LA CATTEDRALE NELLA SABBIA Non ricordo se fosse l’aeroporto di Gatwick o di Heathrow, arrivai trafelato al gate all’ultima chiamata, e quando entrai in cabina, dopo aver mostrato la carta d’imbarco all’hostess, guardai verso il mio posto: “A7”. Era occupato da una giovane donna con i capelli scuri tagliati corti e gli occhi celesti, che riconobbi subito, un volto noto della politica. il posto al centro era vuoto, quello lato corridoio occupato da un uomo dai capelli lunghi brizzolati e la barba grigia non rasata. L’assistente di volo mi scortò fino alla fila sette e aprì la cappelliera, dove infilai il mio piccolo bagaglio, dopo aver sfilato un libro dalla tasca esterna. L’uomo e la donna della mia fila intanto si erano alzati in piedi, per farmi spazio, e lei si era spostata al centro, quando avevo accennato al mio posto accanto al finestrino. “Mi scusi, onorevole,” dissi mentre le passavo davanti. Mi sedetti e finalmente mi distesi. Ero in imbarazzo per il ritardo: “Last call, ho causato un piccolo disagio per la partenza,” dissi. “Ed io le ho preso il posto,” rispose lei con un sorriso. Era come si vedeva in televisione, sempre sorridente, ma anche agguerrita. Poco dopo, chiusero il portellone e l’aereo si mosse, il rullaggio, il decollo e in breve fummo in quota. Guardavo fuori dal finestrino, stavamo attraversando la Manica, più in basso volava un aeroplano con rotta perpendicolare rispetto alla nostra. Aprii il mio libro: “E pare, Menesseno, che sotto molti punti di vista veramente sia bello morire in guerra. Infatti, anche se chi muore è un povero, gli tocca una bella e magnifica sepoltura, e se è un incapace, gli tocca comunque un elogio pronunciato da uomini sapienti che non parlano a braccia, ma che hanno preparato i discorsi da molto tempo; essi tessono le lodi tanto bene che, mentre dicono di ciascuno le qualità che ha e anche quelle che non ha ricamando con le parole più belle, incantano le nostre anime, elogiando in tutti i modi la città, i morti in guerra e i nostri progenitori tutti che ci hanno preceduti, e lodando noi che siamo ancora vivi; tanto che anch'io, Menesseno, per le loro lodi mi sento veramente nobile e ogni volta mi ritrovo ad ascoltarli rapito, mentre ritengo all'istante di essere divenuto più grande, nobile, virtuoso. Accade spesso, poi, che mi seguano e stiano ad ascoltare con me alcuni stranieri, di fronte ai quali divento all'istante più venerabile; poiché mi sembra che anche loro siano presi dallo stesso sentimento verso di me e verso il resto della città, ritenendola di maggior meraviglia che non prima, persuasi da chi parla. E lo stesso sentimento di venerabilità rimane in me per più di tre giorni; il discorso flautato e il suono della voce di chi parla penetra nelle orecchie, tanto che a stento il quarto o il quinto giorno mi ricordo di me e mi rendo conto di essere sulla terra, mentre fino ad allora poco mancava che pensassi di abitare nelle Isole dei beati, tanto sono abili i nostri oratori.” Chiusi il testo, Socrate si divertiva con la sua solita ironia.
Era stato il professor Marozzi ad inviarmi a Dunkerque, quando era riuscito ad ottenere dalla Scuola degli Alti Studi Militari un invito per due persone alla cerimonia commemorativa, nel cinquantenario della famosa battaglia della Seconda guerra mondiale. Marozzi è il titolare dei corsi di Retorica che si tengono presso l’Università degli Studi di Roma, nella sede distaccata di via Savoia. E Giulia Marozzi, sua figlia, era la seconda persona destinata a partecipare all’evento. Non venne, all’aeroporto l’aspettai inutilmente: “Stefani, non posso venire, rappresentami tu.” Ero in coda al gate, quando mi giunse il suo SMS, e tirai un sospiro di sollievo. Giulia era una bionda con la carnagione bianca, a prima vista faceva colpo, con quelle labbra accuratamente truccate di rosso vermiglio. Non era tanto giovane, quasi vicino ai quaranta, anche se ne dimostrava da lontano dieci quindici di meno. Io avevo avuto la ventura di osservarla da vicino, quando una volta era venuta ad assistere ad una lezione del padre, sedendo di fianco alla cattedra, di cui era destinata ad essere la succeditrice. Alla fine della lezione, le passai accanto forse intenzionalmente, mentre uscivamo, e l’occasione fu colta da Marozzi che m’invitò assieme ad altri due o tre discenti a recarci insieme a prendere il caffè. La figlia sorrideva leggermente a noi, mentre il padre cominciò a parlare di sport, precisamente di calcio. Io intervenni per mostrare il mio interesse per il ciclismo, in quei giorni si correva la Tirreno Adriatico e fra i primi in classifica c’era il pescarese Domenico Marozzi. Il professore non colse il mio accostamento, che però non era affatto malizioso. Prima di lasciarci, la figlia ci tenne a precisare che Marozzi è un cognome molto diffuso in Abruzzo, quasi a voler prendere le distanze da “mestieri” non intellettuali (ma non è così, nel ciclismo, nello sport e in ogni attività lavorativa manuale ci vuole intelligenza) e lasciare intendere che i suoi valori principali erano quelli culturali. Mens sana in corpore sano, pensai mentre mi allontanavo, e pensai inoltre che Giulia Marozzi doveva essere una gattamorta, con quelle sue movenze flessuose e quel sorriso di finto compiacimento, che distribuiva intorno a sé. E poi Dunkerque, dove io, Stefani, dovevo rappresentarla, ma non dovevamo entrambi rappresentare il padre? Quando l’aereo decollò e raggiunse la quota, allontanandosi in direzione nord, il ricordo di Giulia Marozzi si andò sbiadendo nel tempo man mano con l’aumentare della distanza nello spazio. Al Leicester Square Theatre di Londra si tenne una conferenza, a cui parteciparono alti gradi militari, politici e professori anglo-americani, i contenuti di molti discorsi furono decisamente evocativi, ma anche ricchi di retorica, i toni non quelli classici, ma quelli di propaganda moderna, io ero nelle ultime file. Il giorno precedente c’era stata la cerimonia commemorativa a Dunkerque ed anche lì ero nelle ultime file. L’unica nota interessante da me appresa fu che in quella località, Sant’Eligio, nel VII secolo, aveva fondato una chiesa, da cui il nome della cittadina: Dunkerque, la “chiesa” sulle “dune”, la cattedrale nella sabbia.
LA MAESTRA DI RETORICA “Menesseno?” Sono rimasto un istante interdetto, quindi ho risposto: “Sì, sono io.” Lei, l’onorevole Ludovica Barboni, si è messa a ridere, ma ha smesso subito. Sarei insincero, se dicessi che non l’avevo notata seduta in prima fila accanto al suo capopartito, il senatore Giovannini, un uomo calvo, con gli occhiali, una grande barba. Ero andato alla presentazione del libro di Vincenzo Sabatini: “Retorica e Politica. L’arte della persuasione da Gorgia di Lentini al linguaggio pubblicitario della modernità.” Il convegno si teneva a Roma, nel Salone degli affreschi dell’Accademia dei Cavalieri d’armi di via del Seminario. Era stato Marozzi, sempre lui, che mi aveva obbligato ad andare, mannaggia a lui! Perché ho imprecato? Male ne abbia ovvero male ne aggia! Perché dovevo trovare un capro espiatorio a certe mie sfortune e ho individuato in Marozzi la figura appropriata del nemico da battere. Non c’era la figlia Giulia, salita in cattedra, come “maestra di retorica”, a tenere un discorso sull’arte oratoria? Il suo intervento consisteva nel modello di una commemorazione funebre dei caduti in guerra. Buona parte del discorso si basava sull’impianto dell’orazione funebre del “Menesseno” di Platone, una bozza da me preparata e da Marozzi passata alla figlia, che l’aveva rimaneggiata e completata, in verità solo qualche ritocco. “Signori, nella nostra celebrazione funebre, il nostro discorso dovrà incominciare dai morti. Nel loro ultimo viaggio i nostri caduti hanno già avuto nello svolgimento dei solenni funerali gli onori dovuti, accompagnati ufficialmente dai rappresentanti delle istituzioni e dai cittadini confluiti in lunghi cortei, e privatamente dai loro familiari. Ma proprio con un discorso, come prescritto dal dovere e dalla legge, bisogna rendere il resto dell'onore agli uomini valorosi. Perché con un discorso ben ordinato nasce in chi ascolta il ricordo di belle azioni e onore per chi le ha compiute. Occorre quindi un discorso tale che intessa degnamente le lodi dei defunti e che dolcemente ammonisca quelli che sono vivi, da un lato esortando figli e fratelli ad imitare la virtù dei morti, dall'altro confortando padri, madri e gli avi, se sono ancora vivi. Quale discorso, dunque, può avere per noi tali requisiti? Oppure, da dove sarebbe corretto incominciare, dovendo lodare uomini buoni, che da vivi allietarono i loro cari con la loro virtù e offrirono la loro morte in cambio della salvezza dei vivi? A me sembra che si debba lodarli secondo natura così come per natura sono stati buoni; e sono stati buoni perché creati da uomini buoni. Lodiamo dunque per prima cosa la loro buona nascita, e per seconda l'allevamento e l'educazione; dopodiché dimostreremo come la condotta del loro agire sia apparsa bella e degna della loro nascita e della loro educazione. Fondamento della loro buona nascita è stata l'origine degli antenati, che, non essendo straniera, ha fatto sì che i figli, in questo paese, non fossero dei metechi provenienti da fuori, ma autoctoni e viventi e abitanti realmente in patria, e che fossero allevati non da una matrigna, come gli altri, ma da una madre, la terra in cui abitavano, e che ora possano giacere, morti, nei luoghi familiari di colei che li ha generati, nutriti, accolti. La prima cosa da fare e la più giusta è quindi ricoprire di onori una tale madre, perché in questo modo viene celebrata contemporaneamente la loro buona nascita. Il nostro paese è degno di essere lodato da tutti gli uomini, non solo da noi, per molti e svariati motivi, di cui il primo e più importante è che gli è toccato essere il cuore della rappresentanza divina sulla terra, e allora come può essere giusto che l'intera umanità non lodi la regione che proprio la divinità ha prediletto?”
Era una riproduzione quasi fedele del brano introduttivo recitato da Socrate, che l’aveva sentito dalla sua maestra di retorica, Aspasia di Mileto, la favorita di Pericle. Poi, Giulia Marozzi aveva seguito il mio testo, rievocando la storia millenaria di Roma, che aveva esteso il suo imperium nel Mediterraneo, nel Nord Africa, in Asia Minore, e in tutta l’Europa occidentale e settentrionale. Aveva anche parlato delle numerose vestigia imperiali, di cui è rimasta traccia nei tanti luoghi d’Occidente ed Oriente, a testimonianza della grandezza imperitura di Roma, se ancora oggi file inesauribili di turisti affluiscono in questi siti archeologici patrimonio dell’umanità. Iniziò quindi un percorso che la portò dal Colosseo, passando per l’arco di Druso di Spoleto, all’anfiteatro di Verona, poi all’Augusta Pretoria ovvero Aosta, la Roma delle Alpi, scendendo in Provenza, alla Maison Carrée di Nîmes, uno dei templi meglio conservati, come quello di Bacco, in Libano, e il Pantheon di Roma. Proseguì per la Spagna, sulla via Heraclea, fermandosi all’anfiteatro di Tarraco, l’odierna Terragona, sul Mediterraneo, quindi risalì in Castiglia, all’acquedotto di Segovia, spingendosi poi in Estremadura, al teatro romano di Mérida. Da qui, puntando su Cordova, ritornò sul tracciato della via Augustea dell’Hispania romana, che si snoda dai Pirenei a Cadice. Attraversò lo stretto di Gibilterra e approdò in Marocco, puntando all’interno, a nord di Meknès, su Volubilis, dove si ammirano i resti imponenti della Basilica romana, quindi superò la frontiera con l’Algeria, dove ebbe modo di stigmatizzare l’inglorioso degrado, in cui versavano i siti archeologici delle antiche città romane. Sembrò risollevarsi, quando entrò in Tunisia, ricordando il mezzo millennio sotto l’Impero Romano, quindi si avventurò tra le rovine dell’antica Cartagine, per lodare le splendide architetture delle Terme di Antonino affacciate sulla baia di Tunisi. Parlò del tempio di Saturno, le Terme dei Ciclopi e l’arco di trionfo di Settimio Severo a Thugga, quindi finì con l’imponente anfiteatro di El Jem, un Colosseo in terra africana. Giulia Marozzi tacque, abbassò lo sguardo sul leggio. Durante la sua escursione dall’Italia in Francia, Spagna e Nord Africa, aveva citato non dico a memoria, ma quasi, tutte le meraviglie dei siti archeologici romani sparsi negli Stati mediterranei, spesso guardando verso la prima fila, dove erano seduti Giovannini al centro, a fianco da una parte il padre, dall’altra Sabatini e più di lato con altri anche Ludovica Barboni. E guardando a quelli, verso cui guardava l’oratrice, mi venne in mente il suo messaggio, mentre ero in partenza all’aeroporto di Fiumicino: “Stefani, non posso venire, rappresentami tu.” E lei era partita con Giovannini, Sabatini e il padre in un viaggio culturale, forse anche una crociera in Spagna, Marocco, Algeria e Tunisia. E adesso, tornata a Roma, veniva a raccontarci le avventure del suo viaggio. Il professor Sabatini la guardava con grande attenzione, Giovannini ogni tanto si distraeva, notai che Ludovica Barboni più di una volta aveva mascherato qualche sbadiglio.
“Roma aveva esteso il suo imperium nel Mediterraneo, nel Nord Africa, in Asia Minore, in tutta l’Europa occidentale e settentrionale, la nostra storia è la storia della civiltà romana.” Giulia Marozzi così riassunse, poi sulla mia scia, rientrò nella traccia del “Menesseno”, quando Socrate, conclusa la storia di Atene, riprende l’orazione, così come diceva di averla sentita da Aspasia di Mileto. “E così le imprese di cui ho parlato, compiute dagli uomini che qui giacciono e da quanti altri sono morti per il bene della patria, sono molte e belle, ma ancora più numerose e belle sono quelle che ho tralasciato: molti giorni e molte notti non sarebbero infatti sufficienti a volerle narrare tutte. è necessario, dunque, per mantenerne vivo il ricordo, che ciascuno esorti i figli dei morti, come in guerra, a non abbandonare il posto degli antenati e a non indietreggiare cedendo alla viltà. Io in persona dunque vi esorto ora, figli di uomini valorosi, a porre ogni impegno nell'essere quanto più possibile valorosi; e in ogni futura occasione, imbattendomi in uno di voi, vi ricorderò ed esorterò a fare lo stesso. Nella situazione presente è giusto che io vi dica ciò che i padri ci hanno raccomandato di riferire a coloro che di volta in volta restavano, nel caso capitasse loro qualche sventura, quando stavano per affrontare il pericolo. Vi dirò allora ciò che ho ascoltato da loro in persona e che vi direbbero con piacere ora, se lo potessero, basandomi su ciò che allora dicevano. Ma bisogna immaginare di ascoltare da loro in persona ciò che vi riferisco. Dicevano dunque quanto segue: – Figli, che voi siate stati generati da uomini valorosi, lo dimostra la circostanza presente. Nonostante potessimo vivere ignobilmente, abbiamo scelto di vivere nobilmente piuttosto che gettare voi e i vostri discendenti nella vergogna e disonorare i nostri padri e tutti i nostri predecessori: pensiamo infatti che non è vita quella di chi disonora i suoi, e che una persona simile a nessuno è cara, né tra gli uomini né tra gli dèi, né sulla terra né, una volta morto, sotto terra. È necessario, dunque, memori delle nostre parole, fare con coraggio qualsiasi altra cosa decidiate di fare, sapendo che, se manca questo, ogni possesso ed ogni attività sono vergognosi e cattivi. Perché la ricchezza non produce bellezza in chi ne è entrato in possesso con viltà - perché un tale uomo è ricco per un altro uomo ma non per sé stesso - né bellezza e forza fisica sono adatte a vivere in un corpo vile e malvagio, ma appaiono stridenti: mettono maggiormente in evidenza chi le possiede, e ne mostrano la viltà. E anche tutta la scienza, se è separata dal sentimento di giustizia e dalle altre virtù, appare astuzia, non sapienza. Per questo cercate sempre e continuamente di mettere tutto l'impegno, per quanto possibile, nel superare noi e gli antenati in gloria. Altrimenti sappiate che, se noi vi vinceremo in virtù, la vittoria ci porterà vergogna, mentre la sconfitta, se perderemo, ci porterà felicità. Noi saremo vinti e voi vincerete soprattutto se vi disporrete a non abusare della fama dei predecessori e a non distruggerla, con la consapevolezza che, per un uomo che crede di valere qualcosa, non c'è nulla di più vergognoso che vedersi stimato non per le proprie qualità, ma per la gloria dei suoi antenati. Perché gli onori dei genitori sono per i figli un tesoro bello e magnifico; ma usare un tesoro di beni e di onori senza tramandarlo ai figli, per mancanza di beni e di glorie acquistate di persona, è vergognoso e da vigliacchi; e se vi sarete occupati di queste cose giungerete da noi amici tra amici, quando il destino a voi assegnato vi porterà qui. Nessuno invece vi accoglierà con benevolenza se non vi siete presi cura di voi stessi e siete stati vigliacchi. Questo dev'essere detto ai nostri figli.” Giulia Marozzi tacque poi riprese a leggere il testo del “Menesseno”.
“Quanto ai nostri padri e alle nostre madri, è sempre necessario incoraggiarli a sopportare il più tranquillamente possibile la sventura nel caso dovesse capitare; e non lamentarci insieme a loro - non avranno infatti bisogno di qualcuno che dia loro ulteriore dolore: basterà la sorte a procurarglielo -, ma consolandoli e calmandoli. Essi si auguravano che i loro figli divenissero non immortali, ma buoni e onorati, e questi, che sono i beni più grandi, li hanno ottenuti. Non è facile che a un uomo mortale nella propria vita riesca tutto secondo la sua volontà; e sopportando le sventure da veri uomini, crederanno veramente di essere padri di figli coraggiosi, cedendo invece faranno nascere il sospetto di non essere nostri padri, oppure che coloro che ci lodano mentono. Bisogna che non si verifichi nessuno dei due casi, anzi è necessario che soprattutto loro ci lodino con i fatti, mostrando di essere veri uomini, padri di veri uomini. Fin dall'antichità sembrava bello il detto niente di troppo: e in realtà è un bel detto. Perché qualsiasi uomo si affidi a sé stesso per tutto quanto porta alla felicità o vicino ad essa, e non dipenda da altre persone che con il loro comportamento, di volta in volta buono o cattivo, costringano anche lui all'incertezza, costui ha predisposto la sua vita nel modo migliore, questo è l'uomo saggio, questo l'uomo valoroso e prudente; egli, sia con l'acquisto che con la perdita di ricchezze e di figli, obbedirà soprattutto al proverbio, mostrandosi non troppo gioioso né troppo addolorato, perché ha confidato in sé stesso. Ma tali noi riteniamo e vogliamo che siano i nostri, tali diciamo che sono, e anche noi stessi ci mostriamo così oggi, senza essere turbati né avere paura di morire, se necessario, anche subito. Preghiamo dunque i nostri padri e le nostre madri di trascorrere il resto della vita con questa stessa persuasione e convincimento: che né con i lamenti né compiangendoci ci faranno cosa gradita; al contrario, se i morti hanno qualche percezione dei vivi, i nostri genitori non sarebbero assolutamente graditi sopportando le sciagure a malincuore, lo sarebbero invece sopportandole con mitezza e misura. Quanto a noi, avremo presto la morte più bella che possa esserci per gli uomini, tanto che conviene onorarla piuttosto che lamentarsene. Ma occupandosi delle nostre donne e dei nostri figli, mantenendoli e rivolgendo qui il loro pensiero, potranno dimenticare al meglio la loro sorte e vivere in modo più bello, retto e a noi caro. Questo basterà annunciare ai nostri da parte nostra. Alla patria raccomanderemmo di prendersi cura dei nostri padri e dei nostri figli, educando convenientemente questi, assistendo degnamente gli altri nella vecchiaia. Ma ora sappiamo che anche senza le nostre raccomandazioni se ne prenderà cura in modo adeguato. – Questo, dunque, o figli e genitori dei morti, essi ci hanno raccomandato di annunciare e io lo annuncio con tutto l'ardore possibile. Personalmente poi, a nome loro, chiedo ai figli di imitare i loro padri e ai padri di non temere per sé stessi, perché noi vi assisteremo nella vecchiaia e ci prenderemo cura di voi sia privatamente che pubblicamente, ogni volta che uno di noi incontrerà un familiare dei defunti.
