Lo scritto fa parte di una narrazione in forma di mimo, di cui costituisce un episodio, ma questo non toglie la veridicità a quanto descritto nel racconto di finzione “Storia di un fallito assedio di fantasmi davanti all’Église Notre-Dame du Sablon (Onze-Lieve-Vrouw ten Zavel) sulla rue de la Régence di Bruxelles” […] Ripresosi poi il magnifico Aristarco da quel suo repentino smarrimento del cuore, così continuò: “Mi ritrovai a scendere per via dei Carmelitani Scalzi, la rue des Petits Carmes volevo dire, quand’ecco, giunto all’altezza dell’impressionante facciata della caserma “Principe Alberto”, la luce del giorno cominciò a cadere (occaso) ed io nell’incerto grigiore del crepuscolo… bum, bum! bum, bum, bum! bum, bum! bum, bum, bum!... - Eh? - Bum, bum! bum, bum, bum! - Nera! - Scusami, Livio, ma era d’uopo ripeterti fedelmente il suono onomatopeico, con cui l’inimitabile Aristarco tentò di rendermi immediatamente percepibile, e vi riuscì, il cadenzato passo dell’oca delle file dei soldati del Reggimento Granatieri, che nell’estate del 1914 partirono da quel luogo, per andare a battersi sul campo d’onore, in difesa della patria. “Bum, bum! bum, bum, bum! Battaglioni di fantasmi attraversavano la strada ed io tra loro, nell’incerta luce cadente del giorno. Così mi diceva Aristarco, che poi continuò il suo racconto: “Io ero smarrito in quella visione, che consideravo chiaramente una mia allucinata fantasia; ricordo, infatti, che raggiunsi il marciapiedi di fronte con una giravolta improvvisa, per recuperare con uno sguardo d’insieme l’intera veduta della Karmelietenstraat. In tale occasione, una passante, una donna alta e magra, giovane, mi lanciò un’occhiata perplessa, pensando che di colpo avessi voluto evitare d’incrociarla, non essendosi resa conto del vero motivo di quel mio stranito comportamento nella strada deserta. Capisce, mio giovane amico?” Annuii in silenzio. Aristarco riprese: “Fu allora che ebbe inizio il mio incubo, credo.” Io mi resi più attento al suo narrare, Livio. - Ed anch’io, Nera, mi concentro nell’ascoltarti, come te allora. –“Uno stridulo grido, che sapevo inudibile ad altri orecchi, mi raggiunse in quella incerta luce grigia del giorno ormai caduto (occaso): era il grido nevrastenico della grande fraternità! Oh, avete mai sentito risuonare un tal grido nevrastenico?” Aristarco compì una pausa, guardando fisso davanti a sé, poi riprese a parlare, rivolgendosi direttamente a me: “Io capisco, mio diligente ascoltatore, e le sono grato di questa sua cura, della perplessità che questa mia ultima espressione suscita nel suo animo, la stessa perplessità della solitaria vichinga, che si trovò a passare, in quell’occasione, nella luce incerta del giorno alla fine, il crepuscolo nella deserta Karmelietenstraat; ma, oh!, straziava, mi creda, il grido della grande fraternità, che ferisce soltanto l’orecchio familiare. Che, dunque, la grande fraternità? Una voce di donna, indubbiamente, uno strillo graffiante, roco, isterico, per riportare alla lacerazione del sangue la rabbia scandita in proposizioni corrodenti l’umore e la coscienza anche del più equo e più giusto della parentela degli affini. Oh, tacque alfine il grido di collera mordente della grande fraternità! Ed io restai abbandonato nelle ombre della sera, nel silenzio solitario della Karmelienstraat.
