mercoledì 24 aprile 2024

Seminari Psicagogia

 

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23 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

SESSIONE AUTUNNALE

PRIMA CONFERENZA (28 settembre 2015)

1. Discorso introduttivo sull’oggetto dei Seminari, la “Scrittura Nera” di Anonimo Silvio, per esplorarne la psiche. 2.Ambientazione e riferimento alla finzione letteraria cosciente nei personaggi. 3. Interrogativo sull’identità dei personaggi, quesito filosofico. 4.Giovane come controfigura di Jung. 5. Seminario come autoanalisi di Silvio, un teatrino.

Dr. Giovane: - Gentili Signore e Signori, voi tutti sapete che ci siamo qui riuniti per commentare e discutere i testi di Anonimo Silvio, quelli riguardanti la “Scrittura Nera”, riprendendo il titolo di un suo libro, oppure se vogliamo definirla in altri modi, gotica, noir, spiritistica o altro ancora. Il fine, comunque, che ci interessa è risalire attraverso l’analisi dei suoi i testi alla psiche di Anonimo Silvio ed esplorarne il magma spirituale in essa contenuta. Sono convinto che faremo delle belle scoperte.
Sig.na Annalisa Marini: - Vuole dire “belle” in più sensi?
Dr. Giovane: - Certo, lei ha centrato l’argomento. Faremo scoperte di diverso genere, dalle più banali a quelle un po’ più complicate. Intanto lasciatemi premettere un breve discorso sul contesto spazio temporale in cui ci troviamo. Noi siamo effettivamente presenti oggi in quest’aula della Scuola delle Arti dell’Eur, il 28 settembre 2015, ma sappiamo anche di essere i personaggi di una narrazione di Silvio, lasciamo da parte per brevità lo pseudonimo “Anonimo”. Noi siamo tutti convinti di questo, vero?
Prof. Imma: - Quello a cui lei accenna, dr. Giovane, è un tema caro a Silvio.
Dr. Giovane: - Certo e cerchiamo di esplorare questo tema, in verità un vero e proprio rompicapo, un problema, che però dovremo presto lasciare da parte, perché non riusciremo a trovare una soluzione concorde.
Prof. Imma: - Io suggerirei la soluzione di Hegel.
Dr. Giovane: - “L’artista si comporta per così dire come un drammaturgo, che fa comparire personaggi estranei e pone il suo genio in essi, ne fa un proprio strumento, ma in modo tale che essi contemporaneamente gli sono estranei.” Così si esprime Hegel nelle sue “Lezioni di Estetica”.
Prof. Imma: - Sì, così, infatti.

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Giovane: - In questo suo giudizio, Hegel spiega che cosa c’è dentro un’opera d’arte. Il nostro Silvio, però, nelle sue opere, adotta un artificio: fa “parlare” i suoi personaggi del loro status di “finzioni”. È come se, nei “Promessi Sposi”, Renzo e Lucia fossero coscienti o quanto meno avessero il dubbio di essere dei personaggi letterari creati dalla fantasia di Alessandro Manzoni e magari andassero a proporre questo loro dubbio a Don Abbondio. Non è difficile scoprire che vedremmo scorrere la storia grosso modo come l’ha scritta Manzoni, con l’unica variante dell’autocoscienza dei personaggi, che peraltro risulterebbe ininfluente nello svolgersi della trama: gli sposi rimasti promessi, la fuga aiutati da fra Cristoforo, il colloquio tra don Rodrigo e il Conte Zio, il rapimento di Lucia, l’Innominato, il Cardinale Borromeo, la peste di Milano, il lieto fine. La storia è quella, e nella sua autonomia non importa se sia accaduta veramente o sia soltanto un racconto di finzione. Ed è interessante sottolineare come uno studioso attento della materia, Paul Ricœur, ci spieghi come ogni racconto di verità storica contenga elementi di finzione e ogni storia di finzione contenga elementi di verità storiche.
Sig.ra Zita Serio: - Non è importante se noi siamo veri o finti, l’importante è che pur essendo noi pienamente convinti di essere finti, ci comportiamo come se fossimo veri.
Dr. Giovane: - Lei ha centrato molto bene l’argomento. Sapete, come ci ha insegnato un grande filosofo illuminista del Settecento, Immanuel Kant, noi non possiamo dimostrare l’esistenza di Dio, dell’anima o del mondo, ma ci comportiamo “come se” Dio, l’anima e il mondo esistessero veramente. Adesso, però, lasciamo da parte l’argomento e cominciamo ad analizzare i testi letterari di Silvio.
Prof. Marini: - Io vorrei porre prima un ultimo quesito.
Dr. Giovane: - Prego.
Prof. Marini: - Siccome noi tutti partecipanti a questo “Seminario” abbiamo la piena coscienza di essere personaggi di finzione, vorrei che lei, dr. Giovane, ci dicesse qualcosa intorno alle nostre identità, ossia perché ci chiamiamo così e chi siamo oppure chi rappresentiamo.
Dr. Giovane: - Il prof. Marini ha posto un’obiezione fondamentale: Chi siamo? O, meglio, da dove veniamo? Vedete, questi sono quesiti filosofici fondamentali, intorno a cui le filosofie si arrovellano da secoli, per dare una risposta. Platone, uno che di questi problemi se ne intendeva, già duemilacinquecento anni fa così scriveva: “Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Leggi, 1,644e)
Sig.na Annalisa Marini: - Silvio riporta la citazione in un post del suo Blog, quello ambientato alla Louiza di Bruxelles.
Dr. Giovane: - Il suo, quello di Silvio, ma prima di lui di tutta la tradizione filosofica, inaugurata da Platone, è un tema, un interrogativo, che si porta dietro da anni. Adesso però, signori, cerchiamo di rispondere alla domanda del prof. Marini: Chi siamo? Da dove veniamo? Ed io aggiungerei: dove andiamo? Se vogliamo cominciare da me, chiediamoci subito perché io mi chiamo Giovane, dr. Giovane.
Dr.ssa Giovane: - Giovane è un cognome italiano, molto diffuso soprattutto in Puglia, con le sue varianti: Giovine, Di Giovine. In provincia di Bari c’è un comune che si chiama Giovinazzo.

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Giovane: - Nel napoletano troviamo la variante Iovine o Iovino, anche Jovine. Non è difficile ricavare l’etimologia dal latino juvenis, giovane. Ma il problema non è questo. Io vorrei sapere da voi perché mi chiamo dr. Giovane, perché Silvio mi ha chiamato così e quale ruolo ha inteso assegnarmi con questo nome e questa qualifica di dottore. Qualcuno di voi mi sa rispondere?
Dr. Gabrieli: - Giovane tradotto in tedesco è Jung.
Dr. Giovane: - Perfetto, perfettissimo! La risposta, ovviamente suggerita dallo spirito di Silvio, coglie il senso tutto del nostro spazio-tempo, lo scenario di questo nostro Seminario. Vedete, noi qui stiamo recitando la scena di un copione di cui Silvio è l’autore ed io, il dr. Giovane, sono il suo interprete ierofante, permettetemi questo termine. Forse sarebbe stato più appropriato definirmi il “capocomico”, come nella commedia di Luigi Pirandello: “Sei personaggi in cerca d’autore”, dove il ruolo dell’autore deve essere assunto da un personaggio. Ma lasciamo da parte la discussione sul tema dell’illusione del vero, il palcoscenico dove la realtà e la finzione nel confrontarsi perdono la loro contrapposizione, e torniamo alla nostra verità o finzione, capite che la distinzione non ha più interesse per noi. Io, dunque, sono il dr. Jung che conduce i Seminari sullo “Zarathustra” di Nietzsche, una lettura che ha tenuto occupato Silvio in questi ultimi anni, almeno tre. Qui non trattiamo comunque della psiche del filosofo tedesco, ma di quella di Silvio, il nostro Seminario è dunque un’autoanalisi di Silvio. Siete convinti di questo?
Prof.ssa Santorelli: - Un teatro.
Dr. Giovane: - Un teatrino, come dire una scimmiottatura grottesca, anche se mi sembra ingeneroso parlare di Silvio come di una scimmia, quantunque astuta, ed in proposito vorrei ricordare uno dei suoi dialoghi, ossia uno di quei suoi ormai innumerevoli “mimi” con cui ci sta opprimendo da anni, anche se non siamo obbligati a leggerli o ad averne contezza.
Sig.na Annalisa Marini: - “Ti ricordi di Andalù?” Si parlava di un ragazzo australopiteco, che andava a recuperare un pallone su un albero, lanciato da un compagno durante una partita di calcio, mi sembra che si chiamasse Battaglione quello che aveva lanciato così in alto il pallone. Non so se ricordo bene.
Dr. Giovane: - Lei ricorda bene e sa perché? È l’accorgimento della rima, che tenta di imprimere il quanto detto nella memoria. Ecco perché lei riesce a ricordare che chi calciò in alto il pallone si chiamasse Battaglione. Ma tutto il senso di “Andalù” sta nella considerazione di Jung: “Un uomo scimmia, può darsi, e magari una psicologia da scimmia, ma è la sostanza di cui è fatta la vita e la fonte da cui proveniamo, perciò non è in alcun modo utile prendere tutto ciò a scherno.” E quindi anche se vogliamo considerare Silvio come una scimmia, quantunque non abile a scalare gli alberi come Andalù, dobbiamo ricordarci delle nostre origini.
Dr. Gabrieli: - Darwin?
Dr. Giovane: - Signori, dobbiamo approfondire meglio il pensiero di Jung sul tema, la formazione ed evoluzione storica dell’Inconscio collettivo.

