PREMESSA E infatti, eccolo! Sono passati un bel po' d’anni, tantissimi appostamenti e tantissime attese, ma alla fine l’ho beccato! Lasciatemi esprimere la mia soddisfazione per un lavoro che mi è costato tanto tempo e tanta fatica, ma alla fine la mia ostinazione, la mia pazienza impossibile, nel senso specifico di patire, sopportare l’insopportabile, ha vinto. Dopo tantissime lunghe ore, lunghe mattinate, lunghe giornate, sprecate e andate a vuoto, lunghe settimane, mesi, alcuni anni, quasi una disperazione nera, ma alla fine, ecco l’illuminazione. Che gioia! E spiegheremo anche queste parole ultime, ultimissime non si può dire, è un errore grammaticale, dicono. È successo a Porta Pia, l’ho visto, un tuffo al cuore e l’ho rincorso con lo sguardo sulla Nomentana, il mio Rhetor Magister, mio, esclusivamente mio, e di nessun altro, e sono diventato Lui, una trasmigrazione del mio Io.
SULL’ORLO DELLA GIOSTRA RHETOR MAGISTER, PARTE SECONDA.
1. COME UNA METAMORFOSI È successo a Porta Pia, tempo fa, l’ho visto, un tuffo al cuore, e l’ho rincorso con lo sguardo sulla Nomentana, il mio Rhetor Magister, mio, esclusivamente mio, e di nessun altro, e sono diventato Lui, una trasmigrazione del mio Io. Stavo camminando sulla 42esima Strada, quando vidi la coppia che mi precedeva di spalle. Ero stato colpito da quel loro ondeggiare lievemente con le anche? Guardai meglio, rientrando nel presente, o meglio nella dimensione spaziale del mio tempo presente. Non camminavo per la 42esima Strada di New York, stavo passeggiando sulla via Nomentana, come quando mi ero laureato Rhetor Magister, diversi anni fa, con il fantasma di Ludovica Barboni nel cuore, e il suo ricordo mi trasportava in un altrove. Non so dire il motivo, ma quel lieve ancheggiare della coppia, che passeggiava davanti a me, risultava asimmetrico, sembrava più artificiale quello della sagoma di sinistra, come forzato, invece più regolare e composto quello della sagoma di destra. Chi mi avesse osservato in quella mia attitudine, fissare sul retro il lieve ondeggiare femminile di una coppia avrebbe pensato, con un risolino: eccolo là! Ma costui non avrebbe compreso appieno quella mia concentrazione dello sguardo sull’asimmetria di quel movimento davanti ai miei occhi, come se cogliessi un’anomalia. Poi, d’improvviso, mi colse di nuovo il ricordo di Ludovica, quella sua immagine fantasma sulla 42esima Strada, la sua figura in ologramma: “Ludovica!” esclamai. Quelle due sagome che mi precedevano nel cammino sulla via Nomentana si bloccarono di colpo e si voltarono verso di me ed io mi arrestai proprio in faccia a loro. Oh! Ma quel volto a sinistra… Sì! Era proprio … era Marramao! Che strano, però! Sembrava quasi che il fantasma di Ludovica sovrapponendosi gli alterasse i tratti del viso. Ma non era così, era Marramao che mi guardava, una luce tutta nuova e particolare in quel suo sguardo, un accenno di sorriso, come dire? soave. Ma perché? Smarrito, mi volsi a guardare verso l’altra faccia. Toh! Sembrava anche lei Marramao! Era il volto femminile di una donna anziana, che mi sorrideva accattivante. Notò il mio smarrimento e quasi a voler come riparare non so a che cosa, mi fece gli occhi dolci, aumentando il mio disagio. Ma era la madre di Marramao! Sì, era così!
2. IL MONACO E LA RIVOLTA Vestiva un saio da monaco tibetano, così giudicai a colpo d’occhio, disse di chiamarsi Govinda, credo fosse una sorta di truffatore, essendo italiano, anche se proveniente a suo dire dalle terre del Dalai Lama. Subito dopo l’incontro con Enrica e la madre, nel lasciarle, avevo fatto dietro front, e mi ero incamminato verso Porta Pia, poi avevo girato a destra in direzione di piazza Fiume, e ancora a destra in via Nizza. Andavo verso via Savoia, la sede della Scuola di Retorica, quando ho sentito qualcuno darmi un colpetto amichevole sulla spalla, mi sono voltato e ho visto un uomo con la testa rasata , la veste da bonzo in arancione, che teneva in mano un libro. “Sono un Samana, ti vendo il mio libro.” Sono rimasto perplesso: “Non ho soldi.” Il bonzo ha detto: “Un obolo, per vivere.” Stavo mettendo mani alle tasche, quando ho detto: “Hai studiato all’Accademia di Retorica?” Sarà stato l’incontro di poco prima con Enrico, pardon! con Enrica, e il mio orientarmi verso il nostro luogo, nostro di colleghi, pensai, che mi aveva mosso a quella mia domanda. Il bonzo sorrise: “Il nostro sentiero verso l’esterno della ruota è la nostra scuola di monaci.” Quale ruota? Tacevo, mentre lo fissavo. “Amico, un obolo,” disse “sono un monaco.” Stava chiedendo l’elemosina, gli ho dato una moneta da due euro. Se domani, passo di nuovo qui, a quest’ora, lo ritrovo, pensai. Ma il giorno dopo, prima di ritornare sul luogo del bonzo elemosinante, andai davanti a Villa Torlonia. Sono un Rhetor Magister, nel senso che la mia anima, atman, trasmigrando, si è reincarnata in quella di Vito Stefani. Codesto dottore in Retorica non si era rassegnato ad essere estraneo alla morte di Ludovica Barboni, il volo tragico dal grattacielo di Manhattan, un accadimento inspiegato. Altrimenti, come era andata? Ludovica suicida per amore di Enrico, no, Enrica? Lei? Chi? Lui, l’assassino? Chi? Vito Stefani. No, non ricordavo questo, ero stato sul luogo dell’incidente, quando erano arrivate le automobili della polizia con le sirene bitonali, le luci blu girevoli. Non ricordavo altro, sarà stato lo shock! Dovevo averla vista volare giù, forse. Intanto, avvertivo uno strano fenomeno, io non ero soltanto Vito Stefani, ma ero anche un altro spirito vivente con una diversa storia. Quale? Quella che mi conduceva a Villa Torlonia. E dunque? Ricordate la notizia di cronaca? Quale? La retata della polizia sanitaria contro gli ultimi resistenti al vaccino, ricordate la notizia? Vagamente. E allora riprendiamola, amici. Amici di chi? Ma che domande! Avanti con la cronaca. Questa mattina, all’alba, reparti speciali di polizia sanitaria, nel quadrante est della Capitale, hanno circondato numerosi stabili del quartiere, dove pare si fossero rifugiati centinaia e centinaia di ultra-sessantenni, ultra-settantenni e ultra-ottantenni non vaccinati. All’irruzione degli agenti, sono state sorprese soltanto poche decine di persone, che vagavano per le stanze di abitazioni deserte. La maggior parte di questi anziani, infatti, si era nascosta e rinserrata nei terranei e nelle cantine degli stabili, da dove sono stati stanati con l’aiuto dei cani lupi della polizia, e trascinati ai Pronto Soccorso da campo, installati in strada, per essere sottoposti al VSO, Vaccino Sanitario Obbligatorio. Molti di questi “ultrà” sono stati catturati, mentre tentavano di fuggire per i tetti, opponendo anche inaspettata vigorosa resistenza. È stata una barbarie, una violazione del diritto delle genti, nel voler ridurre un popolo a “gregge”, gridò invano un resistente, un’ignominia! Sacche di resistenza minori si sono formate anche in altri quartieri della capitale, una abbastanza consistente, ha resistito dalle parti di Villa Torlonia, guidata pare da uno dei fratelli Pastoriz, Palmiro un capo della rivolta. Questi, dopo la cattura e il VSO, era stato anche ricoverato in ospedale per un TSO. Intanto, ero arrivato a Villa Torlonia, che ci facevo lì? Meditavo e anche ricordavo.
3. I SICARI PREZZOLATI Stavo guardando la facciata della Basilica di Santo Stefano, a Budapest, quando con la coda dell’occhio, ebbi modo di notare il passaggio alla mia sinistra di un uomo alto con gli occhiali scuri, che mi lanciò un’occhiata. Chi era? Un passante che stava attraversando la strada e distrattamente aveva guardato per un attimo il turista, che osservava la facciata della Basilica di Santo Stefano, la sua architettura? No, era uno dei due fratelli Pastoriz, quello sfuggito alla retata, ricercato in tutta Europa. Ah! E come avevo fatto a riconoscerlo? Stavo sulle sue tracce da giorni, infine l’avevo scovato qui, nella capitale ungherese, come mi era stato segnalato dall’Italia. Ah! Ma tu chi sei? Chi sono io? Io mi spersonalizzo o tento di farlo. Ma che stai dicendo? Un attimo, poi ci spieghiamo, intanto devo seguire il ricercato Michail Pastoriz, uno degli animatori della rivolta contro il VSO, uno dei capi della resistenza, sfuggito nell’ultima sconsiderata battaglia contro la polizia sanitaria. In verità, non so se nell’occasione ero il pedinatore o il pedinato, perché mi ritrovai in uno spazio verde, dove molti della gioventù del posto erano convenuti, vicino ad una vasca d’acqua e fontane zampillanti. Dov’era il mio uomo? Mi voltai di colpo, forse mi spiava alle spalle. No, non era così. Comunque se conducevo io il gioco, non mi restava altro che ritrovare il mio amico in altra zona della città. Andai alla stazione della metro più vicina, e viaggiando sulla linea M, scesi alla fermata “Corvin-negyed”, raggiungendo poco dopo una traversa della strada principale. Era una via stretta e deserta, spiai dietro di me, all’imbocco, una donna si era fermata a guardarmi, poi lesse la targa della via, rise e proseguì sulla strada principale. Che cosa c’era da ridere? Nell’ombra della stradina, gridai in silenzio: voi, ragazzi della via Pal, dove siete? Tu, Pastoriz Michail, dove sei? Nessuno sembrava rispondere al mio appello. Mi volsi di nuovo, eccolo! Mi aveva seguito e mi aspettava, il malandrino! O il malandrino ero io? “Ci siamo, Pastoriz,” dissi. “Sei venuto a cercarmi, per segnalarmi ai tuoi sicari, spione prezzolato. Non ho paura di morire” gridò Pastoriz Michail. Aspettavo che estraesse dalla tasca una pistola, per spararmi. “Beh?” interrogai. “Voglio il nome del delatore.” “Non è stato Miro.” “Palmiro non parla neppure sotto tortura, ma non ti credo.” “Non credi a tuo fratello?” “Non credo a te.” “Neppure a tua madre, una nobildonna?” Si avvicinò minaccioso, mi afferrò per il bavero e scuotendomi forte, gridò: “Non ti permettere di pronunciare il nome di mia madre, sbirro maledetto.” Mi lasciò, si scostò e rimase immobile per smaltire la rabbia, poi all’improvviso cominciò a singhiozzare: “Non può essere stata la mamma! No, non può essere stata lei!” Gridava, era disperato, piangeva. “Aveva paura che ti uccidessero, Michail…” Si fermò a guardarmi, completai: “… i miei inesistenti sicari prezzolati.” Mi fissava strano. Era una di quelle situazioni così precarie, in cui se ti volti, ti uccidono. Voltati e ti uccidono. Mi voltai, nessuno mi uccise. Non era una di quelle situazioni, a cui avevo pensato, forse la precarietà non stava nell’azione, ma nell’intenzione. Non era mica la guerra, e allora che cosa era? Ecco, ebbi l’illuminazione, era il virus.