Quindi, mi ritrovai a scendere la scalinata, dopo essere passato al buio sotto l’arco, raggiungendo i giardini della Kleine Zavel (le petit Sablon), il cuore angosciato e sgomento. A sorpresa, nel silenzio della sera, risuonò un tocco di campana: era l’invito al ritiro e alla preghiera dell’Église Notre-Dame du Sablon. Cedetti ad un sentimento di pietà, il senso di commozione suscitato dalla collerica implorazione della grande fraternità, e divenni così preda dell’assalto da parte di un’onda mormorante di fantasmi. A stento distinguevo sbiadite figure, dai tratti perversi, come il guerriero in disarmo o l’occhialuto ambiguo, l’incurvato e il compare, la donna della collegiata, il beffardo iettatore ed il buffone grottesco, la dama soluta e le rosine e i santi d’oro, ed assieme a questa piccola folla dalle sembianze cangianti e che rivelavano a tratti profili inquietanti e sconosciuti, schiere e file di ombre che si serravano, ammassandosi e stringendomi davanti alla facciata dell’Église Notre-Dame du Sablon, sulla rue de la Régence, l’assedio di fantasmi, di soffocati sussurri di defunti, che si rinnovava nell’umidità della sera, come in un delirio. Non so come, forse il tocco di campana riecheggiante nel silenzio della realtà, che ricomprese e dissolse in una parentesi illusoria l’evanescente massa mormorante delle parvenze, m’incamminai sulla Régence lucida di pioggia, in direzione della Place Poelaert, sovrastata dalla sagoma scura del Palais de Justice.” A questo punto, Livio, il grande Aristarco ebbe un sussulto, come se qualcosa fosse di colpo traboccato dal suo cuore. Che accadeva? - Io resto silenzioso, Nera, ad ascoltarti, immobile, come un felino sorpreso nel buio della notte dalla bianca luce della luna. - Di nuovo le tue poetiche immagini, Livio, ispirate a menti sognatrici. Che accadeva, dunque, al sapiente Aristarco? Rialzò il capo, che aveva chinato e guardando davanti a sé, l’espressione incrinata come dall’ombra di un dolore, egli riprese il suo racconto: “E poi li ho visti, fermi, in piedi, sotto la pioggerellina fine, ed avvertii una stretta al cuore. Ho riconosciuto, io, ormai, adulto, gli affetti più cari della mia infanzia, quelli che mi avevano più di tutti al mondo teneramente amato ed il cui amore mi aveva sempre sorretto negli anni e nei giorni. Come dice il poeta, di cui riportano le suggestive immagini i sapienti professori? “Mi si apre un abisso nell’anima e un soffio freddo dell’ora di Dio mi sfiora il volto livido. Il tempo! Il passato! Ciò che sono stato e non sarò mai più! Ciò che ho avuto, e non riavrò! I Morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li evoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante il silenzio sbarrato di tutte le porte.” - Chi, dunque, il poeta, Nera? - Fernando Pessoa. - Ah! - Aristarco tacque, mentre io ripercorrevo le tracce della sua sofferente visione; e mi sembrava, Livio, di rivedere le figure di quel mesto passato. Passeggiavo nella Régence, il nero asfalto umido di pioggia: essi erano là ed il mio cuore si avvolse di inospitale nostalgia. - Questo delirio noir, che tu, Nera, riportando in maniera fedele, auspico, le parole colme di tristezza e sgomento perduto del sapientissimo Aristarco, i suoi ricordi, le memorie di dissolti fantasmi, questo delirio che tu mi hai rappresentato ha, dunque, esso, un fine didascalico? - Gotica, infine, Livio, è la messa in scena di un assedio spettrale, una folla schizofrenica di vuote parvenze face à l’Église Notre Dame du Sablon, improbabile certo, che cede il passo alla banale quotidianità di fatti criminosi, nella tinta di giallo della loro narrazione in cronaca. - Ah!
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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La vita di Io altri dall’Io nella coscienza dell’Io
La stesura e pubblicazione del testo del mimo risale al tempo di un mio viaggio a Zurigo, secondo una certa mia consuetudine di affidare le mie riflessioni a questa modalità di espressione letteraria, quando avevo tempo per riflettere, lontano da pensieri professionali o domestici, durante un viaggio di svago, come appunto quello mio a Zurigo, oppure anche di lavoro, in genere in Italia. E il mimo riflette ovviamente le mie letture o gli orientamenti di interesse letterario, comprensivi soprattutto di filosofia, ma anche di psicologia o critica letteraria, del momento. Era una maniera di affrontare questi temi del pensiero, concomitanti con la lettura, nonché la mia diretta composizione di opere letterarie, consistenti in romanzi, racconti e saggi letterari e filosofici, più che altro studi questi ultimi, prima ancora che vere opere di saggistica.
Nell’esaminare quindi il mimo – “Le voci improprie della coscienza. – Sulle tracce della propria identità smarrita e dubbi sulla consistenza di quest’ultima in conseguenza dell’alienazione psichica ed altri discorsi manicomiali.” – seguiremo il metodo di frazionare il testo in componenti successive, che verranno illustrate progressivamente una alla volta, a cominciare dal titolo qui riportato.
Allora, la prima domanda che ci rivolgiamo è la seguente: quali sono le voci della coscienza, e perché le definiamo improprie? L’improprietà delle voci può essere definita in relazione al suo contrario ossia la loro proprietà, ovvero la corrispondenza e l’identità tra le voci e la coscienza del soggetto sorpreso ad ascoltarle.
Ma è proprio così? Ora però ci coglie questo dubbio. Come fare allora per scioglierlo? Andiamoci a leggere il passo dove viene citato l’episodio riferito da Jung.