Silvio Minieri ha detto...

NOTA
Riportiamo qui di seguito il testo del mimo.

Ti ricordi di Andalù?
- Io no e tu?
- Era un giorno festoso.
- Una domenica, dunque.
- No, Decio Livio, era un giorno feriale, non festivo, ma l’aria della scuola era sempre gioiosa, una continua festa. Ricordi?
- No, non ricordo, altro tempo frastorna la mia memoria.
- “Un filo s’addipana. / Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana / la casa e in cima al tetto la banderuola /affumicata gira senza pietà.”
- Come?
- Non stavi recitando Montale?
- Io?
- Sì.
- Nera, veramente a recitare “La casa dei doganieri” eri tu.
- Decio Livio, ritorniamo ad Andalù.
- Su! Su! Su!
- Allora, ricordi!
- Traseo Nera, vuoi raccontarmi di questo australopiteco, come suggerisce il nome?
- Giocavamo a pallone, la squadra in cui giocavi anche tu stava perdendo. Ricordi?
- No.
- Perdevate uno a zero, quando Battaglione lanciò in alto il pallone, che invece di ricadere sul terreno di gioco finì incastrato tra i rami dell’alta quercia, quella posta a ridosso del nostro campo di calcetto. Ricordi?
- Traseo Nera, ti diffido dal chiedermi ancora: “Ricordi?”.
- D’accordo.
- I giocatori scossero l’albero e la palla cadde giù.
- Decio Livio, hai mai scosso il tronco di una quercia antica?
- Io, no.
- Meno male.
- Allora i giocatori presero una pertica e scuotendo i rami riuscirono a recuperare il pallone lanciato su da Battaglione.
- Ricordi, dunque, il particolare della pertica.
- Io non ricordo niente, Nera, io sono lo smemorato di Collegno. Vado avanti con la fantasia e la ragione, in questa storia del pallone.
- Però tendi a fare la rima e il verseggiare aiuta a ricordare.
- Traseo Nera, adesso mi ricordo come ti chiamavamo noi tutti a scuola, anch’io.
- Anche tu?
- Sì.
- Andalù.
- Su! Su! Su!
- Gridavano in coro tutti i giocatori radunatisi attorno al tronco della quercia antica, guardando in alto il pallone che tra i rami aveva lanciato Battaglione.
- Traseo Nera, ho il sospetto che lo smemorato sei tu. E ti sei inventato il nome del giocatore Battaglione che con un gran calcione aveva scagliato lassù il pallone.
- E invece si chiamava proprio così, Battaglione. Non ricordi?
- Traseo Nera, ti avevo diffidato dal continuarmi a chiedere: “Ricordi?”, ricordi?
- Ah, sì, scusa. Però pure tu…
- Traseo Nera, parliamo di Andalù.
- “Su! Su! Su!”, come hai poc’anzi ricordato (o inventato) tu, gridavano in coro tutti i giocatori radunatisi attorno al tronco della quercia antica, guardando in alto il pallone che tra i rami aveva lanciato Battaglione. Fu allora che apparve ardimentoso, no, cioè bramoso, il famoso… Decio Livio, aiutami con una rima a ricordare…
- Così fra me e te, a tu per tu?
- Sì.
- Andalù.
- Si arrampicava agile sul tronco, incitato dai giocatori: “Su! Su! Su! Andalù!”, che balzò tra i rami sempre più su. Ed il coro felice e ridanciano (ecco perché era un giorno “festoso”, seppure feriale) continuò a incitare: “Andalù! Andalù! Andalù!”
- Finché il primate raggiunse il pallone, lo raccolse e scaglio giù.
- Tra le grida festanti di gioia dei compagni e giocatori, che entusiasti applaudirono: “Uh! Uh! Uh! Andalù!”
- Traseo Nera, o mytos deloi…
- Come?
- La favola insegna…
- Ah, Esopo! Però non era un australopiteco né tanto meno un ominide, Andalù.
- Certo, Nera, mi è tornata la memoria: era il tuo compagno di banco.
- Decio Livio, meglio Andalù che tu.
- Traseo Nera: è questo quello che insegna la favola?
- Più o meno.
- Come?
- “Un uomo scimmia, può darsi, e magari una psicologia da scimmia, ma è la sostanza di cui è fatta la vita e la fonte da cui proveniamo, perciò non è in alcun modo utile prendere tutto ciò a scherno.” [1]
- In homine simia.

[1] La citazione è tratta dai “Seminari” tenuti da Jung sullo “Zarathustra di Nietzsche”, “Sesta Conferenza (18 gennaio 1939)”.


Silvio Minieri ha detto...

Elenco dei partecipanti ai Seminari dello psicagogo dr. Manlio Giovane
(Sessione autunnale, 2015)

Angeli prof.ssa Vincenza, docente di scienze naturali
Gabrieli dr. Federico, medico psicologo
Giovane dr.ssa Emanuela, medico chirurgo, consorte del dr. Giovane
Imma prof. Gustavo, filosofo
Lavagna prof. Enrico, docente di letterature straniere
Marcellini sig.ra Natalia, slavista
Marini prof. Giuliano, docente di lettere classiche
Marini sig.na Annalisa, figlia del prof. Marini
Norman ing. Paride, generale di artiglieria, anglista
Santorelli prof. Elena, docente di lettere antiche e moderne
Serio dr. Silvio, medico neurologo
Serio sig.ra Zita, consorte del dr. Serio

Nel dizionario italiano Sabatini-Colletti, la “psicagogia” viene definita in due sensi: “1 religioso. Antica pratica magico-religiosa finalizzata a placare o a evocare le anime dei defunti; 2 psicologico. Attività intesa ad aiutare lo sviluppo della personalità e delle capacità di riflessione e di analisi.”
Nel vocabolario Treccani, sotto la voce “psicagogo”, leggiamo: “[dal gr. ψυχαγωγός, composto di ψυχή «anima» e ἄγω «condurre, guidare»] – 1. a. Sacerdote o negromante che evoca le anime dei morti. b. Presso i Greci, sinonimo di psicopompo (v.). 2. raro. Guidatore, informatore di anime (detto, per lo più scherzosamente, di un filosofo, di un educatore e simili).” Sotto la voce psicopompo: “[dal gr. ψυχοπομπός, composto di ψυχή «anima» e πομπός «conduttore»]. – Nella religione greca, epiteto di divinità, soprattutto di Ermete (anche di Caronte e di Apollo), designante la loro funzione di guida delle anime dei trapassati verso il regno dei morti (v. anche psicagogo).”
È chiaro che il dr. Manlio Giovane è psicagogo nel secondo senso (quello scherzoso) del vocabolario Treccani; e la sua scienza, la psicagogia, deve intendersi nel senso della seconda definizione del dizionario Sabatini-Colletti, con l’aggiunta della coloritura umoristica. Ma appare anche chiaro che la figura del dr. Giovane e tutta l’atmosfera da teatrino dei Seminari occhieggiano verso il primo significato, quello relativo allo spirito dei defunti, le ombre.

Silvio Minieri ha detto...

SECONDA CONFERENZA (12 ottobre 2015)

1. L’Inconscio collettivo di Jung. 2. Sogno rivelatore di Jung e sue divergenze con Freud. 3. Riferimenti a William James ed Emanuel Swedenborg sulla realtà dell’invisibile e la credenza negli spiriti. 4. Personaggi letterari fantasmi della realtà 5. Osservazioni sui nomi propri. 6. Interpretazione del sogno di Jung, rivelatore dell’esistenza dell’Inconscio collettivo.

Dr. Giovane: - Signori, l’altra volta ci siamo lasciati con l’esortazione di approfondire la teoria di Jung sull’Inconscio collettivo, che nella nostra metafora è rappresentata dall’Inconscio personale di Silvio, il tutto psichico di cui noi siamo frammento. E capite che l’Inconscio collettivo, per Jung, è l’Inconscio di tutta intera l’umanità formatosi con la storia del genere umano, lasciamo da parte le scimmie.
Prof.ssa Angeli: - Alla luce della teoria evoluzionista, quella delle scimmie potrebbe essere allora intesa come la preistoria del genere umano.
Dr. Giovane: - La sua osservazione è estremamente interessante. Il noto psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, nella sua autobiografia, ricorda una sua esperienza di studio in America, nel corso della quale, per sfuggire alle attenzioni degli scimpanzé, interessati solo allo spidocchiamento della sua nuca, dovette radersi completamente. Ritornando a Jung, egli riferisce della sua scoperta dell’Inconscio collettivo, dovuta ad un sogno: “Sognai di trovarmi a “casa mia” apparentemente al primo piano, in un comodo e piacevole salotto arredato in stile settecentesco. Mi stupivo di non avere mai visto prima quella stanza e cominciai a chiedermi come fosse disposto il piano terreno. Scesi dabbasso e mi trovai in un luogo piuttosto buio, dalle pareti rivestite e con un arredamento cinquecentesco o anche di epoca anteriore. La mia sorpresa e la mia curiosità aumentarono. Mi venne voglia di esplorare ulteriormente tutta la casa. Così scesi in cantina dove trovai una porta che si apriva su una scalinata che conduceva in una grande stanza coperta da una volta. Il pavimento era formato da grosse lastre di pietra e le pareti sembravano molto antiche. Esaminai la malta e mi accorsi che era mescolata a schegge di mattone. Ovviamente le pareti erano di origine romana. La mia eccitazione cresceva a dismisura. In un angolo vidi un anello di ferro infisso in una lastra di pietra. Sollevai la lastra e vidi un’altra scala stretta che portava a una specie di caverna, simile a una tomba preistorica, contenente due teschi, alcune ossa e cocci di ceramica frantumata. A questo punto mi svegliai.”
Dr. Gabrieli: - I vari piani rappresentano le varie epoche della storia umana.
Dr. Giovane: - Sì, una discesa nel profondo dell’Inconscio. Prima però di discutere dell’interpretazione del suo sogno da parte dello stesso Jung, vorrei evidenziare alcuni aspetti sul formarsi di certe sue convinzioni. Nel corso dei Seminari sullo “Zarathustra” di Nietzsche (Nona Conferenza, 30 giugno 1937), che noi qui stiamo scimmiottando, questo è bene ricordarlo, Jung fa riferimento ad un autore americano, William James. Sta commentando il versetto di Nietzsche: “Ein Unbekanntes ist um mich”, “Una presenza sconosciuta è intorno a me”, e parlando della realtà dell’invisibile cita il libro di James: “Le varie forme dell’esperienza religiosa”. Infine conclude: “Leggete William James”. Ed è seguendo l’esortazione di Jung che ho fatto delle interessanti scoperte.

