VIRTUALITÀ DELL'IMPERATIVO CATEGORICO Dubbi sulla moralità dell’azione di salvataggio di un passeggero in pericolo
Il convoglio della linea “B” della metro, proveniente da “Termini”, viaggia in direzione “Laurentina” e si ferma alla stazione “Circo Massimo”. Sulla carrozza già abbastanza affollata salgono altri passeggeri, poi al segnale di partenza, quando le porte si stanno per chiudere, un ultimo affrettato viaggiatore corre sulla banchina e tenta di salire, ma rimane incastrato tra le porte chiuse, mentre il convoglio lentamente riparte. L’uomo cade, mentre il treno comincia ad acquistare velocità. Tutti nello scompartimento si agitano, si sentono delle grida, i più vicini tentano di forzare l’apertura delle porte automatiche con le mani, un giovane alza la mano verso la maniglia del freno di emergenza, posto sopra la sua testa, ma rimane indeciso. Dal centro dello scompartimento un anonimo passeggero urla un comando: “Abbassa! Abbassa!” Il giovane stringe la maniglia e la tira giù. Il treno si va a fermare con uno stridore sulle rotaie a pochi metri dal termine della banchina, le porte si aprono, il malcapitato si rialza, nello scompartimento si tira un sospiro di sollievo. Poco dopo accorre una guardia giurata, in servizio alla stazione, per verificare l’accaduto, qualche minuto di attesa, infine il treno riparte regolarmente. Che cosa è accaduto? Da un punto di vista generale della cittadinanza, l’episodio risulterà un contrattempo, criticato dai più come il solito ingiustificato disservizio pubblico. E da un punto di vista morale, la nostra ragione come giudica l’ordine urlato di tirare giù la maniglia del freno di emergenza? Un imperativo categorico? La risposta più immediata è affermativa, senza alcun dubbio, soprattutto riflettendo sull’aggettivo, “categorico”, che nel linguaggio comune indica risolutezza ed obbligo di obbedienza assoluta, senza possibilità di discussione. E nel linguaggio filosofico? L’espressione fu coniata da Kant, nella sua “Critica della ragion pratica”, dove però conserva un suo significato ancora più particolare. Noi sappiamo che il filosofo, nella “Analitica trascendentale” della “Critica della ragion pura”, ha delineato una tavola delle “categorie”, strutture logiche del pensiero, che servono all’intelletto per unificare i dati sensibili ricavati dall’esperienza, una funzione questa necessaria per avere conoscenza degli oggetti esteriori alla nostra coscienza. Tra queste categorie, egli fa riferimento, per la sua teoria dell’imperativo categorico, alla classe modale, ossia alla “possibilità”, “realtà”, “necessità”. Le prime due modalità sono proprie dell’imperativo ipotetico, la terza di quello categorico. Seguiamo il ragionamento attraverso cui Kant arriva a formulare la sua dottrina morale. Egli osserva: “Ogni cosa di natura agisce secondo leggi. Solo un essere razionale ha la capacità di agire secondo la rappresentazioni delle leggi, cioè secondo principi ovvero con una volontà. Poiché, per desumere le azioni dalle leggi, si richiede la ragione, la volontà altro non è che la ragion pratica.”