Nella sua biografia, a quanto pare, Jung riferisce un certo accadimento, a lui occorso. Un giorno, mentre stava dipingendo e scrivendo le sue fantasie, si domandò: “Cosa sto facendo realmente?... Al che una voce in me disse: “È arte”. Fui sorpreso, non mi era mai passato per la testa che le mie fantasie potessero avere a che fare con l’arte. Allora pensai: “Forse il mio inconscio ha dato forma ad una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute”. Sapevo per certo che la voce proveniva da una donna, e vi riconoscevo la voce di una paziente, una intelligente psicopatica che aveva per me un forte transfert…”
La nostra attenzione si concentra sulla riflessione di Jung sull’episodio occorsogli: “Forse il mio inconscio ha dato forma ad una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute.” Nella persona di Jung, diciamo il suo Io cosciente, si era insediata, a quanto egli ritiene, un’altra personalità, un altro Io, non sappiamo se cosciente. Lasciamo in sospeso il giudizio se questo altro Io fosse o meno cosciente, indubbiamente incosciente possiamo pensare, come ogni altra realtà immateriale da noi immaginata – ecco perché Jung parla di Inconscio. Ma, ed è questo il punto, risalendo dall’inconscio alla luce della coscienza, diventa un’altra personalità, acquistando coscienza nella coscienza di Jung – la psicopatica vive in Jung, in cui si è trasferita (transfert), e tocca allo psicoterapeuta, ossia il curatore della sua anima, trasformarla allo stesso modo con cui l’alchimia cercava di mutare il metallo in oro.
Abbandoniamo, adesso, il piano delle nostre speculazioni, in cui volevamo darci una certa aria di serietà scientifica, quanto meno nel tentativo di essere in linea con dottrine più accreditate, quali la psicologia del profondo (inconscio) di Jung, e rientriamo nel nostro piano, dove possiamo indossare maschere clownesche, onde celare la nostra mancanza di studio e di conoscenze, e così parlare di quei temi in maniera tra il serio e il faceto, comunque più faceta che seria.
In questo senso, possiamo riprendere il mimo, ritornando alle sue battute iniziali.
“- Decio Livio, noi non siamo noi. - No? - No. - Traseo Nera, ma se noi non siamo noi, allora di grazia chi siamo? - Siamo “altro” da noi. - Non ho capito, amico, spiegati meglio. - Le voci. - Quali voci? - Quelle che ci raggiungono dal silenzio.”
Se partiamo dalla definizione della coscienza come un teatro interiore, sulla cui scena vengono rappresentate le commedie provenienti dalle immagini della realtà, sotto la direzione di un homunculus, individuabile in una regione della mappa del cervello, possiamo dare una certa concretezza alle ombre illusorie generate dalla coscienza, assegnando loro un certo ruolo di attori e personaggi di una determinata recita fantasma. Ed il mimo che andiamo illustrando, nella sua finzione artistica, costituisce un esempio, con pretese paradigmatiche, dell’esposta teoria.
Una tale interpretazione del cervello come depositario della coscienza è stata messa in discussione da una diversa teoria della mente proposta dal filosofo statunitense Daniel Dennett (1942-2024), che ha contestato la tradizione ereditata da Cartesio di un dualismo tra mente (res cogitans) e cervello (res extensa). Egli ritiene illusioni quegli stati coscienti, che la concezione tradizionale registra come qualità percepite in maniera chiara e distinta da tutti gli altri stati mentali. Dennett ha definito “qualia” queste qualità, che ci fanno presumere di avere “immagini mentali” di un “teatro cartesiano” interiore, accessibili solo a noi stessi, in cui consisterebbe la coscienza.
A questa teoria tradizionale della mente, separata dal cervello, la cui connessione Cartesio aveva identificato nella glandola pineale, Dennett oppone il suo modello della coscienza come “multiple versioni”, che non necessitano di nessuna cabina di regia o centrale di controllo, localizzabile nella mappa del cervello, dove “tutto si riunisce e la coscienza accade”. Figurativamente se uno dovesse entrare nel cervello vedrebbe come un grande insieme di meccanismi e congegni senza mai incontrare il padrone di casa (l’inesistente homunculus). Per Dennett, il cervello è la composizione di numerosi sottosistemi minori, operanti in parallelo, ognuno con le sue specifiche funzioni collegate tra loro. L’insieme di questi sottosistemi elaborano costantemente i segnali in entrata, gli input, e generano uscite, output, dando luogo a un flusso perpetuo di attività mentale che converge su un modello stabile solo in maniera occasionale. Le “versioni multiple” si riferiscono alle diverse interpretazioni degli input sensoriali costantemente promossi dai nostri sottosistemi nervosi.
Sospendiamo ogni ulteriore indagine sui meccanismi del cervello, in primis perché incompetenti ossia ignoranti di neuroscienze, e poi perché a noi interessa più il software (la mente) che l’hardware (il cervello), quale che sia la connessione tra loro, non importando se si tratti di un teatro cartesiano o di un insieme di sottosistemi sottoposti al flusso di input e output, in ogni caso comunque generatore di immagini mentali – generazione questa ultima necessaria ai nostri fini, per il funzionamento del nostro teatrino della coscienza.