Silvio Minieri ha detto...

Gen. Norman: - William è il fratello del noto scrittore Henry James, l’autore di “Giro di vite”, una storia di fantasmi.
Dr. Giovane: - Sì, certo. E il loro padre Henry James senior, filosofo trascendentalista, era stato allievo di Emanuel Swedenborg, filosofo, mistico e visionario svedese, la cui teologia era stata però condannata dalla chiesa luterana. È autore delle opere più svariate, tra cui testi, dove egli riferisce di sue personali esperienze nell’aldilà.
Sig.ra Zita Serio: - Dobbiamo credere agli spiriti, dr. Giovane?
Dr. Giovane: - Noi siamo una sorta di spiriti, non nella finzione, ma nella realtà. A buon titolo possiamo definirci fantasmi letterari, immagini fantasticate da Silvio, della cui psiche peraltro ci stiamo occupando. Siamo il suo materiale psichico, che egli da caotico ordina a cosmo, formandoci nelle nostre identità e nelle nostre azioni.
Sig.ra Zita Serio: - Perché io mi chiamo Zita Serio?
Dr. Giovane: - Mah! Zita fu l’ultima imperatrice d’Austria-Ungheria. Verosimilmente Silvio deve avere associato il nome a qualche suo interesse degli ultimi tempi.
Dr. Serio. - Recentemente ha pubblicato sul suo Blog alcuni post riguardanti le vicende della famiglia imperiale absburgica, il tragico assassinio della imperatrice Elisabetta, consorte di Francesco Giuseppe.
Dr. Giovane: - Sì, è vero.
Dr. Serio: - Serio deriva dal latino “serius”, che alcuni vogliono sia una contrazione di “severo”. Forse c’è qualche attinenza, una qualche relazione.
Dr. Giovane: - Beh, nelle associazioni di idee, ognuno segue liberamente gli itinerari delle proprie esperienze psichiche e pertanto le scelte sono sempre individuali. Io su questo mi sono trovato in disaccordo con Freud, proprio a causa dell’interpretazione del sogno di cui parlavamo, quello di Jung, tanto per intenderci. Vorrei aggiungere che questo mio scivolare dall’identità di Giovane a quella di Jung, che certamente avrete con sorpresa notato, è senz’altro un sintomo d’instabilità psichica o almeno così appare. Infatti, è questa una finzione scenica adottata da Silvio, sulla scorta di un’osservazione di Jung, il quale nell’interpretazione dello “Zarathustra” nota come nel testo Nietzsche si muove sempre rapidamente tra la sua identità e quella del suo personaggio, per cui non si sa bene se parli lui o il suo personaggio. Ed ora ritorniamo all’interpretazione del mio sogno, quello di Jung.
Sig.ra Zita Serio: - Comunque il cambiamento del nome non porta il cambiamento d’identità. Io mi chiamo Serio, ma prima di sposarmi con Giulio mi chiamavo Dolcinelli.
Dr. Giovane: - Questo è senz’altro vero. Immagino che Silvio le abbia assegnato questo cognome da signorina, in relazione ad una certa soavità del carattere.
Sig.ra Zita Serio: - Quello di mio padre.

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Gabrieli: - Per Freud il sogno è la realizzazione di un desiderio, sogniamo di realizzare quello che non è possibile ottenere da svegli. I pazienti in analisi presentano dei complessi, dovuti alla rimozione di un trauma psichico del passato, principalmente nella prima infanzia. Pertanto, l’interpretazione dei loro sogni, fondata sulla libera associazione delle idee, serve a raggiungere tutto quel materiale psichico rimosso, che giace nel fondo, oltre la soglia della coscienza e portarlo alla luce, onde liberare l’analizzato dai suoi complessi, che gli impediscono di svolgere una vita regolare.
Dr. Giovane:- Sì, io però, allora, avevo maturato delle convinzioni che si allontanavano molto da quella concezione, un abisso incolmabile. Avevo avuto un’intuizione, come un’improvvisa illuminazione, ossia il sogno da me fatto si riferiva solo a me, alla mia vita, al mio mondo, alla mia intera realtà in contrapposizione alla struttura teoretica che era stata costruita dalla mente di un altro. Il sogno era mio non di Freud, e d’un colpo compresi il suo significato.
“La coscienza era rappresentata dal salotto: aveva un’atmosfera di luogo abitato, non ostante lo stile d’altri tempi. Col pianterreno cominciava l’inconscio vero e proprio. Quanto più scendevo in basso, tanto più diveniva estraneo e oscuro. Nella caverna avevo scoperto i resti di una primitiva civiltà, cioè il mondo dell’uomo primitivo in me stesso, un mondo che solo a stento può essere raggiunto o illuminato dalla coscienza. La psiche primitiva dell’uomo confina con la vita dell’anima animale, così come le caverne dei tempi preistorici erano di solito abitate da animali, prima che gli uomini le rivendicassero per sé. […] Io ero cresciuto nell’atmosfera permeata di storia del XIX secolo, e avevo acquistato, grazie alla lettura degli antichi filosofi, una certa conoscenza della storia della psicologia. […] Conoscevo specialmente gli scrittori del Settecento e del primo Ottocento. Era il loro mondo, che aveva creato l’atmosfera del mio salotto al primo piano. […] Alla condizione testé descritta della mia coscienza, il sogno aggiungeva ancora ulteriori stratificazioni: il pianterreno medievale disabitato da tempo, poi la cantina romana, infine la caverna preistorica; rappresentazioni di tempi passati e di stati remoti della coscienza […] Il mio sogno pertanto rappresentava una specie di diagramma di struttura della psiche umana, un presupposto di natura affatto impersonale. Questa idea colpiva nel segno […] Fu la mia prima intuizione dell’esistenza, nella psiche personale, di un a priori collettivo, che dapprima ritenni fosse costituito da tracce di primitivi modi di agire. In seguito, con la più vasta esperienza e sulla base di più sicure conoscenze, ravvisai in quei modi di agire delle forme istintive, cioè degli archetipi.” (“Ricordi, sogni, riflessioni” Pag. 200-03)

Silvio Minieri ha detto...

TERZA CONFERENZA (26 ottobre 2015)

1. Silvio come “colto umorista”. 2. Sui nomi, Borges. 3. Il doppio in letteratura. 4. Minieri.

Dr. Giovane: - Signore e Signori, vorrei iniziare la nostra odierna conversazione con lo breve scambio di opinioni sull’analisi dei sogni, che abbiamo avuto io e il dr. Gabrieli, poco prima di venire qui.
Dr. Gabrieli: - Lei, dr. Jung, ritiene che i sogni hanno un significato simbolico che va al di là delle immagini in esso contenute.
Dr. Giovane: - Sì, all’inizio del mio saggio “L’Uomo e i suoi simboli”, che ho finito di scrivere, poco prima di morire, nel mese di giugno del 1961, ho messo in evidenza come il simbolo rinvia a qualcosa che va al di là del suo significato ovvio e immediato. Ed ho fatto l’esempio di quell’indiano recatosi da turista in Inghilterra, che ritornato in patria, riferì ai suoi amici che gli inglesi venerano gli animali, perché aveva visto nelle vecchie chiese sculture di aquile, leoni e buoi. L’indiano non sapeva né lo sanno molti cristiani che questi animali simboleggiano gli Evangelisti e derivano dalla visione di Ezechiele, a sua volta un’analogia con la divinità egizia del sole, Horus, e i suoi quattro figli.
Sig.ra Marcellini: - Quando lei, dr. Giovane, parla a nome di Jung, viene assegnato da Silvio nel ruolo del medium, che evoca lo spirito di un defunto.
Dr.ssa Giovane: - Io direi più uno psicagogo.
Dr. Giovane: - In un certo senso noi tutti qui siamo dei medium, non dello spirito di Jung, ma di Silvio, che si sovrappone fra noi (ma direi meglio fra i suoi lettori) e Jung, credendo di esporne e chiarire il pensiero e finendo invece per oscurarlo. In questo frangente però a me tocca il ruolo dello psicagogo, come chiarito dalla dr.ssa Giovane.
Dr. Serio: - Non il negromante o sacerdote dei morti (psicopompo) che accompagna le anime dei defunti nell’aldilà, ma psicagogo nel senso di chi si atteggia a filosofo, guida di anime, educatore.
Dr. Giovane: - Indubbiamente, la sua osservazione ha svelato una prima verità su Silvio, che ritenendosi un colto umorista, cerca di ottenere la benevolenza dei suoi lettori, facendo dell’ironia su sé stesso. Ed io, in quanto designato psicagogo, debbo assumermi tutto il carico dello spirito di Silvio, la cui psiche è poi l’oggetto dei nostri Seminari. Ed è già venuta fuori una prima verità di Silvio come “colto umorista”. Poi cercheremo di capire da dove viene fuori, intanto dobbiamo finire con Jung, quanto meno le prime linee generali del suo pensiero. Dove eravamo rimasti?
Dr. Gabrieli: - L’interpretazione dei sogni come rivelazioni di simboli.
Dr. Giovane: - “Se vogliamo vedere ogni cosa nella sua giusta prospettiva, dobbiamo riuscire a capire il passato dell’uomo come il suo presente. E per questa ragione che l’interpretazione dei miti e dei simboli è d’importanza fondamentale.” Scusate, Signori, se ho messo tra virgolette questa mia ultima affermazione, ma l’ho fatto per togliermi la maschera di Jung, che ho riconsegnato al suo testo, per assumere quella di Silvio o meglio di Silvio che fa ricerche psicologiche su sé stesso. Ma cominciamo dal nome. Perché l’autore di questo testo si presenta con questo nome?

