[N. d. B.] Si segnala il periodo finale del paragrafo: “La realtà dell’immagine”, in cui si dà in certo modo spiegazione sulla fine del Pastoriz Michail in cella.
PRIMA POSTILLA All’inizio del paragrafo “L’inseguimento” di “Sull’orlo della giostra”, si legge: “Era una scena, per come si era svolta dietro ai miei occhi, abbastanza da ridere, pur in quel periodo di pandemia, in cui non c’era molto da scherzare. La guerra alla pandemia, al virus, però poteva dirsi ormai finita e vinta, con la cattura dell’ultimo dei Moicani, ecco perché a stento trattenevo il riso.” Ora, “Dietro ai miei occhi” è un’espressione, che rovescia il modo di dire più consueto: “Davanti ai miei occhi”. Quando ho riletto il testo che avevo postato e quindi non potevo più cancellare, quello che io credevo un errore mi è caduto “sotto gli occhi”. Che fare? Correggere e postare di nuovo, cancellando tutto il resto dei paragrafi ormai postati, per poi postarlo ancora, una fatica di Sisifo. Potevo cavarmela con un “Errata corrige”, ma no! Bisogna capire perché avevo scritto “dietro agli occhi” e non “davanti agli occhi” o “sotto gli occhi”. Ed ecco la spiegazione che mi sono data.
DIETRO AI MIEI OCCHI “Guardo questo foglio bianco sul mio tavolo; percepisco la sua forma, il suo colore, la sua posizione. […] Ma ecco che ora volgo la testa. Non vedo più il foglio di carta. Adesso vedo la tappezzeria grigia del muro. Il foglio non è più presente, non è più là. […] E tuttavia eccolo di nuovo. Non ho voltato la testa, il mio sguardo è sempre diretto verso la tappezzeria grigia; niente si è mosso nella stanza. Eppure il foglio mi appare di nuovo nella sua forma, il suo colore e la sua posizione; e so molto bene, nel momento in cui mi appare, che è proprio il foglio che vedevo poco fa. È veramente il foglio in persona?” Così scrive Jean-Paul Sartre nel suo saggio, “L’Immaginazione”, la rielaborazione della sua tesi (1926) per il diploma all’École Normale Supérieure. Il saggio riguarda la differenza tra la realtà fenomenica e la coscienza, e nelle righe dell’incipit dell’Introduzione, che noi abbiamo estrapolato, subito avvertiamo la distinzione tra la visione sensibile e quella intellettiva concreta, come immagine. Questo genere di distinzione richiama quella prima della filosofia di Platone tra realtà sensibile, percepibile con il senso della vista, e mondo delle Idee, contemplato con lo sguardo della mente, una visione intellettiva. Nella mia descrizione della scenetta, i fuggiaschi inseguiti da medico e infermieri, in cui l’Io narrante si trova ad essere testimone, io ho usato di getto l’espressione “dietro ai miei occhi”, senza accorgermi che una tale locuzione non si accordava al senso del testo, anzi stride come il suo contrario. Volevo riferirmi a una visione intellettiva? La visione “dietro agli occhi” è una visione ad occhi chiusi, sotto le palpebre abbassate, almeno questo è il senso di una tale espressione. Anatomicamente, dietro l’occhio c’è il nervo ottico, che congiunge il bulbo oculare con il cervello, e lancia il segnale della vista, e quindi la visione è frontale. Spesso capita di dire o sentire qualcuno dire a una persona che sta alle spalle: “ti ho visto”. È come dire ti conosco e so (ho visto) il gesto che hai fatto. Sapere è avere visto, il testimone è colui che ha visto. Nel senso in cui l’ho usata io, la mia espressione significava, la scena che si svolgeva alle mie spalle, io l’ho vista scorrere (prima davanti e poi) dietro ai mie occhi. Spieghiamoci meglio. Io vedo i fuggiaschi correre verso di me, quindi davanti a me, e poi vedo sopraggiungere gli inseguitori, e la mia attenzione viene attirata da loro, in particolare dal medico che cerca di afferrare e trattenere la coda dell’automobile e gli infermieri che gli stanno dietro. È il gesto goffo, seguito dal lamento, che muove al riso, ma anche la verosimile espressione di esultanza dei fuggiaschi che non vedo, ma immagino, e di cui in un certo senso condivido il sentimento trionfante, come rivela la canzonetta che li accompagna. So che sono, in fuga, alle mie spalle, io non mi volto a guardarli, ma resto a contemplare la collera e la pena dell’inseguitore sconfitto.