E se i miei inesistenti sicari prezzolati fossero esistiti davvero? Il dubbio mi colse. In questi tempi pandemici, si finisce per dubitare di tutto e tutti, tutto cambia così repentinamente. Michail Pastoriz colse quel mio smarrimento: “È Stata Steffy, vero?” Aveva una luce nuova nello sguardo, il tono era diventato sardonico. “A fare che? Chi è Steffy?” interrogai. Al tempo stesso mi domandai della madre dei Pastoriz: chi me ne aveva parlato? Lui taceva. Una voce femminile al telefono mi aveva dato l’istruzione: “La cattedrale di Santo Stefano .” Questa Steffy doveva risultare agli occhi di Pastoriz il mio capo. Era così? Io ero quello che sapeva meno di tutti. In verità, a pensarci bene adesso, una ragazza a Roma, una bionda, mi aveva una volta fermato per strada e mi aveva detto: “Stefani, non mi riconosci?” “La collega dell’Accademia di Retorica?” dissi dubbioso. Lei rise molto, poi mi piantò in asso. Ma chi era? Io avevo detto così, tanto per dire, siccome mi ero incarnato nella vita di Vito Stefani. Ma ero anche, in questa mia nuova personalità, lo spirito vivente di un altro. Chi? Una sorta di marionetta manovrata verosimilmente da questa ineffabile Steffy, però conosciuta, almeno di nome, dal Pastoriz. Una comandante della polizia sanitaria? Ma che razza di storia stavo vivendo? Ero un informatore, un bounty killer. I non vaccinati erano considerati killer, che esagerazione! Però i bounty killer venivano pagati bene. Pastoriz Michail, chi lo convinceva a costituirsi riceveva una medaglia d’oro e anche un premio in denaro. E se lo uccidevano? Chi? Non io, ma i sicari prezzolati. Allora esistevano? Tirai fuori dalla tasca la pistola e sparai contro l’ombra di Pastoriz, il quale intanto si era allontanato, lasciando davanti a me il suo simulacro. Lo spruzzo non innaffiò la figura virtuale rimasta sul posto, avevo sparato con una pistola ad acqua.
4. L’UFFICIO DEL SECONDO PIANO Mi svegliai di buon mattino, poi dopo i lavaggi e la colazione, ero pronto ed uscii. Presi l’autobus, e dopo alcune fermate, scesi, un breve tratto a piedi, e andai a prendere la linea B della Metro a Eur Fermi, cambiai a Termini, e sulla line A scesi a “Barberini”. Quando emersi sull’omonima piazza, con la fontana del Tritone al centro, mi guardai attorno, quindi m’incamminai giù in direzione di largo Chigi. A metà strada, a sinistra, mi infilai nel portone di un palazzo stile barocco. Nell’androne c’era una guardia giurata, esibii un tesserino verde e chiesi del comandante Stefania Pallavicini. “La comandante Steffy” disse la guardia. Confermai: “Sì, Steffy”. Fece un cenno verso l’alto: “Secondo piano”. Salii le scale, una prima breve rampa mi portò su un pianerottolo, dove c’erano due porte chiuse, su una c’era la targhetta: “Segreteria”. Salii ancora un piano e mi ritrovai in un corridoio, dove si affacciavano diverse porte di uffici, alcuni aperti con impiegati alle scrivanie, alcune stanze vuote, altre con la porta chiusa. Girai l’angolo e percorsi un altro corridoio smile al primo, dove incrociai una impiegata con tailleur grigio, camicia bianca e cravatta. Era una donna di mezza età, la fermai, si rese disponibile: “Scusi, il comandante… cioè no, la comandante…” “Steffy?” disse l’altra. “Sì,” dissi”. “Secondo piano.” “Grazie” dissi e proseguii. Ero confuso, non era questo il secondo piano? Mi richiamò: “Ehi!” mi voltai. Indicò nella direzione in cui andava lei, cioè da dove ero venuto: “Da questa parte.” Ritornai indietro, lei si girò e cominciò a camminare, la seguii e affiancai: “Le scale sono nell’altro corridoio” disse. Continuai a camminarle a fianco, lei senza voltarsi verso di me, domandò: “Ce l’hai il badge?” Tirai fuori il tesserino verde e lo mostrai. Lei l’osservò per un po', sempre camminando, poi disse: “Giralo dall’altra parte”. Avevo mostrato la parte anteriore con la fotografia e le mie generalità, girai il tesserino sul retro. Avevamo svoltato l’angolo, si fermò, indicò la striscia magnetica: “Sali, trovi una porta blindata a vetri, infila il badge nel lettore ottico ed entra.” Riprese a camminare, vide che la seguivo, allora disse: “Dove vai?” “Alle scale.” Si fermò, si voltò e indicò dove avevamo sostato poco prima: “Prendi l’ascensore, fai prima.” Non avevo notato l’ascensore, lei mi guardava. Esitai e dissi, esibendo un sorriso grato: “Grazie.” “Vai, Stefano,” disse “io sono Angela.” In effetti, aveva la targhetta con il nome appuntato sotto il taschino della giacca, ma non feci in tempo a controllare, perché lei si voltò e allontanandosi, di spalle, mi fece un gesto di saluto con la mano. Aspettando l’ascensore per salire, guardai il mio nome sul tesserino: “Vito Stefano”, l’impiegata cioè Angela, non si era sbagliata. Salii su, passai con il badge, oltre la porta a vetri e poco dopo, stavo davanti all’ingresso di un grande stanza con la porta aperta. Le decorazioni, l’ampia scrivania, il tappeto, il salottino d’angolo, si capiva che era l’ufficio della comandante Steffy.
Mi affacciai, una donna bionda, seduta dietro la scrivania, in fondo, si sporse a guardarmi, e mi invitò ad entrare: “Vieni.” Ero in piedi davanti a lei: “Comandante,” dissi, “sono Vito Stefano.” “Ah, sei tu! Sei arrivato!” Cominciò ad osservarmi con interesse, senza parlare. Erano entrati alcuni uomini, salutarono: “Comandante.” Steffy si aggiustò con entrambe le mani i capelli, poi si alzò, era una donna alta e magra, sulla cinquantina o forse più, la gonna nera lunga, la camicia bianca slacciata al collo, il cravattino. Mi venne vicino, mi mise una mano sulla spalla e mi interrogò: “È andato tutto bene, no?” “Sì, tutto bene, perfettamente,” risposi, inespressivo. Steffy stette ancora ad osservarmi, perplessa, forse voleva dire qualcosa. Un usciere aveva spalancato la porta in fondo, il salone delle riunioni. “Sei passato per l’Economato?” mi chiese. Feci un gesto di diniego. “Giù, al primo piano” disse, aggiungendo una frase che capii a metà, mentre mi lasciava. Ripensai a quella strada stretta dove avevo sparato con la pistola ad acqua contro Michail Pastoriz o meglio contro il suo simulacro, l’immagine che ti rimane di una persona che ti sta davanti e poi scompare alla vista, secondo la dottrina di Epicuro e Lucrezio Caro, ma anche la mia convinzione. Sapeva di questo episodio, la parte finale della mia azione? La notizia sui giornali della cattura del ricercato numero uno, in verità l’ultimo, della rivolta di Villa Torlonia, era stata abbastanza laconica: “Il Pastoriz era stato localizzato dai servizi di sicurezza a Budapest e arrestato all’aeroporto, dove tentava di imbarcarsi su un volo per Varsavia.” La buona riuscita dell’operazione, tutto il merito andava a Steffy, era stata lei a progettare il piano e realizzarlo. Non ero ancora convinto? Dovevo scendere all’Economato, primo piano, no, l’ammezzato. “E i volontari laici Scendevano in pigiama per le scale Per aiutare i prigionieri Facevano le bende con lenzuola E i cittadini attoniti Fingevano di non capire niente Per aiutare i disertori E chi scappava in occidente Radio Varsavia L'ultimo appello è da dimenticare Radio Varsavia L'ultimo appello è da dimenticare.”
La canzoncina del cantante scomparso mi risuonava in mente, per associazione di idee. Come era andata l’operazione? Le autorità governative avevano bisogno di un simbolo, per dimostrare che la loro lotta alla pandemia era riuscita: la cattura dell’ultimo anti-vaccinista, il cospiratore della rivolta, uno dei fratelli Pastoriz. L’uomo chiave, anzi la donna risolutrice era stata Steffy, non era l’amica di Visconti, il viceministro della Sanità? Era apparsa di sfuggita qualche volta in televisione assieme all’uomo politico. Come aveva fatto a localizzare Pastoritz, a Budapest? Aveva telefonato alla madre, io non so che cosa si fossero detto le due donne, potevo però presumere il tono della conversazione. Entrambe erano in ansia per la sorte del fuggitivo, l’ansia di Steffy non doveva essere stata da meno di quello della madre dei Pastoriz. Poi altri contatti telefonici, quindi la delazione della madre, Budapest, un’esca inviata, io, e qui Steffy aveva rischiato al buio, era sua la voce che mi dava precise istruzioni, era stata lei a suggerirmi, come per inciso, che anche la madre del fuggitivo lo cercava. Era stata lei ad organizzare il rendez-vous davanti alla cattedrale di Santo Stefano ed era stata lei a mandare due suoi ufficiali ombra che mi spiavano. Io li avevo seminati, quando mi ero confuso tra la folla dei giovani davanti al laghetto. Questa degli spioni anziani che spiano una spia giovane però è una mia supposizione. Comunque, se lei non li aveva mandati, aveva compiuto un’acrobazia sul trapezio volante senza rete, fidandosi, dopo tutto, di un giovane sconosciuto. E invece no, di sicuro aveva un dossier su di me, aveva valutato, ed io con la mia vita di Rethor Magister, assunto in prova nei loro servizi informatici, dovevo avere dato buona prova di neofita, eseguendo diligentemente tutte le mansioni on-line, che mi avevano affidato. Quali? Seguire i corsi informatici e diventare programmatore di un sito, di cui era webmaster Caio Mario, un tizio che faceva politica. Tutto qui? No, poi la proposta di un soggiorno a Budapest con rimborso spese e pagamento di una diaria giornaliera, tutte e-mail firmate “La Direzione”. Ma che dovevo fare? Tu vai a Budapest, e noi ti diciamo che cosa devi fare. Una vacanza pagata? No, Pastoritz Michail, non dovevo fare altro che incontrarlo, dove quella voce femminile al telefono, Steffy, indicava. E poi? Lei si aspettava che io dicessi della delazione, previsione esatta, e così il figlio non aveva resistito alla tentazione di telefonare alla madre, per gridarle il suo odio, l’altra faccia dell’amore. In tal modo era riuscita a sondarne le intenzioni di fuga, e a questo punto andarlo ad acciuffare all’aeroporto, mentre tentava di imbarcarsi su un volo per Varsavia, per Steffy, era stata un gioco da ragazzi. Si fa per dire da ragazzi, una volta compiuta l’operazione, è facile dirlo, ma tenere in piedi tutta l’organizzazione, il rischio era merito esclusivo di Steffy. La medaglia d’oro e il premio, che la Direzione generale di Sanità aveva stabilito, toccava a lei. Ma non andò così, lo scoprii un po' dopo. Intanto, ero arrivato al piano ammezzato: dovevo scegliere tra le due porte “Segreteria” e l’altra, di cui ora leggevo la targhetta: “Cassa”. Bussai a questa, nessuno rispose, provai dall’esterno, la porta si aprì ed entrai.