Silvio Minieri ha detto...

Prof. Lavagna: - È il suo nome vero, quello anagrafico.
Dr. Giovane: - E questo che cosa indica? Vuole rendere il suo racconto più veritiero?
Prof. Lavagna: - Nello “Zahir”, un racconto di Jorge Luis Borges, il narratore afferma dichiaratamente di essere il protagonista della storia narrata. All’inizio, rievocando i fatti accaduti, commenta: “Ancora, seppure parzialmente, sono Borges.”
Dr. Giovane: - Nelle storie di finzione, anche i personaggi storici o gli autori stessi perdono la loro identità “vera”, per acquistare quella di “finzione”. In un racconto di fantasia, bisogna distinguere la figura dell’autore, quello che firma l’opera, da quella del narratore o voce narrante e da quella del protagonista o personaggio della storia raccontata. In “Nuova confutazione del tempo”, uno scritto contenente una serie di riflessioni di carattere filosofico, l’autore così conclude: “Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.” Possiamo dire che egli sia come narratore che come pensatore vuole come essere compreso nel flusso delle sue fantasie o dei suoi pensieri. Non una trascendenza, ma un’immanenza con i prodotti del suo spirito.
Prof. Imma: - Un paralogismo per Kant, teso a confutare la dottrina della psicologia razionale del Wolff, che dogmaticamente affermava l’esistenza dell’anima.
Dr. Giovane: Un problema filosofico, certo, quello che nella letteratura è conosciuto come il tema del “doppio”.
Sig.ra Marcellini: - In Dostoevskij, questa scissione è affrontata nel romanzo: “Il sosia”.
Dr. Giovane:- Lei ha usato un termine molto appropriato: “scissione”, quella divisione della mente e quindi della personalità, che la psichiatria definisce “schizofrenia”. Nello “Zarathustra” di Nietzsche, leggiamo quest’affermazione: “Da wurde eins zu zwei und Zarathustra ging am mir vorbei.” Possiamo così tradurla: “Ecco l’Uno divenne Due e Zarathustra mi venne incontro.” Così commenta Jung: “Zarathustra per lui [Nietzsche] era sempre qualcosa di più di una metafora, di una figura retorica; era una figura più o meno reale.” Il problema non è tanto avere coscienza di noi stessi, ma è avvertire la presenza dell’altro nostro io come la presenza reale di un altro noi stessi. È come avere un’esperienza vivente e visionaria, tipo quella di Nietzsche con Zarathustra.
Prof. Lavagna: - Sul tema del doppio in letteratura, volevo ricordare lo schizzo tracciato da Borges nel suo racconto: “Borges ed io”.
Dr. Giovane: - È un colloquio dell’autore con sé stesso non più camuffato nello schema narrativo, ma un confronto vis-à-vis. Un mio antico professore di liceo, scusatemi se introduco questo ricordo personale, diceva che ogni autore, anche quando scrive di altri, è sempre autobiografico. E il sorrisetto malizioso con cui sottolineava questa affermazione stava a significare che di essa, prima ancora che una spiegazione logica, si aveva contezza attraverso un’intuizione.
Prof. Lavagna: - “Madame Bovary c’est moi”.
Dr. Giovane: - Esattamente.
Prof. Lavagna: - Nel suo ritrattino sui due Borges, lo scrittore argentino così conclude: “Non so chi dei due scriva questa pagina.”

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Giovane: - Il giudizio finale così formulato è molto interessante su quello che è un meccanismo narrativo ineludibile, un giogo imposto dalla scrittura. Distinguendosi dai suoi due personaggi, che riflettono lo sdoppiamento della sua identità, il narratore è costretto ad assumere il ruolo di “terzo”, un gioco di specchi che potrebbe proseguire all’infinito. Un infinito parlare di sé direi nelle proprie narrazioni, che sembra riconfermare quanto diceva il mio professore di letteratura italiana sull’elemento autobiografico del racconto. Non vi pare? Eppure egli, Borges, così scrive del Borges scrittore: “Mi riconosco meno nei suoi libri che in molti altri o nell’elaborato arpeggio di una chitarra.” Si ritrova più in altre narrazioni che non le sue, o anche in altre espressioni artistiche, come può essere quella musicale.
Prof. Lavagna: - Nelle pagine di Borges si avverte sempre l’eco delle note del tango e della milonga, la musica argentina, il “fervore di Buenos Aires”.
Dr. Giovane: - È lo sfondo del suo essere “Borges”, dal quale non può evadere, una fuga dal suo sé impossibile, di cui è consapevole: “Anni addietro cercai di disfarmi di lui e passai dalle mitologie dei sobborghi ai giuochi col tempo e con l’infinito, ma codesti giuochi ormai sono di Borges e dovrò ideare altre cose. Così la mia vita è una fuga.” È una fuga che si perde nell’oblio o in quell’altro Borges, il narratore di sé stesso e della sua Buenos Aires, la sua Argentina.
Prof. Lavagna: Borges, un grande poeta e scrittore, un genio della letteratura. Peccato che non gli sia mai stato assegnato il Nobel.
Dr. Giovane: - Nella letteratura è la vita, ma la letteratura è nella vita, non soltanto interiore, ma soprattutto in quella sociale e politica. Quando era stato deciso di assegnargli il Nobel, raccomandarono a Borges di non partire per il Cile, dove era stato invitato a pranzo da Pinochet, ma lui non volle rinunciare al viaggio e all’invito del dittatore e perse il prestigioso premio. Ma adesso ritorniamo a Silvio e alla mia domanda sul perché in questi “Seminari” egli si nomini come “Silvio”. Avrebbe potuto nominarsi come “Minieri”, ma non l’ha fatto. Perché? Signori, avrete tutto il tempo per poter riflettere su quest’interrogativo, a cui risponderemo nella prossima Conferenza.

Silvio Minieri ha detto...

Quarta Conferenza (16 novembre 2015)

1. La poesia: “Minieri!” 2. Esegesi della poesia. 3. “Il maestro e Margherita” di Bulgakov. 4. Le Carmelitane di Bernanos. 4. Aneddoti su Stalin.

Dr. Giovane: - Signore e Signori, la volta scorsa ci eravamo lasciati con l’interrogativo sul perché in questi “Seminari” l’autore ha voluto presentarsi sotto il nome di Silvio, evidenziando l’alternativa, sull’esempio di Borges, che avrebbe potuto nominarsi come “Minieri”. Qualcuno mi sa rispondere, in particolare, su questo secondo punto?
Prof. Lavagna: - Borges ha scritto una poesia sulla discendenza della sua famiglia dai “maggiori portoghesi”, gli antenati dei “Borges”.
Dr. Giovane: - Sì, è vero.
Sig.na Annalisa Marini: - Anche Silvio ha scritto una poesia, che porta il titolo del suo casato: “Minieri”. È compresa nella silloge: “I due coppieri”.
Dr. Giovane: - Ecco, lei ha centrato l’argomento. Però sembra che ci sia sfuggito un piccolo particolare, apparentemente poco importante. Sapreste dirmi quale?
Prof. Marini: - Il titolo esatto della poesia ha il punto esclamativo: “Minieri!”
Dr. Giovane: - Verissimo. Qual è il senso dell’interiezione?
Prof. Marini: - Dare solennità al richiamo.
Dr. Giovane: - Indubbiamente è così. Ma forse una lettura della poesia ci aiuterà meglio a chiarire il senso non solo di tutta la lirica, ma anche di questo verso finale, su cui si è soffermata la nostra attenzione.
“Bevevi dal calice amaro
e certo temevi,
coglievi l’essenza del vero
e forse sapevi,
Carmelitana scalza non eri,
non salivi il patibolo.
Il chierico con il turibolo
spargeva nell’aria profumi
d’incenso assai intenso;
perduta nei fumi
dei tuoi neri pensieri,
dov’eri?
Infine risvegliata, hai gridato
forte il mio nome:
“Minieri!”
Qual è il “calice amaro” da cui beve la figura femminile, definita soltanto in “negativo”. “carmelitana scalza non eri”?
Dr.ssa Giovane: - Quella condivisione di vita con il poeta autore, di cui comincia a riscontrare lati negativi del carattere, come era nei suoi timori.
Dr. Giovane: - Un’osservazione molto puntuale. La bevanda di cui assapora il gusto si rivela amara, ma il timore è rivolto al futuro. Il poeta, infatti, non dice: “come temevi”, ma: “certo temevi”.
Dr.ssa Giovane: - Certo, teme che la bevanda possa rivelarsi ancora più amara dei suoi timori, un veleno mortale, “neri pensieri”.
Dr. Giovane: - L’osservazione è molto acuta e non si ferma all’esame di un singolo verso, ma investe tutta la trama di pensiero della lirica nel suo insieme. E allora è bene illustrarla ancora meglio, in tutti i suoi versi. Quando, subito dopo, recita: “coglievi l’essenza del vero / e forse sapevi”, il poeta mette in chiaro che la questione va oltre il rapporto che la figura femminile da lui evocata ha con lui, diciamo il rapporto assimilato ad una possibile situazione coniugale, al suo inizio. Da quale indizio possiamo ricavare questa convinzione di universalità?
Prof. Imma: - “L’essenza del vero”.

