“Immaginare che il più contenga il meno, che un’accozzaglia sia una totalità, nulla di ciò fu creduto nei grandi secoli.” Eugenio Montale, “L’obbrobrio”.
1. La muraglia Un comune lettore che legge testi di filosofia o poesia spesso s’imbatte in parole difficili, quelle che non s’incontrano nelle conversazioni di tutti i giorni o il cui senso risulta nuovo o irriconoscibile. In questo senso il filosofo e il poeta compiono il lavoro dell’onomaturgo, colui che conia parole nuove. Ma sono poi tanto indecifrabili queste parole difficili? Forse la migliore definizione per esse è quella di “parole inconsuete”. Un ricercatore in questo senso della nascosta preziosità delle parole è stato senz’altro Eugenio Montale, che ha reso celebre i suoi versi proprio grazie ad un linguaggio poetico spesso impervio e scosceso, come certi sentieri o viottoli ripidi di montagna o dirupi e strapiombi della sua Liguria. “Godi se il vento ch’entra nel pomario vi rimena l’ ondata della vita: qui dove affonda un morto viluppo di memorie, orto non era, ma reliquario.” È “In limine”, la lirica introduttiva alla prima raccolta di versi: “Ossi di seppia”, e già nel primo verso troviamo una parola inconsueta: “pomario”, che sta per frutteto. Il termine veniva usato per indicare giardini antichi o rinascimentali, ornati di piante a scopo decorativo. Il poeta lo nomina come luogo della sua memoria, “reliquario”. È un linguaggio poetico che non coltiva la retorica ufficiale del suo tempo, ma come da contraltare inaugura una nuova forma espressiva, tutta particolare. “Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.” Il poeta si ritrova nel suo orto, diventato un viluppo morto di memorie ed è un po' l’abbrivio del suo verseggiare, ritraendo la desolazione del paesaggio che incontra, la sua “bellezza scarna, scabra, allucinante”. “E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com'è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.”
Sono versi che lo stesso Montale mette in evidenza per dichiarare l’intenzione della sua poetica, l’adeguarsi stretto a quelle terre della sua giovinezza, la sua volontà di aderire ad ogni fibra di quel suolo, scoprire sotto il velo illusorio l’inganno del mondo, onde coglierne l’essenziale, il “quid definitivo”, “un limite irraggiungibile”. Ora, partendo proprio dalla rima delle desinenze dei versi, vogliamo tentare un esperimento, accostando l’immagine poetica alla narrazione filosofica di un mito, quello platonico delle anime carri alati, al fine di cogliere l’essenza del vero, che si cela sotto il velo del mondo sensibile. Quelle desinenze di parole, che nella composizione poetica risuonano di una loro stridente musicalità, richiamano più sgraziate figure nella conversazione comune, come ad es. “accozzaglia”, “marmaglia”, “plebaglia”, “canaglia” e altre simili. Tra queste, per il nostro accostamento tra poesia e filosofia, noi scegliamo il termine “accozzaglia”, che meglio si addice peraltro a un discorso sulle parole. E cominciamo subito col dire che l’insieme delle rime in esame non è un’accozzaglia di sillabe e suoni, ma una successione ritmata di risonanze cadenzate, uno sbattere dei piatti nelle bande musicali. E la successione delle parole non è affatto un suono di parole accozzate l’una all’altra, ma l’espressione di un pensiero che quelle parole rispecchiano, seppure scelte per il loro effetto sonoro. L’immagine è quella del muoversi nella calura della campagna arsa dal sole, in un “abbaglio” di luce accecante, e nel continuo andare con fatica, “travaglio”, lungo il seguitare dell’erto recinto di pietre, scoprire con “triste meraviglia”, che la vita è l’impossibilità di superare questa “muraglia” con in cima i vetri aguzzi di “bottiglia”. Abbiamo parafrasato i versi, senza riuscire a toglierne la cadenza della rima, per cercare di afferrare con maggiore comprensione quel senso, che già la poesia esprime con chiarezza. Ma questa conversione in prosa ci serve per il parallelo delle immagini con il racconto filosofico di Platone, che troviamo nel “Fedro”. Quello che in Montale è l’insormontabilità della “muraglia”, il rovello di qua dall’erto muro, lo scontro con la realtà dell’esistenza, in Platone è la “battaglia” in volo dei carri alati delle anime, per superare il dorso del cielo. In entrambi è il desiderio di conoscere il “vero” delle cose, nel poeta un desiderio di slancio, nel filosofo il ricordo di quello che l’anima ha visto nel viaggio lassù.
