Premessa La prova della libertà nella vita pratica consiste nel fatto che prima di compiere un’azione possiamo rappresentarcela e volerla. Tranne i gesti irriflessi, ogni altro atto o serie causale di atti sono effetto della mia volontà, anche se compiuti per abitudine, come quelli quotidiani. Da un punto di vista puramente conoscitivo, non si può escludere però il dubbio che questa idea della libertà possa rivelarsi ingannevole. Noi crediamo di essere liberi, ma in verità le nostre azioni sono governate da una volontà superiore, che ha predisposto tutta la serie causale delle azioni da noi ritenute spontanee. In proposito possiamo fare l’esempio di un robot, che se avesse coscienza, potrebbe pensare di muoversi sua sponte e non in forza della carica ricevuta. Come risolvere questo dubbio? Nella storia del pensiero, si possono distinguere, come ha rilevato il filosofo Nicola Abbagnano, tre forme principali di libertà, in relazione al suo concetto assoluto, non collegato cioè ad altre forme che essa assume nei campi della politica, della morale, dell’economia, della religione etc.: 1.la libertà originaria, 2.la libertà come necessità, 3.la libertà come scelta.
1. La libertà originaria Una prima concezione della libertà si riferisce alla sua caratteristica di essere causa sui ovvero causa di sé stessa, originaria, incondizionata, senza limiti. A questo tipo di libertà pensa Aristotele, quando dichiara: “Volontaria sarà dunque quell’azione il cui principio risiede in chi agisce” (“Etica Nicomachea”, III, 1, 1111a 22-23), e più avanti: “Le azioni le cui cause stanno in noi devono dipendere esse stesse da noi, ed essere quindi volontarie.” (Ibid., III,5, 1113b 22-23) Siamo di fronte alla libertà, la cui sorgente è nella coscienza individuale e che origina una certa azione, imputabile al soggetto che la compie, e quindi meritevole di un premio o castigo, se giudicata buona o malvagia. “Di ciò sembrano esser testimoni sia privatamente i singoli sia gli stessi legislatori: essi infatti danno castighi e pene a chi compie azioni malvagie, quando non le compia per violenza o per ignoranza involontaria, mentre conferiscono onori a chi compie buone azioni, come per incitare gli uni e tenere a freno gli altri.” (Ibid., ivi) Questo concetto di libertà incondizionata, causa sui, che ha principio in sé stessa, si è mantenuto anche in epoca latina, ed attraverso il Medio Evo è giunta fino alla modernità. Osservando come nel mondo fisico determinati eventi sono prodotti da una causa che ha in sé, sua sponte, la serie dei suoi effetti, senza che essa causa debba avere un inizio o discendere da altra causa, Kant ammette il concetto della libertà incondizionata. Egli colloca l’idea della libertà nel mondo noumenico, vale a dire intellegibile, perché non può essere colta dai sensi, ma soltanto dall’intelletto, e come tale non può essere conosciuta, sebbene si riveli poi immediatamente reale ed esistente nel mondo pratico, come facoltà di iniziare da sé un evento. In tal senso la ragion pratica ossia la volontà postula l’esistenza della libertà che la ragion teoretica non riesce a scorgere nell’esperienza, e pertanto essa può considerarsi come “necessità” nel mondo dei fenomeni, rigidamente determinati nella serie causale, di cui non si ha la prova dell’inizio, come “libertà” incondizionata invece nel mondo intellegibile. Sotto questo punto di vista Kant non ha innovato rispetto al concetto tradizionale di libertà, intesa come causa sui, che ha in sé stessa il proprio principio. Rimanendo comunque all’interno di questa prospettiva della libertà che non ha al di fuori di sé altra causa, non si può comunque non rilevare come essa vada a collocarsi all’estremo confine con il nulla, che solo rende possibile l’azione. Una riflessione sulla libertà come assolutezza del nulla è stata compiuta da Sartre. Egli rileva che la realtà umana nel suo confronto con l’essere è attraversata da un processo di nientificazione. Infatti, al contrario dell’essere “in sé”, che è sempre identico a sé, in quanto massa bruta e immodificabile, e non può essere ciò che non è né può non essere ciò che è, la coscienza nel riferirsi a sé stessa, invece, si presenta come un “per sé”, che si modifica continuamente o meglio si nullifica. L’uomo, il “per sé”, è sempre ciò che non è e non è mai ciò che è, in bilico tra un passato che non è più ed un futuro che non è ancora. In questa situazione, egli è costretto a progettarsi ad ogni istante verso ciò che può essere, e che essendo quindi “poter essere” non è mai “essere”. In tale maniera la radicale libertà del progettarsi viene a presentarsi come il nulla della pura possibilità. Non appare, dunque, possibile sfuggire alla libertà, che rivela così un suo aspetto di ineludibile necessità. È quest’ultimo un profilo che il concetto di libertà causa sui ha in comune con la concezione della libertà come necessità.
