INTRODUZIONE Questo volume si compone di due libri, gli ultimi del ciclo di “L’uomo differito”, ossia: “Il dottor Aleph” e “Il freddo inverno”. Protagonisti di questa parte finale dell’opera sono lo spirito del defunto Lafleur e il dottor Aleph, un illustre clinico, professore di psichiatria e direttore di manicomio. La storia viene raccontata dal fantasma di Lafleur, che nel primo dei due testi, con un discorso prolisso e frammentato, contorto e ridondante, commenta l’ultima parte della sua vita, venendoci contemporaneamente a svelare i suoi segreti, riguardanti non soltanto il tempo dell’uomo differito, ma qualcuno anche dell’uomo camuffato, e rivelatori della sua impossibile o quantomeno inverosimile origine, nonché di una nuova sua fine, forse più credibile da un punto di vista razionale, ma non per questo meno sorprendente. Il racconto si snoda, nel secondo volume, seguendo le mosse del dottor Aleph, che nell’inseguire le tracce della sorte finale di Lafleur e correndo il rischio di subirne e ad un tempo assorbirne la follia dello spirito, nella sua ricerca per giungere ad un’accettabile verità sulla persona e le gesta dell’anomalo soggetto, anche se non tanto accettabile, mettendoci noi dal suo punto di vista di psichiatra, finisce per incalzarne i sentieri più occulti della sua discendenza ultramillenaria (“Sì, lo so, Lafleur, la sua è la storia e l'età trimillenaria dell'homo sapiens…”), di cui alla fine si scioglie l’enigma.
“Be through my lips to unawakened earth the trumpet of a prophecy! O wind, winter comes, can spring be far behind?”
“Diventa attraverso le mie labbra per la terra addormentata la tromba di una profezia! O Vento, l’inverno viene, può la primavera essere lontana?”
Shilley, Ode the West Wind Ode al Vento dell’Ovest
CAPITOLO 1 Ciao Aleph! Ti vedo risalire via Orazio, a Napoli, in questo assolato pomeriggio. In compagnia di chi sei? E’ un uomo tarchiato, simpatico e gioviale come te e come te corpulento. In definitiva vi somigliate nella sagoma; soltanto, il tuo compagno è più basso. Chi è? Il dottor Aleph era uscito dal portone di un Ufficio in compagnia del commissario di polizia Calvo, che per coincidenza era anche affetto da calvizie, aveva cioè una bella testa tonda, lucida e pelata. Conversavano armoniosamente, direi. “Caro Giuseppe” diceva Aleph “la telenovela Lafleur non è ancora terminata. Io lo cerco in Puglia, dove tu mi segnali il suo decesso, ma lì dopo una necessaria riesumazione scopro una bara vuota. Poi tu…” Il dottore lasciò a metà la frase, nel momento in cui, abbandonata la stradina laterale in ombra, erano sbucati nella più ampia e panoramica via Orazio, dove furono entrambi investiti dalla luce violenta del sole. Il commissario di polizia calvo, Giuseppe Calvo, approfittò della pausa del professore per intervenire subito: “No, professore, vi ho avvisato prima; non poi, prima” insistette sull’ultimo avverbio. “Certo, certo, mi avete avvisato subito, altrimenti qual era la necessità della riesumazione! Calvo, ma con voi debbo sempre misurare le parole!” “No, Aleph, scusa, ma è stato Ciocchetti che ha imbrogliato le carte.” “Lo so, lo so.” I due avevano cominciato a risalire lentamente via Orazio. “Vengo a sapere” usò questa formula Aleph, per riprendere il discorso “che sicuramente la salma era stata trafugata da una banda di criminali.” “L’Aurora Australe. Quest’anno, professore, più di cinquanta omicidi, soltanto a Napoli e hinterland, fino ad ora. E siamo all’inizio di settembre!” Il commissario aveva assunto un’aria cupa e guardava fisso davanti a sé, mentre pronunziava quest’ultima frase. “Godiamoci questo sole di settembre, Calvo!” esortò con aria disincantata Aleph. Ora aveva acquistato il suo aspetto consueto, il volto illuminato da un leggero sorriso ironico. Io seguo i due sul marciapiedi, ma non ascolto le loro parole, sono troppo intento a godermi la vista in tinta azzurra del mare e del Vesuvio sullo sfondo del golfo; loro avanzano, le sagome appaiate, egualmente larghe, una più alta e l’altra più bassa, confondendosi nell’abbaglio del sole. Io mi godo il finire dell’estate partenopea, vengo dal contestuale gelo dell’inverno australe, la stagione degli antipodi, che è poi il gelo della mia morte. Il gelo mi ha accompagnato per tutta la mia vita trimillenaria, essendo io