Acquisita l’interpretazione della coscienza come teatro interiore, con copione e regia esterni (homunculus?), in ordine al quale gli attori recitano il ruolo di personaggi, esaminiamo il nostro mimo, la scena che essi interpretano. Possiamo dire che i personaggi sono Traseo Nera e Decio Livio, due personaggi comuni a quasi tutta l’intera serie dei mimi di mia produzione, idealmente raccoglibile in un virtuale “Libro dei mimi”. Nel mimo in esame, essi avvertono di essere personaggi altri da sé stessi, pur sapendosi tali, ma interpreti di un altro ruolo. Qui, per chiarire il senso di quanto diciamo, dobbiamo distinguere tra “attori”, altrimenti definibili come “attanti” o “funzioni narrative”, secondo i canoni propri di diverse dottrine di narratologia, dai “personaggi” che gli attori interpretano, rivestiti con le maschere delle loro diverse personalità. In questo senso, Traseo Nera e Decio Livio, svestiti del loro ruolo di personaggi, sono attori che salgono sulla scena per interpretare il copione della commedia, quali interpreti di storie scritte da un autore esterno, che fa anche da regista dell’azione. Ecco, essi interpretano coscientemente questo dramma di essere stati spossessati della loro personalità e di sentirsi estranei a sé stessi, avendo perduto la loro “storia” propria di essere i teatranti Traseo Nera e Decio Livio.
Perché questo accade? Perché si domandano: “noi non siamo noi”? Perché si sentono alienati da sé stessi? Essendo ombre e immagini di una coscienza, sulla cui scena acquistano l’esistenza e vivono le loro storie, se la coscienza si estranea da sé stessa, anche loro vengono a perdere la loro essenza della coscienza perduta.
Ed ecco che il loro discorso scivola sulle “voci”. Da quali lontananze li raggiunge la loro eco? La risposta ci dice: “dal silenzio”. Ma non sembra una risposta molto appropriata, ed in effetti non lo è. Nel dare voce a queste voci, forse, ma senza forse, l’autore era influenzato da un’altra voce, nel contesto dissonante, ma in sé invece molto intonata, quella di Mina interprete di “La voce del silenzio”. Ma questo sbandamento – e chi non sbanda dietro la voce inimitabile di quella cantante e il brano musicale (e i brani musicali) da lei interpretato/i? – viene subito ricondotto in riga da uno degli attanti: “Ma che cosa stai dicendo? Forse hai perduto l’orientamento e non riesci più a tenere un discorso lineare, scosso come sei nel tuo equilibrio, quello psichico, intendo.”
Ecco, lo sbandamento è l’inconscio movimento di deviare verso passioni indistinte dell’animo, non certo congruenti con la chiarezza di un discorso razionale, e già nominare la congruenza è il freddo della ragione che gela la calda passionalità dei sentimenti. Ecco perché nel titolo le voci – il risuonare di quelle voci – vengono definite improprie. Ma esaminiamo meglio le successive proposizioni del mimo.
Il discorso si muove sul presente di quelle figure della coscienza dell’autore, che rievoca nel registro dei ricordi la sua passeggiata per Zurigo, la mente rivolta a Jung e al Burghölzli. Ma perché il nostro autore, l’Io del mio Io, ha la mente rivolta al Burghölzli, la celebre clinica psichiatrica dell'Università di Zurigo, sita sulle colline a sud-est della città svizzera? Hic sunt busillis – In diebus illis, ovvero in quei giorni, la corretta lettura. non in die busillis, come sbagliò il chierico. Quale chierico? Tu! Ecco il pazzo! La fulminea risposta “Tu!” Uno fa una domanda quieta, non ironica e provocatoria, e l’altro gli risponde aggressivo: Tu! Ecco il tema delle malattie nervose quello trattato nell’evocazione di un altro mimo: “Giorni di pioggia”. È in quella direzione che ci indirizzano le battute degli attanti: “- È un po’ di tempo che stiamo dietro a quest’autore [Jung], ottimo amico: un nostro discorrere su storie di malati di nervi, nella “invenzione”, nel senso di “rinvenimento” e “scoperta” del testo: “Giorni di pioggia”. Non è così? - Certo, è così. E come ben vedi, Livio, se non proprio le voci, almeno gli echi, quelli ritornano. - Un flusso di pensieri che ci sovrasta… - ed avvolge.” Ci siamo! Qui convergono le due teorie contrastanti delle scene del teatro cartesiano interiore e dei flussi continui dell’attività mentale (Dennett) – nel mimo definiti: “un flusso di pensieri che ci sovrasta … ed avvolge.” Che cos’è questa sovrastante ed avvolgente corrente di pensieri? La coscienza dell’autore del mimo, secondo la teoria della coscienza di Dennett, un’entità emergente da meccanismi fisici, chimici e biologici, che determinano l’attività del nostro cervello, ma invisibile e difficilmente localizzabile. Nel mimo, la corrente di flussi che investe il cervello, mettendone in opera i meccanismi dei suoi sottosistemi, genera le fantasie nella mente dell’autore, riprodotte nelle immagini del suo teatro interiore (la coscienza).