2. La libertà come necessità Parlare di libertà come necessità può apparire una contraddizione tra quello che comunemente s’intende per libertà, uno stato personale dell’agire che non ammette limitazione, e necessità come azione limitata da una forza superiore rispetto alla volontà di chi agisce. Nel concetto di libertà intesa come necessità, la libertà non appartiene al singolo uomo, ma ad una forza superiore, ad un ordine cosmico prestabilito da una volontà non necessariamente personale, comunque sovraordinata a quella del singolo. Da un punto di vista pratico, vale a dire nel mondo delle azioni umane, deve osservarsi che la libertà può essere politicamente limitata anche dalla forza cogente di uno Stato totalitario. In senso filosofico, i primi a parlare di necessità di un ordine cosmico, a cui gli uomini dovevano conformarsi furono gli Stoici, che introdussero anche il concetto di provvidenza, riscontrando una finalità in ogni aspetto della natura. Contro la pura accidentalità della natura della scuola epicurea, che riguardo all’origine dell’universo, si rifaceva alla dottrina democritea della caduta degli atomi, la dottrina stoica introdusse una concezione rigidamente finalistica del cosmo, andando ben oltre la nozione teleologica del cosmo formulata da Aristotele. Tutto è mosso da un principio divino immanente, che è logos ossia ragione, e pertanto tutto quello che accade è razionale, ha una sua ragione. Per primi gli stoici parlarono di Provvidenza (pronoia), un concetto assente nelle filosofie presocratiche e che si profila appena nella figura del Demiurgo del “Timeo” platonico, un racconto che Platone stesso, nella premessa del suo dialogo, definisce verosimile. La provvidenza stoica non è il carattere di una divinità personale, ma s’identifica nel finalismo universale del mondo, che secondo la loro teoria fisica, ispirata al fuoco eracliteo, finirà in una grande conflagrazione (ecpirosi), per poi ristabilirsi (apocatastasi) nel suo stato originario ciclicamente.
La dottrina di un finalismo assoluto però conduceva ad un rigido determinismo, con esclusione di ogni libertà dell’uomo. Per risolvere l’aporia strutturale tra libertà e necessità, Crisippo distinse le cause ausiliare ed esterne rispetto a quelle principali e perfette, dalle quali ultime dipendono gli effetti delle nostre azioni. Di fronte alla rappresentazione di un evento ineluttabile noi concediamo il nostro assenso, secondo la nostra natura, come dire volenti o nolenti, alla stessa maniera di un cilindro che per una spinta iniziale rotola su un piano inclinato in quanto rotondo. Questa soluzione del problema proposta dall’ultimo grande scolarca della Stoa antica non risolveva però l’aporia, risultando chiaro che è lo stesso definire libera o necessaria un’azione eseguita per cause che concorrono in modo eguale a provocare l’effetto. Una tale indistinzione tra volontà individuale e volontà cosmica si ritrova nella dottrina di Spinoza, che così si esprime sulla libertà e necessità: “Si dice libera quella cosa, che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola: mentre necessaria o piuttosto coatta quella che è determinata da altro ad esistere ed operare secondo una certa e determinata ragione.” (Etica, I, Def. 7) Questa “cosa” esistente per sua sola necessità ed unicamente libera, cioè a dire non causata da nessun’altra e quindi originaria in sé, viene definita “Deus sive natura”, principio e cardine attorno a cui ruota tutta la filosofia spinoziana: “L’ente eterno e infinito che chiamiamo Dio o natura agisce con la medesima necessità con cui esiste.” (Ibid., IV, Pref.) In questa prospettiva, la libertà originaria ed assoluta appartiene per necessità unicamente a Dio: “Dio agisce per le solo leggi della sua natura e non costretto da alcuno.” (Ibid., I, Prop. 17) E quindi, secondo lo schema di dimostrazione