Voi stessi forse conoscete la sollecitudine della città, sapete che si prende cura di voi emanando leggi per i figli e per i genitori dei morti della nostra patria e, più che per gli altri cittadini, ha ordinato alla più alta magistratura di vegliare affinché i padri e le madri dei morti non subiscano ingiustizia. Quanto ai figli essa li alleva in comune, preoccupandosi per quanto è possibile che non risentano della loro condizione di orfani e assume il ruolo di padre finché sono ancora ragazzi, ma una volta adulti, li rimanda in famiglia ornati di un'armatura completa, per mostrare e ricordare la condotta del padre con il dono degli strumenti della virtù paterna, e insieme con il buon augurio che ciascuno ornato con le armi vada a reggere con forza il focolare paterno. Essa poi non tralascia mai di onorare i morti e celebra ogni anno per tutti pubblicamente le esequie che per ciascuno vengono celebrate privatamente, istituendo gare di ginnastica, di ippica e di musica di tutti i generi; semplicemente nei confronti dei morti si assume il ruolo di erede e di figlio, di padre verso i figli e di tutore verso i genitori, e garantisce a tutti ogni tipo di assistenza, per sempre. E, riflettendo su questo, bisogna sopportare con mitezza la sventura. Perché in questo modo sarete quanto più possibile graditi sia ai morti che ai vivi e, più facilmente, conforterete e sarete confortati. Ormai è ora che voi e tutti gli altri, dopo aver compianto i morti pubblicamente com'è usanza, ve ne andiate.” La maestra di retorica aveva concluso, tutti applaudirono. Quindi prese la parola il professor Sabatini, dopo la sua relazione, il convegno ebbe termine e tutti si alzarono, muovendosi intorno alla sala. Si erano formati dei capannelli, andai verso il banco, per comprare una copia del libro, ma sarebbe meglio dire che mi ero diretto verso la prima fila dove c’era quella deputata del partito di Giovannini, che avrebbe incrociato per un breve tratto la mia vita. Infatti, non avevo nessuna intenzione di spendere soldi, sempre pochi quelli che avevo, e Ludovica Barboni riuscì ad evitarmi quella spesa, subito bloccandomi: “Menesseno?” “Sì, sono io.” Lei rise. “Eravamo insieme su quel volo da Londra del maggio scorso” dissi. Lei assentì. Mi aveva chiesto di prestarle il testo di Platone, che aveva incuriosito il suo compagno, seduto alla sua destra e a cui l’aveva passato. Dopo, quando me lo restituì, diede prima un’occhiata al titolo. “È venuto per la politica, immagino,” disse. “In verità, per la retorica,” risposi. “Quella bionda, con gli occhi verdi,” commentò ridendo. “No, quella con i capelli neri e gli occhi celesti.” “E allora è la politica.” Estrasse dalla borsetta un biglietto da visita e lo tese verso di me. “Sono fiduciosa,” disse in fretta, prima di andarsene assieme a Giovannini, che le aveva lanciato uno sguardo molto espressivo.
QUASI UN OLOGRAMMA Era in piedi, accanto alla vetrata e ogni tanto lanciava un’occhiata giù, prima di voltarsi verso di me. “Sembri il commissario Maigret, quando venne qui a New York a fare un’indagine,” dissi ridendo. Ludovica Barboni, che stava guardando in basso, si volse dalla parte mia, aveva un’espressione seria, quasi triste: “Io l’amo,” disse. Maigret? stavo per domandarle, ma subito compresi che la domanda era fuori luogo, vista la sua espressione. “Come?” interrogai. “Io l’amo,” ripeté, ora aveva l’aria decisamente triste. Guardò giù dalla vetrata del grattacielo, stavamo oltre il quarantesimo piano. Pensai che il presente è più forte di qualsiasi passato o futuro. “Chi ami?” Mi guardò: “Enrico Marramao.” Tornò a dare un’occhiata in basso. Ero seduto in mezzo al letto con la schiena appoggiata su un cuscino, messo contro la spalliera. Enrico Marramao era un collega che frequentava i corsi alla Scuola di retorica di Marozzi. Balzai giù e mi avvicinai alla vetrata, e in quel momento anch’io diedi un’occhiata in basso verso gli omini e le automobiline in movimento sulla strada, uno spettacolo inconsueto per chi non è abituato a Manhattan e ai grattacieli. “E allora?” dissi, fissandola. Sostenne il mio sguardo, senza replicare. “Dobbiamo andar via,” dissi. Esitò, prima di muoversi: “Come vuoi.” Si staccò dalla vetrata e andò al centro della stanza: “Preparo la valigia.” Mi mossi dalla vetrata e andai verso il bagno, mi fermai: “Vuoi andare prima tu?” Lei alzò le spalle e andò verso l’armadio per prendere biancheria e vestiti. Avevamo fatto un bel programma: tre giorni a New York, l’escursione a Washington, quindi le cascate del Niagara, il lago Michigan, Chicago, il ritorno a New York e il volo per Roma. E adesso pover’uomo? Fine anticipata del soggiorno americano: Ludovica Barboni amava Enrico Marramao e non me, Vito Stefani. Era accaduto tutto così in fretta, in maniera così impreveduta e improbabile. Che cosa? (Segue)
QUASI UN OLOGRAMMA Era in piedi, accanto alla vetrata e ogni tanto lanciava un’occhiata giù, prima di voltarsi verso di me. “Sembri il commissario Maigret, quando venne qui a New York a fare un’indagine,” dissi ridendo. Ludovica Barboni, che stava guardando in basso, si volse dalla parte mia, aveva un’espressione seria, quasi triste: “Io l’amo,” disse. Maigret? stavo per domandarle, ma subito compresi che la domanda era fuori luogo, vista la sua espressione. “Come?” interrogai. “Io l’amo,” ripeté, ora aveva l’aria decisamente triste. Guardò giù dalla vetrata del grattacielo, stavamo oltre il quarantesimo piano. Pensai che il presente è più forte di qualsiasi passato o futuro. “Chi ami?” Mi guardò: “Enrico Marramao.” Tornò a dare un’occhiata in basso. Ero seduto in mezzo al letto con la schiena appoggiata su un cuscino, messo contro la spalliera. Enrico Marramao era un collega che frequentava i corsi alla Scuola di retorica di Marozzi. Balzai giù e mi avvicinai alla vetrata, e in quel momento anch’io diedi un’occhiata in basso verso gli omini e le automobiline in movimento sulla strada, uno spettacolo inconsueto per chi non è abituato a Manhattan e ai grattacieli. “E allora?” dissi, fissandola. Sostenne il mio sguardo, senza replicare. “Dobbiamo andar via,” dissi. Esitò, prima di muoversi: “Come vuoi.” Si staccò dalla vetrata e andò al centro della stanza: “Preparo la valigia.” Mi mossi dalla vetrata e andai verso il bagno, mi fermai: “Vuoi andare prima tu?” Lei alzò le spalle e andò verso l’armadio per prendere biancheria e vestiti. Avevamo fatto un bel programma: tre giorni a New York, l’escursione a Washington, quindi le cascate del Niagara, il lago Michigan, Chicago, il ritorno a New York e il volo per Roma. E adesso pover’uomo? Fine anticipata del soggiorno americano: Ludovica Barboni amava Enrico Marramao e non me, Vito Stefani. Era accaduto tutto così in fretta, in maniera così impreveduta e improbabile. Che cosa? Avevo pagato il conto in hotel e siamo scesi sulla via, diretti alla Stazione Centrale, stavamo risalendo la sesta Avenue, per arrivare alla quarantaduesima strada, all’angolo ho svoltato deciso, Ludovica Barboni era rimasta un po' indietro. Arrivato all’ingresso del Grand Central Terminal, mi sono voltato indietro per vedere dove fosse finita la mia compagna, aspettai un po' irritato, poi tornai indietro a cercarla, non la vidi. All’altezza della Biblioteca pubblica mi fermai, temendo di averla incrociata senza essermene accorto, proseguii per la Sesta Avenue, quando la vidi venirmi incontro, camminava molto lentamente senza bagaglio, ma in verità sembrava scivolare come su un’onda, un’immagine indistinta. Si era fatta sera e si accesero le luci, ora vidi che era ferma, ma sempre oscillante come su un onda, mi guardava senza parlare. “Vai, io non ti posso seguire.” Chi aveva parlato? Mi guardai intorno, per capire se tutto oscillasse, oppure se era una mia impressione. Un autista di colore con la livrea grigia e la tuba sostava accanto a una limousine, alzai lo sguardo ai grattacieli, non oscillavano, tornai a guardare la figura di Ludovica Barboni. “Vito, non posso venire con te, io sono morta.” Trasalii, colto dallo sgomento, volsi lo sguardo e vidi alcune ragazze in abito da sera che avanzavano ridacchiando, l’ultima nel sentirsi osservata, con mossa tipicamente femminile, tirò su la scollatura del vestito, che scivolava sul petto. Guardai di nuovo verso il fantasma, mi fissava immobile, lievemente ondeggiante, quasi un ologramma. Mi voltai bruscamente e presi a camminare velocemente lungo la quarantaduesima strada, per raggiungere la stazione ferroviaria. Dovevo andare a Washington e dovevo affrettarmi per non perdere il treno, mi sembrava tutto così irreale.
Quando sono tornato in Europa e sono sbarcato a Roma, sono stato colpito dalla luce mediterranea, era anche l’effetto di quell’atmosfera d’ombra provocata dai grattacieli di Manhattan. Ludovica Barboni era morta, era volata giù da una finestra sigillata di un piano elevato del Palazzo di vetro dell’ONU sulla quarantatreesima strada, mi sembra ancora di sentire il suono delle sirene della polizia e dell’ambulanza e il vocio della folla. Qualcosa però nella mia testa non funzionava, era come se nel ricordo le scene si fossero alterate nelle loro sequenze e ne veniva fuori un disordine di idee, che non riuscivo a sistemare razionalmente. Dovevo riavvolgere il filo del gomitolo della mia storia e svolgerlo di nuovo dall’inizio, ricordare i primi momenti. Comincio dalla telefonata, ma dovrei andare più indietro, ci andrò. “ – Pronto? – Sono Stefani. – Ciao, Stefano, come stai? – Sono Stefani, sto bene.” La risatina, poi il commento: “– Ho capito, Stefani, stai bene. – Sì. – Bravo!” Mi chiese se ero sempre interessato alla politica, risposi di sì, poi mi corressi e dissi di no, ero interessato agli occhi celesti e ai capelli neri. – Un po' anche alle politica, però. – Perché?” Ricordò il mio primo approccio: “Scusi, onorevole.” Questa volta me la cavai bene nella risposta, così pensavo: “Il primo amore non si scorda mai,” dissi. “Te l’avevo detto!” esclamò. L’ambiguità rimaneva. Ci mettemmo d’accordo, sarei andato a trovarla al suo paese in Lombardia, un piccolo centro in provincia di Varese. Mi venne a prendere alla stazione, era domenica mattina, una mattinata insieme, nel pomeriggio ero già a Malpensa. Poi ci vedemmo e frequentammo a Roma, dove veniva per i suoi impegni in parlamento. Infine, dopo alcuni mesi, mi decisi e dissi: “Devo andare in America, è un viaggio, a cui pensavo da tempo.” Ovviamente pensavo a New York. “Voglio venire anch’io,” disse. “Immagino che ci sei già stata.” Pensavo a Giovannini, Sabatini e anche alla Marozzi. “No, mai,” disse. Per me quel viaggio era importante, voglio dire decisivo, vi impegnavo tutte le mie risorse economiche, il gruzzolo della piccola liquidazione ricevuta in Francia, dove per alcuni anni, avevo fatto l’aiutante necroforo, nel servizio dei cimiteri della città di Parigi. Il mio viaggio in America con Ludovica Barboni era un viaggio di nozze, a cui arrivavamo abbastanza preparati nei nostri rapporti. Era stata lei a sgombrare il campo dalla parte sua, dicendo che ormai era parte del suo passato l’amico giornalista e scrittore, corrispondente di guerra in varie parti del mondo. Era il suo compagno in quel volo da Londra, quello che le aveva chiesto di dare un’occhiata al mio libro. Quando partimmo, io ero molto emozionato e felice, la sua verità infelice Ludovica Barboni l’aveva sepolta dentro di sé. E poi riemerse, quando io avevo alluso a Maigret nella stanza dell’hotel del grattacielo di New York.
In seguito ho giocato molto con le parole facenti parte della costellazione semantica, riferita al termine latino ludus, gioco: illudere, deludere, alludere, eludere, colludere. Io ero l’illuso, colui che era entrato nel gioco (in-ludere), poi rimasto deluso, uscito dal gioco (de-ludere), quando avevo alluso ad altri da aggiungere al gioco (ad-ludere). Ludovica Barboni aveva eluso, uscendo dal gioco (ex-ludere), nel quale era collusa con altri (cum-ludere). I miei altri erano un personaggio immaginario, Maigret, i suoi altri erano persone reali, l’amico giornalista, Enrico Marramao e chissà altri. Ma non ero anch’io uno dei suoi altri? Ecco qui mi imbrogliavo: vedi, mi dicevo (ormai parlavo da solo), questo tuo gioco, ludus, è finito male, e i tuoi ameni giochi linguistici non alimentano nessuna festa del linguaggio, tendente a respingere dalla coscienza l’infelice tuo stato psichico. Non riesci a scacciare dalla tua mente quei pensieri, che vengono fuori, trascinando con sé nella danza di follia di un vuoto irrazionale anche la mente, rendendoti de-mente. Così ragionavo o sragionavo, arrampicandomi sulla parete liscia di queste mie parole, da cui regolarmente subito scivolavo via, precipitando di nuovo nel mio abisso. E allora l’interrogativo: Enrico Marramao? Dovevo ricominciare da lui, se volevo sbrogliare i nodi di quella improbabile vicenda e ricostruire il percorso psichico della mia defunta compagna, il pallido fantasma della quarantaduesima strada di Manhattan, dove si era consumata la mia East Side Story. Alla fine dei corsi, l’anno prima, Marramao aveva conseguito il titolo di Rhetor Magister. Era poi entrato subito in politica, eletto nella circoscrizione calabro-lucana, come deputato nel partito di opposizione a quello dell’on. Giovannini, comparendo spesso nei dibattiti televisivi, in uno dei quali l’avevo visto disputare con Ludovica Barboni. Enrico era romano, ma i genitori erano calabresi, emigrati prima in Australia e poi rientrati in Italia. A Roma, nella zona dei Castelli, gestivano una trattoria, nella quale eravamo andati diverse volte a mangiare noi frequentatori del corso. Una volta era venuto anche Marozzi accompagnato dalla figlia e dal suo assistente, il professor Villani, docente di filosofia del linguaggio. Qui, devo dire che la scuola di retorica di via Savoia, anche se ufficialmente succursale dell’Università di Roma, era in effetti un feudo di Marozzi, che come vassallo rispondeva al suo referente politico Giovannini. Riesco a schematizzare questa situazione politico-sociale, seguendo i discorsi di Marramao, che in questo aveva le idee chiare. Egli vedeva nell’alleanza tra il leader politico Giovannini e il cavaliere Arrigoni, grande patron dell’industria farmaceutica, l’eredità storica del patto unitario dell’Italia del 1861 tra la grande industria del nord e il predominante potere agrario dei latifondisti del sud. Io traevo ora da questa visione le mie conclusioni particolari: Ludovica Barboni, al seguito di Giovannini, aveva avuto dei contatti con la scuola di Marozzi, dove aveva conosciuto e si era innamorata di Enrico, che però non aveva corrisposto. Penso tenesse di più alla sua fede politica, questo perché una volta una sorridente Ludovica mi aveva detto: “Stefani, tu non sei come i tuoi compagni di studi, più interessati a comandare che a lasciarsi andare ai loro sentimenti privati.” L’allusione era ad Enrico, ma io allora non avevo capito, perché allora non sapevo, non potevo immaginare che lei si sarebbe concessa a me per ribellione. E come avrei potuto? L’interessato è sempre l’ultimo a saperlo. E adesso pover’uomo? Comunque la trama del romanzo di Hans Fallada non aveva niente a che fare con la mia condizione, mi ero appropriato soltanto del titolo. Alla fine decisi, dovevo scrivere un breve sommario di queste mie ultime vicende personali e poi recarmi a Parigi da Madame Sophie Orschviller, psicanalista, con studio in Rue de Trévise, nel IX Arrondissement, di cui avevo sentito molto parlare durante il mio soggiorno nella capitale francese, quando facevo il necroforo.
MAIGRET [Nota fuori testo] Devo spiegare l’allusione al commissario Maigret. Anni fa, avevo letto un libro di Simenon: “Maigret in America”, dove veniva descritta la scena del commissario, che mentre parlava con un interlocutore nel piano alto di un grattacielo, ogni tanto dava uno sguardo in basso sulla strada, colpito dallo spettacolo di omini e automobiline in strada. E allora mi sono ricordato che questa era stata la mia stessa impressione, quando mi ero recato la prima (e unica) volta a New York, ed avevo alloggiato in un piano alto di un grattacielo di Manhattan. Nella storia di finzione, Vito Stefani allude a questa circostanza, un’impressione che coglie un po' tutti, come me e Simenon, la loro prima volta a Manhattan, nel piano alto di un grattacielo. Ma sono fantasmi irreali (Maigret) gli altri del suo gioco, quello schematizzato nella costellazione semantica del termine “ludere”, e nella finzione sono reali gli altri di Ludovica Barboni, a cominciare da Marramao. Ho cercato di spiegare la confusione mentale di Vito Stefani, ma capisco che tale confusione è contagiosa: lasciamo perdere, è meglio.
LA PSICANALISTA Avevo mandato un e-mail, chiedendo un rendez-vous, mi arrivò la risposta un’ora dopo, con l’indicazione dell’Iban su cui versare l’anticipo di duecento euro e la preghiera d’inviare i miei dati personali e un’eventuale cartella clinica, relativa alla mia malattia mentale. Risposi che non ero mai stato in cura prima d’allora e che giudicavo il mio disturbo come un principio di sdoppiamento della personalità, pur senza esserne pienamente convinto. In verità, quello che mi premeva confidare era l’episodio del mio incontro con il fantasma della defunta Ludovica Barboni nella 42esima strada. Era stata un’allucinazione oppure si era trattato di un fatto reale? Forse la psicanalista poteva aiutarmi a risolvere il dubbio. Io devo dire che dal momento di quell’incontro e della mia fuga da New York, non ero riuscito a stabilire quanto tempo dopo fosse accaduto l’incidente, di cui lei era rimasta vittima. E se invece fosse accaduto prima? Infatti, come faceva ad essere morta in quel breve spazio di tempo in cui avevamo lasciato l’hotel, per andare alla Stazione Centrale? Ecco, era come se l’intervallo temporale si fosse dilatato in uno spazio più lungo di quei dieci quindici minuti, magari un giorno o due, forse una settimana o più. O forse lei, ancora viva, nell’occasione, mi aveva comunicato un proposito suicida. In seguito avevo sognato quell’incontro: “Vai avanti, Stefano, non tornare indietro, tu devi diventare Rhetor Magister. È il tuo avvenire, io non potrò stare al tuo fianco, sono morta, Stefano.” Da sveglio mi dissi che mi aveva chiamato Stefano e non Stefani, come la prima volta. Quanto tempo era passato da allora? E quello spettacolo ai piedi del Palazzo di vetro, il suono delle sirene della polizia e dell’ambulanza e il vocio della folla? Una mia fantasia oppure il ricordo di un fatto di cui ero stato testimone? Testimone come? Lo studio della psicanalista si trovava al primo piano di uno stabile, sopra una panetteria. Suonai alla porta e allo scatto spinsi avanti l’anta che si era socchiusa. Nella sala d’attesa c’era un bancone, dietro cui stava una segretaria, una bionda con gli occhiali sulla cinquantina. Entrando, avevo notato che su un divano era seduto un uomo alto, con i capelli rossicci e su una sedia più distante una donna dall’aspetto abbastanza dimesso. Credevo di dover aspettare il mio turno, dopo aver riempito un modulo con i miei dati, invece dalla porta interna uscì un uomo in camice bianco sulla quarantina, che mi invitò ad entrare, per una visita preliminare. Si era seduto su una sedia di fronte a quella su cui mi aveva fatto accomodare e si dispose ad ascoltarmi. Raccontai della mia passata esperienza di necroforo, al servizio della città di Parigi, e di come avessi saputo in quegli ambienti di Madame Orschviller. Quindi, avendo avuto sentore di alcuni sintomi di squilibrio psichico, avevo pensato di rivolgermi al loro studio. Il medico mi ascoltò attentamente e quando smisi di parlare, disse che lui era stato più volte in Italia e quindi capiva anche la lingua italiana. Poi aggiunse che doveva sottopormi a una prova e mi chiese di riassumere la mia vicenda. Raccontai del mio primo incontro con Ludovica Barboni, del fidanzamento successivo, del nostro viaggio a New York, dell’improvvisa rottura per la rivelazione che lei amava un altro, della nostra uscita insieme dall’hotel, per raggiungere la stazione ferroviaria, di come l’avessi persa di vista, e tornando indietro avevo avuto quell’incontro abbastanza irreale, e poi del mio successivo brusco allontanamento. Avevo smesso di parlare.