Scopro ora che la coscienza non era, come credevo, soltanto la mia scena interiore, calcata dai personaggi delle mie fantasie, che rappresentavano il dramma delle loro storie, ma anche il flusso generato da meccanismi fisici, biologici e chimici, che in ogni caso concorrono a formare quelle immagini in movimento. È come dire che io non sono l’autore e il regista dei miei fantasmi, ma che essi mi investono autonomamente dall’esterno. Ma io avevo mai dubitato di questa esterna invasione? Non mi sembra. Diciamo anzi che io, sulla scia di Jung, e forse andando oltre, non so, ritengo che questi spiriti esterni diventino personalità viventi nella mia coscienza. È questo il tema centrale del mimo, l’improprietà delle voci della coscienza, nel loro non essere proprie dell’Io della coscienza, ma proprie di altri Io, che si trasferiscono (transfert) nella coscienza dell’Io, come personalità autonome. In questo, il ricordo riferito da Jung, nella sua autobiografia, sulla voce della psicopatica, che veniva ad acquistare una sua autonoma personalità nella sua coscienza, è abbastanza preciso: “Forse il mio inconscio ha dato forma a una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute”.
Ecco, forse nel tempo in cui elaboravo il testo del mimo, vivevo questa condizione: un altro spirito, un Io altro dal mio Io, si è venuto ad insediare nella mia coscienza con una sua personalità autonoma. E quindi dovevo dargli voce esprimendomi in una mia forma artistica narrativa, per dare vita ad un nuovo testo: “Giorni di pioggia”, che poi esamineremo. Intanto, devo aggiungere che forse è stata la spontanea stesura di quel testo a rivelarmi la presenza di quello spirito estraneo insediatosi nella mia coscienza, generatore di sé stesso come personaggio e di altre figure ruotanti intorno a lui.
Ovviamente, si può obiettare che ogni narratore fantastica storie con personaggi, di cui trae spunto dalla vita reale. Certo, ma il mio interesse era proprio quello di cercare di conoscere, sperimentandolo nell’arte della narrazione, il processo di formazione di queste figure generate dall’inconscio, come insegna Jung.
Ora, dopo il riferimento a “Giorni di pioggia”, uno degli attanti tenta di distrarre il discorso dal tema psicologico, chiamiamolo così, per spostarlo sulla vita reale, attirando l’attenzione dell’amico su più concrete visioni, quelle riguardanti la bellezza femminile. E qui il riferimento platonico, nell’occasione il “Fedro”, è d’obbligo, e da questo riferimento scaturisce l’osservazione dell’attante sulla causa del loro stato di alienazione, vale a dire uno stato di innamoramento. “- Definisci la bellezza come vuoi, platonico Nera; intanto perdersi nella sua scia è forse il nostro modo di alienarci, divenire altro da noi, come tu avevi esordito in questo nostro chiacchierare, quando abbiamo lasciato i giardini della Spielplatz Blatterwiese. Intendevi dire questo, forse?” Ma viene corretto dall’amico che allude a un diverso piano del discorso: “- Non proprio, Decio Livio, anzi per niente; seguivo tutto un altro piano del discorso. - E quale, allora, amico, smarrito tra le nuvole? - In verità, nel cielo brilla il sole, almeno oggi; comunque sul nostro alienarci e perdere l’identità di noi stessi altro era il mio intendere e domandare.” Semplificando, diciamo che il discorso viene spostato dal tema dell’amore a quello dell’arte. Quest’ultimo genera le osservazioni sulla realtà della finzione, nel cui ambito è possibile distinguere tra vero e falso, nello stesso modo di quello in cui si distinguono nella realtà della vita, quella vera, non finta.
Qui si rende necessaria – anche se non è proprio necessaria – una digressione sulla descrizione platonica della biga alata, che rimandiamo al Post Scriptum, per non perdere il filo del commento progressivo alle proposizioni del testo del mimo.
Forse non mi era ancora chiaro quello che volevo dire sulla distinzione tra vero, falso e finto, o comunque avevo l’urgenza - e vediamo subito da che cosa era dettata questa urgenza - di procedere oltre, e così il discorso che attraversava le battute degli attanti è risultato poco chiaro e ingarbugliato. E gli attanti ne sono venuti fuori, con il ricorso a Jung e alla voce della psicopatica, e quindi al transfert, con una nuova allusione al tema dell’amore. Ecco, ora viene in chiaro che la mia condizione di allora non era quella dell’innamoramento – ed anche qui rinviamo ad un secondo Post Scriptum una relativa digressione sull’incantamento – ma di un transfert improprio, narrato con le batture degli attanti, e la figurazione del loro lamentarsi, e spiegheremo una volta anche questa storia del lamento delle creature nei confronti del loro signore. – Una preghiera di essere sollevati dalla loro condizione creaturale? E poi la beatitudine? Vedremo in proposito, magari aiutandoci con i testi di Aristotele e Agostino.