2. La battaglia “Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale.” (Fedro, 246bc) È la celebre immagine dell’anima, che perfetta vola immortale nel cielo, ma quando perde le ali e cade in un corpo, contribuisce a formare l’unità del mortale. Platone più avanti descrive il corteo celeste delle anime degli dèi, che volano in ordine perfetto: “Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino.” (Fedro, 247a) A questo perfetto ordine cosmico delle schiere divine tiene dietro lo scomposto corteo delle altre anime: “Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta con massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere.” (Fedro, 248a)
A questa descrizione di scontri tra i carri alati delle anime, ai confini del cielo, per conquistare un posto di affaccio sulla “pianura della verità”, potrebbe forse applicarsi, in una certa dimensione narrativa, il termine “accozzaglia”, anche se in verità sarebbe un accostamento improprio. Il termine conserva in sé una qualifica spregiativa, che il testo platonico non autorizza ad impiegare nel giudizio sui contenuti. Quella descritta infatti è una confusione, dovuta alla competizione tra i carri per arrivare ognuno più in alto dell’altro. I termini usati da Platone sono: θόρυβος, zuffa, tumulto, confusione, e ἅμιλλα, lotta, battaglia, scontro. Se tòrubos indica la grande “confusione” dovuta al disordinato radunarsi dei carri, e quindi calca, turba, tumulto, che sfocia in guerriglia, manca in questo termine il senso dispregiativo. Il vocabolo contiguo per significato è àmilla, “battaglia”, che evidenzia il contrasto, la contesa, il combattimento. Nel testo lo scontro è rappresentato dal “cozzo” dei carri nella mischia e il loro “accozzarsi” sembra suggerire la “accozzaglia”, in ragione dell’unità semantica dei termini, ma non bisogna lasciarsi ingannare. In verità, qui il cozzo è l’urto non tanto volontario, quanto necessario; nell’accozzaglia invece la volontarietà sta nel riunirsi insieme più che nell’urtarsi involontario dovuto all’accozzamento. E invero, nel linguaggio comune, accozzaglia sta per marmaglia, plebaglia, gentaglia, una turba di persone spregevoli. Infatti, spesso nella contesa politica, i rappresentanti di un partito ben organizzato e numeroso definiscono i loro avversari, che pur discordanti tra loro si mettono insieme per essere superiori di numero, un’accozzaglia disparata di gruppi diversi, come dire un’indecente ammucchiata. In sostanza, quello che prevale nel definire “accozzaglia” una riunione di gente o di persone è il giudizio morale o sociopolitico, prima ancora di quello semplicemente estetico. E invero il furore delle battaglie, il fragore delle armi, lo scintillio dei ferri delle spade e degli scudi di bronzo ha in sé qualcosa di epico, un elemento che manca esteticamente in quell’accozzaglia di carri alati, come appare a uno sguardo inconsapevole. In verità, i due termini usati da Platone stanno a significare paradossalmente il contrario di quello che l’oggettivo spettacolo dell’affollarsi delle anime ai confini dell’Iperuranio mostra, ossia un’accozzaglia di carri alati, peraltro in contrasto con le ordinate schiere dei carri divini al seguito di Zeus. E siamo arrivati al “dunque”: il cosmo come ordine armonico del tutto, in opposizione al grande caos dell’inizio. Sono ἄθροισις e ὄχλος i vocaboli greci che meglio rendono il significato di accozzaglia, un insieme confuso e disordinato di uomini o cose, privo di ordine e unitarietà, come ben evidenziano i versi di Montale citati in epigrafe.