Il medico disse che ora doveva registrare quello che avevo detto, chiedendo il mio consenso, ed ottenutolo, mi invitò a ripetere il racconto. Questa seconda volta, aggiunsi anche l’episodio dell’incidente al Palazzo di vetro, di cui avevo saputo tempo dopo, quando ero rientrato in Europa, e di come avessi avuto la sensazione di esserne stato testimone. Tacqui e attesi. “C’est tout?” domandò. “Sì,” dissi. Il medico spense il registratore e mi invitò ad aspettare, chiedendomi di pazientare, quindi entrò nello studio di Madame Orschviller. Tornò dopo una decina di minuti e mi invitò ad entrare dalla dottoressa psicanalista, seduta dietro la scrivania, che con un cenno mi fece accomodare su una poltrona a lato, in maniera tale che se avessi parlato, non potevo vederla. Quando l’aiuto medico ci lasciò soli, dopo qualche convenevole, mi chiese se avessi fatto dei sogni. Non l’avevo detto prima, mi ero dimenticato, riferii del sogno e delle parole della defunta, la sua esortazione a proseguire gli studi per diventare Rhetor Magister. La dottoressa m’invitò a lasciare la poltrona, accennando a una sedia di fronte alla scrivania. Mi osservò per un po' senza parlare, con l’aria di chi riflette, poi emise il suo verdetto: “Monsieur Stefani, voi non siete pazzo, non siete affetto da nessuno sdoppiamento della personalità, siete sano di mente, non avete bisogno di cure. Monsieur Stefani, voi siete ancora molto innamorato della vostra compagna scomparsa.” Madame Orschviller si alzò in piedi, era di statura media, un po' grassa, più sui settant’anni che sessanta. Si avvicinò e mi congedò stringendomi la mano. Uscendo dallo studio, il paziente rossiccio prima seduto in sala d’attesa si trovò a scendere le scale con me e facemmo un tratto di strada assieme, sembrava quasi mi accompagnasse. Incontrai più volte il suo sguardo, poi si allontanò, io raggiunsi la stazione del metrò “Cadet”, dove notai una ragazza alta, bionda, graziosa, sembrava quasi mi stesse aspettando. Infatti, quando scesi le scale, lei mi venne dietro, salendo sul convoglio nello stesso scompartimento. Scesi a Châtelet e quando presi il treno per l’aeroporto di Orly, vidi un’altra ragazza bionda simile alla prima (vestivano uguali?), che mi aspettava e salì con me sullo stesse vagone. Non mi meravigliai quando scese assieme a me, accompagnandomi fino all’entrata dell’aeroporto. Ero convinto che un’altra mi attendesse all’imbarco e infatti notai che la vigilante in divisa prestò un’attenzione particolare, quando passai attraverso il varco elettronico. Una volta in aereo, seduto accanto all’oblò, cominciai a riflettere su quella strana compagnia, che mi aveva scortato dall’uscita dello studio di Madame Orschviller fino alla frontiera aerea, quasi ad accertare se io avessi lasciato il territorio francese. Ai tempi del mio soggiorno, avevo subodorato che quella signora psicanalista era in contatto con la polizia, perché il suo studio era frequentato anche da pazzi criminali, ed ogni tanto avevamo seppellito anche qualche loro vittima. Nella mia vicenda mentale o meglio nella mia vita reale c’era una mia compagna defunta in circostanze non chiare. Monsieur Stefani, voi siete sano di mente. La circostanza non escludeva l’ipotesi che io potessi essere un criminale, anzi la rafforzava, in ogni caso era bene che io abbandonassi il territorio di Francia, a scanso di equivoci. L’uomo rossiccio era un ispettore di polizia e le ragazze agenti ai suoi ordini. Et voilà!
IL MISTERO DI GIOM Quando tornai in Italia, a Roma, diventai circospetto, ma con il passare del tempo la mia condizione andò cambiando: era come se uscissi da un sogno, le cui immagini andavano sfumando. Addirittura, un po' rimpiansi di non aver preso contatto con una di quelle ragazze bionde che mi avevano accompagnato nel mio tragitto sul metrò fin dentro all’aeroporto. Ricordai che durante il mio soggiorno di lavoro a Parigi, avevo avuto modo di conoscerne alcune, ma era come se mi intimidissero, per quell’aria di strana confidenza che s’instaurava tra noi. Si stabiliva una sorta di situazione precaria che non dava spazio a progetti futuri in comune, un continuo fluire del presente, senza luoghi dove custodire ricordi o attese. Fluttuavo in un’assenza di pensieri, che non fossero quelli dell’immediatezza quotidiana. E adesso avevo perduto l’occasione di ricominciare una storia, in cui questa volta potevo riconoscermi in un mio passato, anche se privo di radici patrie. Ma queste erano riflessioni possibili solo una volta venuto fuori dalla contingenza di quelle instabili situazioni vissute repentinamente, al di fuori del proprio ambiente abituale, e quello che mi appariva possibile ora, sicuramente non era fattibile al momento. In verità, allora, mi ero sentito scortato, ma forse non era la mia una manifestazione di una mania di persecuzione, non diagnosticata da quella spiona di una psicanalista? Che cosa ho detto? Spiona? Mi correggo: delatrice. Stefani! Eh? Non esageriamo. Ma questo parlare tra me e me non è il sintomo di uno sdoppiamento della personalità? Io forse tento d’ingannare me stesso, Madame Orschviller però ha smascherato il mio inganno: “Monsieur Stefani, voi siete sano di mente.” Avevo speso bene i miei soldi per il consulto, compreso il saldo e le spese di viaggio. Quella donna non solo aveva occhio clinico, ma era anche potente data la sua fama e le sue relazioni, non le sfuggivano i folli, ma neppure i criminali. E i sospetti? Per venire fuori definitivamente da questa storia, mi tuffai nello studio, frequentavo assiduamente i corsi di retorica e cominciai a pensare alla tesi finale da presentare, per il conseguimento del titolo di “Rhetor Magister”. Nelle mie ricerche on-line, mi ero imbattuto, in verità non casualmente, anzi attraverso una ricerca mirata, nella tesi del collega Marramao, il convitato di pietra nella mia relazione con Ludovica Baroni. Era intitolata: “Il linguaggio retorico e la res publica”. Il suo discorso partiva dall’etimo della parola “res”, che rimanda al greco eirein parlare e al latino rhetor. “Tutti dunque sono nati o da un dio innamorato di una mortale, o da un mortale innamorato di una dea. Se dunque tu consideri questo secondo la lingua attica antica, lo capirai meglio; ti dimostrerà infatti che dal nome di eros, 'amore', da cui sono nati gli eroi, poco si è deviato in grazia del nome. È questo appunto che significa «eroi», o perché erano saggi e retori, e abilissimi e dialettici, essendo capaci di erotan, 'interrogare'; infatti, eirein significa 'dire'. Come dunque dicevamo, quelli che sono detti eroi nella lingua attica, accade che siano alcuni dei retori e degli individui espertissimi ad interrogare, tanto che stirpe di retori e di sofisti diventa la tribù "eroica". Ma questo non è difficile da intendere; piuttosto il nome di uomini, perché mai vengono chiamati anthropoi, 'uomini': sapresti dirlo tu?”
Nel suo commento, Enrico specificava che Platone (Cratilo, 398d) sta parlando dei semidei, di cui poco prima ha indicato l’origine, come dice Socrate all’interrogante Ermogene: “ Ma heros, 'l'eroe', che cos'è poi? – Questo non è molto difficile da capire: di poco, infatti, è modificato il loro nome, mostrando la propria origine da eros, 'amore'. – Come dici? – Non sai che gli heroes, 'eroi', sono semidei?” Dèi, demoni ossia semidei, come dire eroi, uomini: questa era la scala discendente dal cielo del divino alla terra dell’umano, percorsa da Socrate nel discorso sull’origine dei nomi. Prima del colloquio con Ermogene, egli veniva da un altro incontro, quello con Eutifrone, che lo aveva in un certo modo ispirato, avendo con lui dibattuto sul sacro. Infatti, osserva Ermogene: “In verità, o Socrate, mi sembra che ti metti a dare vaticini così all'improvviso, come quelli che sono ispirati.” E l’osservazione di Ermogene trova conferma nella risposta di Socrate: “E ho l'impressione, o Ermogene, che essa mi sia caduta addosso ad opera di Eutifrone di Prospalta. Stamane, infatti, sono stato a lungo assieme a lui e gli ho prestato ascolto. Può darsi anche che egli, così ispirato come è, non solo mi abbia riempito le orecchie della sua divina sapienza, ma che me l'abbia attaccata anche nell'anima. Mi pare dunque che sia bene fare così: per oggi servircene e continuare le ricerche sui restanti problemi riguardanti i nomi, domani poi, se anche a voi sembrerà bene, rigettarla e purificarcene, trovando qualcuno che sia capace di purgarci da tali esperienze, sia esso un sacerdote o un sofista.” Leggendo il testo di Enrico, non so perché, venivo colto da certe mie reminiscenze, come se quel discorso in un certo modo lo avessi già udito o letto da qualche parte, in specie il riferimento al dialogo di Platone: “Eutrifone”. Nella sistemazione in nove tetralogie dei dialoghi platonici, compiuta dal grammatico Trasillo nel I sec. d.C., l’Eutifrone occupa il primo posto nella prima tetralogia. Essendo, quindi, un dialogo della giovinezza di Platone, prelude a quella che sarà poi la sorte tragica di Socrate. Infatti esso si svolge nel Portico del Re, dove Socrate incontra Eutifrone, entrambi in fila per andare dall’arconte: il primo perché accusato di empietà e corruzione dei giovani, a seguito della denuncia presentata contro di lui da Meleto; l’altro perché intende far incriminare il padre reo di omicidio nei confronti di un suo servo. Al tema dell’Eutifrone, su che cosa sia giusto e santo, aveva alluso anche Enrico, ed era forse questo il motivo, per cui mi chiedevo se fosse un caso oppure la predisposizione di una volontà superiore, comunque un destino, questo mio incontro con il suo pensiero sul web, e vedevo l’immagine di Ludovica Barboni sulla 42esima strada, come lievemente smossa dal vento (ànemos), la sua “anima”.
Mi ero distratto e tornai al testo: “Io sono d'accordo, perché volentieri ascolterei quello che resta da dire sui nomi.” Ermogene si è detto d’accordo con Socrate, che dunque può proseguire: “Bisogna dunque fare così: da dove vuoi che cominciamo a indagare, poiché ci siamo mossi su una certa impronta, per venire a sapere se i nomi stessi ci attesteranno di non essere stati posti così a caso a uno a uno, ma di avere una loro giustezza? Ora i nomi che vengono usati per gli eroi e per gli uomini forse possono trarci in inganno: molti di essi, infatti, sono stati posti così per eponimia con quelli degli antenati, pur non confacendosi per alcuni, come dicevamo all'inizio; molti vengono posti come buon augurio come Eutichide, 'fortunato', Sosias, 'salvatore', Teofilo, 'caro agli dèi' e molti altri. Ma a me pare che noi dobbiamo tralasciare nomi di tale fatta, mentre mi pare verisimile che noi troveremo particolarmente nomi posti con giustezza nelle cose che si trovano sempre nella stessa condizione e sono così per natura. Conviene che qui particolarmente l'apposizione del nome sia stata realizzata con gran cura. E forse alcuni di essi furono posti da un potere più divino che umano. – Mi pare che tu dica bene, o Socrate. – Non è giusto dunque cominciare dagli dèi, per comprendere perché mai furono chiamati giustamente con questo nome di theoi? – Mi pare di sì. – Io, dunque, faccio questa supposizione: mi pare che i primi uomini che abitavano in Grecia considerassero dèi soltanto quelli che ora anche molti barbari stimano tali, e cioè il sole, la luna, la terra, gli astri e il cielo, e siccome li vedevano tutti andare sempre di corsa e correre, da questa loro natura del thein, 'correre', li chiamarono theous, 'dèi'; in seguito, riconosciute le altre divinità, le chiamarono tutte con questo nome. Ti pare che quel che dico in qualche modo si avvicini al vero oppure in niente? – Mi pare del tutto verisimile. – E che cosa dobbiamo cercare ora, dopo questo? – È chiaro: i daimones, 'demoni', gli heroes, 'eroi', e gli anthropoi, 'uomini'. – E in verità, Ermogene, cosa pensi mai voglia dire il nome daimones? Considera se ti pare che io dica qualcosa di serio. – Ebbene, dilla. – Lo sai tu quali dica Esiodo essere i daimones? – Non l'ho presente. – E neppure perché dice che la prima stirpe degli uomini era d'oro? – Questo lo so. – E dunque di essa dice: “Ma dopo che tale stirpe la Moira nascose sottoterra, daimones sacri, sotterranei essi son chiamati buoni, protettori dai mali, custodi degli uomini mortali.” – E che vuol dire? Io credo che egli chiamasse quella stirpe dorata non perché generata dall'oro, ma perché buona e bella. E ne è prova per me che dice di noi che siamo una stirpe di ferro. – Tu dici il vero. – E non pensi tu che anche oggi direbbe che appartiene a quella stirpe dorata se pure ancora ve n'è qualcuno dei buoni? – È verosimile. – E che altro sono i buoni se non intelligenti? – Intelligenti, certo. – A me dunque pare questo, che egli soprattutto li chiami daimones; poiché erano intelligenti e daemones, 'savi', li ha chiamati daimones. Anche nella nostra lingua antica ricorre in tal senso questo nome. Egli dice dunque bene e così gli altri poeti quanti dicono che un uomo realmente buono dopo la morte ottiene una grande sorte e onore e diviene daimon secondo l'eponimia della sua saggezza. Allo stesso modo ritengo anch'io che ogni uomo che sia buono sia appunto daimonios, 'divino', da vivo e da morto e che sia chiamato giustamente demone. – E anche a me pare, o Socrate; esprimerei il mio voto assieme a te. Ma heros, 'l’eroe', che cos'è poi?”
Quello che traeva come conseguenza Enrico da questi passi del “Cratilo” era che la parola, il linguaggio, il pensiero è l’elemento divino dell’uomo, e lo avvicina al cielo, verso il quale volge il capo, nel suo desiderio di conoscenza, al contrario dell’animale, intento ad annusare la terra in cerca di nutrimento. La parola è il gioiello scivolato nel fondo delle acque trasparenti del ruscello, sulle cui rive siedono le Muse, le figlie di Mnemosyne, che cantano l'origine del mondo e la nascita degli dèi e degli uomini, e tutto sanno del tempo passato, presente e futuro. E rievocano con il loro canto le imprese di Giom e le nozze di Cadmo e Armonia, figlia di Ares e Afrodite: al banchetto nuziale furono presenti tutti gli dèi dell’Olimpo, l’ultimo convito, a cui parteciparono insieme i mortali e i divini. Giom, chi era questo personaggio? Quali le sue imprese? Un dio assassino? Perché pensavo così? C’era qualcosa di strano, il mistero di Giom. Quest’ultima digressione mitologica di Enrico, comunque, era molto sospetta: come era possibile che il collega Marramao avesse infilato nella sua tesi di dottorato alcune storie particolari del Mito, che io sentivo non come mie proprie, questo no, non era possibile, ma di cui avevo parlato, non ricordo più a quale proposito, con la defunta Ludovica Barboni. Era un fantasma, la sfortunata giovane, che abitava ancora lo spazio tra terra e cielo, una sorta di demone, e mi inviava i suoi messaggi dal web. Ero pazzo? Madame Orschviller lo aveva escluso, intascando una consistente parcella, che io in maniera demenziale avevo pagato, non disponendo in quel periodo di molto denaro. Oppure ero andato a Parigi per cercare conferma di certi miei segreti pensieri? Per quello che mi era accaduto i sospetti restavano. Ma quali? Usciamo allo scoperto, l’inchiesta ufficiale americana, a cui avevano partecipato anche investigatori italiani, aveva concluso come disgrazia o suicidio la morte della deputata italiana, forse affetta da depressione. Giovannini e i suoi non avevano potuto condizionare l’esclusione di questa seconda ipotesi. E se fosse stata assassinata? Ma vogliamo scherzare? La polizia americana e quella italiana non sanno distinguere una disgrazia o suicidio da un omicidio alias femminicidio? E forse hanno bisogno di suggerimenti di altri? Altri chi? I francesi, per caso? Io, Stefani, ero convinto di non essere sano di mente, diversamente da come aveva giudicato la psicanalista parigina di origine alsaziana. Era forse un tentativo subconscio di sviare certe responsabilità? Ma perché avevo quel complesso di colpa? Ripresi a leggere il testo di Enrico. Spiegava come la parola ha un’origine divina e che l’ultima delle nove parti del discorso, l’interiezione, ne è la traccia grammaticale. In essa è il primo articolarsi dei suoni della voce, il compendio emotivo del parlante nell’esclamazione di un solo termine o una breve locuzione, il nome di un dio o di una dea, circostanza questa che spiega la differenza di genere tra le parole. Giom! Già! No, Giù! Giù a capofitto dalla finestra sigillata di un grattacielo. Sussultai e ripresi la lettura del testo del dottor Enrico Marramao.
In merito alla parola e alla memoria, Enrico citava Nietzsche: “L’uomo chiese una volta all’animale: perché mi guardi soltanto senza parlarmi della felicità? L’animale voleva rispondere e dire: ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò.” La citazione era tratta da “Considerazioni inattuali (II). Sull’utilità e il danno della storia.” E anche questo riferimento mi risvegliava reminiscenze, una prova dell’immortalità dell’anima, come facevo a ricordare il testo di Marramao se non l’avevo già letto in una vita precedente? Cioè no, qui mi confondevo. Avrei dovuto leggere meglio il “Menone”, dove lo schiavo ignorante riesce a risolvere dei problemi di geometria da solo, anche se con qualche suggerimento di Socrate, che l’ha aiutato a ricordare le conoscenze già scolpite nella sua anima in vite precedenti. In effetti io l’immortalità dell’anima l’avevo esperita quella volta nella 42esima strada, quando avevo incontrato il fantasma della defunta Ludovica Barboni. Di nuovo lei! Cercai di allontanare la sua figura dalla mia mente, concentrandomi su Marramao: “Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi: salta intorno, mangia, digerisce, salta di nuovo. È così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere ed il suo dispiacere, attaccato cioè al piolo dell’attimo e perciò né triste né annoiato...” L’incipit della “Seconda Inattuale”, scriveva Enrico, ci rivela l’ispirazione di Nietzsche alla poesia di Leopardi, in particolare: “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia” “O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi.” Eh, no! Se Nietzsche s’ispirava a Leopardi, Marramao da chi traeva ispirazione? In verità, che l’uomo sia un animale storico, a differenza dell’animale che vive di sola natura, è una conoscenza abbastanza consolidata, ma questi particolari accostamenti, che io ritenevo esclusivamente miei, chi li aveva suggeriti al mio collega? Presi a rileggere il suo testo, per meglio scoprire i segni della sua sorgente d’ispirazione. “La parola è il gioiello scivolato nel fondo delle acque trasparenti del ruscello, sulle cui rive siedono le Muse, le figlie di Mnemosyne, che cantano l'origine del mondo e la nascita degli dèi e degli uomini, e tutto sanno del tempo passato, presente e futuro. E rievocano con il loro canto le imprese di Giom e le nozze di Cadmo e Armonia, figlia di Ares e Afrodite: al banchetto nuziale furono presenti tutti gli dèi dell’Olimpo, l’ultimo convito, a cui parteciparono insieme i mortali e i divini.” Ero perplesso. Dovevo consultare altri testi e su un’enciclopedia digitale ritrovai questa figura del dio, Giom, di cui le Muse cantano le imprese, come riferisce Esiodo. Ecco, Esiodo era la traccia originaria. Continuai la mia ricerca et voilà! In un testo medievale con lettere gotiche, mi soffermai sull’espressione: “Quando Minerva nacque, Giouu piovve in nembo d’oro.” Guardai meglio: la “v”, scritta come una “u”, unita alla “e”, “ue”, poteva leggersi come una “m” rovesciata. “Quando Minerva nacque, Giove piovve in nembo d’oro.” La scrittura gotica aveva ingannato Marramao, l’enciclopedia digitale da lui consultata, e stava ingannando anche me. Giom! Già! Giù! Era questa la soluzione del mistero di Giom? Il nome di un dio come impronta originaria sulla moneta, la parola, che a causa dello scambio frequente ha perso l’antico conio? No. E allora? Giom! Un errore di stampa, un errore che svelava un mistero, ma ne celava un altro, quello stesso che aveva lasciato intravvedere. Quando lessi la bibliografia riportata da Marramao a fine testo, individuai subito il nome di Villani G., autore di “L’origine divina della parola”.
Postilla a “Il mistero di Giom” “Giom! Un errore di stampa, un errore che svelava un mistero, ma ne celava un altro, quello stesso che aveva lasciato intravvedere.” Vito Stefani, l’io narrante di “Rhetor Magister”, dovendo stilare la sua tesi di laurea, va a consultare l’elaborato presente sul web del suo collega Enrico Marramao, il convitato di pietra nella sua relazione con la defunta Ludovica Barboni. E dopo il “Cratilo”, il dialogo in cui Platone dibatte dell’origine e dell’etimologia delle parole, scopre che Marramao ha introdotto un excursus mitologico sulle imprese di Giom e le nozze di Cadmo e Armonia: “Giom, chi era questo personaggio? Quali le sue imprese? Un dio assassino? Perché pensavo così? C’era qualcosa di strano, il mistero di Giom.” Alla fine, Stefani scopre che si tratta di un’errata interpretazione dei caratteri gotici del testo consultato, dove la “m” di Giom non è altro che la sillaba “ve”, e in tal modo si ricompone la grafia originaria della parola: “Giove”. L’errore svela il mistero, ma ne lascia intravvedere un altro, quello sulla morte sospetta di Ludovica Barboni, nella cui ricomposizione del ricordo la coscienza del protagonista oscilla fortemente, non ricorda bene. Che cosa non ricorda? Il testo non lo dice, allude: Giom è un monosillabo, come giù! Giù dal grattacielo.