geometrica, proprio dell’opera (“Ethica ordine geometrico demonstrata”), così si conclude nel “Corollario 2”: “Ne segue che solo Dio è causa libera, perché solo Dio esiste per la sola necessità della sua natura e per la necessità della sua natura agisce. Perciò esso solo è causa libera. C.d.d.” Così spiegate la natura di Dio e le sue proprietà, dove libertà e necessità coincidono, che ne è dell’uomo e della sua libertà? È un’illusione? “Gli uomini si ritengono liberi dato che sono consci delle proprie volizioni e desideri, mentre le cause da cui sono spinti a desiderare e a volere, poiché ne sono ignari, non se le sognano nemmeno” (Ibid., App. I) Gli uomini però possono affrancarsi dalla schiavitù delle passioni e diventare liberi, se si lasciano guidare dalla ragione, vale a dire se pensano e agiscano come parte della Sostanza infinita, riconoscendo in sé la necessità universale, quella divina. La libertà umana consiste quindi nella potenza dell’intelletto, ossia nell’amore intellettuale della mente per Dio, che è lo stesso amore di Dio, con cui Dio ama sé stesso, manifestato dalla mente umana sub specie aeternitatis. (Ibid., V, Prop. 36)
3. La libertà come scelta L’irresponsabilità divina e la scelta etica “Appena giunti, Er e i compagni dovettero presentarsi subito a Lachesi. Qui, per prima cosa, un araldo li mise in fila, poi raccolte dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i modelli di vita, salì sul palco e così parlò: - Proclama della vergine Lachesi figlia di Ananke! Anime effimere, ecco l’inizio di un altro ciclo di nascite di genere mortale. Non un demone sceglierà voi, ma voi sceglierete il vostro demone! Chi sarà sorteggiato per primo, per primo sceglierà la vita che sarà necessariamente legata a lui… La responsabilità è di chi fa la scelta, la divinità non ha colpa.” (Repubblica, X, 617d) Il concetto di libertà, qui esposto da Platone nella forma di mito, alla fine del suo capolavoro, non rispecchia nessuna delle due forme di libertà, quelle che abbiamo definito come originaria o necessaria (causa sui), dove la causa dell’agire ha origine nel singolo o in una totalità a lui superiore, in cui egli s’identifica, ma consiste in una possibilità di scelta tra diverse opzioni. In questo senso la libertà si pone tra i due poli opposti, quello del nulla di un determinismo assoluto e l’altro del tutto di una volontà sciolta da qualsiasi vincolo, incondizionata. La responsabilità delle proprie azioni non è deposta nelle mani di un dio o di una forza superiore cogente, da cui lasciarsi condurre, ma non è neppure interamente propria del singolo costretto ad una scelta ed in tal modo condizionato. La costrizione qui consiste nell’impossibilità di sottrarsi alla forza del proprio carattere, quale noi abbiamo dalla nascita, che ci ritroviamo non a causa di una volontà superiore, quanto per una scelta fatta prima di nascere. Platone è dovuto ricorrere al mito, il racconto favoloso, per rovesciare la convinzione dominante nella coscienza greca dell’uomo soggetto alla Necessità (Ananke), una forza sovrastante ed ineluttabile, a cui neppure gli dèi possono sfuggire. La soluzione narrativa serviva per concludere il discorso nella sua propria forma filosofica (paideia), indicando quale sia il modello migliore di vita da seguire, per raggiungere la felicità: "Questo mito ... potrà salvare anche noi, se gli crederemo ... E se daremo retta a quanto ho detto, convinti che l'anima è immortale e capace di sopportare ogni male e ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita alla saggezza. In questo modo saremo cari a noi stessi e agli dèi sia finché resteremo quaggiù, sia dopo che avremo riscosso i premi della giustizia, come vincitori che vanno in giro a raccogliere premi, e godremo della felicità su questa terra e nel viaggio di mille anni che abbiamo descritto.”