5. L’INSEGUIMENTO Cominciò a piovere mentre stavo percorrendo a piedi il viale dell’Università, girai a sinistra su viale del Policlinico, dove mi fermai sotto il cornicione di un palazzo, per non bagnarmi o per bagnarmi il meno possibile. In quel frangente, ebbi modo di osservare una scenetta abbastanza movimentata. Un giovane e una ragazza in uniforme bianca da sanitari correvano verso un’automobile scura parcheggiata quasi di fronte al recinto di entrata dell’ospedale. Dietro di loro, uscito dal cancello, si era posto all’inseguimento un dottore in camice bianco, che gridava, e un po' dietro alcuni infermieri. I giovani raggiunsero subito l’automobile, il guidatore mise in moto e partì sgommando. Il medico che li inseguiva era riuscito ad afferrare con le mani la coda dell’autovettura, perdendo però subito la presa. Venivano verso di me, l’automobile passò veloce, il medico aveva continuato a inseguire in mezzo alla strada, sembrava lamentarsi. Pioveva, riuscii però a capire le parole, adesso che si era un po'avvicinato: “Era la mia paziente, stavo curando la mia paziente.” Piagnucolava, poi dovette fermarsi e fu raggiunto dagli infermieri, che quasi lo consolavano, tutti fermi a guardare in direzione dell’autovettura ormai dileguatasi. In quel momento avvertii un forte squillare dei campanelli d’allarme dell’ospedale. Era una scena, per come si era svolta dietro ai miei occhi, abbastanza da ridere, pur in quel periodo di pandemia, in cui non c’era molto da scherzare. La guerra alla pandemia, al virus, però poteva dirsi ormai finita e vinta, con la cattura dell’ultimo dei Moicani, ecco perché a stento trattenevo il riso. “Ridere, ridere, ridere ancora, Ora la guerra paura non fa, Brucian nel fuoco le divise la sera, Brucia nella gola vino a sazietà, Musica di tamburelli fino all'aurora, Il soldato che tutta la notte ballò Vide tra la folla quella nera signora, Vide che cercava lui e si spaventò Salvami, salvami, grande sovrano, Fammi fuggire, fuggire di qua, Alla parata lei mi stava vicino, E mi guardava con malignità Dategli, dategli un animale, Figlio del lampo, degno di un re, Presto, più presto perché possa scappare, Dategli la bestia più veloce che c'è corri cavallo, corri ti prego Fino a Samarcanda io ti guiderò, Non ti fermare, vola ti prego Corri come il vento che mi salverò.”
Non si poteva negare che la fuga era riuscita, la ragazza e il suo amico erano fuggiti sul cavallo più veloce che c’è, e chissà dove erano arrivati. Presi la decisione di bagnarmi, camminai sotto la pioggia, riparandomi alla meglio il capo, sollevando la giacca, e in fretta arrivai alla fermata “Policlinico” della linea B della Metro. E mentre il convoglio viaggiava, direzione “Laurentina”, rievocai il mio incontro con Steffy di alcune settimane prima, quella figura di donna che svolgeva un ruolo, di cui tutti sanno dell’esistenza, ma che nessuno poteva in lei riconoscere, pur conoscendola. “Ci vediamo dopo” mi aveva detto nel lasciarmi. Dopo quando? È un modo di dire come congedo nei rapporti professionali. D’altronde, all’Economato, la mia situazione era chiara: un rapporto di lavoro subordinato, non lavoro autonomo, dunque. Ero entrato nell’ufficio cassa, nell’ombra della stanza, vidi una ragazza al bancone, ma subito si accese una luce al neon dietro di lei, adesso si vedeva meglio. Mostrai il tesserino verde, e dissi il mio nome, aggiungendo che dovevo riscuotere il rimborso spese della missione a Budapest. L’impiegata prese un faldone, l’aprì e cominciò a scorrere alcuni fascicoli, non sembrò trovare il mio, perché alzò verso di me uno sguardo interrogativo: “Capece?” Chi era? Scossi la testa, no. Lei controllò di nuovo, prese un altro fascicolo, l’aprì, sfogliò delle carte, poi alzò di nuovo lo sguardo: “Russo?” Scossi di nuovo la testa: “No, non lo conosco.” L’impiegata andò a prendere un altro faldone e cominciò a scorre i fascicoli. E adesso quali altri nomi avrebbe pronunciato? Io questo Capece e questo Russo, non solo non li conoscevo, ma prima di allora non sapevo neppure che esistessero. Strano a dirsi, ma su questo secondo punto mi sbagliavo, anche se prima di allora, non li avevo mai sentiti nominare. Nominare? Il nome, il mio nome non era registrato, allora dissi: “Steffy”. L’impiegata sollevò di colpo la testa, facendo un gesto come per dire che proprio in quei fascicoli stava cercando. Poi lì sollevò tutti, scorrendoli con le dita rapidamente, li ripose, chiuse la cartella e mi indicò un’altra pila di cartelle identiche sul tavolino dietro di lei: “Sono tutti Steffy, questo è l’ultimo mese.” “Vito Stefano” dissi, quasi a indirizzare la ricerca sul nome Vito. L’impiegata esitò, poi scosse la testa. Rimasi a guardarla, aveva i capelli neri, arricciati di recente, era bassina, perché sollevandosi sulle punte dei piedi, eresse il busto, prima nascosto dal bancone, e che ora, offerto allo sguardo, si rivelava prosperoso. “Va bene, grazie” dissi, e mi stavo voltando per andar via. Lei mi richiamò: “Ha ricevuto l’anticipo?” “Sì” dissi “in banca, avevo comunicato i miei dati on-line.” “Quanto tempo fa?” Dovetti riflettere, poi dissi: “Tre settimane, un po' di più.” “Non è passato per l’Economato?” “Ma non è qui?” Indicò verso l’altra porta: “No, l’altra stanza.” Era entrata una donna, sostando un po' indietro, l’impiegata le fece un cenno con la mano. “Hong Kong”, sentii pronunciare dalla nuova arrivata, quando mi scostai per andarmene, mentre l’altra si avvicinava al bancone. Mi riscosse uno squillo, in due tempi, come negli aeroporti: Hong-Kong. Ero arrivato a “Eur Palasport”, scesi dal vagone del convoglio, e mi avviai all’uscita.
6. IL SUONO DEI CAMPANELLI Passeggiavo sul marciapiedi del laghetto, verso il Palazzo di vetro ENI, non l’ONU, siamo a Roma. New York, oh! New York! Forse un giorno, sarei andato nella Grande Mela! Ma non c’ero già stato? Ludovica Barboni, Vito Stefani, Enrico, no, Enrica Marramao, la Scuola di Retorica, e quindi? Avevo cambiato identità, un cambio di genere, no! un cambio da plurale in singolare. Ho capito, il processo di individuazione. Come? Di colpo, squillarono i campanelli del grattacielo di sinistra, era un Ministero, avevano individuato un DVSO, come si chiamavano gli ultimi disertori del vaccino. Era uscito il sole, mi fermai per vedere se inseguissero qualche fuggiasco. No! Cessato allarme, i campanelli smisero di squillare, verosimilmente il DVSO era stato catturato. Chissà se anche nel palazzo della Direzione Generale Sicurezza Sanitaria (DGSS) c’erano i campanelli. Quando io ero uscito, non avevano squillato. Ma come? Io, un volontario, un intrepido sulla linea del fronte contro il virus, disertavo in presenza del nemico, sarebbe stata fucilazione alla schiena, ma con questa storia dell’incarnazione di Stefani in Stefano, non è che la ruota del destino mi avesse giocato un brutto scherzo? Ma la freccia avvelenata colpisce tutti i viventi. Beh, certo! Anche Govinda. E poi all’Economato era come se fossi stato all’Anagrafe, avevano certificato il cambiamento della mia identità, precisiamo, non di genere, ma di numero. Entrando in Segreteria, dove si nascondeva l’Economato… no, dove era inglobato… ma Economato e Segreteria non dipendevano entrambi da Steffy? Appunto, quello che contava era la firma. Chiesi all’impiegato della Segreteria dove fosse l’Economato, m’indicò una scrivania dietro di lui, dove un uomo anziano, con i capelli grigi, stava esaminando delle carte. “L’impiegata alla cassa mi ha mandato qui, per la mia pratica, il rimborso spese per Budapest.” L’impiegato si voltò indietro: “Budapest” disse. L’Economo, l’uomo con i capelli grigi era l’Economo, una figura chiave, alzò di scatto la testa, mi guardò e subito si alzò in piedi venendomi incontro: “Oh!” Sorrideva, dissi sono: “Stefano, Vito Stefano.” Fece un leggero inchino, così mi parve: “Signor Rethor Magister, venga.” Andò alla porta in fondo, dove c’era la targhetta: “Economato”, l’aprì e si fermò sulla soglia, mi guardava, aveva cambiato espressione, un’aria come di leggera malinconia: “Anche mio figlio…” disse. Poi ritornò sereno, andò alla scrivania, si sedette al suo posto e m’invitò a sedermi sulla sedia di fronte a lui: “Ho la sua pratica pronta, signor Retore…” Meno male, pensai. “Manca solo la firma” disse, radunando alcune carte. Eccolo là! La firma, la burocrazia. Sorrise, assunse un’aria rassicurante. Ordinò i fogli, fece dei segni su ognuno, li girò verso di me, e indicò gli spazi nel margine basso, dove aveva fatto delle crocette: “Firmi qui, tre firme per ogni foglio. Ah, ero io che dovevo firmare! Chissà perché avevo immaginato lui che, con una cartella sotto il braccio, andava al secondo piano. Misi non so quante firme e gli restituii i fogli, accompagnandoli con lo sguardo. Raccolse il pacchetto dei fogli e tenendoli in posizione verticale, li allineò con alcuni tocchi sul ripiano della scrivania, quindi li sistemò nella cartella, la chiuse e me la mostrò: “È fatta! Questo è il suo contratto di collaborazione per due anni.” Ah! E non l’avevo neppure letto. Stavo per dire, il saldo delle spese della missione? Mi prevenne: “Le competenze, la diaria e il saldo sono sul suo conto corrente in banca, dove ha ricevuto l’anticipo.” Andò al suo computer, digitò brevemente, quindi disse: “Servito!”
SULL’ORLO DELLA GIOSTRA Se l’operazione per la cattura di Patoriz fosse andata a finire male, la responsabilità sarebbe stata della comandante, non era un’irresponsabile, ma la colpa sarebbe stata mia, ero un irresponsabile, uno che gira con una pistola ad acqua in tasca. Ma che fa? Gioca alla guerra? Non solo, ma si disfa anche in maniera irresponsabile delle sue armi giocattolo, che peraltro una volta ritrovate, gli vengono anche restituite. Dopo avere sparato al simulacro del Pastoriz, un gesto irresponsabile, avevo sentito come il rumore di una serranda di una finestra nel palazzo alle mie spalle. Ero in trance, se mi colgono con le armi in pugno, mi abbattono a colpi di mitra, un po' come a Chicago negli anni Trenta. Dovevo aver buttato l’arma in un’aiuola del viale, che incrociava con la via Pal, da cui mi ero allontanato in fretta, e avevo rimosso il ricordo del mio gesto inconsapevole. Non mi rendevo conto dell’assurdo e del grottesco della mia situazione, o forse essendone consapevole avevo provveduto ad eliminare questo materiale psichico dalla mia coscienza. Ma il cartellino legato al filo indicava il negozio dove era stata comperata l’arma giocattolo, neppure fosse stata vera. E adesso New York! Si muovevano vecchi fantasmi sulla scena di un altro teatro, che fare? Rinunciare all’impiego, stipulare la mia pace separata nella guerra contro il virus? E poi? L’incertezza dell’avvenire, era il grigio del prossimo autunno, fatto estate radiosa dalla luce dell’isola mediterranea. Eccola! Era Martina, era venuta a trovarmi in sogno. Martina? Quando ero ripartito, alla fine della vacanza, nelle isole Egadi, venne all’aeroporto di Trapani a salutarmi, ti invio il biglietto aereo, dissi, raggiungimi a Roma, ti aspetto. Ed ora, giusto il tempo di andare alla DGSS a rispondere, anzi no, a riprendere la mia pistola ad acqua, poi via di corsa a Fiumicino. Martina! E quindi cominciammo la nostra vita insieme da turisti a Roma. La nostra lunga vita felice, fino a quando sarebbe durata? Diecimila anni. Ma secondo quale legge? “È questa la legge di Adrastea, e cioè che l’anima, essendo al seguito di un dio, abbia visto qualcuna delle verità, e quindi rimanga incolume fino all’altro giro.” Dai miei studi di retorica, emergevano i ricordi del mito della reincarnazione delle anime, che Platone riporta nel “Fedro”, e anche nel X libro della “Repubblica”: “Considerando l'anima immortale e capace di sopportare ogni male e ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita alla saggezza; in questo modo saremo cari a noi stessi e agli dèi, finché resteremo quaggiù e anche dopo che avremo riportato le ricompense della giustizia, come i vincitori che vanno in giro a raccogliere premi, e godremo della felicità su questa terra e nel nostro cammino millenario.” Intanto, domandiamoci che cosa intende Platone per “altro giro”, anzi, no, dimentichiamolo.