L’ENTIMEMA “Un tema sulla catacresi, Stefani, la figura retorica che estende l’uso del termine oltre il suo significato specifico, un’abusione, di cui dobbiamo cogliere una nuova visione, mi capisce?” La professoressa Marozzi mi guardava con quella sua tipica aria mite, pur usando parole di rottura rispetto alle accademie dominanti, un’espressione questa ricavata dal titolo di un suo studio: “Il paradigma delle accademie dominanti”. Era suddiviso in due volumi: una parte generale ed una speciale. Bastava studiare solo la parte generale, doveva veniva esposta la dottrina del paradigma; nella parte speciale venivano trattati i paradigmi dei diversi tipi di accademie: letterarie e linguistiche, arti figurative, scienze, musica, filosofia e altre. Il nucleo della dottrina del paradigma consisteva nell’idea che nelle varie epoche storiche si andavano evolvendo i modelli di riferimento delle diverse scienze dello spirito, i paradigmi, imponendo un dominio culturale. Questi paradigmi resistevano fino a quando non fossero intervenute nuove teorie di cambiamento, che però si presentavano sempre in maniera esperienziale, prima di stabilizzarsi in strutture codificate. Nella parte speciale, la sezione dedicata alla retorica era divisa nei paragrafi corrispondenti alle varie figure retoriche, fra cui la catacresi. La Marozzi la definiva come una forma di metafora o metonimia non più riconoscibile a causa della sua normalizzazione linguistica. Di fronte a una situazione nuova, in assenza di parole, il ricorso alla catacresi serve a coprire il vuoto espressivo venuto a crearsi nella lingua. L’autrice portava un esempio suggestivo: “Naufragio di stelle”. Credo che avesse ripreso l’espressione dal titolo della silloge di un poeta del Novecento abbastanza sconosciuto e la circostanza le aveva dato anche l’occasione per un confronto tra retorica e poetica. Ormai mi ero impegnato, Giulia Marozzi sarebbe diventata la relatrice della mia tesi di dottorato. Il mio lavoro le sarebbe risultato utile per aggiornare la voce “catacresi” nella parte speciale della sua opera sul paradigma delle accademie dominanti. Devo aggiungere, per spirito di verità, che naturalmente ero attratto, un po' come tutti noi studenti, chi più chi meno tutti sui trent’anni, da quella figura femminile, sarà anche per la distanza dei ruoli. Però la mia scelta di andare con lei e non con Villani era stata dettata da un altro motivo nemmeno tanto subconscio. Quando avevo chiesto alla biblioteca dell’Istituto, il libro del prof. Gabriele Villani, la bibliotecaria, un po' impicciona, pensava che dovessi laurearmi con lui, come aveva fatto l’anno prima il dottor Marramao, un esito brillante, e la bibliotecaria sorrise. Abbiamo capito che lui è il migliore, le risposi con lo sguardo: “No, la mia relatrice è la professoressa Marozzi,” dissi. “Ah!” fece lei. Presi il libro di Villani, che aveva posato sul bancone, e mi allontanai. Come avevo immaginato, Marramao aveva colto diversi spunti dal testo di Villani, compresi quei riferimenti che credevo fossero mie scoperte esclusive, ma poi aveva sviluppato la sua tesi seguendo il suo percorso di confronto tra retorica e politica. Devo dire che dai discorsi in pubblico e dai dibattiti televisivi a cui Enrico partecipava si poteva osservare come lo studio della retorica gli avesse giovato, ma ci vuole stoffa, lo capivo.
Riconsegnai il libro di Villani, quasi a separarmi da certi fantasmi, che i passi ricalcati da Marramao su quelli del suo testo di riferimento mi avevano evocato, e cercai di concentrarmi sul testo della Marozzi. Nella parte generale, l’autrice illustrava bene l’evoluzione storica del paradigma della retorica, risalendo fino alle sue origini, antiche quanto quelle della filosofia. “Aristotele, nel Sofista, riferisce che Empedocle fu il primo a scoprire (eurein) la retorica.” La fonte citata era Diogene Laerzio. In tal senso si può dire che della filosofia la retorica è a un tempo nemica ed alleata. Sotto il primo aspetto, l’arte persuasiva del “dire bene” si emancipa dalla pretesa di “dire il vero”, e infatti Platone la condanna: “Ma non ci permetteremo di disturbare Tisia e Gorgia? Essi videro che la verosimiglianza è molto più pregiata della verità, e che con la forza delle parole fanno apparire piccole le cose grandi e grandi le cose piccole, nuove le cose vecchie e viceversa, e scoprirono il modo di parlare conciso o con interminabile lunghezza su ogni questione?” (Fedro, 267a-b, Gorgia, 449a-458c). Pensavo a certi discorsi di Giovannini e agli spot pubblicitari del suo socio Arrigoni, immagini che scivolavano pericolosamente verso un’altra figura perduta di quella conventicola, e allora ritornavo allarmato al mio testo. Tentavo di allontanare il fantasma (fantôme) di una defunta, avvicinandomi al fantasma (fantasme) di una viva. Per Platone, scriveva quest’ultima, la “vera retorica” è la dialettica, cioè la filosofia. (Fedro, 271c) Ma la filosofia non aveva la possibilità d’imporre il suo potere veritativo nei tribunali, le arene, le assemblee, luoghi frequentati dalla retorica. La Marozzi proponeva un parallelo tra quella che noi moderni, nel gergo giudiziario, definiamo “verità processuale” e la “verità” in senso assoluto, ricercata in altri discorsi, che restano comunque fuori da ogni possibilità di realizzazione concreta. In questo senso, la filosofia non ha la possibilità di smantellare il nesso tra discorso e potere. Un tentativo di avvicinare la retorica alla filosofia, in una sorta di alleanza, è stato compiuto da Aristotele. La domanda è la seguente: quando l’arte di persuadere prende le distanze da forme di adulazione, seduzione, minaccia, ovvero da forme di violenza? La riflessione filosofica deve allora pensare radicalmente il concetto del “persuasivo” ed in questo viene in aiuto la logica. Sin dalle origini, la retorica aveva fatto ricorso all’eikos, il verosimile, come indicatore dell’uso pubblico della parola. Il genere di prova, che l’eloquenza esibisce nei tribunali e nelle assemblee, dove si decidono le cose umane è quello della verosimiglianza e non della necessità veritativa della filosofia prima. Quindi invece di denunciare l’inferiorità dell’opinione, la doxa, rispetto all’episteme, la scienza, la filosofia può proporsi l’elaborazione di una teoria del verosimile, sganciandola dagli abusi della sofistica e dell’eristica. La formulazione di un nesso tra il “persuasivo” e il “verosimile” è il fondamento su cui Aristotele ha edificato la sua struttura di una retorica filosofica. L’entimema è uno dei luoghi in cui il costrutto della retorica si modella su quello della logica filosofica.
Ebbi un colloquio con Giulia Marozzi a proposito del sillogismo retorico, l’entimema, e della sua equiparazione al sillogismo logico. Perché andavo da Giulia? Avevo compreso perfettamente ogni passaggio del suo testo, che devo dire era chiarissimo, non presentava nodi da sciogliere. Ero convinto che il testo fosse passato sotto la revisione dell’emerito professore suo genitore, non per sminuire le qualità della figlia, ma per dare ad esse un valore aggiunto. E poi, queste erano mie illazioni. Sicuramente l’autrice, quale interprete del suo testo, ma anche di un testo non suo, era in grado di dare soddisfacenti spiegazioni, e quindi essendo tutto chiaro, che necessità aveva un dottorando di rivolgersi alla sua professoressa su quel punto? Non poteva essere un pretesto? La Marozzi, in un certo senso, però, non aveva bisogno di conoscere la struttura del sillogismo aristotelico, voglio dire non come professoressa, ma come donna. Quale sillogismo? Facciamo un esempio: “Tutti gli studenti del corso (tranne eccezioni che confermano la regola) sono fisicamente attratti da Giulia Marozzi, io, Stefani, sono uno studente del corso, quindi io sono attratto fisicamente da Giulia Marozzi.” E l’entimema? La proposizione generale non va ritenuta come definizione vera, ma verosimile. Quindi, la maestra di retorica avrebbe avuto qualche obiezione a formulare l’esempio dato come sillogismo retorico, dove la prima proposizione è verosimile, e non come sillogismo logico, dove la prima proposizione è vera. Al massimo si poteva così formulare: “Tutti gli studenti del corso sono amanti di Giulia Marozzi, io sono uno studente del corso, quindi io sono amante di Giulia Marozzi”. Ma non è vero! Che cosa? Che sono l’amante di Giulia Marozzi. Appunto, non è vero, ma verosimile, un entimema. Ma no! Qui, la proposizione principale è inverosimile, e venendo meno il criterio di verosimiglianza, cade la possibilità di un entimema.
Ero lì a trastullarmi con queste fantasie sulla maestra di retorica, in attesa del suo arrivo nella sala dei colloqui, e quando arrivò, mentre mi alzavo per salutarla, lei sbrigativamente accostò una sedia e subito entrò in argomento. L’entimema, il “sillogismo della retorica”, che ha natura deduttiva, e “l’esempio”, di natura induttiva, danno entrambi luogo a dei ragionamenti “su questioni che possono perlopiù essere diversamente”. Ora, dice ancora Aristotele nella “Retorica”, “il verosimile è ciò che avviene perlopiù, non però assolutamente, come alcuni definiscono; ma ciò che nell’ambito di quel che può essere diversamente, [il verosimile] è rispetto alla cosa rispetto a cui è verosimile, come l’universale rispetto al particolare.” Ero distratto, non avevo capito subito, la pregai di ripetere e annotai la spiegazione. Poi, al fine di non apparire impreparato, citai l’Aristotele dei “Topici”, che definisce l’induzione “il procedimento che dai particolari porta all'universale”. E incominciai ad esporre la posizione del filosofo sulle due direzioni del procedimento della conoscenza, dal generale al particolare e l’inverso. Nella “Metafisica”, Aristotele dichiara che “due sono le scoperte che si possono a giusta ragione attribuire a Socrate i ragionamenti induttivi e la definizione universale: scoperte queste che costituiscono la base della scienza.” Platone partiva dal sensibile, il particolare, per giungere all’intellegibile, l’universale, le Idee: nei suoi dialoghi Socrate cerca sempre l’essenza per definire l’oggetto della conversazione, il "tì esti", “che cos'è?”, l’idea per es. della virtù, della giustizia e così via. Per Aristotele, comunque, è l’intuizione operata dell’intelletto che coglie l’essenza della realtà, da cui dedurre dei principi validi e universali, a garanzia della verità. Avrei continuato, se la Marozzi non mi avesse interrotto: “Stefani, oggi si celebra il trigesimo di Giulia Barboni, lei non viene alla messa di suffragio?” Mi sentii gelare. Era stato il tono ufficiale, poco confidenziale, usato dalla professoressa oppure qualcosa d’altro? Tacevo. Sentii confusamente che diceva: “La chiesa sulla sabbia, oggi pomeriggio alle cinque.”
LA MORTE DI UNA DEA La mattina dell’esame, mi recai all’Istituto di via Savoia, fresco e riposato. Avevo dormito a sufficienza e profondamente, ero sicuro di me stesso. Un po' prima di entrare in Istituto, incrociai una ragazza con gli occhiali, che mi salutò. Risposi, chiedendomi chi fosse. Fuori dell’aula degli esami, era in attesa Di Ciocco, che avrebbe dovuto discutere la sua tesi prima di me. Vedendomi solo, mi chiese se anch’io non mi ero fatto accompagnare da nessuno, per scaramanzia. Strizzò l’occhio Nicolino, e mi disse che poco prima la sua fidanzata era andata via, per non distrarlo. “Ah!” dissi, ripensando alla ragazza che mi aveva salutato all’entrata. Si laureava con Villani il collega, la sua tesi, relativa ai rapporti tra poetica e retorica, era intitolata: “L’epifora del nome”. “Poi non sei più venuto alla messa a San Saba, quella volta?” disse, accennava al trigesimo di Ludovica Barboni. In quell’occasione, avendo frainteso le parole della Marozzi, confondendo sabbia con Saba, ero rimasto disorientato e avevo pensato di mandare un sms a Di Ciocco, per chiedere lumi. Negli ultimi tempi era il collega, con il quale mi ero sentito un po' di più che con gli altri, dovendo noi sostenere l’esame nella stessa sessione, ecco perché mi ero rivolto a lui. “Non sono riuscito a trovare la chiesa, non avevo altre indicazioni,” dissi. Di Ciocco allora non aveva risposto all’sms e non era raggiungibile al telefonino. Poi forse l’aveva letto, ma non mi aveva più parlato di quel particolare. Perché se ne ricordava ora? “Ma tu la Barboni la conoscevi?” La domanda mi sorprese. Ecco, pensai, il collega era andato alla messa di suffragio, perché erano presenti le autorità accademiche e i loro referenti politici, proprio quelle persone che in un certo modo io volevo evitare. Intanto erano arrivati i professori e presto Di Ciocco andò a prendere il suo posto. Per scaramanzia, lui aveva mandato via la sua fidanzata in carne ed ossa, io non riuscivo ad allontanare il mio fantasma, riapparso all’improvviso: “Ma tu la Barboni la conoscevi?” Una settimana prima dell’esame avevo avuto un ultimo incontro con la professoressa Marozzi. La retorica della Grecia antica aveva non solo un programma, ma anche una realtà drammatica, quella che si rappresentava nei tribunali, le arene e le assemblee. La sua dottrina andava oltre la tassonomia e la teoria delle figure del discorso, in cui si è andata risolvendo nella modernità. Ecco perché il suo antico paradigma, quello predominante nella Grecia classica, si è oggi dissolto, riproponendosi come un elenco di forme discorsive linguistiche. La Marozzi mi ascoltava attentamente. È opportuno, oggi, nell’esame di ognuna di queste figure retoriche, superare la loro ristrettezza dottrinale e tentare la via nuova di una nuova affermazione, preparatoria di un possibile futuro paradigma. Sembrava leggermente meravigliata la professoressa, nel seguire queste mie parole, che riflettevano i suoi concetti del sapere retorico, quelli raccolti nel suo studio, i due volumi sul “paradigma delle accademie dominanti”. “La catacresi, Stefani,” disse “sappiamo che nel movimento diacronico dall’etimo d’inizio può assumere una vera e propria forma di figura del pensiero, l’ossimoro, allorché una parola è usata estensivamente in un significato che il contesto stesso della frase contraddice, ad esempio la sua morte di una dea, una brutta calligrafia.”
E questo fu “L’encomio della nobildonna Laura Broccolini della Rovere” che discussi. “L’armonia di uno Stato è dato dal coraggio dei suoi cittadini più illustri. L’armonia del fisico di un uomo e di una donna dalla bellezza, quello dello spirito dalla sapienza, dell’azione dalla virtù, di un discorso dalla verità. Diversamente non v’ha armonia, ma disordine. Necesse est, quindi, lodare un uomo, una donna, un discorso, un’opera, uno Stato, se sono degni di lode, altrimenti per essi è solo biasimo e disdoro. È d’obbligo a un uomo solo dire quello che va detto correttamente e confutare tutti quelli che disprezzano Laura Broccolini, attorno alla cui figura sia il coro dei redattori di cronaca nera, sia la credulità dei loro lettori, sia la fine sciagurata hanno arrecato alla sua immagine una triste memoria. Io, quindi, con il mio accorto discorso da un lato voglio confutare le infamie e dimostrare menzognere le testimonianze dei malaccorti cronisti e dei loro seguaci e quindi porre fine all’ignoranza sul caso. Ora, la donna di cui parliamo, sappiamo tutti delle sue nobili origini, da cui ricevette una bellezza pari a quella di una dea, suscitando nelle innumerevoli schiere dei suoi ammiratori intense brame d’amore. Ella raccolse intorno a sé uomini di superba grandezza, alcuni per immense ricchezze e grandi fortune politiche, altri per gloriosa fama di sapienza, altri per bella presenza fisica e fascino di spirito, altri infine per non trascurabili doti intellettuali. Tutti erano ardenti di amore e pronti a gareggiare tra loro per vincere, mossi da un desiderio di possesso esclusivo. Chi, tra costoro, e per qual ragione e in qual modo appagò il proprio amore, ottenendo le grazie di Laura Broccolini della Rovere io non dirò, essendo le cronache già troppo ciarliere in proposito e tali ciarle non dilettano l’animo mio. Esporrò, comunque, le cause per le quali la nobildonna quel giorno del suo destino di morte si trovasse in quel palazzo nobiliare di Via delle Vittorie a Roma. Infatti, o per un decreto di necessità divina ivi si recò, oppure costretta con la violenza o anche affascinata da belle parole oppure presa d’amore. Per quanto riguarda la prima alternativa non vi è dubbio che non vi è colpa per chi abbia agito costretto da una forza superiore, una causa di forza maggiore, vis cui resisti non potest, e quindi ad essa va restituito l’onore perduto. Se lei, invece, fu rapita con la violenza e contro la legge subì violenza, ingiustamente fu oltraggiata. È chiaro che colui che la rapì commise oltraggio e ingiustizia e la rese vittima di un avverso destino. Il colpevole merita, dunque, di essere punito, la vittima commiserata e non diffamata.
Se, invece, fu ingannata da false parole d’amore, non è difficile difenderla e liberarla, proscioglierla dalle accuse, in quanto l’arte della persuasione è un diavolo subdolo, che sgombra dall’animo la paura, smarrisce il dolore, infonde pietà e fiducia. È quest’arte vera poesia: chi l’ascolta è pervaso da brividi di sgomento, da una pietà colma di tenerezza e di lacrime e da uno struggimento e rimpianto che strazia l’anima. Sono seducenti parole di fascino e incanto, e la potenza e la magia dell’incanto strega l’anima, recando inganno e sortilegio, un plagio. E non è violenza questa forza seduttrice delle parole che offuscano l’intelligenza e abbagliano la mente? E allora come può ritenersi colpevole chi è vittima del plagio e come non definire infamie quelle raccontate sul suo conto? E se alla sventurata non fu somministrata una sostanza allucinogena, che ne alterò il fisico e la coscienza, ma fu soltanto soggiogata nell’animo da una sorta di droga psichica, rendendola succuba contro la sua volontà, qual è la differenza tra questi due stati di schiavitù, di perdita della libertà? Se quindi Laura Broccolini fu ridotta in stato di soggezione, non commise nessuna azione colpevole; me se fu per amore che si trovò in quello stato, non è egualmente difficile dimostrare la sua innocenza. Quello che noi vediamo e colpisce il nostro animo non è come desideriamo, ma ha una sua consistenza altra dalle nostre aspettative. E se tu hai la ventura di trovarti in una battaglia tra spari, fischi di bombe e altre terrificanti esplosioni, che turbano il tuo animo, non fuggirai sgomento o tenterai di fuggire il più possibile lontano dal pericolo? E quello che hai veduto e vissuto non provocherà in te il rigetto di ogni buona disposizione d’animo? Alcuni, infatti, avendo assistito a situazioni spaventose, all’improvviso, escono a tal punto di senno da perdere ogni capacità di connettere. Molti cadono in gravi stati morbosi, travagli d’animo inquietanti e pazzie incurabili, a tal punto la loro immaginazione è stata impressionata da quegli avvenimenti terribili e agghiaccianti. E tralascio di riferire altre situazioni simili a quelle descritte, che vengono tralasciate proprio perché rimosse dalla coscienza. D’altra parte, i pittori, quando da più colori e da più modelli traggono un solo modello e una sola figura perfetta, dilettano la vista, come gli scultori che scolpiscono statue di uomini, in cui si rivelano figure divine, non provocano nei nostri animi una soave dolcezza? Se, dunque, per natura alcune situazioni causano dolore e angoscia, altre invece suscitano amore e nostalgia. Quale, dunque, è la nostra meraviglia se anche Laura Broccolini non sia sfuggita a questa seduzione della bellezza e dell’amore. Ed è quest’ultimo un dio, Eros, il più potente dei demoni, che unisce il cielo e la terra, i divini e i mortali e li compatta nella saldezza dell’uno, per cui ad ogni essere mortale è impossibile sfuggire alla sua potenza divina. E se la nobildonna ha dovuto soggiacere perché presa al laccio da Amore o plagiata da persuasione ingannatrice o costretta con la violenza o non è potuta sfuggire al decreto di una Necessità divina, va dunque prosciolta da ogni accusa. In grazia di questo mio discorso, ho quindi cancellato ogni infamia dalla memoria di Laura, scrivendone l’encomio, come prova di arte retorica.” All’uscita dall’Istituto, andavo a piedi sulla via Nomentana, all’altezza di Villa Torlonia, mi parve di vedere una sagoma familiare, allungai il passo e la riconobbi. Era Ludovica Barboni, il fantasma della 42esima strada, veniva a ricordarmi il suo oracolo: “Vai avanti, Stefano, non tornare indietro, tu devi diventare Rhetor Magister. È il tuo avvenire, io non potrò stare al tuo fianco, sono morta, Stefano.” La morte di una dea, Rhetor Magister, il mio destino.