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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TEORIE DELLA LIBERTÀ
Premessa
La prova della libertà nella vita pratica consiste nel fatto che prima di compiere un’azione possiamo rappresentarcela e volerla. Tranne i gesti irriflessi, ogni altro atto o serie causale di atti sono effetto della mia volontà, anche se compiuti per abitudine, come quelli quotidiani. Da un punto di vista puramente conoscitivo, non si può escludere però il dubbio che questa idea della libertà possa rivelarsi ingannevole. Noi crediamo di essere liberi, ma in verità le nostre azioni sono governate da una volontà superiore, che ha predisposto tutta la serie causale delle azioni da noi ritenute spontanee. In proposito possiamo fare l’esempio di un robot, che se avesse coscienza, potrebbe pensare di muoversi sua sponte e non in forza della carica ricevuta. Come risolvere questo dubbio? Nella storia del pensiero, si possono distinguere, come ha rilevato il filosofo Nicola Abbagnano, tre forme principali di libertà, in relazione al suo concetto assoluto, non collegato cioè ad altre forme che essa assume nei campi della politica, della morale, dell’economia, della religione etc.: 1.la libertà originaria, 2.la libertà come necessità, 3.la libertà come scelta.
1. La libertà originaria
Una prima concezione della libertà si riferisce alla sua caratteristica di essere causa sui ovvero causa di sé stessa, originaria, incondizionata, senza limiti. A questo tipo di libertà pensa Aristotele, quando dichiara: “Volontaria sarà dunque quell’azione il cui principio risiede in chi agisce” (“Etica Nicomachea”, III, 1, 1111a 22-23), e più avanti: “Le azioni le cui cause stanno in noi devono dipendere esse stesse da noi, ed essere quindi volontarie.” (Ibid., III,5, 1113b 22-23) Siamo di fronte alla libertà, la cui sorgente è nella coscienza individuale e che origina una certa azione, imputabile al soggetto che la compie, e quindi meritevole di un premio o castigo, se giudicata buona o malvagia. “Di ciò sembrano esser testimoni sia privatamente i singoli sia gli stessi legislatori: essi infatti danno castighi e pene a chi compie azioni malvagie, quando non le compia per violenza o per ignoranza involontaria, mentre conferiscono onori a chi compie buone azioni, come per incitare gli uni e tenere a freno gli altri.” (Ibid., ivi)
Questo concetto di libertà incondizionata, causa sui, che ha principio in sé stessa, si è mantenuto anche in epoca latina, ed attraverso il Medio Evo è giunta fino alla modernità. Osservando come nel mondo fisico determinati eventi sono prodotti da una causa che ha in sé, sua sponte, la serie dei suoi effetti, senza che essa causa debba avere un inizio o discendere da altra causa, Kant ammette il concetto della libertà incondizionata. Egli colloca l’idea della libertà nel mondo noumenico, vale a dire intellegibile, perché non può essere colta dai sensi, ma soltanto dall’intelletto, e come tale non può essere conosciuta, sebbene si riveli poi immediatamente reale ed esistente nel mondo pratico, come facoltà di iniziare da sé un evento. In tal senso la ragion pratica ossia la volontà postula l’esistenza della libertà che la ragion teoretica non riesce a scorgere nell’esperienza, e pertanto essa può considerarsi come “necessità” nel mondo dei fenomeni, rigidamente determinati nella serie causale, di cui non si ha la prova dell’inizio, come “libertà” incondizionata invece nel mondo intellegibile. Sotto questo punto di vista Kant non ha innovato rispetto al concetto tradizionale di libertà, intesa come causa sui, che ha in sé stessa il proprio principio.
Rimanendo comunque all’interno di questa prospettiva della libertà che non ha al di fuori di sé altra causa, non si può comunque non rilevare come essa vada a collocarsi all’estremo confine con il nulla, che solo rende possibile l’azione.