il figlio concepito e conservato nel gelo, ed ha contraddistinto il momento finale della mia desolata – vedete? ora mi sono intristito, io che… mi piace sempre essere allegro – esistenza terrena, ossia il tratto da me vissuto, per quarantacinque anni, come Lafleur, lo sfortunato Lafleur. Ma lasciatemi godere questo sole di Napoli! Aleph e Calvo dialogavano sulla mia telenovela. “Ma il morto di Ponte sparito era sicuramente un Lafleur, che si voleva camuffare da Lafieri Silla” disse Aleph con convinzione. Calvo tacque. Aleph continuò: “C’è un legame tra l’Aurora Australe e questo morto rimpatriato dall’Uruguay: collasso cardiocircolatorio! E’ il referto del mio collega sudamericano, che poi diventa il certificato di morte.” “Un’altra riesumazione, professore!” “No, commissario, non credo che sarà necessaria. Qui non ci interessa sapere com’è morto Lafleur. Qui a noi basta capire che è morto.”
La telenovela Lafleur: uso il termine “telenovela” in senso improprio, fuori cioè dal significato universalmente accettato. “Telenovela” è la serie interminabile di puntate di sdolcinati sceneggiati televisivi prodotti in Sud America, al cui proposito sono sorte anche polemiche sulla loro attraibilità. Io invece uso il termine nel senso di racconto sudamericano (dallo spagnolo “novela”) a distanza (dalla radice greca “tele”), dove il racconto sudamericano non è una produzione televisiva di un paese di quel continente, ma il racconto della storia di Lafleur in Sudamerica, commentato a distanza di spazio e di tempo e che deborda poi da quell’emisfero geografico planetario, ampliandosi nei luoghi dove io ho lasciato traccia indelebile, ma invisibile all’occhio mortale. Prima di riassumere il senso della mia telenovela nell’ottica di Aleph e Calvo, quest’ultimo come interlocutore dell’illustre professore di psichiatria, vorrei però prima riferirvi di alcune battute, colte al volo fra i due (il gatto e la volpe) dal mio spirito, svolazzante avanti e indietro per via Orazio, sebbene alquanto distratto. “Ma il referto del medico di Ponte, che ha stilato il certificato di morte di Lafleur alias Lafieri Silla, a quale causa attribuiva il decesso?” domandò con una certa noncuranza Calvo. “Collasso cardiocircolatorio” rispose subito Aleph. Il commissario di polizia rise ironico: “Lafleur era debole di cuore!” Già, il mio cuore malato! Malato, ma di che cosa? Di un’inguaribile nostalgia, nostalgia della mia vita terrena, ora che abitavo la sfera celeste. Mentre seguivo i due, al suono struggente della musica inaudibile di un concertino di chitarra e mandolino di due vecchi professori, miei compagni di paradiso (il giardino dell’innocenza), nell’assolato pomeriggio napoletano, rapito nell’azzurro del golfo, tra mare e cielo, e confuso nell’abbaglio del sole, mentre seguivo i due, dunque, nella lenta risalita della collina che conduce a Posillipo, ho sentito un tuffo al cuore. Come era bello vivere tra quegli esseri là, quando anch’io ero mortale! Com’era bello vivere, amare e soffrire, ridere e piangere, odiare e sanguinare, com’era bello! La vita è bellezza (Calloné). Siamo arrivati al tornante. Calvo, all’interno, favorito da pendio, sembra raggiungere l’altezza di Aleph. Seguo le due sagome, che girano contro sole, e giro anch’io, ma l’abbaglio di luce meridiana non impedisce al mio occhio, l’occhio di Lafleur, di cogliere una scolorita scritta sul muretto di fronte e leggerla mentalmente, durante la svolta della strada: “Dimmelo in faccia verme”. L’anonimo writer, l’innamorata tradita, rimprovera al drudo fedifrago la sua bassezza strisciante e lo sfida sprezzante. Io sospiro. Com’era bello vivere, tra quei vermi là! Com’era bello vivere con Gabrielle Finari (e Laura Cantone)! Come era bello quando… io ero mortale, quando ero un verme mortale. Ho il cuore gonfio di nostalgia, ho il cuore malato, ed il mio cuore malato non ha retto: collasso cardiocircolatorio! Sono morto per una dismisura di passione, la mia esistenza mortale è crollata in frantumi sotto l’insostenibile carico della passione. Ahimé, ora che non sono più mortale! Perdonatemi, se fugacemente mi strofino con il lato esterno della falange del dito indice l’attaccatura posteriore della palpebra destra dove si congiunge con l’umido ciglio e poi, coraggio, proseguiamo su per via Orazio.