Quello che accade in natura segue leggi necessarie, mentre gli avvenimenti umani non sono soggetti alla necessità, ma ad una libera scelta, espressione di una volontà che può essere conforme o meno ad una legge morale, vale a dire quello che la ragione riconosce necessario nell’azione umana come buono, come dire una volontà buona. Dice Kant: “È impossibile pensare nel mondo, e in genere anche fuori di esso, una cosa che possa considerarsi come buona senza limitazioni, salvo, unicamente la volontà buona.” Ma quando una volontà deve considerarsi buona? “La volontà buona è buona, non per ciò che produce o costruisce, non per la sua attitudine a raggiungere un qualsiasi scopo prestabilito, bensì per il volere come tale… in questa idea del valore assoluto e della volontà pura e semplice… non entra in gioco nessuna valutazione di una qualsiasi utilità.” Qui, si evidenzia la preoccupazione di Kant che la ragion pratica non sia contaminata da nessun dato empirico, vale a dire sia pura, una ragion pura pratica, come in campo teoretico si ha una ragion pura speculativa. Ecco allora che un’azione è moralmente buona, quando adempie soltanto a questo suo dovere di realizzare il bene assoluto, ossia quello scevro da ogni relazione con dati empirici, i fini particolari di chi agisce. Per chiarire il concetto di volontà buona, Kant ricorre al concetto di dovere, seguendo quel suo filo del discorso, che ascrive alla natura la necessità di quello che accade ed alla volontà dell’uomo gli effetti della sua azione. A suo modo di vedere, infatti, se la filosofia naturale ha il compito di definire le leggi, in base a cui tutto avviene, la filosofia morale ha quello di definire le leggi secondo le quali tutto “deve” avvenire. “Dovere è la necessità di un’azione che va compiuta per rispetto della legge (morale)”. Se dunque un’azione viene fatta soltanto per dovere, escludendo qualsiasi altro oggetto alla volontà, a questa non rimane null’altro che possa determinarla se non la legge, e il puro rispetto del soggetto per essa acquista il valore di una massima, che va seguita anche contro le proprie inclinazioni particolari. In conclusione, nel dover tenere un comportamento in conformità alla legge, “io non devo mai comportarmi in modo tale da non poter volere che la mia massima divenga una legge generale.” Solo in questo modo, il principio, a cui ispiro la mia azione, risulterà sganciato da ogni interesse particolare. La legge contiene quindi un comando da eseguire, tale comando è nella sua forma un imperativo, e gli imperativi, come distingue Kant, comandano o ipoteticamente o categoricamente. Possiamo adesso riprendere il discorso su questi imperativi, secondo l’impostazione che ne viene data dall’autore: “Poiché ogni legge pratica ci presenta una possibile azione come buona… se l’azione si presenta buona solo per altro, in quanto mezzo, l’imperativo è ipotetico, mentre se è rappresentata come buona in sé… l’imperativo è categorico.” Dopo questa distinzione, Kant chiarisce: “L’imperativo ipotetico dice, dunque, soltanto che l’azione è buona per una qualche finalità, possibile o reale. Nel primo caso, esso è un principio problematicamente pratico, nel secondo assertoriamente pratico. L’imperativo categorico, che proclama oggettivamente necessaria per sé l’azione, senza riferimento a una qualche finalità, cioè anche senza un qualche altro scopo, vale come principio apoditticamente pratico.”
Le modalità illustrate dell’azione, rispecchiano le categorie della possibilità, realtà, necessità, che appunto corrispondono ai giudizi problematici, assertori, apodittici. Se il suggerimento all’azione contiene la necessità del raggiungimento di un qualche fine possibile, l’imperativo può definirsi di abilità: “Le prescrizioni per un medico che vuol guarire, su base scientifica, il suo malato, e per un avvelenatore, che vuole ucciderlo con sicurezza, in questo senso hanno lo stesso valore: entrambe servono allo scopo perfettamente.” Secondo l’esempio fatto, in questo imperativo, osserva Kant, non è questione se lo scopo sia ragionevole o buono, ma solo come fare per realizzarlo. Segue l’esame dello scopo che si presenta come reale in ogni essere razionale, quello che è un obiettivo di tutti ovvero il raggiungimento della felicità: “L’imperativo ipotetico che rappresenta la necessità pratica di un’azione come mezzo per promuovere la felicità è assertorio.” Qui la finalità non è possibile, ma reale, in quanto è da presumersi che questo fine appartenga ad ogni essere razionale, e “saggezza” può