Come Rhetor Magister dovrei fare una dissertazione sulla dottrina platonica della metempsicosi, ispirata al pitagorismo, che a sua volta risentiva dell’influenza del pensiero orientale, il circolo eterno delle esistenze, da cui la dottrina di Buddha… Ecco! La statuina di bronzo luminosa. Ormai, io e Martina avevamo raggiunto l’illuminazione, secondo la mia interpretazione: vivere il nostro samsara, l’incarnazione nella nostra presente esistenza, come aria, luce, mare, vento, pioggia, per raggiungere poi il nirvana, il nulla cosciente, quella esistenza che Platone indica come la vita di diecimila anni dell’anima, prima di raggiungere la sede del cielo. E intanto che cosa accadeva sulla terra? In particolare, in Italia, in Toscana? Eravamo andati all’Argentario, ed ero disteso sotto l’ombrellone, sulla spiaggia di Porto Santo Stefano, quando lessi la notizia sul giornale: “Pastoriz Michail era stato suicidato in carcere.” Ma che maniera di dare le notizie! Gettai indispettito il giornale sulla sabbia, mi alzai e corsi verso la riva. Martina mi aspettava, ci tuffammo e nuotammo tra le onde, la bianca schiuma delle onde del mare. Di ritorno a Roma, cominciai a consultare i media. La taglia per la cattura del Pastoriz, come riferiva il Ministero della Sanità, non era stata assegnata, ma la somma era stata incamerata direttamente dall’Erario, essendo avvenuta la cattura grazie all’intervento della DGSS, a cui andava il merito dell’operazione. Non so perché, ma questa notizia mi riportava alla spersonalizzazione e fuga dall’Io, come predica la dottrina buddista. Non so però se questo pensiero era colto allo stesso modo da altri, non credo, il buddismo non è molto diffuso da noi, non ostante la globalizzazione. Steffy, per esempio, che cosa pensava in proposito? “Stefano, ti mandiamo a fare un corso d’informatica di tre mesi a New York.” A me? Io mi sono incarnato nella vita di Vito Stefani, non Stefano, e la mia ultima trasferta a New York non era finita troppo bene, figuriamoci questa! E poi, io devo pensare alla mia nuova vita con Martina. La ragazza vedendomi trafficare al computer si era avvicinata con la statuetta del Buddha, pensava di farla ripulire da quella patina verdastra e lucidare il bronzo, avrebbe acquistato una maggiore lucidità. Non dissi nulla, dovevo dirgli: “Tu credi che togliendo la patina verdastra, Buddha diventa più luminoso, invece è proprio quella patina verdastra che lo rende luminoso.” E così le dissi, lei non rispose, era diventata pensierosa, io capivo che era necessario un “altro giro”, stavamo volando sull’orlo della giostra, il samsara, il circolo delle esistenze, in cui solo mettendo in movimento la ruota del Dharma potevamo cogliere la via di fuga. Ma volevamo davvero uscire, io e Martina, dalle nostre vite, per raggiungere il nirvana? Non è il samsara già la presenza del nirvana? Il Nulla, che disegna le figure della nostra vita?
PRIMA POSTILLA All’inizio del paragrafo “L’inseguimento” di “Sull’orlo della giostra”, si legge: “Era una scena, per come si era svolta dietro ai miei occhi, abbastanza da ridere, pur in quel periodo di pandemia, in cui non c’era molto da scherzare. La guerra alla pandemia, al virus, però poteva dirsi ormai finita e vinta, con la cattura dell’ultimo dei Moicani, ecco perché a stento trattenevo il riso.” Ora, “Dietro ai miei occhi” è un’espressione, che rovescia il modo di dire più consueto: “Davanti ai miei occhi”. Quando ho riletto il testo che avevo postato e quindi non potevo più cancellare, quello che io credevo un errore mi è caduto “sotto gli occhi”. Che fare? Correggere e postare di nuovo, cancellando tutto il resto dei paragrafi ormai postati, per poi postarlo ancora, una fatica di Sisifo. Potevo cavarmela con un “Errata corrige”, ma no! Bisogna capire perché avevo scritto “dietro agli occhi” e non “davanti agli occhi” o “sotto gli occhi”. Ed ecco la spiegazione che mi sono data.
DIETRO AI MIEI OCCHI “Guardo questo foglio bianco sul mio tavolo; percepisco la sua forma, il suo colore, la sua posizione. […] Ma ecco che ora volgo la testa. Non vedo più il foglio di carta. Adesso vedo la tappezzeria grigia del muro. Il foglio non è più presente, non è più là. […] E tuttavia eccolo di nuovo. Non ho voltato la testa, il mio sguardo è sempre diretto verso la tappezzeria grigia; niente si è mosso nella stanza. Eppure il foglio mi appare di nuovo nella sua forma, il suo colore e la sua posizione; e so molto bene, nel momento in cui mi appare, che è proprio il foglio che vedevo poco fa. È veramente il foglio in persona?” Così scrive Jean-Paul Sartre nel suo saggio, “L’Immaginazione”, la rielaborazione della sua tesi (1926) per il diploma all’École Normale Supérieure. Il saggio riguarda la differenza tra la realtà fenomenica e la coscienza, e nelle righe dell’incipit dell’Introduzione, che noi abbiamo estrapolato, subito avvertiamo la distinzione tra la visione sensibile e quella intellettiva concreta, come immagine. Questo genere di distinzione richiama quella prima della filosofia di Platone tra realtà sensibile, percepibile con il senso della vista, e mondo delle Idee, contemplato con lo sguardo della mente, una visione intellettiva. Nella mia descrizione della scenetta, i fuggiaschi inseguiti da medico e infermieri, in cui l’Io narrante si trova ad essere testimone, io ho usato di getto l’espressione “dietro ai miei occhi”, senza accorgermi che una tale locuzione non si accordava al senso del testo, anzi stride come il suo contrario. Volevo riferirmi a una visione intellettiva? La visione “dietro agli occhi” è una visione ad occhi chiusi, sotto le palpebre abbassate, almeno questo è il senso di una tale espressione. Anatomicamente, dietro l’occhio c’è il nervo ottico, che congiunge il bulbo oculare con il cervello, e lancia il segnale della vista, e quindi la visione è frontale. Spesso capita di dire o sentire qualcuno dire a una persona che sta alle spalle: “ti ho visto”. È come dire ti conosco e so (ho visto) il gesto che hai fatto. Sapere è avere visto, il testimone è colui che ha visto. Nel senso in cui l’ho usata io, la mia espressione significava, la scena che si svolgeva alle mie spalle, io l’ho vista scorrere (prima davanti e poi) dietro ai mie occhi. Spieghiamoci meglio. Io vedo i fuggiaschi correre verso di me, quindi davanti a me, e poi vedo sopraggiungere gli inseguitori, e la mia attenzione viene attirata da loro, in particolare dal medico che cerca di afferrare e trattenere la coda dell’automobile e gli infermieri che gli stanno dietro. È il gesto goffo, seguito dal lamento, che muove al riso, ma anche la verosimile espressione di esultanza dei fuggiaschi che non vedo, ma immagino, e di cui in un certo senso condivido il sentimento trionfante, come rivela la canzonetta che li accompagna. So che sono, in fuga, alle mie spalle, io non mi volto a guardarli, ma resto a contemplare la collera e la pena dell’inseguitore sconfitto.
LA REALTÀ DELL’IMMAGINE “Dopo avere sparato al simulacro del Pastoriz”. Così leggiamo, all’inizio del paragrafo “Sull’orlo della giostra”, che dava il titolo all’intera seconda parte del “Rhetor”. Che cosa è un simulacro? Si tratta della teoria materialista di Epicuro e Lucrezio. Ma vediamo che cosa scrive Sartre, il filosofo francese da noi citato, nel suo saggio: “L’Immaginazione.” Avevamo interrotto la lettura del testo, lasciando l’interrogativo in sospeso sul foglio non più presente sotto gli occhi: “È veramente il foglio in persona?” Ecco come risponde l’interrogante: “Sì e no.” La risposta è ambigua, ma più avanti l’autore chiarisce il suo pensiero: “Tuttavia, una cosa è cogliere un’immagine immediatamente come immagine, un’altra è formare pensieri sulla natura delle immagini in generale.” Qui Sartre distingue tra esistenza ed essenza, l’una oggetto della realtà, l’altra del pensiero, e coglie l’errore di un pensare ingenuo: “Appena si distoglie la propria mente dalla pura contemplazione dell’immagine in quanto tale, appena si pensa sull’immagine, senza formare immagini, si produce uno scivolamento e dall’affermazione dell’identità di essenza tra l’immagine e l’oggetto, si passa a quella di un’identità di esistenza. E in tal modo si costituisce ciò che chiameremo la metafisica ingenua dell’immagine. Tale metafisica consiste nel fare dell’immagine una copia della cosa, esistente essa stessa come una cosa.” L’autore francese era un professore di filosofia e non poteva ignorare i classici: “Una bella esemplificazione di questa “cosalità” ingenua delle immagini ci è fornita dalla teoria epicurea dei “simulacri”. Le cose non cessano di emettere “simulacri”, “idoli”, che sono semplici involucri e hanno tutte le qualità dell’oggetto. Una volta emessi esistono in sé, proprio come l’oggetto che li ha emessi e possono errare nello spazio per un tempo indeterminato.” Una volta enunciata la teoria, Sartre non la discute, ma passa oltre: “La teoria pura e a priori ha fatto dell’immagine una cosa , ma l’intuizione interna ci insegna che l’immagine non è una cosa.” E Pastoriz Michail? È stato suicidato in carcere, era il suo destino. Se qualcuno avesse raccolto il giornale, che io avevo scagliato sulla sabbia, indignato da quel modo di scrivere la cronaca, e avesse letto l’articolo relativo al “suicidio” del Pastoriz, avrebbe tratto le sue conclusioni. Il detenuto doveva rispondere di quattro omicidi, uno documentato dalle telecamere, quello del giovane ausiliario Nemecesco, annegato di notte nella Fontana di Trevi dai fratelli Pastoriz, in particolare Michail. Ecco la ragione per cui quest’ultimo era morto in carcere: “soffocato” dai rimorsi per i suoi delitti.
SECONDA POSTILLA All’inizio del paragrafo “La statuina di bronzo” della “Giostra”, ricorre l’espressione “la parola come origine divina del nome di un dio o di una dea”. Sull’argomento, le dovute riflessioni richiamano indirettamente il tema del cambiamento di genere, quello raccontato nel paragrafo “Come una metamorfosi”, all’inizio della seconda parte del “Rhetor”. In proposito, ci sembra opportuno riportare integralmente il testo platonico sul mito dell’androgino.
IL MITO DELL’ANDROGINO “Mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'Eros. Ove se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, e voi fate altrettanto con gli altri. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole. Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi. Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. "lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri."
Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare.
Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi veri uomini e a occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall’altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?"
A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'altra anima. Non più due, ma un'anima sola. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene. Se vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo, promettendo di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità.” Dal Mito dell’androgino, che Platone ci narra nel “Simposio”, sappiamo dell’esistenza primitiva dei tre generi, che dopo il taglio operato da Zeus, si sono rivelati come due, il maschio e la femmina. Ecco perché, per la forza dell’amore, essi tendono sempre a ricongiungersi, e questo vale anche per il taglio di un originario ermafrodito fornito di due sessi uguali, che spiega l’attrazione fra loro di persone dello stesso sesso. Platone ci riferisce inoltre che appare “oggi” abbastanza disdicevole l’essere nominati ermafroditi, e questo spiega il disagio di coloro che hanno la necessità di cambiare sesso, i transgender. È il caso, quest’ultimo, quello del mio personaggio, il retore Enrica Marramao, narrato in “Come una metamorfosi”.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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PREMESSA
E infatti, eccolo! Sono passati un bel po' d’anni, tantissimi appostamenti e tantissime attese, ma alla fine l’ho beccato! Lasciatemi esprimere la mia soddisfazione per un lavoro che mi è costato tanto tempo e tanta fatica, ma alla fine la mia ostinazione, la mia pazienza impossibile, nel senso specifico di patire, sopportare l’insopportabile, ha vinto. Dopo tantissime lunghe ore, lunghe mattinate, lunghe giornate, sprecate e andate a vuoto, lunghe settimane, mesi, alcuni anni, quasi una disperazione nera, ma alla fine, ecco l’illuminazione. Che gioia! E spiegheremo anche queste parole ultime, ultimissime non si può dire, è un errore grammaticale, dicono.