Le due sagome salgono affiancate. Continuano a parlare tra loro, Aleph e Calvo, in maniera contorta e sibillina per i comuni mortali: questa volta uso il termine “mortale” non in opposizione ad “immortale”, ma come sinonimo di persona qualunque e fallibile, un “quisque de populo”, comune mortale; non mortale fuori del comune, come può essere quello che l’antico greco denominò “eroe”, una figura in bilico, in mezzo (metaxy) tra il cielo e la terra, i mortali e gli immortali. Il linguaggio dei due non è però sibillino per me e non perché sono divenuto immortale, sebbene forse ricongiungendomi con la sostanza celeste del mio demiurgo sono “tornato” ad essere immortale e neppure perché, seguendoli lungo questa fascinosa strada che si arrampica sulla collina partenopea, in antico nominata pausilypon (tregua del dolore), svelando l’incanto di un panorama indimenticabile, possa spiarli ed ascoltarli e decodificare i simboli della loro conversazione, che è tutta un giuoco delle parti, ma perché conosco i loro cuori, sì, conosco il fondo dei loro cuori. Forse però è tempo di riassumere la mia vicenda, la mia telenovela, vista attraverso l’ottica di Aleph ed ora anche di Calvo, a cui Aleph compiutamente, grazie anche al commissario, la espone, entrambi a passeggio per via Orazio, per raggiungere alla sommità via Manzoni. Quando Lafleur è affiorato “pienamente” nella coscienza del professor Aleph? Accadde una notte. Era febbraio o marzo, era comunque ancora inverno nell’emisfero boreale. Aleph dormiva nel letto matrimoniale insieme con la moglie, quando fu svegliato nel cuore della notte dal trillo insistente di una telefonata. Si sedette in mezzo al letto, accese la lampada sul comodino, ed afferrò il telefono. “È fuggito, è riuscito a fuggire!” proclamò una voce concitata. Aleph era ancora assonnato. Non capì, aspettò che l’altro si spiegasse meglio. Sentì che il suo interlocutore stava riprendendo fiato, come dopo una corsa affannosa. “Chi è?” domandò il dottore. “Lui!” confermò prontamente l’altro. “Chi è?” chiese la moglie con gli occhi chiusi, quindi nel sonno. “Lui” rispose Aleph alla dormiente, ma continuando a tenere accostato alla bocca il microfono dell’apparecchio telefonico. “Sì, lui!” confermò la voce sconosciuta al telefono, interpretando a suo modo quanto Aleph aveva pronunziato. “Chi parla?” domandò il dottore. “Io” rispose l’altro. Poi subito, avendo ripreso respiro e quindi una certa calma e una maggiore capacità razionale, aggiunse: “Io, Gelindo, professor Aleph.” Il tono familiare e le parole anch’esse familiari, con cui lo sconosciuto lo aveva da ultimo interpellato, diedero al dottore la consapevolezza di dover conoscere l’anonimo al telefono, ora non più anonimo, ma con un nome, un nome peraltro, come dire?, domestico, nel senso che presentarsi con il solo prenome al professore, facendo seguire, nel vocativo, al titolo accademico anche il nome della persona appellata, rivelava una volontà di presentarsi da parte dell’appellante Gelindo in una certa maniera ad un tempo subordinata e confidenziale nella sua dimensione di sottostante, se così ci si può esprimere. I neuroni del cervello del professor Aleph intanto avevano già provveduto ad elaborare i segnali ricevuti, connettendo i fonemi in morfemi, i morfemi in una frase, le frasi in un discorso, il discorso in immagini; ed ora l’informazione attesa era pronta: Gelindo Ortenzi, il custode della clinica. In quel momento la dormiente, non più nel dormiveglia, ma ormai sicuramente sveglia, ancora distesa al suo fianco ad occhi chiusi, domandò: “Che vuole?”