L’espressione ἄθροιζειν στράτευμα significa “mettere insieme un esercito”, appunto radunare un gran numero di persone confuso e disordinato e organizzarlo in schiere allineate con ordine e disciplina. Se athroisis mantiene più il significato dinamico di raduno, in oklos (latino vulgus) la visione è quella relativa all’insieme di gente che costituisce una collettività, in specie una massa confusa e affollata. In Platone, oltre a indicare un individuo singolo del volgo (Ippia maggiore, 289cd), il termine ha anche un significato più specifico di carattere militare: “adunanza” di popolo, per scegliere gli strateghi o per decidere l’ordinamento da dare all’esercito (Gorgia, 455b). E così in Tucidide oklos è un manipolo di soldati che cammina in disordine. Dalla lettura di questi termini possiamo ricavare in primis la necessità propria di ogni collettività di persone di darsi un’organizzazione, e quella prima e più elementare è un’organizzazione militare. Il vocabolo greco κόσμος (kósmos) [1], “ordine”, significa l’Universo come insieme ordinato e armonico, allo stesso modo di quello assunto dall'esercito schierato per la battaglia. L’immagine è quella aristotelica del “De Philosophia”, un’opera andata perduta, in cui la contemplazione dell’ordine dei cieli viene paragonata alla visione dall’alto del monte Ida, nei pressi di Troia, dell’avanzare dell’armata greca guidata dal condottiero. [2] È la stessa immagine che Aristotele ripropone nella “Metafisica” (XII, 1075a 10-15): “Bisogna considerare anche in quale modo la realtà dell’universo possegga il bene e l’ottimo: se come qualche cosa che è separato ed in sé e per sé, oppure come l’ordine, oppure in ambedue i modi, come avviene per un esercito. Infatti, il bene dell’esercito sta nell’ordine, ma il bene sta anche nel generale (strateghòs), anzi più in questi che non in quello, perché egli non esiste in virtù dell’ordine, ma l’ordine in virtù sua.” Da questo passo si desume che il bene e l’ottimo sta nell’ordine, e questo è finalizzato all’uno che lo anima, dietro cui gli altri seguono. È l’immagine dell’esercito schierato, specchio dell’ordine dell’Universo, il desiderio dei cieli, mossi dal Movente Immobile. ________________
[1] “Tutto il cielo o cosmo o come lo si preferisca chiamare.” (Platone, Timeo, 28b) [2] Cfr. Aristotele, fr. 12 b Ross (Sesto Empirico, Contro i matematici 9, 26-27), in cui si cita Omero, Iliade IV, 297.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
5 commenti:
L’ACCOZZAGLIA
“Immaginare che il più contenga il meno,
che un’accozzaglia sia una totalità,
nulla di ciò fu creduto nei grandi secoli.”
Eugenio Montale, “L’obbrobrio”.
1. La muraglia
Un comune lettore che legge testi di filosofia o poesia spesso s’imbatte in parole difficili, quelle che non s’incontrano nelle conversazioni di tutti i giorni o il cui senso risulta nuovo o irriconoscibile. In questo senso il filosofo e il poeta compiono il lavoro dell’onomaturgo, colui che conia parole nuove. Ma sono poi tanto indecifrabili queste parole difficili? Forse la migliore definizione per esse è quella di “parole inconsuete”. Un ricercatore in questo senso della nascosta preziosità delle parole è stato senz’altro Eugenio Montale, che ha reso celebre i suoi versi proprio grazie ad un linguaggio poetico spesso impervio e scosceso, come certi sentieri o viottoli ripidi di montagna o dirupi e strapiombi della sua Liguria.
“Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.”
È “In limine”, la lirica introduttiva alla prima raccolta di versi: “Ossi di seppia”, e già nel primo verso troviamo una parola inconsueta: “pomario”, che sta per frutteto. Il termine veniva usato per indicare giardini antichi o rinascimentali, ornati di piante a scopo decorativo. Il poeta lo nomina come luogo della sua memoria, “reliquario”.
È un linguaggio poetico che non coltiva la retorica ufficiale del suo tempo, ma come da contraltare inaugura una nuova forma espressiva, tutta particolare.
“Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.”
Il poeta si ritrova nel suo orto, diventato un viluppo morto di memorie ed è un po' l’abbrivio del suo verseggiare, ritraendo la desolazione del paesaggio che incontra, la sua “bellezza scarna, scabra, allucinante”.
“E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.”
Sono versi che lo stesso Montale mette in evidenza per dichiarare l’intenzione della sua poetica, l’adeguarsi stretto a quelle terre della sua giovinezza, la sua volontà di aderire ad ogni fibra di quel suolo, scoprire sotto il velo illusorio l’inganno del mondo,
onde coglierne l’essenziale, il “quid definitivo”, “un limite irraggiungibile”.