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Giovane: - Abbiamo colto il “cuore” della lirica: l’essenza del vero è il calice amaro, la vita. Che cosa ci autorizza a questa interpretazione?
Prof. Imma: - Una morale pessimistica. Nei “Parerga e Paralipomena”, Schopenhauer racconta la favoletta degli Stachelschweine: “Alcuni porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero l’uno accanto all’altro, al fine di non rimanere assiderati, col calore reciproco. Presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; in questo modo venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.”
Dr. Giovane: - È quello che accade all’uomo e al suo bisogno di socialità, per cui è necessaria una giusta distanza reciproca, che non limiti la propria sfera individuale di libertà. Queste sono le implicazioni “pratiche” della nostra condizione umana; ma io insisterei sull’aspetto “teorico”, quello più metafisico, se posso usare questo termine.
Prof.ssa Santorelli: - Si possono citare i versi del poeta ottocentesco Giovanni Prati, che nella lirica “Incantesimo” rivolge queste parole alla maga Azzerellina: “La vita è un forte / licor che ebbri ci rende, / un sonno alto è la morte / e il mondo un gran Fantasima /che danza con la Sorte e il fine attende.”
Dr. Giovane: - La sua citazione è quanto mai opportuna. Il “forte licor” è un farmaco, un “calice amaro” contro la morte e il nulla, che ci stordisce: “ebbri ci rende”. Ma nella poesia di Silvio la suggestione di Azzerellina viene rovesciata. Qualcuno mi sa dire il perché? Dove si nasconde il segreto della maga?
Prof.ssa Santorelli: - Il nome Azzerellina ha in comune la radice con Azrael o anche Azazel, che dovrebbe essere un angelo ribelle nella tradizione biblica ebraica.
Dottor Giovane: - Lei ha centrato in pieno la questione, il segreto è nel nome.
Sig.ra Marcellini: - Nel romanzo di Michail Bulgakov, “Il maestro e Margherita”, Azazello è con il gatto Behemot, uno dei diavoli al seguito di Woland, Satana, che sotto le vesti di un misterioso professore straniero fa la sua apparizione a Mosca.
Dottor Giovane. - Il suo rilievo è quanto mai opportuno, perché il riferimento ad Azazello, nella poesia del Prati, attraverso il nome di Azzerellina, è traccia di quel rovesciamento di cui parlavamo, una sorta di magia favolistica che si contrappone all’atmosfera religiosa, evocata nella poesia di Silvio, dall’incenso sparso con il turibolo dal chierico, oltre l’ovvio riferimento alle Carmelitane.
Sig.ra Marcellini: - Nella trama principale del romanzo di Bulgakov, s’interseca un’altra storia, la rievocazione del processo tenuto a Gerusalemme dal procuratore romano Ponzio Pilato al mite predicatore Jeshua Ha-Nozri.
Dr. Giovane: - Quel libro, salutato da Eugenio Montale come un commovente miracolo per ognuno di noi, ha suggestionato anche Silvio, che ne ha fatto soggetto di un suo mimo: “Il gatto demonico”. Tutti dovremmo leggere Bulgakov.
Sig.ra Marcellini: - Allo scrittore fece una telefonata anche il compagno Stalin, all’indomani del suicidio di Majakovskij, accogliendo la sua richiesta di un posto al Teatro dell’Arte.
Dr. Giovane: - Bulgakov era perseguitato dalla censura sovietica e Stalin gli salvò la vita, per opportunità politica. Fare satira, sotto un regime totalitario, è estremamente problematico. Lo scrittore ceco Milan Kundera ne fece le spese, quando pubblicò il suo primo romanzo: “Lo scherzo”. Ma con certi regimi non si può scherzare.

Silvio Minieri ha detto...

Sig.ra Marcellini: - Nel finale del suo mimo, “Il gatto demonico”, Silvio sembra reciti un congedo da quel mondo: “- Non c’è più quel mondo, grazhdanin Dezij Ljubio (cittadino Decio Livio) non più il tram, né i binari né Annuska né l’olio di girasole né Berlioz né Ivan Nikolaevich né più tutti i nostri antichi congeneri.”
Dr. Giovane: - Io direi che quell’accento di congedo di Silvio è più che altro nostalgia di un’atmosfera culturale, che trascende ogni passione politica.
Sig.ra Marcellini: - È vero, al numero 10 della Sadovaya, la casa museo di Bulgakov, il gatto grigio è sempre là.
Dr. Giovane: - Intanto, ritorniamo a Silvio e alla sua poesia: “Minieri!” Avevamo colto il parallelo tra i primi due distici: “Bevevi dal calice amaro/ e certo temevi, / coglievi l’essenza del vero/e forse sapevi.” “L’essenza del vero” è “il calice amaro”, ossia la vita, nel suo aspetto di passione. Il dolore, prima ancora che conoscenza, è esperienza, come propriamente rileva Salvatore Natoli nel suo saggio: “L’esperienza del dolore”. Ecco perché Silvio, rivolgendosi alla sua amica, recita: “forse sapevi”. Sembra avere un dubbio, ma è un dubbio che riguarda il profilo della conoscenza intellettuale, non dell’esperienza fisica. Infatti, nel coglierla mentre porta alle labbra il calice amaro, commenta: “e certo temevi”.
Dr.ssa Giovane: - La certezza e il dubbio non sono però astratti, ma concreti, sono indirizzati su Silvio, il poeta.
Dr. Giovane: - Indubbiamente è così. Per lei la “vita”, il calice amaro è Silvio. E infatti, nel sentirsi investito da questo sentimento, diciamo di rappresentare lui tutto per lei, egli riflette sulla circostanza che non si tratta di un sacrificio: “carmelitana scalza non eri, / non salivi il patibolo.” Che cosa lo spinge a quest’immagine, che adombra una somiglianza con l’avvenimento storico?
Prof.ssa Santorelli: - Nel luglio del 1794, nel corso della Rivoluzione Francese, durante il regime del Terrore, sedici suore Carmelitane, le “martiri di Compiègne”, furono ghigliottinate, perché si rifiutarono di rinnegare la loro fede religiosa.
Dr. Giovane: - L’episodio storico, che lei ha puntualmente ricordato, ispirò una ricostruzione teatrale. Ricordiamo quale?
Prof.ssa Santorelli: - “I dialoghi delle Carmelitane” di Georges Bernanos.
Dr. Giovane: - È proprio così. Nel dramma, le quindici religiose, a cui alla fine si aggiunge anche suor Bianca dell’Agonia di Gesù, salgono tutte al patibolo cantando il "Laudate Dominum omnes gentes”. Qual è il senso del dramma, sia quello storico, che quello artisticamente espresso da Bernanos?
Dr.ssa Giovane: - La fede, il tener fede, non tradire.
Dr. Giovane: - Suor Bianca dell’Agonia di Gesù non tradisce le sue consorelle e sale sul patibolo assieme a loro. È così?
Dr.ssa Giovane: - Non tradisce la sua fede, sé stessa, quello in cui crede.

