venerdì 30 giugno 2023

Psicanalisi

 

     Il fondo enigmatico e buio



4 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

IL FONDO ENIGMATICO E BUIO
Nel suo libro “Paesaggi dell’anima” (1998), Galimberti intitola il paragrafo due della Introduzione: “Il fondo enigmatico e buio”, che così illustra: “L’irrazionale che abita la profondità dell’anima rimanda a un’esperienza più avventurosa, più pericolosa, più enigmatica, più notturna, più “patetica” (perché a patirne è la ragione) di quanto non sia l’esperienza della follia riconosciuta dalla ragione. Scendere in profondità significa infatti accedere alla radice, da cui si dipartono sia la ragione, sia la follia. E siccome la storia dell’anima razionale è stata edificata, in questa alternativa, dall’anima stessa dischiusa come storia della sua ragione e del suo senso, scendere alle radici significa giungere al fondamento non storico della storia, dove la follia che si incontra non è il contrario della ragione, quel negativo che la ragione ha sempre dialettizzato, per affermare la sua positività, ma l’antecedente della ragione e della follia.”
Il discorso sull’anima, che l’autore conduce nel suo libro, viene subito inaugurato con un rinvio dalla filosofia alla psicologia. Ecco l’incipit.
“Anima è un nome universale e antico, che nell’espressione greca psyché dice il soffio, il respiro, e nell’espressione latina, anima traduce il vento (anemos). Originariamente mobile e vitale, l’anima si concede a quell’accostamento aristotelico che la fa identica alla vita: alla vita del corpo nell’intendimento di Aristotele, o alla vita imprigionata nel corpo come a più riprese riferisce Platone. Ma proprio in Platone si intrecciano due diverse tradizioni: quella filosofica dove l’anima è la capacità propriamente umana di astrarre dal sensibile e di esprimersi, “in quanto amica delle idee”, attraverso numeri e anticipazioni matematiche come forma compiuta di razionalità, e quella orfica, legata ai riti misterici, dove il fondo enigmatico e buio dell’irrazionale fa la sua irruzione nel paesaggio ordinario della ragione, per rivelarne il tratto precario, provvisorio, sempre ai confini dello spaesamento.”
Qui Galimberti traccia i due solchi della filosofia e della psicologia: il primo, percorso e illuminato dalla ragione, che segna l’inizio della civiltà occidentale, l’altro che si origina ancora prima e che affonda le sue radici nel fondo enigmatico e buio dell’irrazionale, per Jung e la psicologia del profondo, l’Inconscio. Ed a quest’ultimo rinviano i simboli, le tracce del passato della vita psichica, anima, oggi non più comprensibili, in quanto su quelle immagini primordiali si sono andati stratificando secoli di storia e di civiltà. Ecco perché Jung non finisce mai di mettere in rilievo l’importanza dei miti, che con i loro racconti ci rimandano a quel passato antichissimo, di cui si è perduta memoria.

Silvio Minieri ha detto...