Una riflessione sulla libertà come assolutezza del nulla è stata compiuta da Sartre. Egli rileva che la realtà umana nel suo confronto con l’essere è attraversata da un processo di nientificazione. Infatti, al contrario dell’essere “in sé”, che è sempre identico a sé, in quanto massa bruta e immodificabile, e non può essere ciò che non è né può non essere ciò che è, la coscienza nel riferirsi a sé stessa, invece, si presenta come un “per sé”, che si modifica continuamente o meglio si nullifica. L’uomo, il “per sé”, è sempre ciò che non è e non è mai ciò che è, in bilico tra un passato che non è più ed un futuro che non è ancora. In questa situazione, egli è costretto a progettarsi ad ogni istante verso ciò che può essere, e che essendo quindi “poter essere” non è mai “essere”. In tale maniera la radicale libertà del progettarsi viene a presentarsi come il nulla della pura possibilità. Non appare, dunque, possibile sfuggire alla libertà, che rivela così un suo aspetto di ineludibile necessità. È quest’ultimo un profilo che il concetto di libertà causa sui ha in comune con la concezione della libertà come necessità.
2. La libertà come necessità
Parlare di libertà come necessità può apparire una contraddizione tra quello che comunemente s’intende per libertà, uno stato personale dell’agire che non ammette limitazione, e necessità come azione limitata da una forza superiore rispetto alla volontà di chi agisce. Nel concetto di libertà intesa come necessità, la libertà non appartiene al singolo uomo, ma ad una forza superiore, ad un ordine cosmico prestabilito da una volontà non necessariamente personale, comunque sovraordinata a quella del singolo. Da un punto di vista pratico, vale a dire nel mondo delle azioni umane, deve osservarsi che la libertà può essere politicamente limitata anche dalla forza cogente di uno Stato totalitario.
In senso filosofico, i primi a parlare di necessità di un ordine cosmico, a cui gli uomini dovevano conformarsi furono gli Stoici, che introdussero anche il concetto di provvidenza, riscontrando una finalità in ogni aspetto della natura. Contro la pura accidentalità della natura della scuola epicurea, che riguardo all’origine dell’universo, si rifaceva alla dottrina democritea della caduta degli atomi, la dottrina stoica introdusse una concezione rigidamente finalistica del cosmo, andando ben oltre la nozione teleologica del cosmo formulata da Aristotele. Tutto è mosso da un principio divino immanente, che è logos ossia ragione, e pertanto tutto quello che accade è razionale, ha una sua ragione. Per primi gli stoici parlarono di Provvidenza (pronoia), un concetto assente nelle filosofie presocratiche e che si profila appena nella figura del Demiurgo del “Timeo” platonico, un racconto che Platone stesso, nella premessa del suo dialogo, definisce verosimile. La provvidenza stoica non è il carattere di una divinità personale, ma s’identifica nel finalismo universale del mondo, che secondo la loro teoria fisica, ispirata al fuoco eracliteo, finirà in una grande conflagrazione (ecpirosi), per poi ristabilirsi (apocatastasi) nel suo stato originario ciclicamente.
La dottrina di un finalismo assoluto però conduceva ad un rigido determinismo, con esclusione di ogni libertà dell’uomo. Per risolvere l’aporia strutturale tra libertà e necessità, Crisippo distinse le cause ausiliare ed esterne rispetto a quelle principali e perfette, dalle quali ultime dipendono gli effetti delle nostre azioni. Di fronte alla rappresentazione di un evento ineluttabile noi concediamo il nostro assenso, secondo la nostra natura, come dire volenti o nolenti, alla stessa maniera di un cilindro che per una spinta iniziale rotola su un piano inclinato in quanto rotondo. Questa soluzione del problema proposta dall’ultimo grande scolarca della Stoa antica non risolveva però l’aporia, risultando chiaro che è lo stesso definire libera o necessaria un’azione eseguita per cause che concorrono in modo eguale a provocare l’effetto.
Una tale indistinzione tra volontà individuale e volontà cosmica si ritrova nella dottrina di Spinoza, che così si esprime sulla libertà e necessità: “Si dice libera quella cosa, che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola: mentre necessaria o piuttosto coatta quella che è determinata da altro ad esistere ed operare secondo una certa e determinata ragione.” (Etica, I, Def. 7)
Questa “cosa” esistente per sua sola necessità ed unicamente libera, cioè a dire non causata da nessun’altra e quindi originaria in sé, viene definita “Deus sive natura”, principio e cardine attorno a cui ruota tutta la filosofia spinoziana: “L’ente eterno e infinito che chiamiamo Dio o natura agisce con la medesima necessità con cui esiste.” (Ibid., IV, Pref.) In questa prospettiva, la libertà originaria ed assoluta appartiene per necessità unicamente a Dio: “Dio agisce per le solo leggi della sua natura e non costretto da alcuno.” (Ibid., I, Prop. 17) E quindi, secondo lo schema di dimostrazione geometrica, proprio dell’opera (“Ethica ordine geometrico demonstrata”), così si conclude nel “Corollario 2”: “Ne segue che solo Dio è causa libera, perché solo Dio esiste per la sola necessità della sua natura e per la necessità della sua natura agisce. Perciò esso solo è causa libera. C.d.d.”