POSTILLA Il giovane Vito Stefani, fresco del titolo accademico, si avvia per la via Nomentana. Dove andrà? Chissà chi lo sa! Noi non conosciamo il suo futuro, sarà il passato, trascorsi gli anni della sua vita, a renderci la sua storia. Rivedremo questo Rhetor Magister? Il suo muoversi sul palcoscenico del mondo non è ancora tramontato. È abbastanza verosimile che presto o tardi avremo ulteriori sue notizie.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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RHETOR MAGISTER
LA CATTEDRALE NELLA SABBIA
Non ricordo se fosse l’aeroporto di Gatwick o di Heathrow, arrivai trafelato al gate all’ultima chiamata, e quando entrai in cabina, dopo aver mostrato la carta d’imbarco all’hostess, guardai verso il mio posto: “A7”. Era occupato da una giovane donna con i capelli scuri tagliati corti e gli occhi celesti, che riconobbi subito, un volto noto della politica. il posto al centro era vuoto, quello lato corridoio occupato da un uomo dai capelli lunghi brizzolati e la barba grigia non rasata. L’assistente di volo mi scortò fino alla fila sette e aprì la cappelliera, dove infilai il mio piccolo bagaglio, dopo aver sfilato un libro dalla tasca esterna. L’uomo e la donna della mia fila intanto si erano alzati in piedi, per farmi spazio, e lei si era spostata al centro, quando avevo accennato al mio posto accanto al finestrino. “Mi scusi, onorevole,” dissi mentre le passavo davanti. Mi sedetti e finalmente mi distesi. Ero in imbarazzo per il ritardo: “Last call, ho causato un piccolo disagio per la partenza,” dissi. “Ed io le ho preso il posto,” rispose lei con un sorriso. Era come si vedeva in televisione, sempre sorridente, ma anche agguerrita. Poco dopo, chiusero il portellone e l’aereo si mosse, il rullaggio, il decollo e in breve fummo in quota. Guardavo fuori dal finestrino, stavamo attraversando la Manica, più in basso volava un aeroplano con rotta perpendicolare rispetto alla nostra.
Aprii il mio libro: “E pare, Menesseno, che sotto molti punti di vista veramente sia bello morire in guerra. Infatti, anche se chi muore è un povero, gli tocca una bella e magnifica sepoltura, e se è un incapace, gli tocca comunque un elogio pronunciato da uomini sapienti che non parlano a braccia, ma che hanno preparato i discorsi da molto tempo; essi tessono le lodi tanto bene che, mentre dicono di ciascuno le qualità che ha e anche quelle che non ha ricamando con le parole più belle, incantano le nostre anime, elogiando in tutti i modi la città, i morti in guerra e i nostri progenitori tutti che ci hanno preceduti, e lodando noi che siamo ancora vivi; tanto che anch'io, Menesseno, per le loro lodi mi sento veramente nobile e ogni volta mi ritrovo ad ascoltarli rapito, mentre ritengo all'istante di essere divenuto più grande, nobile, virtuoso. Accade spesso, poi, che mi seguano e stiano ad ascoltare con me alcuni stranieri, di fronte ai quali divento all'istante più venerabile; poiché mi sembra che anche loro siano presi dallo stesso sentimento verso di me e verso il resto della città, ritenendola di maggior meraviglia che non prima, persuasi da chi parla. E lo stesso sentimento di venerabilità rimane in me per più di tre giorni; il discorso flautato e il suono della voce di chi parla penetra nelle orecchie, tanto che a stento il quarto o il quinto giorno mi ricordo di me e mi rendo conto di essere sulla terra, mentre fino ad allora poco mancava che pensassi di abitare nelle Isole dei beati, tanto sono abili i nostri oratori.” Chiusi il testo, Socrate si divertiva con la sua solita ironia.
Era stato il professor Marozzi ad inviarmi a Dunkerque, quando era riuscito ad ottenere dalla Scuola degli Alti Studi Militari un invito per due persone alla cerimonia commemorativa, nel cinquantenario della famosa battaglia della Seconda guerra mondiale. Marozzi è il titolare dei corsi di Retorica che si tengono presso l’Università degli Studi di Roma, nella sede distaccata di via Savoia. E Giulia Marozzi, sua figlia, era la seconda persona destinata a partecipare all’evento. Non venne, all’aeroporto l’aspettai inutilmente: “Stefani, non posso venire, rappresentami tu.” Ero in coda al gate, quando mi giunse il suo SMS, e tirai un sospiro di sollievo. Giulia era una bionda con la carnagione bianca, a prima vista faceva colpo, con quelle labbra accuratamente truccate di rosso vermiglio. Non era tanto giovane, quasi vicino ai quaranta, anche se ne dimostrava da lontano dieci quindici di meno. Io avevo avuto la ventura di osservarla da vicino, quando una volta era venuta ad assistere ad una lezione del padre, sedendo di fianco alla cattedra, di cui era destinata ad essere la succeditrice. Alla fine della lezione, le passai accanto forse intenzionalmente, mentre uscivamo, e l’occasione fu colta da Marozzi che m’invitò assieme ad altri due o tre discenti a recarci insieme a prendere il caffè. La figlia sorrideva leggermente a noi, mentre il padre cominciò a parlare di sport, precisamente di calcio. Io intervenni per mostrare il mio interesse per il ciclismo, in quei giorni si correva la Tirreno Adriatico e fra i primi in classifica c’era il pescarese Domenico Marozzi. Il professore non colse il mio accostamento, che però non era affatto malizioso. Prima di lasciarci, la figlia ci tenne a precisare che Marozzi è un cognome molto diffuso in Abruzzo, quasi a voler prendere le distanze da “mestieri” non intellettuali (ma non è così, nel ciclismo, nello sport e in ogni attività lavorativa manuale ci vuole intelligenza) e lasciare intendere che i suoi valori principali erano quelli culturali. Mens sana in corpore sano, pensai mentre mi allontanavo, e pensai inoltre che Giulia Marozzi doveva essere una gattamorta, con quelle sue movenze flessuose e quel sorriso di finto compiacimento,
che distribuiva intorno a sé. E poi Dunkerque, dove io, Stefani, dovevo rappresentarla, ma non dovevamo entrambi rappresentare il padre? Quando l’aereo decollò e raggiunse la quota, allontanandosi in direzione nord, il ricordo di Giulia Marozzi si andò sbiadendo nel tempo man mano con l’aumentare della distanza nello spazio.
Al Leicester Square Theatre di Londra si tenne una conferenza, a cui parteciparono alti gradi militari, politici e professori anglo-americani, i contenuti di molti discorsi furono decisamente evocativi, ma anche ricchi di retorica, i toni non quelli classici, ma quelli di propaganda moderna, io ero nelle ultime file. Il giorno precedente c’era stata la cerimonia commemorativa a Dunkerque ed anche lì ero nelle ultime file. L’unica nota interessante da me appresa fu che in quella località, Sant’Eligio, nel VII secolo, aveva fondato una chiesa, da cui il nome della cittadina: Dunkerque, la “chiesa” sulle “dune”, la cattedrale nella sabbia.
LA MAESTRA DI RETORICA
“Menesseno?” Sono rimasto un istante interdetto, quindi ho risposto: “Sì, sono io.” Lei, l’onorevole Ludovica Barboni, si è messa a ridere, ma ha smesso subito. Sarei insincero, se dicessi che non l’avevo notata seduta in prima fila accanto al suo capopartito, il senatore Giovannini, un uomo calvo, con gli occhiali, una grande barba. Ero andato alla presentazione del libro di Vincenzo Sabatini: “Retorica e Politica. L’arte della persuasione da Gorgia di Lentini al linguaggio pubblicitario della modernità.” Il convegno si teneva a Roma, nel Salone degli affreschi dell’Accademia dei Cavalieri d’armi di via del Seminario. Era stato Marozzi, sempre lui, che mi aveva obbligato ad andare, mannaggia a lui! Perché ho imprecato? Male ne abbia ovvero male ne aggia! Perché dovevo trovare un capro espiatorio a certe mie sfortune e ho individuato in Marozzi la figura appropriata del nemico da battere. Non c’era la figlia Giulia, salita in cattedra, come “maestra di retorica”, a tenere un discorso sull’arte oratoria? Il suo intervento consisteva nel modello di una commemorazione funebre dei caduti in guerra. Buona parte del discorso si basava sull’impianto dell’orazione funebre del “Menesseno” di Platone, una bozza da me preparata e da Marozzi passata alla figlia, che l’aveva rimaneggiata e completata, in verità solo qualche ritocco.
“Signori, nella nostra celebrazione funebre, il nostro discorso dovrà incominciare dai morti. Nel loro ultimo viaggio i nostri caduti hanno già avuto nello svolgimento dei solenni funerali gli onori dovuti, accompagnati ufficialmente dai rappresentanti delle istituzioni e dai cittadini confluiti in lunghi cortei, e privatamente dai loro familiari. Ma proprio con un discorso, come prescritto dal dovere e dalla legge, bisogna rendere il resto dell'onore agli uomini valorosi. Perché con un discorso ben ordinato nasce in chi ascolta il ricordo di belle azioni e onore per chi le ha compiute. Occorre quindi un discorso tale che intessa degnamente le lodi dei defunti e che dolcemente ammonisca quelli che sono vivi, da un lato esortando figli e fratelli ad imitare la virtù dei morti, dall'altro confortando padri, madri e gli avi, se sono ancora vivi. Quale discorso, dunque, può avere per noi tali requisiti? Oppure, da dove sarebbe corretto incominciare, dovendo lodare uomini buoni, che da vivi allietarono i loro cari con la loro virtù e offrirono la loro morte in cambio della salvezza dei vivi? A me sembra che si debba lodarli secondo natura così come per natura sono stati buoni; e sono stati buoni perché creati da uomini buoni. Lodiamo dunque per prima cosa la loro buona nascita, e per seconda l'allevamento e l'educazione; dopodiché dimostreremo come la condotta del loro agire sia apparsa bella e degna della loro nascita e della loro educazione. Fondamento della loro buona nascita è stata l'origine degli antenati, che, non essendo straniera, ha fatto sì che i figli, in questo paese, non fossero dei metechi provenienti da fuori, ma autoctoni e viventi e abitanti realmente in patria, e che fossero allevati non da una matrigna, come gli altri, ma da una madre, la terra in cui abitavano, e che ora possano giacere, morti, nei luoghi familiari di colei che li ha generati, nutriti, accolti. La prima cosa da fare e la più giusta è quindi ricoprire di onori una tale madre, perché in questo modo viene celebrata contemporaneamente la loro buona nascita. Il nostro paese è degno di essere lodato da tutti gli uomini, non solo da noi, per molti e svariati motivi, di cui il primo e più importante è che gli è toccato essere il cuore della rappresentanza divina sulla terra, e allora come può essere giusto che l'intera umanità non lodi la regione che proprio la divinità ha prediletto?”
Era una riproduzione quasi fedele del brano introduttivo recitato da Socrate, che l’aveva sentito dalla sua maestra di retorica, Aspasia di Mileto, la favorita di Pericle. Poi, Giulia Marozzi aveva seguito il mio testo, rievocando la storia millenaria di Roma, che aveva esteso il suo imperium nel Mediterraneo, nel Nord Africa, in Asia Minore, e in tutta l’Europa occidentale e settentrionale. Aveva anche parlato delle numerose vestigia imperiali, di cui è rimasta traccia nei tanti luoghi d’Occidente ed Oriente, a testimonianza della grandezza imperitura di Roma, se ancora oggi file inesauribili di turisti affluiscono in questi siti archeologici patrimonio dell’umanità. Iniziò quindi un percorso che la portò dal Colosseo, passando per l’arco di Druso di Spoleto, all’anfiteatro di Verona, poi all’Augusta Pretoria ovvero Aosta, la Roma delle Alpi, scendendo in Provenza, alla Maison Carrée di Nîmes, uno dei templi meglio conservati, come quello di Bacco, in Libano, e il Pantheon di Roma. Proseguì per la Spagna, sulla via Heraclea, fermandosi all’anfiteatro di Tarraco, l’odierna Terragona, sul Mediterraneo, quindi risalì in Castiglia, all’acquedotto di Segovia, spingendosi poi in Estremadura, al teatro romano di Mérida. Da qui, puntando su Cordova, ritornò sul tracciato della via Augustea dell’Hispania romana, che si snoda dai Pirenei a Cadice. Attraversò lo stretto di Gibilterra e approdò in Marocco, puntando all’interno, a nord di Meknès, su Volubilis, dove si ammirano i resti imponenti della Basilica romana, quindi superò la frontiera con l’Algeria, dove ebbe modo di stigmatizzare l’inglorioso degrado, in cui versavano i siti archeologici delle antiche città romane. Sembrò risollevarsi, quando entrò in Tunisia, ricordando il mezzo millennio sotto l’Impero Romano, quindi si avventurò tra le rovine dell’antica Cartagine, per lodare le splendide architetture delle Terme di Antonino affacciate sulla baia di Tunisi. Parlò del tempio di Saturno, le Terme dei Ciclopi e l’arco di trionfo di Settimio Severo a Thugga, quindi finì con l’imponente anfiteatro di El Jem, un Colosseo in terra africana.
Giulia Marozzi tacque, abbassò lo sguardo sul leggio. Durante la sua escursione dall’Italia in Francia, Spagna e Nord Africa, aveva citato non dico a memoria, ma quasi, tutte le meraviglie dei siti archeologici romani sparsi negli Stati mediterranei, spesso guardando verso la prima fila, dove erano seduti Giovannini al centro, a fianco da una parte il padre, dall’altra Sabatini e più di lato con altri anche Ludovica Barboni. E guardando a quelli, verso cui guardava l’oratrice, mi venne in mente il suo messaggio, mentre ero in partenza all’aeroporto di Fiumicino: “Stefani, non posso venire, rappresentami tu.” E lei era partita con Giovannini, Sabatini e il padre in un viaggio culturale, forse anche una crociera in Spagna, Marocco, Algeria e Tunisia. E adesso, tornata a Roma, veniva a raccontarci le avventure del suo viaggio. Il professor Sabatini la guardava con grande attenzione, Giovannini ogni tanto si distraeva, notai che Ludovica Barboni più di una volta aveva mascherato qualche sbadiglio.
“Roma aveva esteso il suo imperium nel Mediterraneo, nel Nord Africa, in Asia Minore, in tutta l’Europa occidentale e settentrionale, la nostra storia è la storia della civiltà romana.” Giulia Marozzi così riassunse, poi sulla mia scia, rientrò nella traccia del “Menesseno”, quando Socrate, conclusa la storia di Atene, riprende l’orazione, così come diceva di averla sentita da Aspasia di Mileto.
“E così le imprese di cui ho parlato, compiute dagli uomini che qui giacciono e da quanti altri sono morti per il bene della patria, sono molte e belle, ma ancora più numerose e belle sono quelle che ho tralasciato: molti giorni e molte notti non sarebbero infatti sufficienti a volerle narrare tutte. è necessario, dunque, per mantenerne vivo il ricordo, che ciascuno esorti i figli dei morti, come in guerra, a non abbandonare il posto degli antenati e a non indietreggiare cedendo alla viltà. Io in persona dunque vi esorto ora, figli di uomini valorosi, a porre ogni impegno nell'essere quanto più possibile valorosi; e in ogni futura occasione, imbattendomi in uno di voi, vi ricorderò ed esorterò a fare lo stesso. Nella situazione presente è giusto che io vi dica ciò che i padri ci hanno raccomandato di riferire a coloro che di volta in volta restavano, nel caso capitasse loro qualche sventura, quando stavano per affrontare il pericolo. Vi dirò allora ciò che ho ascoltato da loro in persona e che vi direbbero con piacere ora, se lo potessero, basandomi su ciò che allora dicevano. Ma bisogna immaginare di ascoltare da loro in persona ciò che vi riferisco. Dicevano dunque quanto segue: – Figli, che voi siate stati generati da uomini valorosi, lo dimostra la circostanza presente. Nonostante potessimo vivere ignobilmente, abbiamo scelto di vivere nobilmente piuttosto che gettare voi e i vostri discendenti nella vergogna e disonorare i nostri padri e tutti i nostri predecessori: pensiamo infatti che non è vita quella di chi disonora i suoi, e che una persona simile a nessuno è cara, né tra gli uomini né tra gli dèi, né sulla terra né, una volta morto, sotto terra. È necessario, dunque, memori delle nostre parole, fare con coraggio qualsiasi altra cosa decidiate di fare, sapendo che, se manca questo, ogni possesso ed ogni attività sono vergognosi e cattivi. Perché la ricchezza non produce bellezza in chi ne è entrato in possesso con viltà - perché un tale uomo è ricco per un altro uomo ma non per sé stesso - né bellezza e forza fisica sono adatte a vivere in un corpo vile e malvagio, ma appaiono stridenti: mettono maggiormente in evidenza chi le possiede, e ne mostrano la viltà. E anche tutta la scienza, se è separata dal sentimento di giustizia e dalle altre virtù, appare astuzia, non sapienza. Per questo cercate sempre e continuamente di mettere tutto l'impegno, per quanto possibile, nel superare noi e gli antenati in gloria. Altrimenti sappiate che, se noi vi vinceremo in virtù, la vittoria ci porterà vergogna, mentre la sconfitta, se perderemo, ci porterà felicità. Noi saremo vinti e voi vincerete soprattutto se vi disporrete a non abusare della fama dei predecessori e a non distruggerla, con la consapevolezza che, per un uomo che crede di valere qualcosa, non c'è nulla di più vergognoso che vedersi stimato non per le proprie qualità, ma per la gloria dei suoi antenati. Perché gli onori dei genitori sono per i figli un tesoro bello e magnifico; ma usare un tesoro di beni e di onori senza tramandarlo ai figli, per mancanza di beni e di glorie acquistate di persona, è vergognoso e da vigliacchi; e se vi sarete occupati di queste cose giungerete da noi amici tra amici, quando il destino a voi assegnato vi porterà qui. Nessuno invece vi accoglierà con benevolenza se non vi siete presi cura di voi stessi e siete stati vigliacchi. Questo dev'essere detto ai nostri figli.” Giulia Marozzi tacque poi riprese a leggere il testo del “Menesseno”.
“Quanto ai nostri padri e alle nostre madri, è sempre necessario incoraggiarli a sopportare il più tranquillamente possibile la sventura nel caso dovesse capitare; e non lamentarci insieme a loro - non avranno infatti bisogno di qualcuno che dia loro ulteriore dolore: basterà la sorte a procurarglielo -, ma consolandoli e calmandoli. Essi si auguravano che i loro figli divenissero non immortali, ma buoni e onorati, e questi, che sono i beni più grandi, li hanno ottenuti. Non è facile che a un uomo mortale nella propria vita riesca tutto secondo la sua volontà; e sopportando le sventure da veri uomini, crederanno veramente di essere padri di figli coraggiosi, cedendo invece faranno nascere il sospetto di non essere nostri padri, oppure che coloro che ci lodano mentono. Bisogna che non si verifichi nessuno dei due casi, anzi è necessario che soprattutto loro ci lodino con i fatti, mostrando di essere veri uomini, padri di veri uomini. Fin dall'antichità sembrava bello il detto niente di troppo: e in realtà è un bel detto. Perché qualsiasi uomo si affidi a sé stesso per tutto quanto porta alla felicità o vicino ad essa, e non dipenda da altre persone che con il loro comportamento, di volta in volta buono o cattivo, costringano anche lui all'incertezza, costui ha predisposto la sua vita nel modo migliore, questo è l'uomo saggio, questo l'uomo valoroso e prudente; egli, sia con l'acquisto che con la perdita di ricchezze e di figli, obbedirà soprattutto al proverbio, mostrandosi non troppo gioioso né troppo addolorato, perché ha confidato in sé stesso. Ma tali noi riteniamo e vogliamo che siano i nostri, tali diciamo che sono, e anche noi stessi ci mostriamo così oggi, senza essere turbati né avere paura di morire, se necessario, anche subito. Preghiamo dunque i nostri padri e le nostre madri di trascorrere il resto della vita con questa stessa persuasione e convincimento: che né con i lamenti né compiangendoci ci faranno cosa gradita; al contrario, se i morti hanno qualche percezione dei vivi, i nostri genitori non sarebbero assolutamente graditi sopportando le sciagure a malincuore, lo sarebbero invece sopportandole con mitezza e misura. Quanto a noi, avremo presto la morte più bella che possa esserci per gli uomini, tanto che conviene onorarla piuttosto che lamentarsene. Ma occupandosi delle nostre donne e dei nostri figli, mantenendoli e rivolgendo qui il loro pensiero, potranno dimenticare al meglio la loro sorte e vivere in modo più bello, retto e a noi caro. Questo basterà annunciare ai nostri da parte nostra. Alla patria raccomanderemmo di prendersi cura dei nostri padri e dei nostri figli, educando convenientemente questi, assistendo degnamente gli altri nella vecchiaia. Ma ora sappiamo che anche senza le nostre raccomandazioni se ne prenderà cura in modo adeguato. – Questo, dunque, o figli e genitori dei morti, essi ci hanno raccomandato di annunciare e io lo annuncio con tutto l'ardore possibile. Personalmente poi, a nome loro, chiedo ai figli di imitare i loro padri e ai padri di non temere per sé stessi, perché noi vi assisteremo nella vecchiaia e ci prenderemo cura di voi sia privatamente che pubblicamente, ogni volta che uno di noi incontrerà un familiare dei defunti.