definirsi la scelta dei mezzi, per raggiungere un tale scopo, pertanto non assoluto, ma relativo a quello che è il proprio benessere. Nella “Critica della ragion pratica”, Kant include la dottrina della felicità di Epicuro tra quelle che prevedono una finalità materiale, quindi i suoi precetti non possono definirsi morali, ma più semplicemente pragmatici, perché l’imperativo contenuto in essi non è categorico, ma soltanto assertorio. Categorico invece è l’imperativo che comanda un comportamento come immediato, vale a dire non mediato dal raggiungimento di un fine: “Esso non concerne la materia dell’azione e ciò che da essa può risultare, bensì la forma e il principio a cui l’azione ubbidisce; e la bontà essenziale dell’azione stessa consiste nell’intenzione, qualunque ne sia poi il risultato.” Lasciando da parte ogni possibile commento su quest’ultima proposizione, osserviamo soltanto che in base alla sua definizione, non è possibile formulare un esempio di imperativo categorico, come lo stesso Kant riconosce: “Non dobbiamo mai desumere da un esempio, e cioè empiricamente, se in genere vi sia un imperativo siffatto, bensì preoccuparci che tutti gli imperativi, che sembrano categorici, potrebbero tuttavia essere occultamente ipotetici.” Ora possiamo tornare alla linea “B” della metropolitana di Roma, alla stazione “Circo Massimo”, dove un giovane ha tirato giù la maniglia del freno di emergenza, per salvare la vita di un passeggero in pericolo. Alla luce della dottrina di Kant, rimane il dubbio se quell’azione sia morale o soltanto pragmatica. Il giovane ha obbedito ad un imperativo categorico o soltanto al comando urlato dall’anonimo passeggero, al centro del vagone, che gli ha sciolto ogni dubbio? Si è tentati di rispondere che forse l’imperativo categorico di Kant non sia tanto categorico, ma ipotetico, nel senso di una semplice ipotesi del filosofo di Königsberg, che peraltro non si meraviglierebbe affatto di una tale obiezione sull’esistenza del suo imperativo. Infatti, egli così si esprime: “Noi dobbiamo, dunque, indagare la possibilità di un imperativo categorico interamente a priori, poiché in questo caso, noi non disponiamo del vantaggio di trovarne, data la realtà dell’esperienza, sicché scoprirne la possibilità non serve a stabilire che c’è, ma soltanto a spiegarlo.” Data questa considerazione, è lecito affermare che l’esistenza, e quindi l’ammissibilità dell’imperativo categorico, non è affatto reale, ma soltanto virtuale?
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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VIRTUALITÀ DELL'IMPERATIVO CATEGORICO
Dubbi sulla moralità dell’azione di salvataggio di un passeggero in pericolo
Il convoglio della linea “B” della metro, proveniente da “Termini”, viaggia in direzione “Laurentina” e si ferma alla stazione “Circo Massimo”. Sulla carrozza già abbastanza affollata salgono altri passeggeri, poi al segnale di partenza, quando le porte si stanno per chiudere, un ultimo affrettato viaggiatore corre sulla banchina e tenta di salire, ma rimane incastrato tra le porte chiuse, mentre il convoglio lentamente riparte. L’uomo cade, mentre il treno comincia ad acquistare velocità. Tutti nello scompartimento si agitano, si sentono delle grida, i più vicini tentano di forzare l’apertura delle porte automatiche con le mani, un giovane alza la mano verso la maniglia del freno di emergenza, posto sopra la sua testa, ma rimane indeciso. Dal centro dello scompartimento un anonimo passeggero urla un comando: “Abbassa! Abbassa!” Il giovane stringe la maniglia e la tira giù. Il treno si va a fermare con uno stridore sulle rotaie a pochi metri dal termine della banchina, le porte si aprono, il malcapitato si rialza, nello scompartimento si tira un sospiro di sollievo. Poco dopo accorre una guardia giurata, in servizio alla stazione, per verificare l’accaduto, qualche minuto di attesa, infine il treno riparte regolarmente. Che cosa è accaduto?
Da un punto di vista generale della cittadinanza, l’episodio risulterà un contrattempo, criticato dai più come il solito ingiustificato disservizio pubblico. E da un punto di vista morale, la nostra ragione come giudica l’ordine urlato di tirare giù la maniglia del freno di emergenza? Un imperativo categorico?
La risposta più immediata è affermativa, senza alcun dubbio, soprattutto riflettendo sull’aggettivo, “categorico”, che nel linguaggio comune indica risolutezza ed obbligo di obbedienza assoluta, senza possibilità di discussione. E nel linguaggio filosofico?