“- Allora, nel nostro caso, tragico e comico a un tempo, l’artista, signore e creatore delle nostre inconsistenti ed effimere vite, quando una voce risuona nel silenzio della sua coscienza, sa bene a quale identità appartiene, nevvero? - Questo velleitario imitatore di ben altri grandi artisti, certo. - Poi, siccome è in ogni caso anche lui un “fingitore”, creatore di “finzioni” artistiche, estranea da sé le voci della sua coscienza, nel senso che le esteriorizza, attraverso il nostro parlare, questo discorrere tra me e te, Decio Livio. Non è così? - Sì, è così. - Pertanto quelle voci, che non appartengono al nostro artista, risuonanti nella sua coscienza da un “altrove”, di cui non sappiamo, ma che sospettiamo esista, non sono affatto “sue” e quindi neppure “nostre”, ammesso il nostro stato di creature ipostatizzate, rappresentazioni “figurate” delle sue emozioni ed interiori sentimenti. Non sembra anche a te che la situazione stia in questo modo, vero? - Sì, mi sembra. - Quindi, in questo senso, come conseguenza dello smarrimento della sua anima in sogni altrui, anche noi, Decio Livio, finiamo per perdere la nostra vera identità, nevvero? - È vero. - Noi, dèmoni della sua coscienza, veniamo ad alienarci nell’identità di altri sconosciuti dèmoni, estranei alla nostra esistenza, pur restando, tu, Decio Livio, ed io, Traseo Nera, integri nella nostra struttura ontologica, se così si può dire. - Ma, allora, Nera, noi deprivati della nostra identità, chi siamo veramente?”
Ecco uno dei punti nodali del testo, dove il nodo viene sciolto con il riferimento alle dottrine gnostiche – e qui occorre un ennesimo rinvio, quello ad uno dei miei primi mimi. Intanto, questa è la risposta: - Anime perdute nella coscienza folle di un dio impazzito, che ha smarrito la sapienza, Sofia, e parla con le voci dell’alienazione mentale. - Alla stessa guisa della psicopatica intelligente, la cui voce risuonò nella coscienza dell’illustre medico, attuale spettro dell’inconscio di questa graziosa cittadina, allora pur sempre un uomo con tutta la sua sensibilità e come tale soggetto al contro transfert. - Adesso, non esageriamo. - “Amor che a nullo amato amar perdona.” - Qui amant ipsi sibi somnia fingunt. -- Gli innamorati creano (fingunt, “fingono”) da sé i propri sogni.” Il motto latino è di Virgilio, “Bucoliche”.
Da ultimo, immagino che non vi siano spiegazioni ulteriori da dare sul sottotitolo di questo commento, a completamento del concetto di “alienazione”, ovvero l’alienarsi dell’Io della coscienza dell’uno in quella dell’altro, ovvero il transfert dell’alienato, che può dar luogo al contro transfert. Intendiamoci, sono stati psichici pericolosi questi trasferimenti (transfert) di anime in altre anime, ovvero falsi innamoramenti, sia nella finzione dell’arte che nella realtà della vita, non rispecchiano la verità dell’amore. E qual è questa verità? Rinviamo la risposta alla lettura del “Fedro” e del “Simposio”.
E siccome siamo nella Zurigo di Jung, non possiamo non accennare al caso di Sabina Spielrein, una paziente da lui curata e con cui intrattenne una relazione d’amore. Una volta guarita, la donna si laureò e divenne anche lei a sua volta una psicanalista. La sua storia è stata raccontata in un saggio dello psicanalista Aldo Carotenuto: “ Diario di una segreta simmetria”.
LA FOLLA DEGLI SPIRITI
Vorrei aggiungere ancora qualche spiegazione sulla linearità logica nella lettura del sottotitolo di “Alienazione”: “La vita di Io altri dall’Io nella coscienza dell’Io”. Gli Io altri poteva essere scritto anche con il trattino: Io-altri; in tal modo si capiva subito che questi Io, diversi dall’Io proprio della coscienza, sono appunto una pluralità di Io.
Potevo anche scrivere: “La vita degli Io altri…”; in tal caso però si perdeva quella sfumatura di singolarità, che la preposizione semplice mantiene rispetto a quella articolata. Una tale sfumatura fa leggere l’espressione in questo modo: “La vita di ogni Io diverso dall’Io…” È come dire che un solo Io alla volta può venire ad insediarsi nella coscienza di un altro Io, e questa prevalenza dell’insediamento singolare può essere meglio intesa laddove si traduca Io con Personalità. In tal caso, una diversa personalità dell’uno penetra e quasi si sostituisce nella coscienza di un altro, estraniandolo e stravolgendone la personalità. Ora è chiaro che la coscienza dell’Io rimane turbata, avvertendo la presenza in sé di un altro spirito, e ancora di più se lo spirito è più d’uno, e così la sua turbativa aumenta in crescendo con l’aumentare della turba degli spiriti, che si insediano nella sua coscienza, per cui si rende necessaria una liberazione.