Ora, partendo proprio dalla rima delle desinenze dei versi, vogliamo tentare un esperimento, accostando l’immagine poetica alla narrazione filosofica di un mito, quello platonico delle anime carri alati, al fine di cogliere l’essenza del vero, che si cela sotto il velo del mondo sensibile.
Quelle desinenze di parole, che nella composizione poetica risuonano di una loro stridente musicalità, richiamano più sgraziate figure nella conversazione comune, come ad es. “accozzaglia”, “marmaglia”, “plebaglia”, “canaglia” e altre simili. Tra queste, per il nostro accostamento tra poesia e filosofia, noi scegliamo il termine “accozzaglia”, che meglio si addice peraltro a un discorso sulle parole.
E cominciamo subito col dire che l’insieme delle rime in esame non è un’accozzaglia di sillabe e suoni, ma una successione ritmata di risonanze cadenzate, uno sbattere dei piatti nelle bande musicali. E la successione delle parole non è affatto un suono di parole accozzate l’una all’altra, ma l’espressione di un pensiero che quelle parole rispecchiano, seppure scelte per il loro effetto sonoro.
L’immagine è quella del muoversi nella calura della campagna arsa dal sole, in un “abbaglio” di luce accecante, e nel continuo andare con fatica, “travaglio”, lungo il seguitare dell’erto recinto di pietre, scoprire con “triste meraviglia”, che la vita è l’impossibilità di superare questa “muraglia” con in cima i vetri aguzzi di “bottiglia”. Abbiamo parafrasato i versi, senza riuscire a toglierne la cadenza della rima, per cercare di afferrare con maggiore comprensione quel senso, che già la poesia esprime con chiarezza. Ma questa conversione in prosa ci serve per il parallelo delle immagini con il racconto filosofico di Platone, che troviamo nel “Fedro”.
Quello che in Montale è l’insormontabilità della “muraglia”, il rovello di qua dall’erto muro, lo scontro con la realtà dell’esistenza, in Platone è la “battaglia” in volo dei carri alati delle anime, per superare il dorso del cielo. In entrambi è il desiderio di conoscere il “vero” delle cose, nel poeta un desiderio di slancio, nel filosofo il ricordo di quello che l’anima ha visto nel viaggio lassù.
2. La battaglia
“Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale.” (Fedro, 246bc)
È la celebre immagine dell’anima, che perfetta vola immortale nel cielo, ma quando perde le ali e cade in un corpo, contribuisce a formare l’unità del mortale. Platone più avanti descrive il corteo celeste delle anime degli dèi, che volano in ordine perfetto: “Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino.” (Fedro, 247a)
A questo perfetto ordine cosmico delle schiere divine tiene dietro lo scomposto corteo delle altre anime: “Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta con massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere.” (Fedro, 248a)
A questa descrizione di scontri tra i carri alati delle anime, ai confini del cielo, per conquistare un posto di affaccio sulla “pianura della verità”, potrebbe forse applicarsi, in una certa dimensione narrativa, il termine “accozzaglia”, anche se in verità sarebbe un accostamento improprio. Il termine conserva in sé una qualifica spregiativa, che il testo platonico non autorizza ad impiegare nel giudizio sui contenuti. Quella descritta infatti è una confusione, dovuta alla competizione tra i carri per arrivare ognuno più in alto dell’altro. I termini usati da Platone sono: θόρυβος, zuffa, tumulto, confusione, e ἅμιλλα, lotta, battaglia, scontro. Se tòrubos indica la grande “confusione” dovuta al disordinato radunarsi dei carri, e quindi calca, turba, tumulto, che sfocia in guerriglia, manca in questo termine il senso dispregiativo. Il vocabolo contiguo per significato è àmilla, “battaglia”, che evidenzia il contrasto, la contesa, il combattimento. Nel testo lo scontro è rappresentato dal “cozzo” dei carri nella mischia e il loro “accozzarsi” sembra suggerire la “accozzaglia”, in ragione dell’unità semantica dei termini, ma non bisogna lasciarsi ingannare. In verità, qui il cozzo è l’urto non tanto volontario, quanto necessario; nell’accozzaglia invece la volontarietà sta nel riunirsi insieme più che nell’urtarsi involontario dovuto all’accozzamento.