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Giovane: - Indubbiamente il conflitto è personale, riguarda l’individuo, ma le sue scelte si riflettono anche sulla collettività. Sembrerà un aspetto formale, salgo sul patibolo per non tradire i miei compagni, eppure è l’essenza di ogni vita politica, ossia di ogni vita nella polis, la comunità di cui faccio parte e a cui devo anche me stesso. Per tornare a Stalin e agli intellettuali, il dittatore sovietico, che ne aveva mandati parecchi a morte perché suoi oppositori (pare che un poeta, Demjan Bednyj, fosse caduto in disgrazia, soltanto perché si era lamentato del fatto che Stalin con le dita macchiava di unto le pagine dei libri che lui gli mandava), emblematica è la sua replica ad una risposta di Pasternak, in una conversazione telefonica. Stalin gli chiedeva perché lo scrittore non si fosse rivolto a lui per intercedere a favore del poeta Mandel’štam, che era stato arrestato, e Pasternak rispose che i poeti tra loro non sono amici. “Noi bolscevichi non rinneghiamo i nostri amici” replicò gelido Stalin.
Dr.ssa Giovane. - L’aspetto politico però non traspare nella poesia di Silvio: “Minieri!” Dovrebbe essere una storia d’amore individuale.
Dr. Giovane: - E infatti è così. Vedete, è proprio così, ed è sempre così. E il senso della poesia è proprio questo. Quando il poeta s’interroga sull’atteggiamento dell’amata nei confronti della vita, il “calice amaro”, quello che i politici bevono senza zucchero, pretendendo che anche i loro accoliti facciano lo stesso, vede che lei non si sottrae, anche se beve soltanto la sua porzione, non quella che sulla base di un malinteso senso della solidarietà possa condurre al patibolo. Quindi, tra le nuvole d’incenso che il chierico sparge con il turibolo, si domanda: “perduta nei fumi / dei tuoi neri pensieri, / dov’eri?” Perché il poeta si chiede: “dov’eri?” Per fare rima con “pensieri” e “Minieri”? Oppure per quale altro motivo?
Dr. Gabrieli: - La rima suggerisce anche un’altra parola: “doveri”.
Dr. Giovane: - Ecco spiegato il segreto di tutta la poesia, quando si riesce a calarsi nelle profondità oscure della psiche. È là, in quella parola dissimulata, che soltanto una specifica analisi psicologica poteva fare emergere dall’inconscio.
Dr.ssa Giovane: - La costruzione metrica del verso era stata ricercata proprio in vista di questo fine, anche se inconsapevole. Il dovere o i doveri sono propri del poeta.
Dr. Giovane: - Ed è proprio così. La verità è questa, anche se ci può sorprendere. È quella stessa che conduce il poeta all’esclamazione finale di sorpresa: “Minieri!”
Dr.ssa Giovane: - Infatti, una persona, quando si sveglia, non grida, tranne che al momento dell’uscita da un incubo.

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Giovane: - Di chi è quel grido, diciamo, di liberazione?
Dr. Gabrieli: - Del poeta stesso.
Dr. Giovane: - Infatti, è la propria coscienza che lancia il grido, non si può sfuggire a questa verità. Nell’aggettivo del penultimo verso, scopriamo l’inganno poetico: “forte”. Avete mai sentito gridare qualcuno in maniera debole? Al massimo si può lanciare un urlo, diciamo belluino, che sopravanzi un coro di grida, ma il gridare è sempre un gridare forte. E allora perché il poeta sente il bisogno di recitare: “Infine risvegliata, hai gridato / forte il mio nome”? Per esigenze di metro, un aggiungere sillabe per completare il verso?
Dr. Gabrieli: - Può accadere, a volte, che una persona a noi vicina e che ha di noi una certa soggezione, voglia emanciparsi, ed allora lancia un’esclamazione liberatoria, forte e chiara, come potrebbe essere stato in questo caso. Dico “potrebbe”, perché in verità nella poesia nulla sembra autorizzare questa mia interpretazione.
Dr. Giovane: - Questa interpretazione è molto vicina alla verità, se non è essa stessa la verità. Anch’io avevo più o meno definito quel grido un grido di liberazione. Possiamo dire allora che il poeta volendo rispondere a questo suo appello al dovere di essere sé stesso, ne affida il compito alla donna, al risveglio dai suoi neri pensieri?
Dr. Gabrieli: - Quel dovere di essere sé stesso del poeta, racchiuso nell’esclamazione: “Minieri!”, può risolversi nel bene e nel male.
Dr.ssa Giovane: - Sono infatti questi i “neri pensieri” della donna, che inconsciamente lui cerca di rintracciare.
Dr. Giovane: - Cerca di conoscere quei pensieri, ecco perché si domanda: “Dov’eri?”. Tutta la poesia è un interrogarsi del poeta sui suoi rapporti con la donna, che bevendo dal calice amaro accetta senza riserve di correre il rischio, non ostante la velata lusinga di un’essenza del vero, la vita, che non è martirio: “Non salivi il patibolo.”
Dr.ssa Giovane: - Non è una lusinga, ma il chiaro intendimento di lei, sicuramente a lui noto: “Carmelitana scalza non eri.”
Dr. Giovane: - Due sguardi da prospettive diverse per una stessa realtà. Rifiutare il “calice amaro” significa rifiutare “l’essenza del vero”, la vita, il dovere di vivere la vita, un compito, a cui il poeta si sente richiamato dal grido di sorpresa: “Minieri!”

Silvio Minieri ha detto...

QUINTA CONFERENZA (30 novembre 2015)

1. I nomi, Andalù e l’Andalusia. 2. Il racconto di Borges. “L’altro”. 3. Pirandello, “Sei personaggi in cerca d’autore”. 4. L’autore e il testo.

Dr. Giovane: - Signore e Signori, ci ritroviamo qui riuniti per la quinta volta, al fine di commentare e discutere i testi di Anonimo Silvio, quelli riguardanti la “Scrittura Nera”, i suoi scritti horror, noir e simili, per sondare gli aspetti inconsci della sua psiche ed esplorare il magma spirituale in essa contenuto. Finora però abbiamo dovuto trattare temi introduttivi, primo fra tutti, quello del palcoscenico illusorio in cui ci muoviamo come personaggi della fantasia di Silvio. In questo senso noi stessi siamo il suo materiale psichico ed abbiamo finito per interrogarci sulle nostre identità, per passare poi a quella di Silvio, indagando gli aspetti soprattutto risultanti dalla sua poesia: “Minieri!” Quest’indagine toglie definitivamente ogni anonimità ad “Anonimo Silvio”, che pertanto diventa semplicemente “Silvio”. Direi quindi di concludere sull’identità dell’autore, cercando di scoprire per quali motivi in questi Seminari egli si presenta come “Silvio”, senza figurare come personaggio tra noi, anche se il suo ruolo a volte viene da me interpretato, scimmiottando peraltro Jung.
Prof.ssa Angeli: - “Scimmiottare” è un termine molto appropriato, perché richiama in campo psichico la nostra discendenza dall’Australopiteco, da cui ci siamo differenziati come scimmie intelligenti.
Dr. Giovane: - Questo tema della psiche di uomo scimmia, peraltro affrontato con grande serietà da Jung, lo trattammo all’inizio, rievocando nell’occasione il mimo di Silvio: “Ti ricordi di Andalù?” Ed a questo proposito, io vorrei soffermare l’attenzione di voi tutti su questo nome: “Andalù”.
Prof. Lavagna: - Andalusia è il nome della regione meridionale della Spagna, quella confinante con l’Africa. Nella lingua castigliana el Andalucìa deriva da Al-Andalus, il nome dato ai territori spagnoli sotto la dominazione araba. L’etimologia del termine è incerta, un’interpretazione verosimile, accreditata dall’arabista Emilio Gonzales dell’Università di Siviglia la ricollega ad Atlantide. Nelle cronache arabe, il territorio è denominato “Al-Andalus-Jazeera”, l’isola di Al-Andalus. Inoltre il toponimo suggerisce anche una sua evoluzione dal greco Atlas o Atlante, secondo le successive variazioni in Antalas, Andalas, Andalus.
Dr. Giovane: - L’etimologia che lega un nome al territorio è sempre quella che desta la maggior attenzione. Qui ovviamente possiamo risparmiarci tutta la discussione che Platone riporta nel “Cratilo” sul significato dei nomi, se essi cioè siano stati assegnati per convenzione o perché rappresentano qualcosa dell’oggetto a cui si riferiscono. Un’osservazione che possiamo fare è che quel territorio segna il passaggio dall’Europa all’Africa, dove le sfumature tra le popolazioni dei due continenti sono più attenuate.
Prof.ssa Angeli: - In una trasmissione televisiva degli anni Sessanta, il conduttore Lombardi, “l’amico degli animali” si rivolgeva al suo aiutante di colore chiamandolo per nome Andalù. Per esempio, dopo avere mostrato al pubblico televisivo un animale, rivolgendosi al collaboratore, diceva: “Andalù, portalo via.”
Dr. Giovane: - Un nome da primitivo, che a scuola i ragazzi trovarono indovinato e l’attribuirono al loro compagno, quello che si arrampicava svelto sugli alberi. Un nome da primitivo, ma pur sempre un nome, il nome è la nostra identità. Noi stessi ci riconosciamo socialmente con il nostro nome proprio e il nome del nostro casato. E nella finzione letteraria il nome viene attribuito per conferire un’identità precisa al personaggio. Così, nella figurazione artistica, il nome perde la sua “realità”, il suo essere reale, una realtà, e ne acquista una circostanziata, adattata alla narrazione di una storia di finzione.

Silvio Minieri ha detto...