LA REALTÀ DELL’IMMAGINE “Dopo avere sparato al simulacro del Pastoriz”. Così leggiamo, all’inizio del paragrafo “Sull’orlo della giostra”, che dava il titolo all’intera seconda parte del “Rhetor”. Che cosa è un simulacro? Si tratta della teoria materialista di Epicuro e Lucrezio. Ma vediamo che cosa scrive Sartre, il filosofo francese da noi citato, nel suo saggio: “L’Immaginazione.” Avevamo interrotto la lettura del testo, lasciando l’interrogativo in sospeso sul foglio non più presente sotto gli occhi: “È veramente il foglio in persona?” Ecco come risponde l’interrogante: “Sì e no.” La risposta è ambigua, ma più avanti l’autore chiarisce il suo pensiero: “Tuttavia, una cosa è cogliere un’immagine immediatamente come immagine, un’altra è formare pensieri sulla natura delle immagini in generale.” Qui Sartre distingue tra esistenza ed essenza, l’una oggetto della realtà, l’altra del pensiero, e coglie l’errore di un pensare ingenuo: “Appena si distoglie la propria mente dalla pura contemplazione dell’immagine in quanto tale, appena si pensa sull’immagine, senza formare immagini, si produce uno scivolamento e dall’affermazione dell’identità di essenza tra l’immagine e l’oggetto, si passa a quella di un’identità di esistenza. E in tal modo si costituisce ciò che chiameremo la metafisica ingenua dell’immagine. Tale metafisica consiste nel fare dell’immagine una copia della cosa, esistente essa stessa come una cosa.” L’autore francese era un professore di filosofia e non poteva ignorare i classici: “Una bella esemplificazione di questa “cosalità” ingenua delle immagini ci è fornita dalla teoria epicurea dei “simulacri”. Le cose non cessano di emettere “simulacri”, “idoli”, che sono semplici involucri e hanno tutte le qualità dell’oggetto. Una volta emessi esistono in sé, proprio come l’oggetto che li ha emessi e possono errare nello spazio per un tempo indeterminato.” Una volta enunciata la teoria, Sartre non la discute, ma passa oltre: “La teoria pura e a priori ha fatto dell’immagine una cosa , ma l’intuizione interna ci insegna che l’immagine non è una cosa.” E Pastoriz Michail? È stato suicidato in carcere, era il suo destino. Se qualcuno avesse raccolto il giornale, che io avevo scagliato sulla sabbia, indignato da quel modo di scrivere la cronaca, e avesse letto l’articolo relativo al “suicidio” del Pastoriz, avrebbe tratto le sue conclusioni. Il detenuto doveva rispondere di quattro omicidi, uno documentato dalle telecamere, quello del giovane ausiliario Nemecesco, annegato di notte nella Fontana di Trevi dai fratelli Pastoriz, in particolare Michail. Ecco la ragione per cui quest’ultimo era morto in carcere: “soffocato” dai rimorsi per i suoi delitti.
SECONDA POSTILLA All’inizio del paragrafo “La statuina di bronzo” della “Giostra”, ricorre l’espressione “la parola come origine divina del nome di un dio o di una dea”. Sull’argomento, le dovute riflessioni richiamano indirettamente il tema del cambiamento di genere, quello raccontato nel paragrafo “Come una metamorfosi”, all’inizio della seconda parte del “Rhetor”. In proposito, ci sembra opportuno riportare integralmente il testo platonico sul mito dell’androgino.
IL MITO DELL’ANDROGINO “Mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'Eros. Ove se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, e voi fate altrettanto con gli altri. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole. Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi. Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. "lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri."
Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare.
Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi veri uomini e a occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall’altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?"
A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'altra anima. Non più due, ma un'anima sola. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene. Se vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo, promettendo di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità.” Dal Mito dell’androgino, che Platone ci narra nel “Simposio”, sappiamo dell’esistenza primitiva dei tre generi, che dopo il taglio operato da Zeus, si sono rivelati come due, il maschio e la femmina. Ecco perché, per la forza dell’amore, essi tendono sempre a ricongiungersi, e questo vale anche per il taglio di un originario ermafrodito fornito di due sessi uguali, che spiega l’attrazione fra loro di persone dello stesso sesso. Platone ci riferisce inoltre che appare “oggi” abbastanza disdicevole l’essere nominati ermafroditi, e questo spiega il disagio di coloro che hanno la necessità di cambiare sesso, i transgender. È il caso, quest’ultimo, quello del mio personaggio, il retore Enrica Marramao, narrato in “Come una metamorfosi”.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
9 commenti:
[N. d. B.]