È successo a Porta Pia, l’ho visto, un tuffo al cuore e l’ho rincorso con lo sguardo sulla Nomentana, il mio Rhetor Magister, mio, esclusivamente mio, e di nessun altro, e sono diventato Lui, una trasmigrazione del mio Io.
SULL’ORLO DELLA GIOSTRA
RHETOR MAGISTER, PARTE SECONDA.
1. COME UNA METAMORFOSI
È successo a Porta Pia, tempo fa, l’ho visto, un tuffo al cuore, e l’ho rincorso con lo sguardo sulla Nomentana, il mio Rhetor Magister, mio, esclusivamente mio, e di nessun altro, e sono diventato Lui, una trasmigrazione del mio Io.
Stavo camminando sulla 42esima Strada, quando vidi la coppia che mi precedeva di spalle. Ero stato colpito da quel loro ondeggiare lievemente con le anche? Guardai meglio, rientrando nel presente, o meglio nella dimensione spaziale del mio tempo presente. Non camminavo per la 42esima Strada di New York, stavo passeggiando sulla via Nomentana, come quando mi ero laureato Rhetor Magister, diversi anni fa, con il fantasma di Ludovica Barboni nel cuore, e il suo ricordo mi trasportava in un altrove. Non so dire il motivo, ma quel lieve ancheggiare della coppia, che passeggiava davanti a me, risultava asimmetrico, sembrava più artificiale quello della sagoma di sinistra, come forzato, invece più regolare e composto quello della sagoma di destra. Chi mi avesse osservato in quella mia attitudine, fissare sul retro il lieve ondeggiare femminile di una coppia avrebbe pensato, con un risolino: eccolo là! Ma costui non avrebbe compreso appieno quella mia concentrazione dello sguardo sull’asimmetria di quel movimento davanti ai miei occhi, come se cogliessi un’anomalia.
Poi, d’improvviso, mi colse di nuovo il ricordo di Ludovica, quella sua immagine fantasma sulla 42esima Strada, la sua figura in ologramma: “Ludovica!” esclamai. Quelle due sagome che mi precedevano nel cammino sulla via Nomentana si bloccarono di colpo e si voltarono verso di me ed io mi arrestai proprio in faccia a loro. Oh! Ma quel volto a sinistra… Sì! Era proprio … era Marramao! Che strano, però! Sembrava quasi che il fantasma di Ludovica sovrapponendosi gli alterasse i tratti del viso. Ma non era così, era Marramao che mi guardava, una luce tutta nuova e particolare in quel suo sguardo, un accenno di sorriso, come dire? soave. Ma perché? Smarrito, mi volsi a guardare verso l’altra faccia. Toh! Sembrava anche lei Marramao! Era il volto femminile di una donna anziana, che mi sorrideva accattivante. Notò il mio smarrimento e quasi a voler come riparare non so a che cosa, mi fece gli occhi dolci, aumentando il mio disagio. Ma era la madre di Marramao! Sì, era così!
2. IL MONACO E LA RIVOLTA
Vestiva un saio da monaco tibetano, così giudicai a colpo d’occhio, disse di chiamarsi Govinda, credo fosse una sorta di truffatore, essendo italiano, anche se proveniente a suo dire dalle terre del Dalai Lama.
Subito dopo l’incontro con Enrica e la madre, nel lasciarle, avevo fatto dietro front, e mi ero incamminato verso Porta Pia, poi avevo girato a destra in direzione di piazza Fiume, e ancora a destra in via Nizza. Andavo verso via Savoia, la sede della Scuola di Retorica, quando ho sentito qualcuno darmi un colpetto amichevole sulla spalla, mi sono voltato e ho visto un uomo con la testa rasata , la veste da bonzo in arancione, che teneva in mano un libro. “Sono un Samana, ti vendo il mio libro.” Sono rimasto perplesso: “Non ho soldi.” Il bonzo ha detto: “Un obolo, per vivere.” Stavo mettendo mani alle tasche, quando ho detto: “Hai studiato all’Accademia di Retorica?” Sarà stato l’incontro di poco prima con Enrico, pardon! con Enrica, e il mio orientarmi verso il nostro luogo, nostro di colleghi, pensai, che mi aveva mosso a quella mia domanda. Il bonzo sorrise: “Il nostro sentiero verso l’esterno della ruota è la nostra scuola di monaci.” Quale ruota? Tacevo, mentre lo fissavo. “Amico, un obolo,” disse “sono un monaco.” Stava chiedendo l’elemosina, gli ho dato una moneta da due euro. Se domani, passo di nuovo qui, a quest’ora, lo ritrovo, pensai.
Ma il giorno dopo, prima di ritornare sul luogo del bonzo elemosinante, andai davanti a Villa Torlonia. Sono un Rhetor Magister, nel senso che la mia anima, atman, trasmigrando, si è reincarnata in quella di Vito Stefani. Codesto dottore in Retorica non si era rassegnato ad essere estraneo alla morte di Ludovica Barboni, il volo tragico dal grattacielo di Manhattan, un accadimento inspiegato. Altrimenti, come era andata? Ludovica suicida per amore di Enrico, no, Enrica? Lei? Chi? Lui, l’assassino? Chi? Vito Stefani. No, non ricordavo questo, ero stato sul luogo dell’incidente, quando erano arrivate le automobili della polizia con le sirene bitonali, le luci blu girevoli. Non ricordavo altro, sarà stato lo shock! Dovevo averla vista volare giù, forse.
Intanto, avvertivo uno strano fenomeno, io non ero soltanto Vito Stefani, ma ero anche un altro spirito vivente con una diversa storia. Quale? Quella che mi conduceva a Villa Torlonia. E dunque? Ricordate la notizia di cronaca? Quale? La retata della polizia sanitaria contro gli ultimi resistenti al vaccino, ricordate la notizia? Vagamente. E allora riprendiamola, amici. Amici di chi? Ma che domande! Avanti con la cronaca. Questa mattina, all’alba, reparti speciali di polizia sanitaria, nel quadrante est della Capitale, hanno circondato numerosi stabili del quartiere, dove pare si fossero rifugiati centinaia e centinaia di ultra-sessantenni, ultra-settantenni e ultra-ottantenni non vaccinati. All’irruzione degli agenti, sono state sorprese soltanto poche decine di persone, che vagavano per le stanze di abitazioni deserte. La maggior parte di questi anziani, infatti, si era nascosta e rinserrata nei terranei e nelle cantine degli stabili, da dove sono stati stanati con l’aiuto dei cani lupi della polizia, e trascinati ai Pronto Soccorso da campo, installati in strada, per essere sottoposti al VSO, Vaccino Sanitario Obbligatorio. Molti di questi “ultrà” sono stati catturati, mentre tentavano di fuggire per i tetti, opponendo anche inaspettata vigorosa resistenza. È stata una barbarie, una violazione del diritto delle genti, nel voler ridurre un popolo a “gregge”, gridò invano un resistente, un’ignominia! Sacche di resistenza minori si sono formate anche in altri quartieri della capitale, una abbastanza consistente, ha resistito dalle parti di Villa Torlonia, guidata pare da uno dei fratelli Pastoriz, Palmiro un capo della rivolta. Questi, dopo la cattura e il VSO, era stato anche ricoverato in ospedale per un TSO. Intanto, ero arrivato a Villa Torlonia, che ci facevo lì? Meditavo e anche ricordavo.
3. I SICARI PREZZOLATI
Stavo guardando la facciata della Basilica di Santo Stefano, a Budapest, quando con la coda dell’occhio, ebbi modo di notare il passaggio alla mia sinistra di un uomo alto con gli occhiali scuri, che mi lanciò un’occhiata. Chi era? Un passante che stava attraversando la strada e distrattamente aveva guardato per un attimo il turista, che osservava la facciata della Basilica di Santo Stefano, la sua architettura? No, era uno dei due fratelli Pastoriz, quello sfuggito alla retata, ricercato in tutta Europa. Ah! E come avevo fatto a riconoscerlo? Stavo sulle sue tracce da giorni, infine l’avevo scovato qui, nella capitale ungherese, come mi era stato segnalato dall’Italia. Ah! Ma tu chi sei? Chi sono io? Io mi spersonalizzo o tento di farlo. Ma che stai dicendo?
Un attimo, poi ci spieghiamo, intanto devo seguire il ricercato Michail Pastoriz, uno degli animatori della rivolta contro il VSO, uno dei capi della resistenza, sfuggito nell’ultima sconsiderata battaglia contro la polizia sanitaria. In verità, non so se nell’occasione ero il pedinatore o il pedinato, perché mi ritrovai in uno spazio verde, dove molti della gioventù del posto erano convenuti, vicino ad una vasca d’acqua e fontane zampillanti. Dov’era il mio uomo? Mi voltai di colpo, forse mi spiava alle spalle. No, non era così. Comunque se conducevo io il gioco, non mi restava altro che ritrovare il mio amico in altra zona della città. Andai alla stazione della metro più vicina, e viaggiando sulla linea M, scesi alla fermata “Corvin-negyed”, raggiungendo poco dopo una traversa della strada principale. Era una via stretta e deserta, spiai dietro di me, all’imbocco, una donna si era fermata a guardarmi, poi lesse la targa della via, rise e proseguì sulla strada principale. Che cosa c’era da ridere? Nell’ombra della stradina, gridai in silenzio: voi, ragazzi della via Pal, dove siete? Tu, Pastoriz Michail, dove sei? Nessuno sembrava rispondere al mio appello. Mi volsi di nuovo, eccolo! Mi aveva seguito e mi aspettava, il malandrino! O il malandrino ero io?
“Ci siamo, Pastoriz,” dissi. “Sei venuto a cercarmi, per segnalarmi ai tuoi sicari, spione prezzolato. Non ho paura di morire” gridò Pastoriz Michail. Aspettavo che estraesse dalla tasca una pistola, per spararmi. “Beh?” interrogai. “Voglio il nome del delatore.” “Non è stato Miro.” “Palmiro non parla neppure sotto tortura, ma non ti credo.” “Non credi a tuo fratello?” “Non credo a te.” “Neppure a tua madre, una nobildonna?” Si avvicinò minaccioso, mi afferrò per il bavero e scuotendomi forte, gridò: “Non ti permettere di pronunciare il nome di mia madre, sbirro maledetto.” Mi lasciò, si scostò e rimase immobile per smaltire la rabbia, poi all’improvviso cominciò a singhiozzare: “Non può essere stata la mamma! No, non può essere stata lei!” Gridava, era disperato, piangeva. “Aveva paura che ti uccidessero, Michail…” Si fermò a guardarmi, completai: “… i miei inesistenti sicari prezzolati.” Mi fissava strano. Era una di quelle situazioni così precarie, in cui se ti volti, ti uccidono. Voltati e ti uccidono. Mi voltai, nessuno mi uccise. Non era una di quelle situazioni, a cui avevo pensato, forse la precarietà non stava nell’azione, ma nell’intenzione. Non era mica la guerra, e allora che cosa era? Ecco, ebbi l’illuminazione, era il virus.