E invero, nel linguaggio comune, accozzaglia sta per marmaglia, plebaglia, gentaglia, una turba di persone spregevoli. Infatti, spesso nella contesa politica, i rappresentanti di un partito ben organizzato e numeroso definiscono i loro avversari, che pur discordanti tra loro si mettono insieme per essere superiori di numero, un’accozzaglia disparata di gruppi diversi, come dire un’indecente ammucchiata. In sostanza, quello che prevale nel definire “accozzaglia” una riunione di gente o di persone è il giudizio morale o sociopolitico, prima ancora di quello semplicemente estetico. E invero il furore delle battaglie, il fragore delle armi, lo scintillio dei ferri delle spade e degli scudi di bronzo ha in sé qualcosa di epico, un elemento che manca esteticamente in quell’accozzaglia di carri alati, come appare a uno sguardo inconsapevole.
In verità, i due termini usati da Platone stanno a significare paradossalmente il contrario di quello che l’oggettivo spettacolo dell’affollarsi delle anime ai confini dell’Iperuranio mostra, ossia un’accozzaglia di carri alati, peraltro in contrasto con le ordinate schiere dei carri divini al seguito di Zeus. E siamo arrivati al “dunque”: il cosmo come ordine armonico del tutto, in opposizione al grande caos dell’inizio.
Sono ἄθροισις e ὄχλος i vocaboli greci che meglio rendono il significato di accozzaglia, un insieme confuso e disordinato di uomini o cose, privo di ordine e unitarietà, come ben evidenziano i versi di Montale citati in epigrafe.
L’espressione ἄθροιζειν στράτευμα significa “mettere insieme un esercito”, appunto radunare un gran numero di persone confuso e disordinato e organizzarlo in schiere allineate con ordine e disciplina. Se athroisis mantiene più il significato dinamico di raduno, in oklos (latino vulgus) la visione è quella relativa all’insieme di gente che costituisce una collettività, in specie una massa confusa e affollata. In Platone, oltre a indicare un individuo singolo del volgo (Ippia maggiore, 289cd), il termine ha anche un significato più specifico di carattere militare: “adunanza” di popolo, per scegliere gli strateghi o per decidere l’ordinamento da dare all’esercito (Gorgia, 455b). E così in Tucidide oklos è un manipolo di soldati che cammina in disordine.
Dalla lettura di questi termini possiamo ricavare in primis la necessità propria di ogni collettività di persone di darsi un’organizzazione, e quella prima e più elementare è un’organizzazione militare. Il vocabolo greco κόσμος (kósmos) [1], “ordine”, significa l’Universo come insieme ordinato e armonico, allo stesso modo di quello assunto dall'esercito schierato per la battaglia. L’immagine è quella aristotelica del “De Philosophia”, un’opera andata perduta, in cui la contemplazione dell’ordine dei cieli viene paragonata alla visione dall’alto del monte Ida, nei pressi di Troia, dell’avanzare dell’armata greca guidata dal condottiero. [2] È la stessa immagine che Aristotele ripropone nella “Metafisica” (XII, 1075a 10-15): “Bisogna considerare anche in quale modo la realtà dell’universo possegga il bene e l’ottimo: se come qualche cosa che è separato ed in sé e per sé, oppure come l’ordine, oppure in ambedue i modi, come avviene per un esercito. Infatti, il bene dell’esercito sta nell’ordine, ma il bene sta anche nel generale (strateghòs), anzi più in questi che non in quello, perché egli non esiste in virtù dell’ordine, ma l’ordine in virtù sua.”
Da questo passo si desume che il bene e l’ottimo sta nell’ordine, e questo è finalizzato all’uno che lo anima, dietro cui gli altri seguono. È l’immagine dell’esercito schierato, specchio dell’ordine dell’Universo, il desiderio dei cieli, mossi dal Movente Immobile.
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[1] “Tutto il cielo o cosmo o come lo si preferisca chiamare.” (Platone, Timeo, 28b)
[2] Cfr. Aristotele, fr. 12 b Ross (Sesto Empirico, Contro i matematici 9, 26-27), in cui si cita Omero, Iliade IV, 297.
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