Si segnala il periodo finale del paragrafo: “La realtà dell’immagine”, in cui si dà in certo modo spiegazione sulla fine del Pastoriz Michail in cella.
RHETOR MAGISTER. POSTILLE.
PRIMA POSTILLA
All’inizio del paragrafo “L’inseguimento” di “Sull’orlo della giostra”, si legge: “Era una scena, per come si era svolta dietro ai miei occhi, abbastanza da ridere, pur in quel periodo di pandemia, in cui non c’era molto da scherzare. La guerra alla pandemia, al virus, però poteva dirsi ormai finita e vinta, con la cattura dell’ultimo dei Moicani, ecco perché a stento trattenevo il riso.”
Ora, “Dietro ai miei occhi” è un’espressione, che rovescia il modo di dire più consueto:
“Davanti ai miei occhi”. Quando ho riletto il testo che avevo postato e quindi non potevo più cancellare, quello che io credevo un errore mi è caduto “sotto gli occhi”. Che fare? Correggere e postare di nuovo, cancellando tutto il resto dei paragrafi ormai postati, per poi postarlo ancora, una fatica di Sisifo. Potevo cavarmela con un “Errata corrige”, ma no! Bisogna capire perché avevo scritto “dietro agli occhi” e non “davanti agli occhi” o “sotto gli occhi”. Ed ecco la spiegazione che mi sono data.
DIETRO AI MIEI OCCHI
“Guardo questo foglio bianco sul mio tavolo; percepisco la sua forma, il suo colore, la sua posizione. […] Ma ecco che ora volgo la testa. Non vedo più il foglio di carta. Adesso vedo la tappezzeria grigia del muro. Il foglio non è più presente, non è più là. […] E tuttavia eccolo di nuovo. Non ho voltato la testa, il mio sguardo è sempre diretto verso la tappezzeria grigia; niente si è mosso nella stanza. Eppure il foglio mi appare di nuovo nella sua forma, il suo colore e la sua posizione; e so molto bene, nel momento in cui mi appare, che è proprio il foglio che vedevo poco fa. È veramente il foglio in persona?” Così scrive Jean-Paul Sartre nel suo saggio, “L’Immaginazione”, la rielaborazione della sua tesi (1926) per il diploma all’École Normale Supérieure.
Il saggio riguarda la differenza tra la realtà fenomenica e la coscienza, e nelle righe dell’incipit dell’Introduzione, che noi abbiamo estrapolato, subito avvertiamo la distinzione tra la visione sensibile e quella intellettiva concreta, come immagine. Questo genere di distinzione richiama quella prima della filosofia di Platone tra realtà sensibile, percepibile con il senso della vista, e mondo delle Idee, contemplato con lo sguardo della mente, una visione intellettiva.
Nella mia descrizione della scenetta, i fuggiaschi inseguiti da medico e infermieri, in cui l’Io narrante si trova ad essere testimone, io ho usato di getto l’espressione “dietro ai miei occhi”, senza accorgermi che una tale locuzione non si accordava al senso del testo, anzi stride come il suo contrario. Volevo riferirmi a una visione intellettiva?
La visione “dietro agli occhi” è una visione ad occhi chiusi, sotto le palpebre abbassate, almeno questo è il senso di una tale espressione. Anatomicamente, dietro l’occhio c’è il nervo ottico, che congiunge il bulbo oculare con il cervello, e lancia il segnale della vista, e quindi la visione è frontale. Spesso capita di dire o sentire qualcuno dire a una persona che sta alle spalle: “ti ho visto”. È come dire ti conosco e so (ho visto) il gesto che hai fatto. Sapere è avere visto, il testimone è colui che ha visto.
Nel senso in cui l’ho usata io, la mia espressione significava, la scena che si svolgeva alle mie spalle, io l’ho vista scorrere (prima davanti e poi) dietro ai mie occhi. Spieghiamoci meglio. Io vedo i fuggiaschi correre verso di me, quindi davanti a me, e poi vedo sopraggiungere gli inseguitori, e la mia attenzione viene attirata da loro, in particolare dal medico che cerca di afferrare e trattenere la coda dell’automobile e gli infermieri che gli stanno dietro. È il gesto goffo, seguito dal lamento, che muove al riso, ma anche la verosimile espressione di esultanza dei fuggiaschi che non vedo, ma immagino, e di cui in un certo senso condivido il sentimento trionfante, come rivela la canzonetta che li accompagna. So che sono, in fuga, alle mie spalle, io non mi volto a guardarli, ma resto a contemplare la collera e la pena dell’inseguitore sconfitto.