L’espressione fu coniata da Kant, nella sua “Critica della ragion pratica”, dove però conserva un suo significato ancora più particolare. Noi sappiamo che il filosofo, nella “Analitica trascendentale” della “Critica della ragion pura”, ha delineato una tavola delle “categorie”, strutture logiche del pensiero, che servono all’intelletto per unificare i dati sensibili ricavati dall’esperienza, una funzione questa necessaria per avere conoscenza degli oggetti esteriori alla nostra coscienza. Tra queste categorie, egli fa riferimento, per la sua teoria dell’imperativo categorico, alla classe modale, ossia alla “possibilità”, “realtà”, “necessità”. Le prime due modalità sono proprie dell’imperativo ipotetico, la terza di quello categorico.
Seguiamo il ragionamento attraverso cui Kant arriva a formulare la sua dottrina morale. Egli osserva: “Ogni cosa di natura agisce secondo leggi. Solo un essere razionale ha la capacità di agire secondo la rappresentazioni delle leggi, cioè secondo principi ovvero con una volontà. Poiché, per desumere le azioni dalle leggi, si richiede la ragione, la volontà altro non è che la ragion pratica.”
Quello che accade in natura segue leggi necessarie, mentre gli avvenimenti umani non sono soggetti alla necessità, ma ad una libera scelta, espressione di una volontà che può essere conforme o meno ad una legge morale, vale a dire quello che la ragione riconosce necessario nell’azione umana come buono, come dire una volontà buona. Dice Kant: “È impossibile pensare nel mondo, e in genere anche fuori di esso, una cosa che possa considerarsi come buona senza limitazioni, salvo, unicamente la volontà buona.” Ma quando una volontà deve considerarsi buona?
“La volontà buona è buona, non per ciò che produce o costruisce, non per la sua attitudine a raggiungere un qualsiasi scopo prestabilito, bensì per il volere come tale… in questa idea del valore assoluto e della volontà pura e semplice… non entra in gioco nessuna valutazione di una qualsiasi utilità.”
Qui, si evidenzia la preoccupazione di Kant che la ragion pratica non sia contaminata da nessun dato empirico, vale a dire sia pura, una ragion pura pratica, come in campo teoretico si ha una ragion pura speculativa. Ecco allora che un’azione è moralmente buona, quando adempie soltanto a questo suo dovere di realizzare il bene assoluto, ossia quello scevro da ogni relazione con dati empirici, i fini particolari di chi agisce. Per chiarire il concetto di volontà buona, Kant ricorre al concetto di dovere, seguendo quel suo filo del discorso, che ascrive alla natura la necessità di quello che accade ed alla volontà dell’uomo gli effetti della sua azione. A suo modo di vedere, infatti, se la filosofia naturale ha il compito di definire le leggi, in base a cui tutto avviene, la filosofia morale ha quello di definire le leggi secondo le quali tutto “deve” avvenire. “Dovere è la necessità di un’azione che va compiuta per rispetto della legge (morale)”. Se dunque un’azione viene fatta soltanto per dovere, escludendo qualsiasi altro oggetto alla volontà, a questa non rimane null’altro che possa determinarla se non la legge, e il puro rispetto del soggetto per essa acquista il valore di una massima, che va seguita anche contro le proprie inclinazioni particolari. In conclusione, nel dover tenere un comportamento in conformità alla legge, “io non devo mai comportarmi in modo tale da non poter volere che la mia massima divenga una legge generale.” Solo in questo modo, il principio, a cui ispiro la mia azione, risulterà sganciato da ogni interesse particolare. La legge contiene quindi un comando da eseguire, tale comando è nella sua forma un imperativo, e gli imperativi, come distingue Kant, comandano o ipoteticamente o categoricamente.