E se i miei inesistenti sicari prezzolati fossero esistiti davvero? Il dubbio mi colse. In questi tempi pandemici, si finisce per dubitare di tutto e tutti, tutto cambia così repentinamente. Michail Pastoriz colse quel mio smarrimento: “È Stata Steffy, vero?” Aveva una luce nuova nello sguardo, il tono era diventato sardonico. “A fare che? Chi è Steffy?” interrogai. Al tempo stesso mi domandai della madre dei Pastoriz: chi me ne aveva parlato? Lui taceva. Una voce femminile al telefono mi aveva dato l’istruzione: “La cattedrale di Santo Stefano .” Questa Steffy doveva risultare agli occhi di Pastoriz il mio capo. Era così? Io ero quello che sapeva meno di tutti. In verità, a pensarci bene adesso, una ragazza a Roma, una bionda, mi aveva una volta fermato per strada e mi aveva detto: “Stefani, non mi riconosci?” “La collega dell’Accademia di Retorica?” dissi dubbioso. Lei rise molto, poi mi piantò in asso. Ma chi era? Io avevo detto così, tanto per dire, siccome mi ero incarnato nella vita di Vito Stefani. Ma ero anche, in questa mia nuova personalità, lo spirito vivente di un altro. Chi? Una sorta di marionetta manovrata verosimilmente da questa ineffabile Steffy, però conosciuta, almeno di nome, dal Pastoriz. Una comandante della polizia sanitaria? Ma che razza di storia stavo vivendo? Ero un informatore, un bounty killer. I non vaccinati erano considerati killer, che esagerazione! Però i bounty killer venivano pagati bene. Pastoriz Michail, chi lo convinceva a costituirsi riceveva una medaglia d’oro e anche un premio in denaro. E se lo uccidevano? Chi? Non io, ma i sicari prezzolati. Allora esistevano? Tirai fuori dalla tasca la pistola e sparai contro l’ombra di Pastoriz, il quale intanto si era allontanato, lasciando davanti a me il suo simulacro. Lo spruzzo non innaffiò la figura virtuale rimasta sul posto, avevo sparato con una pistola ad acqua.
4. L’UFFICIO DEL SECONDO PIANO
Mi svegliai di buon mattino, poi dopo i lavaggi e la colazione, ero pronto ed uscii. Presi l’autobus, e dopo alcune fermate, scesi, un breve tratto a piedi, e andai a prendere la linea B della Metro a Eur Fermi, cambiai a Termini, e sulla line A scesi a “Barberini”. Quando emersi sull’omonima piazza, con la fontana del Tritone al centro, mi guardai attorno, quindi m’incamminai giù in direzione di largo Chigi. A metà strada, a sinistra, mi infilai nel portone di un palazzo stile barocco. Nell’androne c’era una guardia giurata, esibii un tesserino verde e chiesi del comandante Stefania Pallavicini. “La comandante Steffy” disse la guardia. Confermai: “Sì, Steffy”. Fece un cenno verso l’alto: “Secondo piano”. Salii le scale, una prima breve rampa mi portò su un pianerottolo, dove c’erano due porte chiuse, su una c’era la targhetta: “Segreteria”. Salii ancora un piano e mi ritrovai in un corridoio, dove si affacciavano diverse porte di uffici, alcuni aperti con impiegati alle scrivanie, alcune stanze vuote, altre con la porta chiusa. Girai l’angolo e percorsi un altro corridoio smile al primo, dove incrociai una impiegata con tailleur grigio, camicia bianca e cravatta. Era una donna di mezza età, la fermai, si rese disponibile: “Scusi, il comandante… cioè no, la comandante…” “Steffy?” disse l’altra. “Sì,” dissi”. “Secondo piano.” “Grazie” dissi e proseguii. Ero confuso, non era questo il secondo piano? Mi richiamò: “Ehi!” mi voltai. Indicò nella direzione in cui andava lei, cioè da dove ero venuto: “Da questa parte.” Ritornai indietro, lei si girò e cominciò a camminare, la seguii e affiancai: “Le scale sono nell’altro corridoio” disse. Continuai a camminarle a fianco, lei senza voltarsi verso di me, domandò: “Ce l’hai il badge?” Tirai fuori il tesserino verde e lo mostrai. Lei l’osservò per un po', sempre camminando, poi disse: “Giralo dall’altra parte”. Avevo mostrato la parte anteriore con la fotografia e le mie generalità, girai il tesserino sul retro. Avevamo svoltato l’angolo, si fermò, indicò la striscia magnetica: “Sali, trovi una porta blindata a vetri, infila il badge nel lettore ottico ed entra.” Riprese a camminare, vide che la seguivo, allora disse: “Dove vai?” “Alle scale.” Si fermò, si voltò e indicò dove avevamo sostato poco prima: “Prendi l’ascensore, fai prima.” Non avevo notato l’ascensore, lei mi guardava. Esitai e dissi, esibendo un sorriso grato: “Grazie.” “Vai, Stefano,” disse “io sono Angela.” In effetti, aveva la targhetta con il nome appuntato sotto il taschino della giacca, ma non feci in tempo a controllare, perché lei si voltò e allontanandosi, di spalle, mi fece un gesto di saluto con la mano. Aspettando l’ascensore per salire, guardai il mio nome sul tesserino: “Vito Stefano”, l’impiegata cioè Angela, non si era sbagliata. Salii su, passai con il badge, oltre la porta a vetri e poco dopo, stavo davanti all’ingresso di un grande stanza con la porta aperta. Le decorazioni, l’ampia scrivania, il tappeto, il salottino d’angolo, si capiva che era l’ufficio della comandante Steffy.
Mi affacciai, una donna bionda, seduta dietro la scrivania, in fondo, si sporse a guardarmi, e mi invitò ad entrare: “Vieni.” Ero in piedi davanti a lei: “Comandante,” dissi, “sono Vito Stefano.” “Ah, sei tu! Sei arrivato!” Cominciò ad osservarmi con interesse, senza parlare. Erano entrati alcuni uomini, salutarono: “Comandante.” Steffy si aggiustò con entrambe le mani i capelli, poi si alzò, era una donna alta e magra, sulla cinquantina o forse più, la gonna nera lunga, la camicia bianca slacciata al collo, il cravattino. Mi venne vicino, mi mise una mano sulla spalla e mi interrogò: “È andato tutto bene, no?” “Sì, tutto bene, perfettamente,” risposi, inespressivo. Steffy stette ancora ad osservarmi, perplessa, forse voleva dire qualcosa. Un usciere aveva spalancato la porta in fondo, il salone delle riunioni. “Sei passato per l’Economato?” mi chiese. Feci un gesto di diniego. “Giù, al primo piano” disse, aggiungendo una frase che capii a metà, mentre mi lasciava.
Ripensai a quella strada stretta dove avevo sparato con la pistola ad acqua contro Michail Pastoriz o meglio contro il suo simulacro, l’immagine che ti rimane di una persona che ti sta davanti e poi scompare alla vista, secondo la dottrina di Epicuro e Lucrezio Caro, ma anche la mia convinzione. Sapeva di questo episodio, la parte finale della mia azione? La notizia sui giornali della cattura del ricercato numero uno, in verità l’ultimo, della rivolta di Villa Torlonia, era stata abbastanza laconica: “Il Pastoriz era stato localizzato dai servizi di sicurezza a Budapest e arrestato all’aeroporto, dove tentava di imbarcarsi su un volo per Varsavia.” La buona riuscita dell’operazione, tutto il merito andava a Steffy, era stata lei a progettare il piano e realizzarlo. Non ero ancora convinto? Dovevo scendere all’Economato, primo piano, no, l’ammezzato.
“E i volontari laici
Scendevano in pigiama per le scale
Per aiutare i prigionieri
Facevano le bende con lenzuola
E i cittadini attoniti
Fingevano di non capire niente
Per aiutare i disertori
E chi scappava in occidente
Radio Varsavia
L'ultimo appello è da dimenticare
Radio Varsavia
L'ultimo appello è da dimenticare.”
La canzoncina del cantante scomparso mi risuonava in mente, per associazione di idee. Come era andata l’operazione? Le autorità governative avevano bisogno di un simbolo, per dimostrare che la loro lotta alla pandemia era riuscita: la cattura dell’ultimo anti-vaccinista, il cospiratore della rivolta, uno dei fratelli Pastoriz. L’uomo chiave, anzi la donna risolutrice era stata Steffy, non era l’amica di Visconti, il viceministro della Sanità? Era apparsa di sfuggita qualche volta in televisione assieme all’uomo politico. Come aveva fatto a localizzare Pastoritz, a Budapest? Aveva telefonato alla madre, io non so che cosa si fossero detto le due donne, potevo però presumere il tono della conversazione. Entrambe erano in ansia per la sorte del fuggitivo, l’ansia di Steffy non doveva essere stata da meno di quello della madre dei Pastoriz. Poi altri contatti telefonici, quindi la delazione della madre, Budapest, un’esca inviata, io, e qui Steffy aveva rischiato al buio, era sua la voce che mi dava precise istruzioni, era stata lei a suggerirmi, come per inciso, che anche la madre del fuggitivo lo cercava. Era stata lei ad organizzare il rendez-vous davanti alla cattedrale di Santo Stefano ed era stata lei a mandare due suoi ufficiali ombra che mi spiavano. Io li avevo seminati, quando mi ero confuso tra la folla dei giovani davanti al laghetto. Questa degli spioni anziani che spiano una spia giovane però è una mia supposizione. Comunque, se lei non li aveva mandati, aveva compiuto un’acrobazia sul trapezio volante senza rete, fidandosi, dopo tutto, di un giovane sconosciuto. E invece no, di sicuro aveva un dossier su di me, aveva valutato, ed io con la mia vita di Rethor Magister, assunto in prova nei loro servizi informatici, dovevo avere dato buona prova di neofita, eseguendo diligentemente tutte le mansioni on-line, che mi avevano affidato. Quali? Seguire i corsi informatici e diventare programmatore di un sito, di cui era webmaster Caio Mario, un tizio che faceva politica. Tutto qui? No, poi la proposta di un soggiorno a Budapest con rimborso spese e pagamento di una diaria giornaliera, tutte e-mail firmate “La Direzione”. Ma che dovevo fare? Tu vai a Budapest, e noi ti diciamo che cosa devi fare. Una vacanza pagata? No, Pastoritz Michail, non dovevo fare altro che incontrarlo, dove quella voce femminile al telefono, Steffy, indicava. E poi? Lei si aspettava che io dicessi della delazione, previsione esatta, e così il figlio non aveva resistito alla tentazione di telefonare alla madre, per gridarle il suo odio, l’altra faccia dell’amore. In tal modo era riuscita a sondarne le intenzioni di fuga, e a questo punto andarlo ad acciuffare all’aeroporto, mentre tentava di imbarcarsi su un volo per Varsavia, per Steffy, era stata un gioco da ragazzi. Si fa per dire da ragazzi, una volta compiuta l’operazione, è facile dirlo, ma tenere in piedi tutta l’organizzazione, il rischio era merito esclusivo di Steffy. La medaglia d’oro e il premio, che la Direzione generale di Sanità aveva stabilito, toccava a lei. Ma non andò così, lo scoprii un po' dopo. Intanto, ero arrivato al piano ammezzato: dovevo scegliere tra le due porte “Segreteria” e l’altra, di cui ora leggevo la targhetta: “Cassa”. Bussai a questa, nessuno rispose, provai dall’esterno, la porta si aprì ed entrai.
5. L’INSEGUIMENTO
Cominciò a piovere mentre stavo percorrendo a piedi il viale dell’Università, girai a sinistra su viale del Policlinico, dove mi fermai sotto il cornicione di un palazzo, per non bagnarmi o per bagnarmi il meno possibile. In quel frangente, ebbi modo di osservare una scenetta abbastanza movimentata. Un giovane e una ragazza in uniforme bianca da sanitari correvano verso un’automobile scura parcheggiata quasi di fronte al recinto di entrata dell’ospedale. Dietro di loro, uscito dal cancello, si era posto all’inseguimento un dottore in camice bianco, che gridava, e un po' dietro alcuni infermieri. I giovani raggiunsero subito l’automobile, il guidatore mise in moto e partì sgommando. Il medico che li inseguiva era riuscito ad afferrare con le mani la coda dell’autovettura, perdendo però subito la presa. Venivano verso di me, l’automobile passò veloce, il medico aveva continuato a inseguire in mezzo alla strada, sembrava lamentarsi. Pioveva, riuscii però a capire le parole, adesso che si era un po'avvicinato: “Era la mia paziente, stavo curando la mia paziente.” Piagnucolava, poi dovette fermarsi e fu raggiunto dagli infermieri, che quasi lo consolavano, tutti fermi a guardare in direzione dell’autovettura ormai dileguatasi. In quel momento avvertii un forte squillare dei campanelli d’allarme dell’ospedale.