Prof. Lavagna: - In uno dei racconti del “Libro di sabbia” di Borges, “L’altro”, l’autore si presenta con le proprie generalità.
Dr. Giovane: - Inevitabilmente le nostre riflessioni sull’uso dei nomi attribuiti dagli autori ai loro personaggi ci riportano a quanto già detto nella terza conferenza ed io concordo con il professor Lavagna, con cui ci siamo scambiati qualche opinione mentre venivamo qui, che l’argomento merita un migliore approfondimento.
Prof. Lavagna: - Il narratore rievoca un episodio accadutogli a Cambridge, a nord di Boston, tre anni prima, nel 1969. Era seduto su una panchina e guardava scorrere le lastre di ghiaccio sull’acqua grigia del fiume Charles. Il fiume lo porta a pensare al fluire eracliteo del tempo. All’altra estremità della panchina è seduto un giovane che fischietta il motivo di una vecchia canzone argentina. Interpellato, il giovane dichiara di essere argentino, ma di abitare a Ginevra dal 1914: “Gli domandai: “Al numero diciassette di Malagnou, di fronte alla chiesa russa?” Mi rispose di sì. “In tal caso” gli dissi risolutamente, “lei si chiama Jorge Luis Borges. Anch’io sono Jorge Luis Borges. Siamo nel 1969, nella città di Cambridge.” L’altro gli risponde con la sua stessa voce un po’ lontana di stare a Ginevra a pochi passi dal Rodano, poi osserva che si assomigliano, ma: “lei è molto più anziano e ha la testa grigia.” Il narratore dice che forse ognuno sta sognando l’altro, e all’interrogativo posto dal giovane se il sogno continuasse, replica: “Il mio sogno è durato già settant’anni. In fin dei conti, ricordandosi, non c’è persona che non s’incontri con sé stessa.”
Dr. Giovane: - Il racconto è molto suggestivo e rientra proprio nell’atmosfera poetica di sogno, che è lo stile delle composizioni non solo liriche di Borges. La poesia narrativa suscita immagini, su cui possiamo come critici esprimere poi un giudizio discorsivo. Borges pone sempre dei prologhi alle sue raccolte di poesie o racconti. Nel caso del “Libro di sabbia” fa un’eccezione e commenta le opere della raccolta con un epilogo. Ecco che cosa dice a proposito del suo “L’altro”: “Il racconto iniziale riprende il vecchio tema del sosia, che mosse tante volte la sempre fortunata penna di Stevenson. In Inghilterra il suo nome è fetch o, in stile più libresco, wraith of the living; in Germania, Doppelgaenger. Direi che uno dei suoi primi appellativi è stato quello di alter ego.” Quindi fa un’affermazione abbastanza importante, che poi illustreremo: “Questa apparizione spettrale sarà nata dagli specchi del metallo o dell’acqua, o semplicemente dalla memoria, che fa di ciascuno spettatore e attore.” Infine conclude: “Varrà la pena confessare che concepii la storia in riva al fiume Charles, nel New England, la cui fredda corrente mi ricordò il lontano corso del Rodano?”

Silvio Minieri ha detto...

Gen. Norman: - Vorrei intervenire con una battuta. Non è certo necessario ricordare che lo Stevenson richiamato da Borges è lo scrittore scozzese Robert Louis Stevenson, autore del celebre romanzo: “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”.
Dr. Giovane: - Quella del nostro anglista, il generale Norman, non è solo una battuta, ma un’osservazione estremamente opportuna, perché sposta l’accento della nostra conversazione sull’altro versante della nostra personalità, quello in ombra. In soggetti dalla psiche particolarmente debole, la bipolarità della mente è un disturbo morboso, a cui la psichiatria ha dato il nome di schizofrenia, letteralmente scissione della mente. In questo campo, il dottor Jung, che doveva curare questi malati di mente, nei suoi studi, si ritrovò a doversi interrogare sul tema dell’esistenza degli spiriti. Nel suo saggio del 1920, “Fondamenti psicologici della credenza negli spiriti”, dopo aver parlato della psicogenesi degli spiriti dei defunti, così conclude: “Vi sono notizie molto diffuse su questi fenomeni post-mortali aventi l’aspetto di fantasmi o di infestazioni. Queste notizie si basano perlopiù su fatti psichici che non possono essere ignorati.”
Sulla generazione psichica (psicogenesi) degli spiriti, Borges, in riferimento al suo di spirito, parla di apparizioni spettrali sorte dagli specchi di metallo o dell’acqua o semplicemente dalla memoria. Sta parlando di immagini, ma le immagini sono reali o fantastiche. La lingua francese distingue tra “fantômes” e “fantasmes”, che in italiano potremmo rispettivamente tradurre con “fantasmi” e “fantasie”, se vogliamo dare o meno un’anima a queste parvenze, dove “anima” significa “vita”. Questa dei fantasmi o spiriti è un po’ il “teatro”, in cui noi ci troviamo a recitare la nostra parte, in questi Seminari. Non vi pare?
Prof.ssa Santorelli: - Lo scenario paradossale in cui noi ci muoviamo è quello stesso sfondo in cui si muovono i personaggi di alcune commedie di Pirandello, il teatro nel teatro, come è stato definito.

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Giovane: Lei allude in primis alla commedia principale del trittico, quella più conosciuta e discussa e che ebbe anche una rumorosa accoglienza alla sua “prima”: “Sei personaggi in cerca d’autore”. In proposito Silvio ha scritto e pubblicato sul suo Blog tempo fa, non ricordo quando, un saggio: “Pirandello, la realtà delle fantasie”, che sarebbe utile leggere. Io qui mi limito a dire che nei commenti sulla sua opera, nel rilevare la paradossalità della situazione da lui ideata, dove sulla scena compaiono i personaggi con le loro storie dolorose da raccontare (i fantasmi dolenti della vita di Pirandello) e dall’altra gli attori che debbono interpretare le parti di questi personaggi, Pirandello precisa che questi ultimi comunque non sono coscienti di essere irreali, ossia creature di fantasia. Infatti non devono recitare un copione, ma raccontare la loro storia di sofferenze. E io, a tale proposito, quello di “recitare” la propria vita, avrei qui un’osservazione da fare, anzi due. La prima riguarda la differenza tra lo scenario pirandelliano e quello nostro attuale. Noi non siamo attori sulla scena vera e propria di un teatro, come dire sulle tavole di un palcoscenico, su cui si apre il sipario all’inizio della commedia e alla fine si chiude, ma soltanto coscienti che questa nostra vita reale che viviamo sia soltanto “un’illusione” nella coscienza creatrice di un “essere vero”, che scrive le nostre parti. E in verità sono io a enunciare questa verità del nostro essere finti, voi altri state al gioco, lasciandomi giocare questo mio ruolo di psicagogo, che adombra la figura di Silvio esistente, il quale scrivendo questi Seminari, che io conduco ed a cui voi partecipate, si diverte per altro a scimmiottare i “Seminari” di Jung sullo “Zarathustra” di Nietzsche. Follie, verrebbe da commentare. Quel genere di follie vissute nella vita coniugale di Pirandello, che l’autore trasfigurava nelle sue commedie, salvandosi con il suo umorismo da quelle parvenze o allucinazioni mentali, assegnando ad esse un ruolo di verità. Nei “Sei personaggi”, il ruolo di chi deve scrivere e poi sbuffando scrive il copione della storia dei personaggi che gli attori devono interpretare è affidato al capocomico, il quale appunto adombra la figura dell’autore, come sto facendo io in questo momento con i nostri Seminari.
Prof.ssa Santorelli: - Nell’introduzione a un suo testo narrativo di qualche anno fa: “Morte di un professore di zoologia”, Silvio fa la seguente affermazione: “La coscienza è un teatro abitato da molti demoni”.
Dr. Giovane: - Sì, deve avere “rubato” a qualcun’altro quest’espressione, di cui magari non si può conoscere l’autenticità. Interessante è l’analisi sul rapporto fra un testo e l’autore, che Michel Foucault compie nel suo Saggio: “Che cosa è un autore?”, riportante una conferenza-dibattito da lui tenuta il 22 febbraio 1969 presso il Collège de France. Prevale la regola dell’immanenza della scrittura sulla trascendenza del suo autore, un testo o un’espressione finiscono per riferirsi soltanto a sé stessi. Vedete, è un po’ come la storia del proverbio: “Una rondine non fa primavera”. Non pensiamo all’autore, ma soltanto al contenuto del detto. Noi attribuiamo l’espressione ad Aristotele, che forse si sarà limitato a registrare un semplice detto popolare nella sua “Etica Nicomachea”.

Silvio Minieri ha detto...

SESTA CONFERENZA (14 dicembre 2015)
1. “La fuga delle ombre” di Silvio. 2. Commento. 3. Mattea e Giacoma. 4. I “Septem Sermones ad Mortuos” di Jung.