“Nel 1916, in una condizione di profonda crisi personale e d'intensa esperienza visionaria, Carl Gustav Jung è visitato da "spiriti" di ritorno da Gerusalemme. "Cominciò con uno stato di inquietudine dentro di me, ma non sapevo che cosa significasse, o che cosa si volesse da me. C'era intorno a me un'atmosfera sinistra: avevo la strana sensazione che l'aria fosse pregna di entità spettrali. (...) . Gli spiriti, provenienti dalla "terra dei morti", sono "le voci dell'Inesplicabile, dell'Irrisolto, dell'Irredento". Gli straordinari "Sette sermoni ai morti" con cui Jung cerca di portarli a consapevolezza e di placarli, scritti in una condizione prossima all'esperienza medianica, sono a un tempo una Teogonia, una Cosmogonia, una Psicogenesi, in un lucidissimo e controllatissimo "mythologein". Pagine complesse e ricchissime, imbarazzanti per gli stessi cultori di Jung, qui proposte attraverso un puntuale commento filosofico e teologico, sempre in rigorosa aderenza al pensiero di Jung.”
https://books.google.it/books/about/Sette_Sermoni_AI_Morti.
L’ASSEDIO DEI FANTASMI
Questa è l’esperienza di Jung, e devo dire che anche me, anni fa, è capitato di essere assediato da una turba di spiriti, un’esperienza senza dubbio meno mistica di quella di Jung. In quell’occasione anch’io mi liberai di quegli esseri spettrali, dandone conto in uno scritto che ho già proposto altre volte sul blog. Forse ero stato suggestionato dalle mie letture dei testi di Jung, per cui quella mia esperienza può sembrare più un’invenzione letteraria di fantasia che una vera esperienza di vita vissuta.
Lo scritto fa parte di una narrazione in forma di mimo, di cui costituisce un episodio, ma questo non toglie la veridicità a quanto descritto nel racconto di finzione
“Storia di un fallito assedio di fantasmi davanti all’Église Notre-Dame du Sablon (Onze-Lieve-Vrouw ten Zavel) sulla rue de la Régence di Bruxelles”
[…] Ripresosi poi il magnifico Aristarco da quel suo repentino smarrimento del cuore, così continuò: “Mi ritrovai a scendere per via dei Carmelitani Scalzi, la rue des Petits Carmes volevo dire, quand’ecco, giunto all’altezza dell’impressionante facciata della caserma “Principe Alberto”, la luce del giorno cominciò a cadere (occaso) ed io nell’incerto grigiore del crepuscolo… bum, bum! bum, bum, bum! bum, bum! bum, bum, bum!... - Eh? - Bum, bum! bum, bum, bum! - Nera! - Scusami, Livio, ma era d’uopo ripeterti fedelmente il suono onomatopeico, con cui l’inimitabile Aristarco tentò di rendermi immediatamente percepibile, e vi riuscì, il cadenzato passo dell’oca delle file dei soldati del Reggimento Granatieri, che nell’estate del 1914 partirono da quel luogo, per andare a battersi sul campo d’onore, in difesa della patria. “Bum, bum! bum, bum, bum! Battaglioni di fantasmi attraversavano la strada ed io tra loro, nell’incerta luce cadente del giorno. Così mi diceva Aristarco, che poi continuò il suo racconto: “Io ero smarrito in quella visione, che consideravo chiaramente una mia allucinata fantasia; ricordo, infatti, che raggiunsi il marciapiedi di fronte con una giravolta improvvisa, per recuperare con uno sguardo d’insieme l’intera veduta della Karmelietenstraat. In tale occasione, una passante, una donna alta e magra, giovane, mi lanciò un’occhiata perplessa, pensando che di colpo avessi voluto evitare d’incrociarla, non essendosi resa conto del vero motivo di quel mio stranito comportamento nella strada deserta. Capisce, mio giovane amico?” Annuii in silenzio. Aristarco riprese: “Fu allora che ebbe inizio il mio incubo, credo.” Io mi resi più attento al suo narrare, Livio. - Ed anch’io, Nera, mi concentro nell’ascoltarti, come te allora. –“Uno stridulo grido, che sapevo inudibile ad altri orecchi, mi raggiunse in quella incerta luce grigia del giorno ormai caduto (occaso): era il grido nevrastenico della grande fraternità! Oh, avete mai sentito risuonare un tal grido nevrastenico?” Aristarco compì una pausa, guardando fisso davanti a sé, poi riprese a parlare, rivolgendosi direttamente a me: “Io capisco, mio diligente ascoltatore, e le sono grato di questa sua cura, della perplessità che questa mia ultima espressione suscita nel suo animo, la stessa perplessità della solitaria vichinga, che si trovò a passare, in quell’occasione, nella luce incerta del giorno alla fine, il crepuscolo nella deserta Karmelietenstraat; ma, oh!, straziava, mi creda, il grido della grande fraternità, che ferisce soltanto l’orecchio familiare. Che, dunque, la grande fraternità? Una voce di donna, indubbiamente, uno strillo graffiante, roco, isterico, per riportare alla lacerazione del sangue la rabbia scandita in proposizioni corrodenti l’umore e la coscienza anche del più equo e più giusto della parentela degli affini. Oh, tacque alfine il grido di collera mordente della grande fraternità! Ed io restai abbandonato nelle ombre della sera, nel silenzio solitario della Karmelienstraat.