Voi stessi forse conoscete la sollecitudine della città, sapete che si prende cura di voi emanando leggi per i figli e per i genitori dei morti della nostra patria e, più che per gli altri cittadini, ha ordinato alla più alta magistratura di vegliare affinché i padri e le madri dei morti non subiscano ingiustizia. Quanto ai figli essa li alleva in comune, preoccupandosi per quanto è possibile che non risentano della loro condizione di orfani e assume il ruolo di padre finché sono ancora ragazzi, ma una volta adulti, li rimanda in famiglia ornati di un'armatura completa, per mostrare e ricordare la condotta del padre con il dono degli strumenti della virtù paterna, e insieme con il buon augurio che ciascuno ornato con le armi vada a reggere con forza il focolare paterno. Essa poi non tralascia mai di onorare i morti e celebra ogni anno per tutti pubblicamente le esequie che per ciascuno vengono celebrate privatamente, istituendo gare di ginnastica, di ippica e di musica di tutti i generi; semplicemente nei confronti dei morti si assume il ruolo di erede e di figlio, di padre verso i figli e di tutore verso i genitori, e garantisce a tutti ogni tipo di assistenza, per sempre. E, riflettendo su questo, bisogna sopportare con mitezza la sventura. Perché in questo modo sarete quanto più possibile graditi sia ai morti che ai vivi e, più facilmente, conforterete e sarete confortati. Ormai è ora che voi e tutti gli altri, dopo aver compianto i morti pubblicamente com'è usanza, ve ne andiate.”
La maestra di retorica aveva concluso, tutti applaudirono. Quindi prese la parola il professor Sabatini, dopo la sua relazione, il convegno ebbe termine e tutti si alzarono, muovendosi intorno alla sala. Si erano formati dei capannelli, andai verso il banco, per comprare una copia del libro, ma sarebbe meglio dire che mi ero diretto verso la prima fila dove c’era quella deputata del partito di Giovannini, che avrebbe incrociato per un breve tratto la mia vita. Infatti, non avevo nessuna intenzione di spendere soldi, sempre pochi quelli che avevo, e Ludovica Barboni riuscì ad evitarmi quella spesa, subito bloccandomi: “Menesseno?” “Sì, sono io.” Lei rise. “Eravamo insieme su quel volo da Londra del maggio scorso” dissi. Lei assentì. Mi aveva chiesto di prestarle il testo di Platone, che aveva incuriosito il suo compagno, seduto alla sua destra e a cui l’aveva passato. Dopo, quando me lo restituì, diede prima un’occhiata al titolo.
“È venuto per la politica, immagino,” disse. “In verità, per la retorica,” risposi. “Quella bionda, con gli occhi verdi,” commentò ridendo. “No, quella con i capelli neri e gli occhi celesti.” “E allora è la politica.” Estrasse dalla borsetta un biglietto da visita e lo tese verso di me. “Sono fiduciosa,” disse in fretta, prima di andarsene assieme a Giovannini, che le aveva lanciato uno sguardo molto espressivo.
QUASI UN OLOGRAMMA
Era in piedi, accanto alla vetrata e ogni tanto lanciava un’occhiata giù, prima di voltarsi verso di me. “Sembri il commissario Maigret, quando venne qui a New York a fare un’indagine,” dissi ridendo. Ludovica Barboni, che stava guardando in basso, si volse dalla parte mia, aveva un’espressione seria, quasi triste: “Io l’amo,” disse. Maigret? stavo per domandarle, ma subito compresi che la domanda era fuori luogo, vista la sua espressione. “Come?” interrogai. “Io l’amo,” ripeté, ora aveva l’aria decisamente triste. Guardò giù dalla vetrata del grattacielo, stavamo oltre il quarantesimo piano. Pensai che il presente è più forte di qualsiasi passato o futuro. “Chi ami?” Mi guardò: “Enrico Marramao.” Tornò a dare un’occhiata in basso. Ero seduto in mezzo al letto con la schiena appoggiata su un cuscino, messo contro la spalliera. Enrico Marramao era un collega che frequentava i corsi alla Scuola di retorica di Marozzi. Balzai giù e mi avvicinai alla vetrata, e in quel momento anch’io diedi un’occhiata in basso verso gli omini e le automobiline in movimento sulla strada, uno spettacolo inconsueto per chi non è abituato a Manhattan e ai grattacieli. “E allora?” dissi, fissandola. Sostenne il mio sguardo, senza replicare. “Dobbiamo andar via,” dissi. Esitò, prima di muoversi: “Come vuoi.” Si staccò dalla vetrata e andò al centro della stanza: “Preparo la valigia.” Mi mossi dalla vetrata e andai verso il bagno, mi fermai: “Vuoi andare prima tu?” Lei alzò le spalle e andò verso l’armadio per prendere biancheria e vestiti.
Avevamo fatto un bel programma: tre giorni a New York, l’escursione a Washington, quindi le cascate del Niagara, il lago Michigan, Chicago, il ritorno a New York e il volo per Roma. E adesso pover’uomo? Fine anticipata del soggiorno americano: Ludovica Barboni amava Enrico Marramao e non me, Vito Stefani. Era accaduto tutto così in fretta, in maniera così impreveduta e improbabile. Che cosa?
(Segue)
QUASI UN OLOGRAMMA
Era in piedi, accanto alla vetrata e ogni tanto lanciava un’occhiata giù, prima di voltarsi verso di me. “Sembri il commissario Maigret, quando venne qui a New York a fare un’indagine,” dissi ridendo. Ludovica Barboni, che stava guardando in basso, si volse dalla parte mia, aveva un’espressione seria, quasi triste: “Io l’amo,” disse. Maigret? stavo per domandarle, ma subito compresi che la domanda era fuori luogo, vista la sua espressione. “Come?” interrogai. “Io l’amo,” ripeté, ora aveva l’aria decisamente triste. Guardò giù dalla vetrata del grattacielo, stavamo oltre il quarantesimo piano. Pensai che il presente è più forte di qualsiasi passato o futuro. “Chi ami?” Mi guardò: “Enrico Marramao.” Tornò a dare un’occhiata in basso. Ero seduto in mezzo al letto con la schiena appoggiata su un cuscino, messo contro la spalliera. Enrico Marramao era un collega che frequentava i corsi alla Scuola di retorica di Marozzi. Balzai giù e mi avvicinai alla vetrata, e in quel momento anch’io diedi un’occhiata in basso verso gli omini e le automobiline in movimento sulla strada, uno spettacolo inconsueto per chi non è abituato a Manhattan e ai grattacieli. “E allora?” dissi, fissandola. Sostenne il mio sguardo, senza replicare. “Dobbiamo andar via,” dissi. Esitò, prima di muoversi: “Come vuoi.” Si staccò dalla vetrata e andò al centro della stanza: “Preparo la valigia.” Mi mossi dalla vetrata e andai verso il bagno, mi fermai: “Vuoi andare prima tu?” Lei alzò le spalle e andò verso l’armadio per prendere biancheria e vestiti.
Avevamo fatto un bel programma: tre giorni a New York, l’escursione a Washington, quindi le cascate del Niagara, il lago Michigan, Chicago, il ritorno a New York e il volo per Roma. E adesso pover’uomo? Fine anticipata del soggiorno americano: Ludovica Barboni amava Enrico Marramao e non me, Vito Stefani. Era accaduto tutto così in fretta, in maniera così impreveduta e improbabile. Che cosa?
Avevo pagato il conto in hotel e siamo scesi sulla via, diretti alla Stazione Centrale, stavamo risalendo la sesta Avenue, per arrivare alla quarantaduesima strada, all’angolo ho svoltato deciso, Ludovica Barboni era rimasta un po' indietro. Arrivato all’ingresso del Grand Central Terminal, mi sono voltato indietro per vedere dove fosse finita la mia compagna, aspettai un po' irritato, poi tornai indietro a cercarla, non la vidi. All’altezza della Biblioteca pubblica mi fermai, temendo di averla incrociata senza essermene accorto, proseguii per la Sesta Avenue, quando la vidi venirmi incontro, camminava molto lentamente senza bagaglio, ma in verità sembrava scivolare come su un’onda, un’immagine indistinta. Si era fatta sera e si accesero le luci, ora vidi che era ferma, ma sempre oscillante come su un onda, mi guardava senza parlare. “Vai, io non ti posso seguire.” Chi aveva parlato? Mi guardai intorno, per capire se tutto oscillasse, oppure se era una mia impressione. Un autista di colore con la livrea grigia e la tuba sostava accanto a una limousine, alzai lo sguardo ai grattacieli, non oscillavano, tornai a guardare la figura di Ludovica Barboni. “Vito, non posso venire con te, io sono morta.” Trasalii, colto dallo sgomento, volsi lo sguardo e vidi alcune ragazze in abito da sera che avanzavano ridacchiando, l’ultima nel sentirsi osservata, con mossa tipicamente femminile, tirò su la scollatura del vestito, che scivolava sul petto. Guardai di nuovo verso il fantasma, mi fissava immobile, lievemente ondeggiante, quasi un ologramma. Mi voltai bruscamente e presi a camminare velocemente lungo la quarantaduesima strada, per raggiungere la stazione ferroviaria. Dovevo andare a Washington e dovevo affrettarmi per non perdere il treno, mi sembrava tutto così irreale.
Quando sono tornato in Europa e sono sbarcato a Roma, sono stato colpito dalla luce mediterranea, era anche l’effetto di quell’atmosfera d’ombra provocata dai grattacieli di Manhattan. Ludovica Barboni era morta, era volata giù da una finestra sigillata di un piano elevato del Palazzo di vetro dell’ONU sulla quarantatreesima strada, mi sembra ancora di sentire il suono delle sirene della polizia e dell’ambulanza e il vocio della folla. Qualcosa però nella mia testa non funzionava, era come se nel ricordo le scene si fossero alterate nelle loro sequenze e ne veniva fuori un disordine di idee, che non riuscivo a sistemare razionalmente. Dovevo riavvolgere il filo del gomitolo della mia storia e svolgerlo di nuovo dall’inizio, ricordare i primi momenti. Comincio dalla telefonata, ma dovrei andare più indietro, ci andrò.
“ – Pronto? – Sono Stefani. – Ciao, Stefano, come stai? – Sono Stefani, sto bene.” La risatina, poi il commento: “– Ho capito, Stefani, stai bene. – Sì. – Bravo!” Mi chiese se ero sempre interessato alla politica, risposi di sì, poi mi corressi e dissi di no, ero interessato agli occhi celesti e ai capelli neri. – Un po' anche alle politica, però. – Perché?” Ricordò il mio primo approccio: “Scusi, onorevole.” Questa volta me la cavai bene nella risposta, così pensavo: “Il primo amore non si scorda mai,” dissi. “Te l’avevo detto!” esclamò. L’ambiguità rimaneva. Ci mettemmo d’accordo, sarei andato a trovarla al suo paese in Lombardia, un piccolo centro in provincia di Varese. Mi venne a prendere alla stazione, era domenica mattina, una mattinata insieme, nel pomeriggio ero già a Malpensa. Poi ci vedemmo e frequentammo a Roma, dove veniva per i suoi impegni in parlamento. Infine, dopo alcuni mesi, mi decisi e dissi: “Devo andare in America, è un viaggio, a cui pensavo da tempo.” Ovviamente pensavo a New York. “Voglio venire anch’io,” disse. “Immagino che ci sei già stata.” Pensavo a Giovannini, Sabatini e anche alla Marozzi. “No, mai,” disse.
Per me quel viaggio era importante, voglio dire decisivo, vi impegnavo tutte le mie risorse economiche, il gruzzolo della piccola liquidazione ricevuta in Francia, dove per alcuni anni, avevo fatto l’aiutante necroforo, nel servizio dei cimiteri della città di Parigi. Il mio viaggio in America con Ludovica Barboni era un viaggio di nozze, a cui arrivavamo abbastanza preparati nei nostri rapporti. Era stata lei a sgombrare il campo dalla parte sua, dicendo che ormai era parte del suo passato l’amico giornalista e scrittore, corrispondente di guerra in varie parti del mondo. Era il suo compagno in quel volo da Londra, quello che le aveva chiesto di dare un’occhiata al mio libro. Quando partimmo, io ero molto emozionato e felice, la sua verità infelice Ludovica Barboni l’aveva sepolta dentro di sé. E poi riemerse, quando io avevo alluso a Maigret nella stanza dell’hotel del grattacielo di New York.
In seguito ho giocato molto con le parole facenti parte della costellazione semantica, riferita al termine latino ludus, gioco: illudere, deludere, alludere, eludere, colludere. Io ero l’illuso, colui che era entrato nel gioco (in-ludere), poi rimasto deluso, uscito dal gioco (de-ludere), quando avevo alluso ad altri da aggiungere al gioco (ad-ludere). Ludovica Barboni aveva eluso, uscendo dal gioco (ex-ludere), nel quale era collusa con altri (cum-ludere). I miei altri erano un personaggio immaginario, Maigret, i suoi altri erano persone reali, l’amico giornalista, Enrico Marramao e chissà altri. Ma non ero anch’io uno dei suoi altri? Ecco qui mi imbrogliavo: vedi, mi dicevo (ormai parlavo da solo), questo tuo gioco, ludus, è finito male, e i tuoi ameni giochi linguistici non alimentano nessuna festa del linguaggio, tendente a respingere dalla coscienza l’infelice tuo stato psichico. Non riesci a scacciare dalla tua mente quei pensieri, che vengono fuori, trascinando con sé nella danza di follia di un vuoto irrazionale anche la mente, rendendoti de-mente. Così ragionavo o sragionavo, arrampicandomi sulla parete liscia di queste mie parole, da cui regolarmente subito scivolavo via, precipitando di nuovo nel mio abisso.
E allora l’interrogativo: Enrico Marramao? Dovevo ricominciare da lui, se volevo sbrogliare i nodi di quella improbabile vicenda e ricostruire il percorso psichico della mia defunta compagna, il pallido fantasma della quarantaduesima strada di Manhattan, dove si era consumata la mia East Side Story.
Alla fine dei corsi, l’anno prima, Marramao aveva conseguito il titolo di Rhetor Magister. Era poi entrato subito in politica, eletto nella circoscrizione calabro-lucana, come deputato nel partito di opposizione a quello dell’on. Giovannini, comparendo spesso nei dibattiti televisivi, in uno dei quali l’avevo visto disputare con Ludovica Barboni. Enrico era romano, ma i genitori erano calabresi, emigrati prima in Australia e poi rientrati in Italia. A Roma, nella zona dei Castelli, gestivano una trattoria, nella quale eravamo andati diverse volte a mangiare noi frequentatori del corso. Una volta era venuto anche Marozzi accompagnato dalla figlia e dal suo assistente, il professor Villani, docente di filosofia del linguaggio. Qui, devo dire che la scuola di retorica di via Savoia, anche se ufficialmente succursale dell’Università di Roma, era in effetti un feudo di Marozzi, che come vassallo rispondeva al suo referente politico Giovannini. Riesco a schematizzare questa situazione politico-sociale, seguendo i discorsi di Marramao, che in questo aveva le idee chiare. Egli vedeva nell’alleanza tra il leader politico Giovannini e il cavaliere Arrigoni, grande patron dell’industria farmaceutica, l’eredità storica del patto unitario dell’Italia del 1861 tra la grande industria del nord e il predominante potere agrario dei latifondisti del sud. Io traevo ora da questa visione le mie conclusioni particolari: Ludovica Barboni, al seguito di Giovannini, aveva avuto dei contatti con la scuola di Marozzi, dove aveva conosciuto e si era innamorata di Enrico, che però non aveva corrisposto. Penso tenesse di più alla sua fede politica, questo perché una volta una sorridente Ludovica mi aveva detto: “Stefani, tu non sei come i tuoi compagni di studi, più interessati a comandare che a lasciarsi andare ai loro sentimenti privati.” L’allusione era ad Enrico, ma io allora non avevo capito, perché allora non sapevo, non potevo immaginare che lei si sarebbe concessa a me per ribellione. E come avrei potuto? L’interessato è sempre l’ultimo a saperlo. E adesso pover’uomo? Comunque la trama del romanzo di Hans Fallada non aveva niente a che fare con la mia condizione, mi ero appropriato soltanto del titolo.
Alla fine decisi, dovevo scrivere un breve sommario di queste mie ultime vicende personali e poi recarmi a Parigi da Madame Sophie Orschviller, psicanalista, con studio in Rue de Trévise, nel IX Arrondissement, di cui avevo sentito molto parlare durante il mio soggiorno nella capitale francese, quando facevo il necroforo.
MAIGRET [Nota fuori testo]
Devo spiegare l’allusione al commissario Maigret. Anni fa, avevo letto un libro di Simenon: “Maigret in America”, dove veniva descritta la scena del commissario, che mentre parlava con un interlocutore nel piano alto di un grattacielo, ogni tanto dava uno sguardo in basso sulla strada, colpito dallo spettacolo di omini e automobiline in strada. E allora mi sono ricordato che questa era stata la mia stessa impressione, quando mi ero recato la prima (e unica) volta a New York, ed avevo alloggiato in un piano alto di un grattacielo di Manhattan. Nella storia di finzione, Vito Stefani allude a questa circostanza, un’impressione che coglie un po' tutti, come me e Simenon, la loro prima volta a Manhattan, nel piano alto di un grattacielo. Ma sono fantasmi irreali (Maigret) gli altri del suo gioco, quello schematizzato nella costellazione semantica del termine “ludere”, e nella finzione sono reali gli altri di Ludovica Barboni, a cominciare da Marramao. Ho cercato di spiegare la confusione mentale di Vito Stefani, ma capisco che tale confusione è contagiosa: lasciamo perdere, è meglio.
LA PSICANALISTA
Avevo mandato un e-mail, chiedendo un rendez-vous, mi arrivò la risposta un’ora dopo, con l’indicazione dell’Iban su cui versare l’anticipo di duecento euro e la preghiera d’inviare i miei dati personali e un’eventuale cartella clinica, relativa alla mia malattia mentale. Risposi che non ero mai stato in cura prima d’allora e che giudicavo il mio disturbo come un principio di sdoppiamento della personalità, pur senza esserne pienamente convinto. In verità, quello che mi premeva confidare era l’episodio del mio incontro con il fantasma della defunta Ludovica Barboni nella 42esima strada. Era stata un’allucinazione oppure si era trattato di un fatto reale? Forse la psicanalista poteva aiutarmi a risolvere il dubbio.
Io devo dire che dal momento di quell’incontro e della mia fuga da New York, non ero riuscito a stabilire quanto tempo dopo fosse accaduto l’incidente, di cui lei era rimasta vittima. E se invece fosse accaduto prima? Infatti, come faceva ad essere morta in quel breve spazio di tempo in cui avevamo lasciato l’hotel, per andare alla Stazione Centrale? Ecco, era come se l’intervallo temporale si fosse dilatato in uno spazio più lungo di quei dieci quindici minuti, magari un giorno o due, forse una settimana o più. O forse lei, ancora viva, nell’occasione, mi aveva comunicato un proposito suicida. In seguito avevo sognato quell’incontro: “Vai avanti, Stefano, non tornare indietro, tu devi diventare Rhetor Magister. È il tuo avvenire, io non potrò stare al tuo fianco, sono morta, Stefano.” Da sveglio mi dissi che mi aveva chiamato Stefano e non Stefani, come la prima volta. Quanto tempo era passato da allora? E quello spettacolo ai piedi del Palazzo di vetro, il suono delle sirene della polizia e dell’ambulanza e il vocio della folla? Una mia fantasia oppure il ricordo di un fatto di cui ero stato testimone? Testimone come?
Lo studio della psicanalista si trovava al primo piano di uno stabile, sopra una panetteria. Suonai alla porta e allo scatto spinsi avanti l’anta che si era socchiusa. Nella sala d’attesa c’era un bancone, dietro cui stava una segretaria, una bionda con gli occhiali sulla cinquantina. Entrando, avevo notato che su un divano era seduto un uomo alto, con i capelli rossicci e su una sedia più distante una donna dall’aspetto abbastanza dimesso. Credevo di dover aspettare il mio turno, dopo aver riempito un modulo con i miei dati, invece dalla porta interna uscì un uomo in camice bianco sulla quarantina, che mi invitò ad entrare, per una visita preliminare. Si era seduto su una sedia di fronte a quella su cui mi aveva fatto accomodare e si dispose ad ascoltarmi. Raccontai della mia passata esperienza di necroforo, al servizio della città di Parigi, e di come avessi saputo in quegli ambienti di Madame Orschviller. Quindi, avendo avuto sentore di alcuni sintomi di squilibrio psichico, avevo pensato di rivolgermi al loro studio. Il medico mi ascoltò attentamente e quando smisi di parlare, disse che lui era stato più volte in Italia e quindi capiva anche la lingua italiana. Poi aggiunse che doveva sottopormi a una prova e mi chiese di riassumere la mia vicenda. Raccontai del mio primo incontro con Ludovica Barboni, del fidanzamento successivo, del nostro viaggio a New York, dell’improvvisa rottura per la rivelazione che lei amava un altro, della nostra uscita insieme dall’hotel, per raggiungere la stazione ferroviaria, di come l’avessi persa di vista, e tornando indietro avevo avuto quell’incontro abbastanza irreale, e poi del mio successivo brusco allontanamento. Avevo smesso di parlare.