LA REALTÀ DELL’IMMAGINE
“Dopo avere sparato al simulacro del Pastoriz”. Così leggiamo, all’inizio del paragrafo “Sull’orlo della giostra”, che dava il titolo all’intera seconda parte del “Rhetor”. Che cosa è un simulacro? Si tratta della teoria materialista di Epicuro e Lucrezio.
Ma vediamo che cosa scrive Sartre, il filosofo francese da noi citato, nel suo saggio: “L’Immaginazione.” Avevamo interrotto la lettura del testo, lasciando l’interrogativo in sospeso sul foglio non più presente sotto gli occhi: “È veramente il foglio in persona?” Ecco come risponde l’interrogante: “Sì e no.” La risposta è ambigua, ma più avanti l’autore chiarisce il suo pensiero: “Tuttavia, una cosa è cogliere un’immagine immediatamente come immagine, un’altra è formare pensieri sulla natura delle immagini in generale.” Qui Sartre distingue tra esistenza ed essenza, l’una oggetto della realtà, l’altra del pensiero, e coglie l’errore di un pensare ingenuo: “Appena si distoglie la propria mente dalla pura contemplazione dell’immagine in quanto tale, appena si pensa sull’immagine, senza formare immagini, si produce uno scivolamento e dall’affermazione dell’identità di essenza tra l’immagine e l’oggetto, si passa a quella di un’identità di esistenza. E in tal modo si costituisce ciò che chiameremo la metafisica ingenua dell’immagine. Tale metafisica consiste nel fare dell’immagine una copia della cosa, esistente essa stessa come una cosa.”
L’autore francese era un professore di filosofia e non poteva ignorare i classici: “Una bella esemplificazione di questa “cosalità” ingenua delle immagini ci è fornita dalla teoria epicurea dei “simulacri”. Le cose non cessano di emettere “simulacri”, “idoli”, che sono semplici involucri e hanno tutte le qualità dell’oggetto. Una volta emessi esistono in sé, proprio come l’oggetto che li ha emessi e possono errare nello spazio per un tempo indeterminato.” Una volta enunciata la teoria, Sartre non la discute, ma passa oltre: “La teoria pura e a priori ha fatto dell’immagine una cosa , ma l’intuizione interna ci insegna che l’immagine non è una cosa.”
E Pastoriz Michail? È stato suicidato in carcere, era il suo destino. Se qualcuno avesse raccolto il giornale, che io avevo scagliato sulla sabbia, indignato da quel modo di scrivere la cronaca, e avesse letto l’articolo relativo al “suicidio” del Pastoriz, avrebbe tratto le sue conclusioni. Il detenuto doveva rispondere di quattro omicidi, uno documentato dalle telecamere, quello del giovane ausiliario Nemecesco, annegato di notte nella Fontana di Trevi dai fratelli Pastoriz, in particolare Michail. Ecco la ragione per cui quest’ultimo era morto in carcere: “soffocato” dai rimorsi per i suoi delitti.
SECONDA POSTILLA
All’inizio del paragrafo “La statuina di bronzo” della “Giostra”, ricorre l’espressione “la parola come origine divina del nome di un dio o di una dea”. Sull’argomento, le dovute riflessioni richiamano indirettamente il tema del cambiamento di genere, quello raccontato nel paragrafo “Come una metamorfosi”, all’inizio della seconda parte del “Rhetor”. In proposito, ci sembra opportuno riportare integralmente il testo platonico sul mito dell’androgino.
IL MITO DELL’ANDROGINO
“Mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'Eros. Ove se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, e voi fate altrettanto con gli altri. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole. Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi. Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. "lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri."
Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare.
Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi veri uomini e a occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall’altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?"
A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'altra anima. Non più due, ma un'anima sola. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene. Se vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo, promettendo di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità.”
Dal Mito dell’androgino, che Platone ci narra nel “Simposio”, sappiamo dell’esistenza primitiva dei tre generi, che dopo il taglio operato da Zeus, si sono rivelati come due, il maschio e la femmina. Ecco perché, per la forza dell’amore, essi tendono sempre a ricongiungersi, e questo vale anche per il taglio di un originario ermafrodito fornito di due sessi uguali, che spiega l’attrazione fra loro di persone dello stesso sesso.
Platone ci riferisce inoltre che appare “oggi” abbastanza disdicevole l’essere nominati ermafroditi, e questo spiega il disagio di coloro che hanno la necessità di cambiare sesso, i transgender. È il caso, quest’ultimo, quello del mio personaggio, il retore Enrica Marramao, narrato in “Come una metamorfosi”.
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