Era una scena, per come si era svolta dietro ai miei occhi, abbastanza da ridere, pur in quel periodo di pandemia, in cui non c’era molto da scherzare. La guerra alla pandemia, al virus, però poteva dirsi ormai finita e vinta, con la cattura dell’ultimo dei Moicani, ecco perché a stento trattenevo il riso.
“Ridere, ridere, ridere ancora,
Ora la guerra paura non fa,
Brucian nel fuoco le divise la sera,
Brucia nella gola vino a sazietà,
Musica di tamburelli fino all'aurora,
Il soldato che tutta la notte ballò
Vide tra la folla quella nera signora,
Vide che cercava lui e si spaventò
Salvami, salvami, grande sovrano,
Fammi fuggire, fuggire di qua,
Alla parata lei mi stava vicino,
E mi guardava con malignità
Dategli, dategli un animale,
Figlio del lampo, degno di un re,
Presto, più presto perché possa scappare,
Dategli la bestia più veloce che c'è
corri cavallo, corri ti prego
Fino a Samarcanda io ti guiderò,
Non ti fermare, vola ti prego
Corri come il vento che mi salverò.”
Non si poteva negare che la fuga era riuscita, la ragazza e il suo amico erano fuggiti sul cavallo più veloce che c’è, e chissà dove erano arrivati. Presi la decisione di bagnarmi, camminai sotto la pioggia, riparandomi alla meglio il capo, sollevando la giacca, e in fretta arrivai alla fermata “Policlinico” della linea B della Metro. E mentre il convoglio viaggiava, direzione “Laurentina”, rievocai il mio incontro con Steffy di alcune settimane prima, quella figura di donna che svolgeva un ruolo, di cui tutti sanno dell’esistenza, ma che nessuno poteva in lei riconoscere, pur conoscendola.
“Ci vediamo dopo” mi aveva detto nel lasciarmi. Dopo quando? È un modo di dire come congedo nei rapporti professionali. D’altronde, all’Economato, la mia situazione era chiara: un rapporto di lavoro subordinato, non lavoro autonomo, dunque.
Ero entrato nell’ufficio cassa, nell’ombra della stanza, vidi una ragazza al bancone, ma subito si accese una luce al neon dietro di lei, adesso si vedeva meglio. Mostrai il tesserino verde, e dissi il mio nome, aggiungendo che dovevo riscuotere il rimborso spese della missione a Budapest. L’impiegata prese un faldone, l’aprì e cominciò a scorrere alcuni fascicoli, non sembrò trovare il mio, perché alzò verso di me uno sguardo interrogativo: “Capece?” Chi era? Scossi la testa, no. Lei controllò di nuovo, prese un altro fascicolo, l’aprì, sfogliò delle carte, poi alzò di nuovo lo sguardo: “Russo?” Scossi di nuovo la testa: “No, non lo conosco.” L’impiegata andò a prendere un altro faldone e cominciò a scorre i fascicoli. E adesso quali altri nomi avrebbe pronunciato? Io questo Capece e questo Russo, non solo non li conoscevo, ma prima di allora non sapevo neppure che esistessero. Strano a dirsi, ma su questo secondo punto mi sbagliavo, anche se prima di allora, non li avevo mai sentiti nominare. Nominare? Il nome, il mio nome non era registrato, allora dissi: “Steffy”. L’impiegata sollevò di colpo la testa, facendo un gesto come per dire che proprio in quei fascicoli stava cercando. Poi lì sollevò tutti, scorrendoli con le dita rapidamente, li ripose, chiuse la cartella e mi indicò un’altra pila di cartelle identiche sul tavolino dietro di lei: “Sono tutti Steffy, questo è l’ultimo mese.” “Vito Stefano” dissi, quasi a indirizzare la ricerca sul nome Vito. L’impiegata esitò, poi scosse la testa. Rimasi a guardarla, aveva i capelli neri, arricciati di recente, era bassina, perché sollevandosi sulle punte dei piedi, eresse il busto, prima nascosto dal bancone, e che ora, offerto allo sguardo, si rivelava prosperoso. “Va bene, grazie” dissi, e mi stavo voltando per andar via. Lei mi richiamò: “Ha ricevuto l’anticipo?” “Sì” dissi “in banca, avevo comunicato i miei dati on-line.” “Quanto tempo fa?” Dovetti riflettere, poi dissi: “Tre settimane, un po' di più.” “Non è passato per l’Economato?” “Ma non è qui?” Indicò verso l’altra porta: “No, l’altra stanza.” Era entrata una donna, sostando un po' indietro, l’impiegata le fece un cenno con la mano. “Hong Kong”, sentii pronunciare dalla nuova arrivata, quando mi scostai per andarmene, mentre l’altra si avvicinava al bancone.
Mi riscosse uno squillo, in due tempi, come negli aeroporti: Hong-Kong. Ero arrivato a “Eur Palasport”, scesi dal vagone del convoglio, e mi avviai all’uscita.
6. IL SUONO DEI CAMPANELLI
Passeggiavo sul marciapiedi del laghetto, verso il Palazzo di vetro ENI, non l’ONU, siamo a Roma. New York, oh! New York! Forse un giorno, sarei andato nella Grande Mela! Ma non c’ero già stato? Ludovica Barboni, Vito Stefani, Enrico, no, Enrica Marramao, la Scuola di Retorica, e quindi? Avevo cambiato identità, un cambio di genere, no! un cambio da plurale in singolare. Ho capito, il processo di individuazione. Come? Di colpo, squillarono i campanelli del grattacielo di sinistra, era un Ministero, avevano individuato un DVSO, come si chiamavano gli ultimi disertori del vaccino. Era uscito il sole, mi fermai per vedere se inseguissero qualche fuggiasco. No! Cessato allarme, i campanelli smisero di squillare, verosimilmente il DVSO era stato catturato. Chissà se anche nel palazzo della Direzione Generale Sicurezza Sanitaria (DGSS) c’erano i campanelli. Quando io ero uscito, non avevano squillato. Ma come? Io, un volontario, un intrepido sulla linea del fronte contro il virus, disertavo in presenza del nemico, sarebbe stata fucilazione alla schiena, ma con questa storia dell’incarnazione di Stefani in Stefano, non è che la ruota del destino mi avesse giocato un brutto scherzo? Ma la freccia avvelenata colpisce tutti i viventi. Beh, certo! Anche Govinda. E poi all’Economato era come se fossi stato all’Anagrafe, avevano certificato il cambiamento della mia identità, precisiamo, non di genere, ma di numero.
Entrando in Segreteria, dove si nascondeva l’Economato… no, dove era inglobato… ma Economato e Segreteria non dipendevano entrambi da Steffy? Appunto, quello che contava era la firma. Chiesi all’impiegato della Segreteria dove fosse l’Economato, m’indicò una scrivania dietro di lui, dove un uomo anziano, con i capelli grigi, stava esaminando delle carte. “L’impiegata alla cassa mi ha mandato qui, per la mia pratica, il rimborso spese per Budapest.” L’impiegato si voltò indietro: “Budapest” disse. L’Economo, l’uomo con i capelli grigi era l’Economo, una figura chiave, alzò di scatto la testa, mi guardò e subito si alzò in piedi venendomi incontro: “Oh!” Sorrideva, dissi sono: “Stefano, Vito Stefano.” Fece un leggero inchino, così mi parve: “Signor Rethor Magister, venga.” Andò alla porta in fondo, dove c’era la targhetta: “Economato”, l’aprì e si fermò sulla soglia, mi guardava, aveva cambiato espressione, un’aria come di leggera malinconia: “Anche mio figlio…” disse. Poi ritornò sereno, andò alla scrivania, si sedette al suo posto e m’invitò a sedermi sulla sedia di fronte a lui: “Ho la sua pratica pronta, signor Retore…” Meno male, pensai. “Manca solo la firma” disse, radunando alcune carte. Eccolo là! La firma, la burocrazia. Sorrise, assunse un’aria rassicurante. Ordinò i fogli, fece dei segni su ognuno, li girò verso di me, e indicò gli spazi nel margine basso, dove aveva fatto delle crocette: “Firmi qui, tre firme per ogni foglio. Ah, ero io che dovevo firmare! Chissà perché avevo immaginato lui che, con una cartella sotto il braccio, andava al secondo piano. Misi non so quante firme e gli restituii i fogli, accompagnandoli con lo sguardo. Raccolse il pacchetto dei fogli e tenendoli in posizione verticale, li allineò con alcuni tocchi sul ripiano della scrivania, quindi li sistemò nella cartella, la chiuse e me la mostrò: “È fatta! Questo è il suo contratto di collaborazione per due anni.” Ah! E non l’avevo neppure letto. Stavo per dire, il saldo delle spese della missione? Mi prevenne: “Le competenze, la diaria e il saldo sono sul suo conto corrente in banca, dove ha ricevuto l’anticipo.” Andò al suo computer, digitò brevemente, quindi disse: “Servito!”
SULL’ORLO DELLA GIOSTRA
Se l’operazione per la cattura di Patoriz fosse andata a finire male, la responsabilità sarebbe stata della comandante, non era un’irresponsabile, ma la colpa sarebbe stata mia, ero un irresponsabile, uno che gira con una pistola ad acqua in tasca. Ma che fa? Gioca alla guerra? Non solo, ma si disfa anche in maniera irresponsabile delle sue armi giocattolo, che peraltro una volta ritrovate, gli vengono anche restituite.
Dopo avere sparato al simulacro del Pastoriz, un gesto irresponsabile, avevo sentito come il rumore di una serranda di una finestra nel palazzo alle mie spalle. Ero in trance, se mi colgono con le armi in pugno, mi abbattono a colpi di mitra, un po' come a Chicago negli anni Trenta. Dovevo aver buttato l’arma in un’aiuola del viale, che incrociava con la via Pal, da cui mi ero allontanato in fretta, e avevo rimosso il ricordo del mio gesto inconsapevole. Non mi rendevo conto dell’assurdo e del grottesco della mia situazione, o forse essendone consapevole avevo provveduto ad eliminare questo materiale psichico dalla mia coscienza. Ma il cartellino legato al filo indicava il negozio dove era stata comperata l’arma giocattolo, neppure fosse stata vera.
E adesso New York! Si muovevano vecchi fantasmi sulla scena di un altro teatro, che fare? Rinunciare all’impiego, stipulare la mia pace separata nella guerra contro il virus? E poi? L’incertezza dell’avvenire, era il grigio del prossimo autunno, fatto estate radiosa dalla luce dell’isola mediterranea. Eccola! Era Martina, era venuta a trovarmi in sogno. Martina? Quando ero ripartito, alla fine della vacanza, nelle isole Egadi, venne all’aeroporto di Trapani a salutarmi, ti invio il biglietto aereo, dissi, raggiungimi a Roma, ti aspetto. Ed ora, giusto il tempo di andare alla DGSS a rispondere, anzi no, a riprendere la mia pistola ad acqua, poi via di corsa a Fiumicino. Martina! E quindi cominciammo la nostra vita insieme da turisti a Roma. La nostra lunga vita felice, fino a quando sarebbe durata? Diecimila anni. Ma secondo quale legge?
“È questa la legge di Adrastea, e cioè che l’anima, essendo al seguito di un dio, abbia visto qualcuna delle verità, e quindi rimanga incolume fino all’altro giro.” Dai miei studi di retorica, emergevano i ricordi del mito della reincarnazione delle anime, che Platone riporta nel “Fedro”, e anche nel X libro della “Repubblica”: “Considerando l'anima immortale e capace di sopportare ogni male e ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita alla saggezza; in questo modo saremo cari a noi stessi e agli dèi, finché resteremo quaggiù e anche dopo che avremo riportato le ricompense della giustizia, come i vincitori che vanno in giro a raccogliere premi, e godremo della felicità su questa terra e nel nostro cammino millenario.” Intanto, domandiamoci che cosa intende Platone per “altro giro”, anzi, no, dimentichiamolo.