Possiamo adesso riprendere il discorso su questi imperativi, secondo l’impostazione che ne viene data dall’autore: “Poiché ogni legge pratica ci presenta una possibile azione come buona… se l’azione si presenta buona solo per altro, in quanto mezzo, l’imperativo è ipotetico, mentre se è rappresentata come buona in sé… l’imperativo è categorico.” Dopo questa distinzione, Kant chiarisce: “L’imperativo ipotetico dice, dunque, soltanto che l’azione è buona per una qualche finalità, possibile o reale. Nel primo caso, esso è un principio problematicamente pratico, nel secondo assertoriamente pratico. L’imperativo categorico, che proclama oggettivamente necessaria per sé l’azione, senza riferimento a una qualche finalità, cioè anche senza un qualche altro scopo, vale come principio apoditticamente pratico.”
Le modalità illustrate dell’azione, rispecchiano le categorie della possibilità, realtà, necessità, che appunto corrispondono ai giudizi problematici, assertori, apodittici.
Se il suggerimento all’azione contiene la necessità del raggiungimento di un qualche fine possibile, l’imperativo può definirsi di abilità: “Le prescrizioni per un medico che vuol guarire, su base scientifica, il suo malato, e per un avvelenatore, che vuole ucciderlo con sicurezza, in questo senso hanno lo stesso valore: entrambe servono allo scopo perfettamente.” Secondo l’esempio fatto, in questo imperativo, osserva Kant, non è questione se lo scopo sia ragionevole o buono, ma solo come fare per realizzarlo.
Segue l’esame dello scopo che si presenta come reale in ogni essere razionale, quello che è un obiettivo di tutti ovvero il raggiungimento della felicità: “L’imperativo ipotetico che rappresenta la necessità pratica di un’azione come mezzo per promuovere la felicità è assertorio.” Qui la finalità non è possibile, ma reale, in quanto è da presumersi che questo fine appartenga ad ogni essere razionale, e “saggezza” può definirsi la scelta dei mezzi, per raggiungere un tale scopo, pertanto non assoluto, ma relativo a quello che è il proprio benessere. Nella “Critica della ragion pratica”, Kant include la dottrina della felicità di Epicuro tra quelle che prevedono una finalità materiale, quindi i suoi precetti non possono definirsi morali, ma più semplicemente pragmatici, perché l’imperativo contenuto in essi non è categorico, ma soltanto assertorio.
Categorico invece è l’imperativo che comanda un comportamento come immediato, vale a dire non mediato dal raggiungimento di un fine: “Esso non concerne la materia dell’azione e ciò che da essa può risultare, bensì la forma e il principio a cui l’azione ubbidisce; e la bontà essenziale dell’azione stessa consiste nell’intenzione, qualunque ne sia poi il risultato.” Lasciando da parte ogni possibile commento su quest’ultima proposizione, osserviamo soltanto che in base alla sua definizione, non è possibile formulare un esempio di imperativo categorico, come lo stesso Kant riconosce: “Non dobbiamo mai desumere da un esempio, e cioè empiricamente, se in genere vi sia un imperativo siffatto, bensì preoccuparci che tutti gli imperativi, che sembrano categorici, potrebbero tuttavia essere occultamente ipotetici.”
Ora possiamo tornare alla linea “B” della metropolitana di Roma, alla stazione “Circo Massimo”, dove un giovane ha tirato giù la maniglia del freno di emergenza, per salvare la vita di un passeggero in pericolo. Alla luce della dottrina di Kant, rimane il dubbio se quell’azione sia morale o soltanto pragmatica. Il giovane ha obbedito ad un imperativo categorico o soltanto al comando urlato dall’anonimo passeggero, al centro del vagone, che gli ha sciolto ogni dubbio?
Si è tentati di rispondere che forse l’imperativo categorico di Kant non sia tanto categorico, ma ipotetico, nel senso di una semplice ipotesi del filosofo di Königsberg, che peraltro non si meraviglierebbe affatto di una tale obiezione sull’esistenza del suo imperativo. Infatti, egli così si esprime: “Noi dobbiamo, dunque, indagare la possibilità di un imperativo categorico interamente a priori, poiché in questo caso, noi non disponiamo del vantaggio di trovarne, data la realtà dell’esperienza, sicché scoprirne la possibilità non serve a stabilire che c’è, ma soltanto a spiegarlo.”
Data questa considerazione, è lecito affermare che l’esistenza, e quindi l’ammissibilità dell’imperativo categorico, non è affatto reale, ma soltanto virtuale?
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