Il medico disse che ora doveva registrare quello che avevo detto, chiedendo il mio consenso, ed ottenutolo, mi invitò a ripetere il racconto. Questa seconda volta, aggiunsi anche l’episodio dell’incidente al Palazzo di vetro, di cui avevo saputo tempo dopo, quando ero rientrato in Europa, e di come avessi avuto la sensazione di esserne stato testimone. Tacqui e attesi. “C’est tout?” domandò. “Sì,” dissi. Il medico spense il registratore e mi invitò ad aspettare, chiedendomi di pazientare, quindi entrò nello studio di Madame Orschviller. Tornò dopo una decina di minuti e mi invitò ad entrare dalla dottoressa psicanalista, seduta dietro la scrivania, che con un cenno mi fece accomodare su una poltrona a lato, in maniera tale che se avessi parlato, non potevo vederla. Quando l’aiuto medico ci lasciò soli, dopo qualche convenevole, mi chiese se avessi fatto dei sogni. Non l’avevo detto prima, mi ero dimenticato, riferii del sogno e delle parole della defunta, la sua esortazione a proseguire gli studi per diventare Rhetor Magister. La dottoressa m’invitò a lasciare la poltrona, accennando a una sedia di fronte alla scrivania. Mi osservò per un po' senza parlare, con l’aria di chi riflette, poi emise il suo verdetto: “Monsieur Stefani, voi non siete pazzo, non siete affetto da nessuno sdoppiamento della personalità, siete sano di mente, non avete bisogno di cure. Monsieur Stefani, voi siete ancora molto innamorato della vostra compagna scomparsa.” Madame Orschviller si alzò in piedi, era di statura media, un po' grassa, più sui settant’anni che sessanta. Si avvicinò e mi congedò stringendomi la mano.
Uscendo dallo studio, il paziente rossiccio prima seduto in sala d’attesa si trovò a scendere le scale con me e facemmo un tratto di strada assieme, sembrava quasi mi accompagnasse. Incontrai più volte il suo sguardo, poi si allontanò, io raggiunsi la stazione del metrò “Cadet”, dove notai una ragazza alta, bionda, graziosa, sembrava quasi mi stesse aspettando. Infatti, quando scesi le scale, lei mi venne dietro, salendo sul convoglio nello stesso scompartimento. Scesi a Châtelet e quando presi il treno per l’aeroporto di Orly, vidi un’altra ragazza bionda simile alla prima (vestivano uguali?), che mi aspettava e salì con me sullo stesse vagone. Non mi meravigliai quando scese assieme a me, accompagnandomi fino all’entrata dell’aeroporto. Ero convinto che un’altra mi attendesse all’imbarco e infatti notai che la vigilante in divisa prestò un’attenzione particolare, quando passai attraverso il varco elettronico.
Una volta in aereo, seduto accanto all’oblò, cominciai a riflettere su quella strana compagnia, che mi aveva scortato dall’uscita dello studio di Madame Orschviller fino alla frontiera aerea, quasi ad accertare se io avessi lasciato il territorio francese.
Ai tempi del mio soggiorno, avevo subodorato che quella signora psicanalista era in contatto con la polizia, perché il suo studio era frequentato anche da pazzi criminali, ed ogni tanto avevamo seppellito anche qualche loro vittima. Nella mia vicenda mentale o meglio nella mia vita reale c’era una mia compagna defunta in circostanze non chiare. Monsieur Stefani, voi siete sano di mente. La circostanza non escludeva l’ipotesi che io potessi essere un criminale, anzi la rafforzava, in ogni caso era bene che io abbandonassi il territorio di Francia, a scanso di equivoci. L’uomo rossiccio era un ispettore di polizia e le ragazze agenti ai suoi ordini. Et voilà!
IL MISTERO DI GIOM
Quando tornai in Italia, a Roma, diventai circospetto, ma con il passare del tempo la mia condizione andò cambiando: era come se uscissi da un sogno, le cui immagini andavano sfumando. Addirittura, un po' rimpiansi di non aver preso contatto con una di quelle ragazze bionde che mi avevano accompagnato nel mio tragitto sul metrò fin dentro all’aeroporto. Ricordai che durante il mio soggiorno di lavoro a Parigi, avevo avuto modo di conoscerne alcune, ma era come se mi intimidissero, per quell’aria di strana confidenza che s’instaurava tra noi. Si stabiliva una sorta di situazione precaria che non dava spazio a progetti futuri in comune, un continuo fluire del presente, senza luoghi dove custodire ricordi o attese. Fluttuavo in un’assenza di pensieri, che non fossero quelli dell’immediatezza quotidiana. E adesso avevo perduto l’occasione di ricominciare una storia, in cui questa volta potevo riconoscermi in un mio passato, anche se privo di radici patrie. Ma queste erano riflessioni possibili solo una volta venuto fuori dalla contingenza di quelle instabili situazioni vissute repentinamente, al di fuori del proprio ambiente abituale, e quello che mi appariva possibile ora, sicuramente non era fattibile al momento.
In verità, allora, mi ero sentito scortato, ma forse non era la mia una manifestazione di una mania di persecuzione, non diagnosticata da quella spiona di una psicanalista? Che cosa ho detto? Spiona? Mi correggo: delatrice. Stefani! Eh? Non esageriamo. Ma questo parlare tra me e me non è il sintomo di uno sdoppiamento della personalità? Io forse tento d’ingannare me stesso, Madame Orschviller però ha smascherato il mio inganno: “Monsieur Stefani, voi siete sano di mente.” Avevo speso bene i miei soldi per il consulto, compreso il saldo e le spese di viaggio. Quella donna non solo aveva occhio clinico, ma era anche potente data la sua fama e le sue relazioni, non le sfuggivano i folli, ma neppure i criminali. E i sospetti?
Per venire fuori definitivamente da questa storia, mi tuffai nello studio, frequentavo assiduamente i corsi di retorica e cominciai a pensare alla tesi finale da presentare, per il conseguimento del titolo di “Rhetor Magister”. Nelle mie ricerche on-line, mi ero imbattuto, in verità non casualmente, anzi attraverso una ricerca mirata, nella tesi del collega Marramao, il convitato di pietra nella mia relazione con Ludovica Baroni. Era intitolata: “Il linguaggio retorico e la res publica”. Il suo discorso partiva dall’etimo della parola “res”, che rimanda al greco eirein parlare e al latino rhetor.
“Tutti dunque sono nati o da un dio innamorato di una mortale, o da un mortale innamorato di una dea. Se dunque tu consideri questo secondo la lingua attica antica, lo capirai meglio; ti dimostrerà infatti che dal nome di eros, 'amore', da cui sono nati gli eroi, poco si è deviato in grazia del nome. È questo appunto che significa «eroi», o perché erano saggi e retori, e abilissimi e dialettici, essendo capaci di erotan, 'interrogare'; infatti, eirein significa 'dire'. Come dunque dicevamo, quelli che sono detti eroi nella lingua attica, accade che siano alcuni dei retori e degli individui espertissimi ad interrogare, tanto che stirpe di retori e di sofisti diventa la tribù "eroica". Ma questo non è difficile da intendere; piuttosto il nome di uomini, perché mai vengono chiamati anthropoi, 'uomini': sapresti dirlo tu?”
Nel suo commento, Enrico specificava che Platone (Cratilo, 398d) sta parlando dei semidei, di cui poco prima ha indicato l’origine, come dice Socrate all’interrogante Ermogene: “ Ma heros, 'l'eroe', che cos'è poi? – Questo non è molto difficile da capire: di poco, infatti, è modificato il loro nome, mostrando la propria origine da eros, 'amore'. – Come dici? – Non sai che gli heroes, 'eroi', sono semidei?”
Dèi, demoni ossia semidei, come dire eroi, uomini: questa era la scala discendente dal cielo del divino alla terra dell’umano, percorsa da Socrate nel discorso sull’origine dei nomi. Prima del colloquio con Ermogene, egli veniva da un altro incontro, quello con Eutifrone, che lo aveva in un certo modo ispirato, avendo con lui dibattuto sul sacro. Infatti, osserva Ermogene: “In verità, o Socrate, mi sembra che ti metti a dare vaticini così all'improvviso, come quelli che sono ispirati.” E l’osservazione di Ermogene trova conferma nella risposta di Socrate: “E ho l'impressione, o Ermogene, che essa mi sia caduta addosso ad opera di Eutifrone di Prospalta. Stamane, infatti, sono stato a lungo assieme a lui e gli ho prestato ascolto. Può darsi anche che egli, così ispirato come è, non solo mi abbia riempito le orecchie della sua divina sapienza, ma che me l'abbia attaccata anche nell'anima. Mi pare dunque che sia bene fare così: per oggi servircene e continuare le ricerche sui restanti problemi riguardanti i nomi, domani poi, se anche a voi sembrerà bene, rigettarla e purificarcene, trovando qualcuno che sia capace di purgarci da tali esperienze, sia esso un sacerdote o un sofista.”
Leggendo il testo di Enrico, non so perché, venivo colto da certe mie reminiscenze, come se quel discorso in un certo modo lo avessi già udito o letto da qualche parte, in specie il riferimento al dialogo di Platone: “Eutrifone”. Nella sistemazione in nove tetralogie dei dialoghi platonici, compiuta dal grammatico Trasillo nel I sec. d.C., l’Eutifrone occupa il primo posto nella prima tetralogia. Essendo, quindi, un dialogo della giovinezza di Platone, prelude a quella che sarà poi la sorte tragica di Socrate. Infatti esso si svolge nel Portico del Re, dove Socrate incontra Eutifrone, entrambi in fila per andare dall’arconte: il primo perché accusato di empietà e corruzione dei giovani, a seguito della denuncia presentata contro di lui da Meleto; l’altro perché intende far incriminare il padre reo di omicidio nei confronti di un suo servo.
Al tema dell’Eutifrone, su che cosa sia giusto e santo, aveva alluso anche Enrico, ed era forse questo il motivo, per cui mi chiedevo se fosse un caso oppure la predisposizione di una volontà superiore, comunque un destino, questo mio incontro con il suo pensiero sul web, e vedevo l’immagine di Ludovica Barboni sulla 42esima strada, come lievemente smossa dal vento (ànemos), la sua “anima”.
Mi ero distratto e tornai al testo: “Io sono d'accordo, perché volentieri ascolterei quello che resta da dire sui nomi.” Ermogene si è detto d’accordo con Socrate, che dunque può proseguire: “Bisogna dunque fare così: da dove vuoi che cominciamo a indagare, poiché ci siamo mossi su una certa impronta, per venire a sapere se i nomi stessi ci attesteranno di non essere stati posti così a caso a uno a uno, ma di avere una loro giustezza? Ora i nomi che vengono usati per gli eroi e per gli uomini forse possono trarci in inganno: molti di essi, infatti, sono stati posti così per eponimia con quelli degli antenati, pur non confacendosi per alcuni, come dicevamo all'inizio; molti
vengono posti come buon augurio come Eutichide, 'fortunato', Sosias, 'salvatore', Teofilo, 'caro agli dèi' e molti altri. Ma a me pare che noi dobbiamo tralasciare nomi di tale fatta, mentre mi pare verisimile che noi troveremo particolarmente nomi posti con giustezza nelle cose che si trovano sempre nella stessa condizione e sono così per
natura. Conviene che qui particolarmente l'apposizione del nome sia stata realizzata con gran cura. E forse alcuni di essi furono posti da un potere più divino che umano. – Mi pare che tu dica bene, o Socrate. – Non è giusto dunque cominciare dagli dèi, per comprendere perché mai furono chiamati giustamente con questo nome di theoi? – Mi pare di sì. – Io, dunque, faccio questa supposizione: mi pare che i primi uomini che abitavano in Grecia considerassero dèi soltanto quelli che ora anche molti barbari stimano tali, e cioè il sole, la luna, la terra, gli astri e il cielo, e siccome li vedevano tutti andare sempre di corsa e correre, da questa loro natura del thein, 'correre', li chiamarono theous, 'dèi'; in seguito, riconosciute le altre divinità, le chiamarono tutte con questo nome. Ti pare che quel che dico in qualche modo si avvicini al vero oppure in niente? – Mi pare del tutto verisimile. – E che cosa dobbiamo cercare ora, dopo questo? – È chiaro: i daimones, 'demoni', gli heroes, 'eroi', e gli anthropoi, 'uomini'. – E in verità, Ermogene, cosa pensi mai voglia dire il nome daimones? Considera se ti pare che io dica qualcosa di serio. – Ebbene, dilla. – Lo sai tu quali dica Esiodo essere i daimones? – Non l'ho presente. – E neppure perché dice che la prima stirpe degli uomini era d'oro? – Questo lo so. – E dunque di essa dice: “Ma dopo che tale stirpe la Moira nascose sottoterra, daimones sacri, sotterranei essi son chiamati buoni, protettori dai mali, custodi degli uomini mortali.” – E che vuol dire? Io credo che egli chiamasse quella stirpe dorata non perché generata dall'oro, ma perché buona e bella. E ne è prova per me che dice di noi che siamo una stirpe di ferro. – Tu dici il vero. – E non pensi tu che anche oggi direbbe che appartiene a quella stirpe dorata se pure ancora ve n'è qualcuno dei buoni? – È verosimile. – E che altro sono i buoni se non intelligenti? – Intelligenti, certo. – A me dunque pare questo, che egli soprattutto li chiami daimones; poiché erano intelligenti e daemones, 'savi', li ha chiamati daimones. Anche nella nostra lingua antica ricorre in tal senso questo nome. Egli dice dunque bene e così gli altri poeti quanti dicono che un uomo realmente buono dopo la morte ottiene una grande sorte e onore e diviene daimon secondo l'eponimia della sua saggezza. Allo stesso modo ritengo anch'io che ogni uomo che sia buono sia appunto daimonios, 'divino', da vivo e da morto e che sia chiamato giustamente demone. – E anche a me pare, o Socrate; esprimerei il mio voto assieme a te. Ma heros, 'l’eroe', che cos'è poi?”
Quello che traeva come conseguenza Enrico da questi passi del “Cratilo” era che la parola, il linguaggio, il pensiero è l’elemento divino dell’uomo, e lo avvicina al cielo, verso il quale volge il capo, nel suo desiderio di conoscenza, al contrario dell’animale, intento ad annusare la terra in cerca di nutrimento. La parola è il gioiello scivolato nel fondo delle acque trasparenti del ruscello, sulle cui rive siedono le Muse, le figlie di Mnemosyne, che cantano l'origine del mondo e la nascita degli dèi e degli uomini, e tutto sanno del tempo passato, presente e futuro. E rievocano con il loro canto le imprese di Giom e le nozze di Cadmo e Armonia, figlia di Ares e Afrodite: al banchetto nuziale furono presenti tutti gli dèi dell’Olimpo, l’ultimo convito, a cui parteciparono insieme i mortali e i divini. Giom, chi era questo personaggio? Quali le sue imprese? Un dio assassino? Perché pensavo così? C’era qualcosa di strano, il mistero di Giom. Quest’ultima digressione mitologica di Enrico, comunque, era molto sospetta: come era possibile che il collega Marramao avesse infilato nella sua tesi di dottorato alcune storie particolari del Mito, che io sentivo non come mie proprie, questo no, non era possibile, ma di cui avevo parlato, non ricordo più a quale proposito, con la defunta Ludovica Barboni. Era un fantasma, la sfortunata giovane, che abitava ancora lo spazio tra terra e cielo, una sorta di demone, e mi inviava i suoi messaggi dal web. Ero pazzo? Madame Orschviller lo aveva escluso, intascando una consistente parcella, che io in maniera demenziale avevo pagato, non disponendo in quel periodo di molto denaro. Oppure ero andato a Parigi per cercare conferma di certi miei segreti pensieri? Per quello che mi era accaduto i sospetti restavano. Ma quali? Usciamo allo scoperto, l’inchiesta ufficiale americana, a cui avevano partecipato anche investigatori italiani, aveva concluso come disgrazia o suicidio la morte della deputata italiana, forse affetta da depressione. Giovannini e i suoi non avevano potuto condizionare l’esclusione di questa seconda ipotesi. E se fosse stata assassinata? Ma vogliamo scherzare? La polizia americana e quella italiana non sanno distinguere una disgrazia o suicidio da un omicidio alias femminicidio? E forse hanno bisogno di suggerimenti di altri? Altri chi? I francesi, per caso? Io, Stefani, ero convinto di non essere sano di mente, diversamente da come aveva giudicato la psicanalista parigina di origine alsaziana. Era forse un tentativo subconscio di sviare certe responsabilità? Ma perché avevo quel complesso di colpa?
Ripresi a leggere il testo di Enrico. Spiegava come la parola ha un’origine divina e che l’ultima delle nove parti del discorso, l’interiezione, ne è la traccia grammaticale. In essa è il primo articolarsi dei suoni della voce, il compendio emotivo del parlante nell’esclamazione di un solo termine o una breve locuzione, il nome di un dio o di una dea, circostanza questa che spiega la differenza di genere tra le parole. Giom! Già! No, Giù! Giù a capofitto dalla finestra sigillata di un grattacielo. Sussultai e ripresi la lettura del testo del dottor Enrico Marramao.
In merito alla parola e alla memoria, Enrico citava Nietzsche: “L’uomo chiese una volta all’animale: perché mi guardi soltanto senza parlarmi della felicità? L’animale voleva rispondere e dire: ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò.” La citazione era tratta da “Considerazioni inattuali (II). Sull’utilità e il danno della storia.” E anche questo riferimento mi risvegliava reminiscenze, una prova dell’immortalità dell’anima, come facevo a ricordare il testo di Marramao se non l’avevo già letto in una vita precedente? Cioè no, qui mi confondevo. Avrei dovuto leggere meglio il “Menone”, dove lo schiavo ignorante riesce a risolvere dei problemi di geometria da solo, anche se con qualche suggerimento di Socrate, che l’ha aiutato a ricordare le conoscenze già scolpite nella sua anima in vite precedenti.
In effetti io l’immortalità dell’anima l’avevo esperita quella volta nella 42esima strada, quando avevo incontrato il fantasma della defunta Ludovica Barboni. Di nuovo lei! Cercai di allontanare la sua figura dalla mia mente, concentrandomi su Marramao: “Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi: salta intorno, mangia, digerisce, salta di nuovo. È così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere ed il suo dispiacere, attaccato cioè al piolo dell’attimo e perciò né triste né annoiato...”
L’incipit della “Seconda Inattuale”, scriveva Enrico, ci rivela l’ispirazione di Nietzsche alla poesia di Leopardi, in particolare: “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia”
“O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi.”
Eh, no! Se Nietzsche s’ispirava a Leopardi, Marramao da chi traeva ispirazione? In verità, che l’uomo sia un animale storico, a differenza dell’animale che vive di sola natura, è una conoscenza abbastanza consolidata, ma questi particolari accostamenti, che io ritenevo esclusivamente miei, chi li aveva suggeriti al mio collega? Presi a rileggere il suo testo, per meglio scoprire i segni della sua sorgente d’ispirazione. “La parola è il gioiello scivolato nel fondo delle acque trasparenti del ruscello, sulle cui rive siedono le Muse, le figlie di Mnemosyne, che cantano l'origine del mondo e la nascita degli dèi e degli uomini, e tutto sanno del tempo passato, presente e futuro. E rievocano con il loro canto le imprese di Giom e le nozze di Cadmo e Armonia, figlia di Ares e Afrodite: al banchetto nuziale furono presenti tutti gli dèi dell’Olimpo, l’ultimo convito, a cui parteciparono insieme i mortali e i divini.” Ero perplesso. Dovevo consultare altri testi e su un’enciclopedia digitale ritrovai questa figura del dio, Giom, di cui le Muse cantano le imprese, come riferisce Esiodo. Ecco, Esiodo era la traccia originaria. Continuai la mia ricerca et voilà! In un testo medievale con lettere gotiche, mi soffermai sull’espressione: “Quando Minerva nacque, Giouu piovve in nembo d’oro.” Guardai meglio: la “v”, scritta come una “u”, unita alla “e”, “ue”, poteva leggersi come una “m” rovesciata. “Quando Minerva nacque, Giove piovve in nembo d’oro.” La scrittura gotica aveva ingannato Marramao, l’enciclopedia digitale da lui consultata, e stava ingannando anche me. Giom! Già! Giù! Era questa la soluzione del mistero di Giom? Il nome di un dio come impronta originaria sulla moneta, la parola, che a causa dello scambio frequente ha perso l’antico conio? No. E allora? Giom! Un errore di stampa, un errore che svelava un mistero, ma ne celava un altro, quello stesso che aveva lasciato intravvedere.
Quando lessi la bibliografia riportata da Marramao a fine testo, individuai subito il nome di Villani G., autore di “L’origine divina della parola”.
Postilla a “Il mistero di Giom”
“Giom! Un errore di stampa, un errore che svelava un mistero, ma ne celava un altro, quello stesso che aveva lasciato intravvedere.”
Vito Stefani, l’io narrante di “Rhetor Magister”, dovendo stilare la sua tesi di laurea, va a consultare l’elaborato presente sul web del suo collega Enrico Marramao, il convitato di pietra nella sua relazione con la defunta Ludovica Barboni. E dopo il “Cratilo”, il dialogo in cui Platone dibatte dell’origine e dell’etimologia delle parole, scopre che Marramao ha introdotto un excursus mitologico sulle imprese di Giom e le nozze di Cadmo e Armonia: “Giom, chi era questo personaggio? Quali le sue imprese? Un dio assassino? Perché pensavo così? C’era qualcosa di strano, il mistero di Giom.” Alla fine, Stefani scopre che si tratta di un’errata interpretazione dei caratteri gotici del testo consultato, dove la “m” di Giom non è altro che la sillaba “ve”, e in tal modo si ricompone la grafia originaria della parola: “Giove”. L’errore svela il mistero, ma ne lascia intravvedere un altro, quello sulla morte sospetta di Ludovica Barboni, nella cui ricomposizione del ricordo la coscienza del protagonista oscilla fortemente, non ricorda bene. Che cosa non ricorda? Il testo non lo dice, allude: Giom è un monosillabo, come giù! Giù dal grattacielo.