Come Rhetor Magister dovrei fare una dissertazione sulla dottrina platonica della metempsicosi, ispirata al pitagorismo, che a sua volta risentiva dell’influenza del pensiero orientale, il circolo eterno delle esistenze, da cui la dottrina di Buddha… Ecco! La statuina di bronzo luminosa. Ormai, io e Martina avevamo raggiunto l’illuminazione, secondo la mia interpretazione: vivere il nostro samsara, l’incarnazione nella nostra presente esistenza, come aria, luce, mare, vento, pioggia, per raggiungere poi il nirvana, il nulla cosciente, quella esistenza che Platone indica come la vita di diecimila anni dell’anima, prima di raggiungere la sede del cielo.
E intanto che cosa accadeva sulla terra? In particolare, in Italia, in Toscana? Eravamo andati all’Argentario, ed ero disteso sotto l’ombrellone, sulla spiaggia di Porto Santo Stefano, quando lessi la notizia sul giornale: “Pastoriz Michail era stato suicidato in carcere.” Ma che maniera di dare le notizie! Gettai indispettito il giornale sulla sabbia, mi alzai e corsi verso la riva. Martina mi aspettava, ci tuffammo e nuotammo tra le onde, la bianca schiuma delle onde del mare.
Di ritorno a Roma, cominciai a consultare i media. La taglia per la cattura del Pastoriz, come riferiva il Ministero della Sanità, non era stata assegnata, ma la somma era stata incamerata direttamente dall’Erario, essendo avvenuta la cattura grazie all’intervento della DGSS, a cui andava il merito dell’operazione. Non so perché, ma questa notizia mi riportava alla spersonalizzazione e fuga dall’Io, come predica la dottrina buddista. Non so però se questo pensiero era colto allo stesso modo da altri, non credo, il buddismo non è molto diffuso da noi, non ostante la globalizzazione. Steffy, per esempio, che cosa pensava in proposito? “Stefano, ti mandiamo a fare un corso d’informatica di tre mesi a New York.” A me? Io mi sono incarnato nella vita di Vito Stefani, non Stefano, e la mia ultima trasferta a New York non era finita troppo bene, figuriamoci questa! E poi, io devo pensare alla mia nuova vita con Martina.
La ragazza vedendomi trafficare al computer si era avvicinata con la statuetta del Buddha, pensava di farla ripulire da quella patina verdastra e lucidare il bronzo, avrebbe acquistato una maggiore lucidità. Non dissi nulla, dovevo dirgli: “Tu credi che togliendo la patina verdastra, Buddha diventa più luminoso, invece è proprio quella patina verdastra che lo rende luminoso.” E così le dissi, lei non rispose, era diventata pensierosa, io capivo che era necessario un “altro giro”, stavamo volando sull’orlo della giostra, il samsara, il circolo delle esistenze, in cui solo mettendo in movimento la ruota del Dharma potevamo cogliere la via di fuga. Ma volevamo davvero uscire, io e Martina, dalle nostre vite, per raggiungere il nirvana? Non è il samsara già la presenza del nirvana? Il Nulla, che disegna le figure della nostra vita?
RHETOR MAGISTER. POSTILLE.
PRIMA POSTILLA
All’inizio del paragrafo “L’inseguimento” di “Sull’orlo della giostra”, si legge: “Era una scena, per come si era svolta dietro ai miei occhi, abbastanza da ridere, pur in quel periodo di pandemia, in cui non c’era molto da scherzare. La guerra alla pandemia, al virus, però poteva dirsi ormai finita e vinta, con la cattura dell’ultimo dei Moicani, ecco perché a stento trattenevo il riso.”
Ora, “Dietro ai miei occhi” è un’espressione, che rovescia il modo di dire più consueto:
“Davanti ai miei occhi”. Quando ho riletto il testo che avevo postato e quindi non potevo più cancellare, quello che io credevo un errore mi è caduto “sotto gli occhi”. Che fare? Correggere e postare di nuovo, cancellando tutto il resto dei paragrafi ormai postati, per poi postarlo ancora, una fatica di Sisifo. Potevo cavarmela con un “Errata corrige”, ma no! Bisogna capire perché avevo scritto “dietro agli occhi” e non “davanti agli occhi” o “sotto gli occhi”. Ed ecco la spiegazione che mi sono data.
DIETRO AI MIEI OCCHI
“Guardo questo foglio bianco sul mio tavolo; percepisco la sua forma, il suo colore, la sua posizione. […] Ma ecco che ora volgo la testa. Non vedo più il foglio di carta. Adesso vedo la tappezzeria grigia del muro. Il foglio non è più presente, non è più là. […] E tuttavia eccolo di nuovo. Non ho voltato la testa, il mio sguardo è sempre diretto verso la tappezzeria grigia; niente si è mosso nella stanza. Eppure il foglio mi appare di nuovo nella sua forma, il suo colore e la sua posizione; e so molto bene, nel momento in cui mi appare, che è proprio il foglio che vedevo poco fa. È veramente il foglio in persona?” Così scrive Jean-Paul Sartre nel suo saggio, “L’Immaginazione”, la rielaborazione della sua tesi (1926) per il diploma all’École Normale Supérieure.
Il saggio riguarda la differenza tra la realtà fenomenica e la coscienza, e nelle righe dell’incipit dell’Introduzione, che noi abbiamo estrapolato, subito avvertiamo la distinzione tra la visione sensibile e quella intellettiva concreta, come immagine. Questo genere di distinzione richiama quella prima della filosofia di Platone tra realtà sensibile, percepibile con il senso della vista, e mondo delle Idee, contemplato con lo sguardo della mente, una visione intellettiva.
Nella mia descrizione della scenetta, i fuggiaschi inseguiti da medico e infermieri, in cui l’Io narrante si trova ad essere testimone, io ho usato di getto l’espressione “dietro ai miei occhi”, senza accorgermi che una tale locuzione non si accordava al senso del testo, anzi stride come il suo contrario. Volevo riferirmi a una visione intellettiva?
La visione “dietro agli occhi” è una visione ad occhi chiusi, sotto le palpebre abbassate, almeno questo è il senso di una tale espressione. Anatomicamente, dietro l’occhio c’è il nervo ottico, che congiunge il bulbo oculare con il cervello, e lancia il segnale della vista, e quindi la visione è frontale. Spesso capita di dire o sentire qualcuno dire a una persona che sta alle spalle: “ti ho visto”. È come dire ti conosco e so (ho visto) il gesto che hai fatto. Sapere è avere visto, il testimone è colui che ha visto.
Nel senso in cui l’ho usata io, la mia espressione significava, la scena che si svolgeva alle mie spalle, io l’ho vista scorrere (prima davanti e poi) dietro ai mie occhi. Spieghiamoci meglio. Io vedo i fuggiaschi correre verso di me, quindi davanti a me, e poi vedo sopraggiungere gli inseguitori, e la mia attenzione viene attirata da loro, in particolare dal medico che cerca di afferrare e trattenere la coda dell’automobile e gli infermieri che gli stanno dietro. È il gesto goffo, seguito dal lamento, che muove al riso, ma anche la verosimile espressione di esultanza dei fuggiaschi che non vedo, ma immagino, e di cui in un certo senso condivido il sentimento trionfante, come rivela la canzonetta che li accompagna. So che sono, in fuga, alle mie spalle, io non mi volto a guardarli, ma resto a contemplare la collera e la pena dell’inseguitore sconfitto.
LA REALTÀ DELL’IMMAGINE
“Dopo avere sparato al simulacro del Pastoriz”. Così leggiamo, all’inizio del paragrafo “Sull’orlo della giostra”, che dava il titolo all’intera seconda parte del “Rhetor”. Che cosa è un simulacro? Si tratta della teoria materialista di Epicuro e Lucrezio.
Ma vediamo che cosa scrive Sartre, il filosofo francese da noi citato, nel suo saggio: “L’Immaginazione.” Avevamo interrotto la lettura del testo, lasciando l’interrogativo in sospeso sul foglio non più presente sotto gli occhi: “È veramente il foglio in persona?” Ecco come risponde l’interrogante: “Sì e no.” La risposta è ambigua, ma più avanti l’autore chiarisce il suo pensiero: “Tuttavia, una cosa è cogliere un’immagine immediatamente come immagine, un’altra è formare pensieri sulla natura delle immagini in generale.” Qui Sartre distingue tra esistenza ed essenza, l’una oggetto della realtà, l’altra del pensiero, e coglie l’errore di un pensare ingenuo: “Appena si distoglie la propria mente dalla pura contemplazione dell’immagine in quanto tale, appena si pensa sull’immagine, senza formare immagini, si produce uno scivolamento e dall’affermazione dell’identità di essenza tra l’immagine e l’oggetto, si passa a quella di un’identità di esistenza. E in tal modo si costituisce ciò che chiameremo la metafisica ingenua dell’immagine. Tale metafisica consiste nel fare dell’immagine una copia della cosa, esistente essa stessa come una cosa.”
L’autore francese era un professore di filosofia e non poteva ignorare i classici: “Una bella esemplificazione di questa “cosalità” ingenua delle immagini ci è fornita dalla teoria epicurea dei “simulacri”. Le cose non cessano di emettere “simulacri”, “idoli”, che sono semplici involucri e hanno tutte le qualità dell’oggetto. Una volta emessi esistono in sé, proprio come l’oggetto che li ha emessi e possono errare nello spazio per un tempo indeterminato.” Una volta enunciata la teoria, Sartre non la discute, ma passa oltre: “La teoria pura e a priori ha fatto dell’immagine una cosa , ma l’intuizione interna ci insegna che l’immagine non è una cosa.”
E Pastoriz Michail? È stato suicidato in carcere, era il suo destino. Se qualcuno avesse raccolto il giornale, che io avevo scagliato sulla sabbia, indignato da quel modo di scrivere la cronaca, e avesse letto l’articolo relativo al “suicidio” del Pastoriz, avrebbe tratto le sue conclusioni. Il detenuto doveva rispondere di quattro omicidi, uno documentato dalle telecamere, quello del giovane ausiliario Nemecesco, annegato di notte nella Fontana di Trevi dai fratelli Pastoriz, in particolare Michail. Ecco la ragione per cui quest’ultimo era morto in carcere: “soffocato” dai rimorsi per i suoi delitti.
SECONDA POSTILLA
All’inizio del paragrafo “La statuina di bronzo” della “Giostra”, ricorre l’espressione “la parola come origine divina del nome di un dio o di una dea”. Sull’argomento, le dovute riflessioni richiamano indirettamente il tema del cambiamento di genere, quello raccontato nel paragrafo “Come una metamorfosi”, all’inizio della seconda parte del “Rhetor”. In proposito, ci sembra opportuno riportare integralmente il testo platonico sul mito dell’androgino.
IL MITO DELL’ANDROGINO
“Mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'Eros. Ove se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, e voi fate altrettanto con gli altri. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole. Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi. Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. "lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri."
Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare.
Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi veri uomini e a occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall’altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?"
A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'altra anima. Non più due, ma un'anima sola. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene. Se vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo, promettendo di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità.”
Dal Mito dell’androgino, che Platone ci narra nel “Simposio”, sappiamo dell’esistenza primitiva dei tre generi, che dopo il taglio operato da Zeus, si sono rivelati come due, il maschio e la femmina. Ecco perché, per la forza dell’amore, essi tendono sempre a ricongiungersi, e questo vale anche per il taglio di un originario ermafrodito fornito di due sessi uguali, che spiega l’attrazione fra loro di persone dello stesso sesso.
Platone ci riferisce inoltre che appare “oggi” abbastanza disdicevole l’essere nominati ermafroditi, e questo spiega il disagio di coloro che hanno la necessità di cambiare sesso, i transgender. È il caso, quest’ultimo, quello del mio personaggio, il retore Enrica Marramao, narrato in “Come una metamorfosi”.
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