Così spiegate la natura di Dio e le sue proprietà, dove libertà e necessità coincidono, che ne è dell’uomo e della sua libertà? È un’illusione?
“Gli uomini si ritengono liberi dato che sono consci delle proprie volizioni e desideri, mentre le cause da cui sono spinti a desiderare e a volere, poiché ne sono ignari, non se le sognano nemmeno” (Ibid., App. I) Gli uomini però possono affrancarsi dalla schiavitù delle passioni e diventare liberi, se si lasciano guidare dalla ragione, vale a dire se pensano e agiscano come parte della Sostanza infinita, riconoscendo in sé la necessità universale, quella divina. La libertà umana consiste quindi nella potenza dell’intelletto, ossia nell’amore intellettuale della mente per Dio, che è lo stesso amore di Dio, con cui Dio ama sé stesso, manifestato dalla mente umana sub specie aeternitatis. (Ibid., V, Prop. 36)
3. La libertà come scelta
L’irresponsabilità divina e la scelta etica
“Appena giunti, Er e i compagni dovettero presentarsi subito a Lachesi. Qui, per prima cosa, un araldo li mise in fila, poi raccolte dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i modelli di vita, salì sul palco e così parlò: - Proclama della vergine Lachesi figlia di Ananke! Anime effimere, ecco l’inizio di un altro ciclo di nascite di genere mortale. Non un demone sceglierà voi, ma voi sceglierete il vostro demone! Chi sarà sorteggiato per primo, per primo sceglierà la vita che sarà necessariamente legata a lui… La responsabilità è di chi fa la scelta, la divinità non ha colpa.” (Repubblica, X, 617d)
Il concetto di libertà, qui esposto da Platone nella forma di mito, alla fine del suo capolavoro, non rispecchia nessuna delle due forme di libertà, quelle che abbiamo definito come originaria o necessaria (causa sui), dove la causa dell’agire ha origine nel singolo o in una totalità a lui superiore, in cui egli s’identifica, ma consiste in una possibilità di scelta tra diverse opzioni. In questo senso la libertà si pone tra i due poli opposti, quello del nulla di un determinismo assoluto e l’altro del tutto di una volontà sciolta da qualsiasi vincolo, incondizionata.
La responsabilità delle proprie azioni non è deposta nelle mani di un dio o di una forza superiore cogente, da cui lasciarsi condurre, ma non è neppure interamente propria del singolo costretto ad una scelta ed in tal modo condizionato.
La costrizione qui consiste nell’impossibilità di sottrarsi alla forza del proprio carattere, quale noi abbiamo dalla nascita, che ci ritroviamo non a causa di una volontà superiore, quanto per una scelta fatta prima di nascere.
Platone è dovuto ricorrere al mito, il racconto favoloso, per rovesciare la convinzione dominante nella coscienza greca dell’uomo soggetto alla Necessità (Ananke), una forza sovrastante ed ineluttabile, a cui neppure gli dèi possono sfuggire. La soluzione narrativa serviva per concludere il discorso nella sua propria forma filosofica (paideia), indicando quale sia il modello migliore di vita da seguire, per raggiungere la felicità: "Questo mito ... potrà salvare anche noi, se gli crederemo ... E se daremo retta a quanto ho detto, convinti che l'anima è immortale e capace di sopportare ogni male e ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita alla saggezza. In questo modo saremo cari a noi stessi e agli dèi sia finché resteremo quaggiù, sia dopo che avremo riscosso i premi della giustizia, come vincitori che vanno in giro a raccogliere premi, e godremo della felicità su questa terra e nel viaggio di mille anni che abbiamo descritto.”
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