Quindi, mi ritrovai a scendere la scalinata, dopo essere passato al buio sotto l’arco, raggiungendo i giardini della Kleine Zavel (le petit Sablon), il cuore angosciato e sgomento. A sorpresa, nel silenzio della sera, risuonò un tocco di campana: era l’invito al ritiro e alla preghiera dell’Église Notre-Dame du Sablon. Cedetti ad un sentimento di pietà, il senso di commozione suscitato dalla collerica implorazione della grande fraternità, e divenni così preda dell’assalto da parte di un’onda mormorante di fantasmi. A stento distinguevo sbiadite figure, dai tratti perversi, come il guerriero in disarmo o l’occhialuto ambiguo, l’incurvato e il compare, la donna della collegiata, il beffardo iettatore ed il buffone grottesco, la dama soluta e le rosine e i santi d’oro, ed assieme a questa piccola folla dalle sembianze cangianti e che rivelavano a tratti profili inquietanti e sconosciuti, schiere e file di ombre che si serravano, ammassandosi e stringendomi davanti alla facciata dell’Église Notre-Dame du Sablon, sulla rue de la Régence, l’assedio di fantasmi, di soffocati sussurri di defunti, che si rinnovava nell’umidità della sera, come in un delirio. Non so come, forse il tocco di campana riecheggiante nel silenzio della realtà, che ricomprese e dissolse in una parentesi illusoria l’evanescente massa mormorante delle parvenze, m’incamminai sulla Régence lucida di pioggia, in direzione della Place Poelaert, sovrastata dalla sagoma scura del Palais de Justice.” A questo punto, Livio, il grande Aristarco ebbe un sussulto, come se qualcosa fosse di colpo traboccato dal suo cuore. Che accadeva? - Io resto silenzioso, Nera, ad ascoltarti, immobile, come un felino sorpreso nel buio della notte dalla bianca luce della luna. - Di nuovo le tue poetiche immagini, Livio, ispirate a menti sognatrici. Che accadeva, dunque, al sapiente Aristarco? Rialzò il capo, che aveva chinato e guardando davanti a sé, l’espressione incrinata come dall’ombra di un dolore, egli riprese il suo racconto: “E poi li ho visti, fermi, in piedi, sotto la pioggerellina fine, ed avvertii una stretta al cuore. Ho riconosciuto, io, ormai, adulto, gli affetti più cari della mia infanzia, quelli che mi avevano più di tutti al mondo teneramente amato ed il cui amore mi aveva sempre sorretto negli anni e nei giorni. Come dice il poeta, di cui riportano le suggestive immagini i sapienti professori? “Mi si apre un abisso nell’anima e un soffio freddo dell’ora di Dio mi sfiora il volto livido. Il tempo! Il passato! Ciò che sono stato e non sarò mai più! Ciò che ho avuto, e non riavrò! I Morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li evoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante il silenzio sbarrato di tutte le porte.” - Chi, dunque, il poeta, Nera? - Fernando Pessoa. - Ah! - Aristarco tacque, mentre io ripercorrevo le tracce della sua sofferente visione; e mi sembrava, Livio, di rivedere le figure di quel mesto passato. Passeggiavo nella Régence, il nero asfalto umido di pioggia: essi erano là ed il mio cuore si avvolse di inospitale nostalgia. - Questo delirio noir, che tu, Nera, riportando in maniera fedele, auspico, le parole colme di tristezza e sgomento perduto del sapientissimo Aristarco, i suoi ricordi, le memorie di dissolti fantasmi, questo delirio che tu mi hai rappresentato ha, dunque, esso, un fine didascalico? - Gotica, infine, Livio, è la messa in scena di un assedio spettrale, una folla schizofrenica di vuote parvenze face à l’Église Notre Dame du Sablon, improbabile certo, che cede il passo alla banale quotidianità di fatti criminosi, nella tinta di giallo della loro narrazione in cronaca. - Ah!
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