Alla luce di quanto detto, si può comprendere la differenza della traduzione tra i due studiosi, Giovanni Reale e Umberto Galimberti. Il primo, considerato uno dei migliori conoscitori di Platone e della sua intera opera, traduce alla lettera, concentrando la sua attenzione sui termini e la conseguenzialità logica del discorso: “presagisce” “ciò che vuole” “e lo dice in forma di enigmi”. Non sa razionalmente, ma ha un’intuizione, un presentimento di quel suo desiderio dell’altro, e non lo sa esprimere chiaramente, razionalmente, ma lo dice con un discorso indistinto, oscurato da questo suo sentire.
Il secondo, che oltre che filosofo è anche psicanalista, traduce orientandosi con un linguaggio più ricco di immagini, figurato: “la [cosa che vuole] esprime con vaghi presagi”, “come divinando da un fondo enigmatico e buio”. Avevamo detto che non traduce ὃ βούλεται ciò che vuole, ma in verità questo desiderio dell’anima era già stato citato prima nel testo e quindi viene richiamato con la particella pronominale “la”, e in tal senso la traduzione poteva risultare ridondante, ma ci siamo soffermati principalmente sull’ultimo verbo: αἰνίττεται, tradotto con l’espressione su cui stiamo insistendo: “come divinando da un fondo enigmatico e buio.” Quest’ultimo “luogo” in chiave psicanalitica, lo definiamo Inconscio. Sulla sua soglia oscura la traduzione di Reale si arresta, perché la lettera “scritta” di Platone non riporta un tale luogo dell’anima. E questo significa che Reale, considerato il più esperto conoscitore dell’opera platonica, ignori il tema? Diciamo che lo affronta diversamente.
La sua interpretazione si rifà alle dottrine non scritte, con la scoperta di un nuovo paradigma interpretativo dell’intero pensiero platonico, illustrato in una sua opera: “Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle dottrine non scritte.” (2010)
Qui, non riteniamo di poter riportare in sintesi le linee principali di questo nuovo paradigma, soltanto indicarne un tratto essenziale, trascrivendo una Nota di Reale ad un passo del testo del “Simposio”, relativo al discorso di Aristofane sul mito dell’origine dell’uomo, quando Zeus infastidito dalle insolenze delle figure primitive rotonde con quattro braccia e quattro gambe, il loro assalto al cielo, decise il taglio in due: “Mi pare di avere a disposizione un mezzo che permetterebbe agli uomini di poter continuare ad esistere, e divenuti più deboli cessino di essere così sfrenati. Infatti ora – continuò io li taglierò ciascuno in due.” Ed ecco la Nota illustrativa: “Si tenga presente la terminologia che da qui in poi ricorrerà continuamente: “Il “due” e la divisione diadica, e l’ “uno”. Il male dell’uomo nasce appunto dalla divisione in due, il suo bene è il ritorno all’uno. Si ricordi che Platone nelle sue Dottrine non scritte riferiva appunto alla Dualità la causa del male e all’Uno quella del bene (cfr. Aristotele, “Metafisica”, A6, 988a, 11 ss.).

Silvio Minieri ha detto...

Non commentiamo il passo aristotelico, uno dei punti su cui Reale fonda la teoria del suo nuovo paradigma. Per quel che se ne ricava, si può osservare che all’Uno, il Bene, si oppone la dualità comprensiva dell’illimitato, il grande e il piccolo, ossia i molti. E questo è come dire; da una parte Dio, l’Uno, il Bene; dall’altro i molti, gli uomini, il male. E invero il taglio di Zeus, dividendo gli uomini in due, li porta a moltiplicarsi: “cosicché da un canto, essi saranno più deboli, e dall’altro canto saranno più utili a noi, perché diventeranno maggiori di numero”, in quanto si duplicano anche gli onori e i sacrifici che essi offrono agli dèi. E più avanti, Platone spiega anche la moltiplicazione del genere umano: “Allora, dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando fortemente l’altra metà che era la sua, tendeva a raggiungerla. E gettandosi attorno le braccia e stringendosi forte l’una all’altra, desiderando fortemente di fondersi insieme, morivano di fame e di inattività, perché ciascuna delle parti non voleva fare nulla separata dall’altra. […] Allora Zeus, preso da compassione, ricorse ad un altro espediente. Trasportò gli organi del sesso sul davanti, perché fino ad allora gli uomini avevano anche questi nella parte estrema e concepivano e generavano non già fra di loro, ma in terra come fanno le cicale. Dunque, trasportò in tale modo questi organi sul davanti e fece sì che la generazione avesse luogo mediante l’uso reciproco di questi organi, per opera del maschio e della femmina. E lo fece per questo scopo, ossia affinché, se nell’amplesso si trovassero insieme un uomo e una donna, procreassero e riproducessero la stirpe.” In conclusione, possiamo dire che la differente traduzione delle parole di Platone, invero il verbo αἰνίττεται, rispecchia una distanza non solo grammaticale, ma più sostanziale e di fondo tra il pensiero dei due traduttori, la loro impostazione culturale, una divergenza che corrisponde a due diverse visioni del mondo.