L’ENTIMEMA
“Un tema sulla catacresi, Stefani, la figura retorica che estende l’uso del termine oltre il suo significato specifico, un’abusione, di cui dobbiamo cogliere una nuova visione, mi capisce?” La professoressa Marozzi mi guardava con quella sua tipica aria mite, pur usando parole di rottura rispetto alle accademie dominanti, un’espressione questa ricavata dal titolo di un suo studio: “Il paradigma delle accademie dominanti”. Era suddiviso in due volumi: una parte generale ed una speciale. Bastava studiare solo la parte generale, doveva veniva esposta la dottrina del paradigma; nella parte speciale venivano trattati i paradigmi dei diversi tipi di accademie: letterarie e linguistiche, arti figurative, scienze, musica, filosofia e altre. Il nucleo della dottrina del paradigma consisteva nell’idea che nelle varie epoche storiche si andavano evolvendo i modelli di riferimento delle diverse scienze dello spirito, i paradigmi, imponendo un dominio culturale. Questi paradigmi resistevano fino a quando non fossero intervenute nuove teorie di cambiamento, che però si presentavano sempre in maniera esperienziale, prima di stabilizzarsi in strutture codificate. Nella parte speciale, la sezione dedicata alla retorica era divisa nei paragrafi corrispondenti alle varie figure retoriche, fra cui la catacresi. La Marozzi la definiva come una forma di metafora o metonimia non più riconoscibile a causa della sua normalizzazione linguistica. Di fronte a una situazione nuova, in assenza di parole, il ricorso alla catacresi serve a coprire il vuoto espressivo venuto a crearsi nella lingua. L’autrice portava un esempio suggestivo: “Naufragio di stelle”. Credo che avesse ripreso l’espressione dal titolo della silloge di un poeta del Novecento abbastanza sconosciuto e la circostanza le aveva dato anche l’occasione per un confronto tra retorica e poetica.
Ormai mi ero impegnato, Giulia Marozzi sarebbe diventata la relatrice della mia tesi di dottorato. Il mio lavoro le sarebbe risultato utile per aggiornare la voce “catacresi” nella parte speciale della sua opera sul paradigma delle accademie dominanti. Devo aggiungere, per spirito di verità, che naturalmente ero attratto, un po' come tutti noi studenti, chi più chi meno tutti sui trent’anni, da quella figura femminile, sarà anche per la distanza dei ruoli. Però la mia scelta di andare con lei e non con Villani era stata dettata da un altro motivo nemmeno tanto subconscio.
Quando avevo chiesto alla biblioteca dell’Istituto, il libro del prof. Gabriele Villani, la bibliotecaria, un po' impicciona, pensava che dovessi laurearmi con lui, come aveva fatto l’anno prima il dottor Marramao, un esito brillante, e la bibliotecaria sorrise. Abbiamo capito che lui è il migliore, le risposi con lo sguardo: “No, la mia relatrice è la professoressa Marozzi,” dissi. “Ah!” fece lei. Presi il libro di Villani, che aveva posato sul bancone, e mi allontanai. Come avevo immaginato, Marramao aveva colto diversi spunti dal testo di Villani, compresi quei riferimenti che credevo fossero mie scoperte esclusive, ma poi aveva sviluppato la sua tesi seguendo il suo percorso di confronto tra retorica e politica. Devo dire che dai discorsi in pubblico e dai dibattiti televisivi a cui Enrico partecipava si poteva osservare come lo studio della retorica gli avesse giovato, ma ci vuole stoffa, lo capivo.
Riconsegnai il libro di Villani, quasi a separarmi da certi fantasmi, che i passi ricalcati da Marramao su quelli del suo testo di riferimento mi avevano evocato, e cercai di concentrarmi sul testo della Marozzi. Nella parte generale, l’autrice illustrava bene l’evoluzione storica del paradigma della retorica, risalendo fino alle sue origini, antiche quanto quelle della filosofia. “Aristotele, nel Sofista, riferisce che Empedocle fu il primo a scoprire (eurein) la retorica.” La fonte citata era Diogene Laerzio. In tal senso si può dire che della filosofia la retorica è a un tempo nemica ed alleata. Sotto il primo aspetto, l’arte persuasiva del “dire bene” si emancipa dalla pretesa di “dire il vero”, e infatti Platone la condanna: “Ma non ci permetteremo di disturbare Tisia e Gorgia? Essi videro che la verosimiglianza è molto più pregiata della verità, e che con la forza delle parole fanno apparire piccole le cose grandi e grandi le cose piccole, nuove le cose vecchie e viceversa, e scoprirono il modo di parlare conciso o con interminabile lunghezza su ogni questione?” (Fedro, 267a-b, Gorgia, 449a-458c).
Pensavo a certi discorsi di Giovannini e agli spot pubblicitari del suo socio Arrigoni, immagini che scivolavano pericolosamente verso un’altra figura perduta di quella conventicola, e allora ritornavo allarmato al mio testo. Tentavo di allontanare il fantasma (fantôme) di una defunta, avvicinandomi al fantasma (fantasme) di una viva.
Per Platone, scriveva quest’ultima, la “vera retorica” è la dialettica, cioè la filosofia. (Fedro, 271c) Ma la filosofia non aveva la possibilità d’imporre il suo potere veritativo nei tribunali, le arene, le assemblee, luoghi frequentati dalla retorica. La Marozzi proponeva un parallelo tra quella che noi moderni, nel gergo giudiziario, definiamo “verità processuale” e la “verità” in senso assoluto, ricercata in altri discorsi, che restano comunque fuori da ogni possibilità di realizzazione concreta. In questo senso, la filosofia non ha la possibilità di smantellare il nesso tra discorso e potere.
Un tentativo di avvicinare la retorica alla filosofia, in una sorta di alleanza, è stato compiuto da Aristotele. La domanda è la seguente: quando l’arte di persuadere prende le distanze da forme di adulazione, seduzione, minaccia, ovvero da forme di violenza? La riflessione filosofica deve allora pensare radicalmente il concetto del “persuasivo” ed in questo viene in aiuto la logica. Sin dalle origini, la retorica aveva fatto ricorso all’eikos, il verosimile, come indicatore dell’uso pubblico della parola. Il genere di prova, che l’eloquenza esibisce nei tribunali e nelle assemblee, dove si decidono le cose umane è quello della verosimiglianza e non della necessità veritativa della filosofia prima. Quindi invece di denunciare l’inferiorità dell’opinione, la doxa, rispetto all’episteme, la scienza, la filosofia può proporsi l’elaborazione di una teoria del verosimile, sganciandola dagli abusi della sofistica e dell’eristica. La formulazione di un nesso tra il “persuasivo” e il “verosimile” è il fondamento su cui Aristotele ha edificato la sua struttura di una retorica filosofica. L’entimema è uno dei luoghi in cui il costrutto della retorica si modella su quello della logica filosofica.
Ebbi un colloquio con Giulia Marozzi a proposito del sillogismo retorico, l’entimema, e della sua equiparazione al sillogismo logico. Perché andavo da Giulia? Avevo compreso perfettamente ogni passaggio del suo testo, che devo dire era chiarissimo, non presentava nodi da sciogliere. Ero convinto che il testo fosse passato sotto la revisione dell’emerito professore suo genitore, non per sminuire le qualità della figlia, ma per dare ad esse un valore aggiunto. E poi, queste erano mie illazioni. Sicuramente l’autrice, quale interprete del suo testo, ma anche di un testo non suo, era in grado di dare soddisfacenti spiegazioni, e quindi essendo tutto chiaro, che necessità aveva un dottorando di rivolgersi alla sua professoressa su quel punto? Non poteva essere un pretesto? La Marozzi, in un certo senso, però, non aveva bisogno di conoscere la struttura del sillogismo aristotelico, voglio dire non come professoressa, ma come donna. Quale sillogismo? Facciamo un esempio: “Tutti gli studenti del corso (tranne eccezioni che confermano la regola) sono fisicamente attratti da Giulia Marozzi, io, Stefani, sono uno studente del corso, quindi io sono attratto fisicamente da Giulia Marozzi.” E l’entimema? La proposizione generale non va ritenuta come definizione vera, ma verosimile. Quindi, la maestra di retorica avrebbe avuto qualche obiezione a formulare l’esempio dato come sillogismo retorico, dove la prima proposizione è verosimile, e non come sillogismo logico, dove la prima proposizione è vera. Al massimo si poteva così formulare: “Tutti gli studenti del corso sono amanti di Giulia Marozzi, io sono uno studente del corso, quindi io sono amante di Giulia Marozzi”. Ma non è vero! Che cosa? Che sono l’amante di Giulia Marozzi. Appunto, non è vero, ma verosimile, un entimema. Ma no! Qui, la proposizione principale è inverosimile, e venendo meno il criterio di verosimiglianza, cade la possibilità di un entimema.
Ero lì a trastullarmi con queste fantasie sulla maestra di retorica, in attesa del suo arrivo nella sala dei colloqui, e quando arrivò, mentre mi alzavo per salutarla, lei sbrigativamente accostò una sedia e subito entrò in argomento. L’entimema, il “sillogismo della retorica”, che ha natura deduttiva, e “l’esempio”, di natura induttiva, danno entrambi luogo a dei ragionamenti “su questioni che possono perlopiù essere diversamente”. Ora, dice ancora Aristotele nella “Retorica”, “il verosimile è ciò che avviene perlopiù, non però assolutamente, come alcuni definiscono; ma ciò che nell’ambito di quel che può essere diversamente, [il verosimile] è rispetto alla cosa rispetto a cui è verosimile, come l’universale rispetto al particolare.” Ero distratto, non avevo capito subito, la pregai di ripetere e annotai la spiegazione. Poi, al fine di non apparire impreparato, citai l’Aristotele dei “Topici”, che definisce l’induzione “il procedimento che dai particolari porta all'universale”. E incominciai ad esporre la posizione del filosofo sulle due direzioni del procedimento della conoscenza, dal generale al particolare e l’inverso. Nella “Metafisica”, Aristotele dichiara che “due sono le scoperte che si possono a giusta ragione attribuire a Socrate i ragionamenti induttivi e la definizione universale: scoperte queste che costituiscono la base della scienza.” Platone partiva dal sensibile, il particolare, per giungere all’intellegibile, l’universale, le Idee: nei suoi dialoghi Socrate cerca sempre l’essenza per definire l’oggetto della conversazione, il "tì esti", “che cos'è?”, l’idea per es. della virtù, della giustizia e così via. Per Aristotele, comunque, è l’intuizione operata dell’intelletto che coglie l’essenza della realtà, da cui dedurre dei principi validi e universali, a garanzia della verità. Avrei continuato, se la Marozzi non mi avesse interrotto: “Stefani, oggi si celebra il trigesimo di Giulia Barboni, lei non viene alla messa di suffragio?” Mi sentii gelare. Era stato il tono ufficiale, poco confidenziale, usato dalla professoressa oppure qualcosa d’altro? Tacevo. Sentii confusamente che diceva: “La chiesa sulla sabbia, oggi pomeriggio alle cinque.”
LA MORTE DI UNA DEA
La mattina dell’esame, mi recai all’Istituto di via Savoia, fresco e riposato. Avevo dormito a sufficienza e profondamente, ero sicuro di me stesso. Un po' prima di entrare in Istituto, incrociai una ragazza con gli occhiali, che mi salutò. Risposi, chiedendomi chi fosse. Fuori dell’aula degli esami, era in attesa Di Ciocco, che avrebbe dovuto discutere la sua tesi prima di me. Vedendomi solo, mi chiese se anch’io non mi ero fatto accompagnare da nessuno, per scaramanzia. Strizzò l’occhio Nicolino, e mi disse che poco prima la sua fidanzata era andata via, per non distrarlo. “Ah!” dissi, ripensando alla ragazza che mi aveva salutato all’entrata. Si laureava con Villani il collega, la sua tesi, relativa ai rapporti tra poetica e retorica, era intitolata: “L’epifora del nome”. “Poi non sei più venuto alla messa a San Saba, quella volta?” disse, accennava al trigesimo di Ludovica Barboni. In quell’occasione, avendo frainteso le parole della Marozzi, confondendo sabbia con Saba, ero rimasto disorientato e avevo pensato di mandare un sms a Di Ciocco, per chiedere lumi. Negli ultimi tempi era il collega, con il quale mi ero sentito un po' di più che con gli altri, dovendo noi sostenere l’esame nella stessa sessione, ecco perché mi ero rivolto a lui. “Non sono riuscito a trovare la chiesa, non avevo altre indicazioni,” dissi. Di Ciocco allora non aveva risposto all’sms e non era raggiungibile al telefonino. Poi forse l’aveva letto, ma non mi aveva più parlato di quel particolare. Perché se ne ricordava ora? “Ma tu la Barboni la conoscevi?” La domanda mi sorprese. Ecco, pensai, il collega era andato alla messa di suffragio, perché erano presenti le autorità accademiche e i loro referenti politici, proprio quelle persone che in un certo modo io volevo evitare. Intanto erano arrivati i professori e presto Di Ciocco andò a prendere il suo posto. Per scaramanzia, lui aveva mandato via la sua fidanzata in carne ed ossa, io non riuscivo ad allontanare il mio fantasma, riapparso all’improvviso: “Ma tu la Barboni la conoscevi?”
Una settimana prima dell’esame avevo avuto un ultimo incontro con la professoressa Marozzi. La retorica della Grecia antica aveva non solo un programma, ma anche una realtà drammatica, quella che si rappresentava nei tribunali, le arene e le assemblee. La sua dottrina andava oltre la tassonomia e la teoria delle figure del discorso, in cui si è andata risolvendo nella modernità. Ecco perché il suo antico paradigma, quello predominante nella Grecia classica, si è oggi dissolto, riproponendosi come un elenco di forme discorsive linguistiche. La Marozzi mi ascoltava attentamente. È opportuno, oggi, nell’esame di ognuna di queste figure retoriche, superare la loro ristrettezza dottrinale e tentare la via nuova di una nuova affermazione, preparatoria di un possibile futuro paradigma. Sembrava leggermente meravigliata la professoressa, nel seguire queste mie parole, che riflettevano i suoi concetti del sapere retorico, quelli raccolti nel suo studio, i due volumi sul “paradigma delle accademie dominanti”. “La catacresi, Stefani,” disse “sappiamo che nel movimento diacronico dall’etimo d’inizio può assumere una vera e propria forma di figura del pensiero, l’ossimoro, allorché una parola è usata estensivamente in un significato che il contesto stesso della frase contraddice, ad esempio la sua morte di una dea, una brutta calligrafia.”
E questo fu “L’encomio della nobildonna Laura Broccolini della Rovere” che discussi.
“L’armonia di uno Stato è dato dal coraggio dei suoi cittadini più illustri. L’armonia del fisico di un uomo e di una donna dalla bellezza, quello dello spirito dalla sapienza, dell’azione dalla virtù, di un discorso dalla verità. Diversamente non v’ha armonia, ma disordine. Necesse est, quindi, lodare un uomo, una donna, un discorso, un’opera, uno Stato, se sono degni di lode, altrimenti per essi è solo biasimo e disdoro.
È d’obbligo a un uomo solo dire quello che va detto correttamente e confutare tutti quelli che disprezzano Laura Broccolini, attorno alla cui figura sia il coro dei redattori di cronaca nera, sia la credulità dei loro lettori, sia la fine sciagurata hanno arrecato alla sua immagine una triste memoria. Io, quindi, con il mio accorto discorso da un lato voglio confutare le infamie e dimostrare menzognere le testimonianze dei malaccorti cronisti e dei loro seguaci e quindi porre fine all’ignoranza sul caso.
Ora, la donna di cui parliamo, sappiamo tutti delle sue nobili origini, da cui ricevette una bellezza pari a quella di una dea, suscitando nelle innumerevoli schiere dei suoi ammiratori intense brame d’amore. Ella raccolse intorno a sé uomini di superba grandezza, alcuni per immense ricchezze e grandi fortune politiche, altri per gloriosa fama di sapienza, altri per bella presenza fisica e fascino di spirito, altri infine per non trascurabili doti intellettuali. Tutti erano ardenti di amore e pronti a gareggiare tra loro per vincere, mossi da un desiderio di possesso esclusivo.
Chi, tra costoro, e per qual ragione e in qual modo appagò il proprio amore, ottenendo le grazie di Laura Broccolini della Rovere io non dirò, essendo le cronache già troppo ciarliere in proposito e tali ciarle non dilettano l’animo mio. Esporrò, comunque, le cause per le quali la nobildonna quel giorno del suo destino di morte si trovasse in quel palazzo nobiliare di Via delle Vittorie a Roma.
Infatti, o per un decreto di necessità divina ivi si recò, oppure costretta con la violenza o anche affascinata da belle parole oppure presa d’amore.
Per quanto riguarda la prima alternativa non vi è dubbio che non vi è colpa per chi abbia agito costretto da una forza superiore, una causa di forza maggiore, vis cui resisti non potest, e quindi ad essa va restituito l’onore perduto.
Se lei, invece, fu rapita con la violenza e contro la legge subì violenza, ingiustamente fu oltraggiata. È chiaro che colui che la rapì commise oltraggio e ingiustizia e la rese vittima di un avverso destino. Il colpevole merita, dunque, di essere punito, la vittima commiserata e non diffamata.
Se, invece, fu ingannata da false parole d’amore, non è difficile difenderla e liberarla, proscioglierla dalle accuse, in quanto l’arte della persuasione è un diavolo subdolo, che sgombra dall’animo la paura, smarrisce il dolore, infonde pietà e fiducia. È quest’arte vera poesia: chi l’ascolta è pervaso da brividi di sgomento, da una pietà colma di tenerezza e di lacrime e da uno struggimento e rimpianto che strazia l’anima.
Sono seducenti parole di fascino e incanto, e la potenza e la magia dell’incanto strega l’anima, recando inganno e sortilegio, un plagio. E non è violenza questa forza seduttrice delle parole che offuscano l’intelligenza e abbagliano la mente? E allora come può ritenersi colpevole chi è vittima del plagio e come non definire infamie quelle raccontate sul suo conto? E se alla sventurata non fu somministrata una sostanza allucinogena, che ne alterò il fisico e la coscienza, ma fu soltanto soggiogata nell’animo da una sorta di droga psichica, rendendola succuba contro la sua volontà, qual è la differenza tra questi due stati di schiavitù, di perdita della libertà?
Se quindi Laura Broccolini fu ridotta in stato di soggezione, non commise nessuna azione colpevole; me se fu per amore che si trovò in quello stato, non è egualmente difficile dimostrare la sua innocenza. Quello che noi vediamo e colpisce il nostro animo non è come desideriamo, ma ha una sua consistenza altra dalle nostre aspettative. E se tu hai la ventura di trovarti in una battaglia tra spari, fischi di bombe e altre terrificanti esplosioni, che turbano il tuo animo, non fuggirai sgomento o tenterai di fuggire il più possibile lontano dal pericolo? E quello che hai veduto e vissuto non provocherà in te il rigetto di ogni buona disposizione d’animo? Alcuni, infatti, avendo assistito a situazioni spaventose, all’improvviso, escono a tal punto di senno da perdere ogni capacità di connettere. Molti cadono in gravi stati morbosi, travagli d’animo inquietanti e pazzie incurabili, a tal punto la loro immaginazione è stata impressionata da quegli avvenimenti terribili e agghiaccianti. E tralascio di riferire altre situazioni simili a quelle descritte, che vengono tralasciate proprio perché rimosse dalla coscienza. D’altra parte, i pittori, quando da più colori e da più modelli traggono un solo modello e una sola figura perfetta, dilettano la vista, come gli scultori che scolpiscono statue di uomini, in cui si rivelano figure divine, non provocano nei nostri animi una soave dolcezza? Se, dunque, per natura alcune situazioni causano dolore e angoscia, altre invece suscitano amore e nostalgia. Quale, dunque, è la nostra meraviglia se anche Laura Broccolini non sia sfuggita a questa seduzione della bellezza e dell’amore. Ed è quest’ultimo un dio, Eros, il più potente dei demoni, che unisce il cielo e la terra, i divini e i mortali e li compatta nella saldezza dell’uno, per cui ad ogni essere mortale è impossibile sfuggire alla sua potenza divina.
E se la nobildonna ha dovuto soggiacere perché presa al laccio da Amore o plagiata da persuasione ingannatrice o costretta con la violenza o non è potuta sfuggire al decreto di una Necessità divina, va dunque prosciolta da ogni accusa.
In grazia di questo mio discorso, ho quindi cancellato ogni infamia dalla memoria di Laura, scrivendone l’encomio, come prova di arte retorica.”
All’uscita dall’Istituto, andavo a piedi sulla via Nomentana, all’altezza di Villa Torlonia, mi parve di vedere una sagoma familiare, allungai il passo e la riconobbi. Era Ludovica Barboni, il fantasma della 42esima strada, veniva a ricordarmi il suo oracolo: “Vai avanti, Stefano, non tornare indietro, tu devi diventare Rhetor Magister. È il tuo avvenire, io non potrò stare al tuo fianco, sono morta, Stefano.” La morte di una dea, Rhetor Magister, il mio destino.
POSTILLA
Il giovane Vito Stefani, fresco del titolo accademico, si avvia per la via Nomentana. Dove andrà? Chissà chi lo sa! Noi non conosciamo il suo futuro, sarà il passato, trascorsi gli anni della sua vita, a renderci la sua storia. Rivedremo questo Rhetor Magister? Il suo muoversi sul palcoscenico del mondo non è ancora tramontato. È abbastanza verosimile che presto o tardi avremo ulteriori sue notizie.
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