Dr. Giovane:- Signore e Signori, siamo arrivati all’ultima conferenza di questa sessione invernale del nostro Seminario sulla scrittura nera di Silvio e non siamo ancora riusciti ad esaminare un qualche suo testo avente ad oggetto questo specifico tema, il “nero” o, se preferite, il “noir”.
Dr.ssa Giovane: - La poesia del “patibolo”, del “calice amaro” e dei “neri pensieri”, “Minieri!”, era comunque abbastanza indicativa.
Dr. Giovane: - Non vi è dubbio su questo. Io però vorrei sottoporre al vostro esame un testo, l’ultimo di Silvio, che è stato scritto apposta per questi Seminari. Sarò più chiaro. Il testo è temporalmente posteriore rispetto al tempo del nostro calendario, quindi teoricamente Silvio ancora non l’avrebbe scritto, ma noi lo esamineremo egualmente. È intitolato: “La fuga delle ombre”.
Dr.ssa Giovane: - Io credo che la data reale della stesura del testo non abbia una grande rilevanza, anche perché di sicuro la sua concezione sarà stata antecedente.
Dr. Giovane: - E infatti è così. Silvio ha scritto “La fuga delle ombre” nel gennaio del 2017, anche se aveva il pezzo in mente da molto prima, da quando aveva letto “I sette sermoni” di Jung. Come vedete siamo in piena atmosfera junghiana, anche se parliamo di Silvio, il nostro Anonimo Silvio, divenuto Silvio. Ma torneremo sui rapporti tra autori e testi, il tema di coda della nostra conferenza precedente. Adesso leggiamo: “La fuga delle ombre”.
“Cominciava rapidamente a scurire e da lontano i rari passanti già apparivano indistinti, alcune automobili avevano acceso le luci di posizione. Camminavamo a passo svelto in fila orizzontale e dopo un po’ avevamo raggiunto quasi l’angolo di viale Beethoven con viale della Civiltà del Lavoro, quando mi sembrò di avvistare il gruppo delle ombre. Avevano aggirato l’aiuola e si dirigevano verso via Ciro il Grande. Allora affrettammo ancora il passo, ma anche le ombre aumentarono l’andatura e un po’ alla volta cominciarono a correre. Mi lanciai subito al loro inseguimento ed accelerai sul viale dell’Agricoltura. Si era fatto quasi buio, ma nell’oscurità vidi due delle ombre in fuga voltarsi. Erano loro, riconobbi subito l’espressione tipica dei loro volti atteggiati al riso, Giacoma da Milano e Mattea da Roma, entrambe defunte ed ora in fuga, solo qualche metro davanti a me. Continuavano a voltarsi, il riso sardonico, ma ormai le avevo raggiunte. All’incrocio con via delle Tre Fontane allungai un braccio per afferrare alle spalle il vestito nero di Mattea, ma nel continuare a correre mi sbilanciai sulla sinistra ed allora chiusi la mano a pugno, cercando di colpirla sulla schiena. Mi sfuggì e mi rise in faccia, la folle medichessa, come era conosciuta nella Scuola delle Arti di via del Torrino, quella donna insana di mente. Si voltò Giacoma, che avevo conosciuto a Brera, in compagnia della nana, il riso ironico vendicativo. Un’altra isterica, un’altra malata di mente, un’altra da afferrare e colpire, uno o due schiaffi educativi, come quelli che il mio amico Ferruccio, infermiere professionale al Manicomio, “Nostra Signora della Pietà”, dava qualche volta alle più scalmanate tra le libere donne ivi rinchiuse, quando gli si rivoltavano contro, tentando di graffiarlo.
Poi si udì il coro delle defunte: “Ascoltate i nostri lamenti. Noi siamo le figlie della passione e veniamo da Oriente, diteci, dov’è la vostra verità? Diteci, gente della Sera, dov’è la vostra civiltà? Ascoltate i nostri lamenti. Noi siamo le figlie del Mattino. È questo il vostro modo di accoglierci? Diteci, dov’è la vostra ragione? Ascoltate i nostri lamenti.” Poi si udirono i loro pianti e gemiti.

Silvio Minieri ha detto...

Un anno dopo quando raccontai l’episodio a Giorgio Arrigo, mi disse che anche un nostro comune amico, Silvio, gli aveva accennato della fuga degli spiriti defunti e del nostro inseguimento, quella sera all’Eur, ma non gli aveva detto del particolare di Mattea e Giacoma né del coro delle figlie della passione e dei loro lamenti.
Rimasi molto sorpreso e replicai a Giorgio Arrigo, che forse Silvio non era riuscito a raggiungere in tempo la schiera degli spiriti in fuga e quindi non aveva udito il coro e i loro pianti. “È probabile” commentò Giorgio Arrigo, poi mi salutò e ci lasciammo.”
Il testo è breve ed interessante. Soffermiamoci sull’incipit: “Cominciava rapidamente a scurire e da lontano i rari passanti già apparivano indistinti, alcune automobili avevano acceso le luci di posizione.” Che sensazione ci trasmette questo cominciare a scurire della luce del giorno?
Prof.ssa Santorelli: - È un modo di iniziare un racconto.
Dr. Giovane: - Sì, è così. Si prepara un’atmosfera crepuscolare, dove tutto comincia ad apparire indistinto e confuso. Le prime automobili che passano hanno acceso le luci di posizione. È l’annuncio della sera.
Sig.na Annalisa Marini: - Nell’incipit non c’è nulla di particolare.
Dr. Giovane: - Esattamente! Nulla di particolare. È proprio quello che l’autore vuole rappresentare: lo spettacolo della sera nel panorama metropolitano. Molti quadri di pittori anche sconosciuti celebrano queste immagini. Perché?
Prof.ssa Santorelli: - “Forse perché della fatal quïete / tu sei l'imago a me sì cara vieni, / o sera!” Uno stato d’animo sereno, come quello cantato dal Foscolo. Nei ritratti dei pittori spesso vediamo scene di strade lucide di pioggia, i lampioni accesi e i passanti, ma l’atmosfera è tranquilla. Uno spettacolo sereno, quello che viviamo uscendo di casa la sera nelle strade cittadine.
Dr. Giovane: - È proprio così. Ma l’autore, Silvio, quasi senza farsene accorgere, ha già introdotto una sottile incertezza nella quiete della sera. Sapreste dirmi quale?
Prof.ssa Santorelli: “I rari passanti già apparivano indistinti.”
Dr. Giovane: - È come se qualcosa cominciasse a confondersi, appare e non appare. Nei quadri, i passanti sono figure chiaramente distinte, in cui il pittore disegnandole coglie i loro movimenti, sappiamo che camminano nella sera anche se lucida di pioggia in strade illuminate dai lampioni. Qui, in Silvio, i passanti rari si fanno sagome sfumate.
È qualcosa d’insolito? No, diciamo. Ma andando avanti nella lettura, il quadro si evolve: “Camminavamo a passo svelto in fila orizzontale e dopo un po’ avevamo raggiunto quasi l’angolo di viale Beethoven con viale della Civiltà del Lavoro, quando mi sembrò di avvistare il gruppo delle ombre.” Che cosa ci dice questo camminare?
Prof.ssa Santorelli: - L’io narrante si presenta al plurale, una “fila orizzontale”, anche se subito dopo il discorso si ricompone al singolare.
Dr. Giovane: - È proprio così. Ma perché è così? Perché Silvio sente l’esigenza di parlare prima al plurale e subito dopo al singolare?
Prof. Marini: - Per creare un effetto scenico, una tecnica narrativa.
Dr. Giovane: - Certamente, ci troviamo di fronte ad una tecnica narrativa; ma perché questo accorgimento del plurale nell’economia del racconto?
Sig.na Annalisa Marini: - Silvio cerca una complicità, cioè vuole dirci che non era solo.
Dr. Giovane: - Indubbiamente Silvio ci dice che non era solo, non simplex, semplice, ma in compagnia, complex, complice. Perché?
Sig.na Annalisa Marini: - Per non rispondere da solo della sua azione.

Silvio Minieri ha detto...

Dr. Giovane: - Sì, certo, siamo portati a crearci dei complici, per condividere con altri la responsabilità di una nostra azione, cercare un’approvazione anche di altri, che rappresentino in un certo qual modo la collettività. Ma vi è qualcosa in più di un’arte narrativa o di una psicologia dei personaggi. È il passaggio dal reale al fantastico, che si compie quando gli altri sfumano sullo sfondo, mentre il protagonista si spinge in avanti nell’inseguimento. La scena non appartiene più alla dimensione della realtà, ma rimane espressione di una interiorità della coscienza, come è testimoniato nella conclusione del testo: “Un anno dopo quando raccontai l’episodio a Giorgio Arrigo, mi disse che anche un nostro comune amico, Silvio, gli aveva accennato della fuga degli spiriti defunti e del nostro inseguimento, quella sera all’Eur, ma non gli aveva detto del particolare di Mattea e Giacoma né del coro delle figlie della passione e dei loro lamenti.” Qui l’autore prende la distanza dalla veridicità dei fatti o quanto meno da una loro verosimiglianza, inserendo un dubbio testimone di nome Silvio, che parla di fuga di defunti, senza però essere a conoscenza di Mattea e Giacoma e del coro delle figlie della passione.
Dr.ssa Giovane: - Da notare che i nomi Mattea e Giacoma declinano al femminile i nomi di due dei dodici apostoli dei Vangeli.
Dr. Giovane: - Come avevamo rilevato prima, nel redigere il finale del breve testo: “La fuga delle ombre”, Silvio è indubbiamente sotto l’influsso della lettura dei “Sette Sermoni” di Jung, il cui incipit rivela quel linguaggio profetico e biblico, da cui appunto Silvio è suggestionato: “I morti erano di ritorno da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano. Mi pregarono di lasciarli entrare e implorarono il mio verbo, e così iniziai il mio insegnamento: Ascoltate: io inizio dal nulla.”
Dr.ssa Giovane: - Una suggestione puramente formale, perché i due testi hanno una totale differenza di contenuto.
Dr. Giovane: Verissimo! Evidente, infatti, è la frattura di linguaggio tra le due scene, quella manicomiale dell’inseguimento e l’altra del lamento delle figlie della passione. Che cosa significa questa frattura?
Dr.ssa Giovane: - Io, più che una frattura, coglierei una certa continuità di fondo nel testo, che sembra mutare solo in superficie. Infatti, quel passaggio dall’odio contro le donne, una vera e propria forma di misoginia, alla compassione per i loro gemiti è solo apparente, come testimonia la circostanza di essere ricorso ad un altro testo, per trovare ispirazione al suo sentimento. Non espressione del suo stato d’animo, ma imitazione di linguaggio formale è il lamento femminile.
Dr. Giovane: - Il discorso è scivolato su un testo, “Septem Sermones ad Mortuos” di Jung, di cui dovremmo dare conto seppure sommario, senza sviare l’attenzione dal nostro tema principale. Quindi, possiamo cogliere l’occasione delle prossime vacanze natalizie, l’intervallo che ci separa, in questi nostri “Seminari”, dalla prossima Sessione invernale, per approfondire quel testo. Nel lasciarci, in attesa di ritrovarci per la prima conferenza del prossimo anno, auguro a tutti voi buone feste.