Silvio Minieri ha detto...

Giovanni Reale interpreta il pensiero di Platone, in chiave di ricomposizione, in verità aspirazione a ricomporsi dell’uomo nell’unità divina. Così commenta con una Nota il passo platonico in discussione sul desiderio degli amanti a restare uniti per sempre, che non sanno esprimere a parole, ma solo per enigmi: “Vale a dire il ritorno all’Intero e all’Uno.” E rimarca con altre Note questo concetto, commentando altre espressioni sempre dello stesso discorso, evidenziando le parole del testo originale: “Dunque, da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura e cerca di fare “di due uno” (ἓν ἐκ δυοῖν) e di risanare l’umana natura.” E ancora: “Ciascuno di noi, pertanto è come una contromarca (σύμβολον) di uomo, diviso com’è “da uno in due” (ἐξ ἑνὸς δύο).” E quando, in ipotesi, Efesto [il dio del fuoco, il fabbro] chiedesse agli amanti che cosa volessero ed essi non saprebbero rispondere, e lui domandasse: “– Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l’uno con l’altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno né notte? Se è questo che desiderate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa “in modo che diventiate da due che siete uno solo” (ὥστε δύ᾽ ὄντας ἕνα γεγονέναι), e finché vivrete, in quanto venite ad essere “in questo modo uno solo” (ὡς ἕνα ὄντα), viviate insieme la vita, e quando morirete anche laggiù nell’Ade, “invece di due siate ancora uno” (ἀντὶ δυοῖν ἕνα) […] Sappiamo bene che, sentendo queste cose, neppure uno direbbe di no. Né direbbe di desiderare altro, ma direbbe di avere udito proprio quello che desiderava da tempo, ossia congiungendosi e fondendosi insieme con l’amato, “da due diventare uno” (ἐκ δυοῖν εἷς γενέσθαι). E la ragione di ciò sta nel fatto che questa era la nostra antica natura, e che noi eravamo tutti interi. “Perciò all’aspirazione e al desiderio dell’intero si riferisce il nome di Eros” (τοῦ ὅλου οὖν τῇ ἐπιθυμίᾳ καὶ διώξει ἔρως ὄνομα).
L’interpretazione di Reale di quel αἰνίττεται, “parlare per enigmi” degli amanti del loro ardente desiderio di stare insieme per sempre è tutta platonicamente verticale, tesa verso l’alto, oltre il cielo, dove tende l’anima. Infatti, per Platone, il destino finale dell’anima è quella del ritorno alla sua patria celeste, alla fine del lungo ciclo delle incarnazioni: “A quel luogo, donde è stata mossa, ciascuna anima non giunge prima di diecimila anni, perché non rimette le ali prima di tale tempo.” (“Fedro”, 249a) [1]
Al contrario, l’interpretazione di Galimberti, psicanalista e psicoterapeuta, oltre che filosofo, è bivalente, come abbiamo visto. Da una parte, riconosce in Platone l’aspetto razionale dell’anima, capace “di astrarre dal sensibile e di esprimersi “in quanto amica delle idee”, attraverso numeri e anticipazioni matematiche come forma compiuta di razionalità”; dall’altra, rintraccia una diversa tradizione, in continuità con la religione orfica, legata ai riti misterici, che conducono a quel “fondo enigmatico e buio”, in cui sembra di dover riconoscere le radici antiche della moderna psicanalisi, l’Inconscio di Freud e la psicologia del profondo di Jung.

[1] Sul destino dell’anima, vedi il post 7 settembre 2021, visibile sul Blog.