Questa volta, Aleph si preoccupò di rispondere soltanto a Gelindo, ma registrò nella sua coscienza l’interrogativo della moglie, che forse era meglio se continuasse a dormire. “Che vuole, Gelindo?” domandò. “Ho dovuto sparare: tre colpi, tre botti, professore,” rispose il custode, concludendo la frase con un tono, in cui smarrita la tensione iniziale, sembrava riconoscersi un timbro più rilassato. Ma questa rilassatezza fu subito rintuzzata da un Aleph definitivamente sveglio e con un tono che non ammetteva repliche: “Ma che cosa è successo, Ortenzi!” La moglie si rizzò a sedere sul letto, spalancando gli occhi. “Ma niente…” rispose l’altro smorzando il tono della voce. “Ed allora perché mi telefona?” replicò vivacemente il professore e poi subito aggiunse con tono improvvisamente calmo: “Mi racconti bene quello che è successo, Ortenzi.” Ma l’altro aveva perso ogni suo entusiasmo iniziale nel riferire al massimo responsabile della struttura sanitaria, di cui lui l’interlocutore appellante era un dipendente, maggiori particolari sui fatti accaduti. Disse: “Ho chiamato il medico di guardia. Arriva.” Il telefono, un cellulare, passò di mano e quindi si udì la voce del dottor Alessi: “Mi dica, professore.” “Senti, Alessi, Ortenzi ha sparato a qualcuno, tre colpi, dimmi se ci sono morti, sangue, feriti. Fammi sapere.” “Subito” rispose Alessi. Aleph sentì in sottofondo la voce del medico di guardia, a cui durante la guardia, per sua disposizione, era consentito dormire, ripetere pedissequamente al vicino, in modo interrogativo e cantilenante, i concetti da lui espressi un attimo prima: “… morti, sangue, feriti?” Immaginò che l’altro rispondesse negativamente, scuotendo la testa: non gli aveva già detto prima: “Ma niente…”? Ecco lui, Aleph, voleva sapere da Alessi che cosa fosse quel “niente”. “Non ci sono feriti. Il paziente è riuscito a fuggire” riferì Alessi. “Ma ci sono tracce di sangue? È stato compiuto un sopralluogo sulla strada? Vi sono testimoni?” incalzò Aleph. La risposta arrivò un attimo dopo, durante il quale presumibilmente Alessi aveva interrogato con lo sguardo il custode, ottenendone una contestuale risposta negativa, avendo l’Ortenzi potuto sentire le domande declamate da Aleph con tono in sostanza didascalico, anche se formalmente inquisitorio: “No, professore:” Poi ci fu un breve parlottio fra i suoi due interlocutori dall’ospedale, Aleph attese. Infine il dottor Alessi espose il motivo di quella chiamata notturna. “Ortenzi chiedeva se lei può fare una telefonata al commissario di polizia Ciocchetti del quartiere diciannovesimo, per giustificare i tre colpi sparati in aria.” Aleph trasse un sospiro. “Domani, domani” disse non senza far trasparire volutamente una nota di scoramento nella voce, atteggiamento divenuto per lui un’abitudine professionale. Io penso si tratti di un’autodifesa contro la disforia indotta e susseguente alle febbrili crisi di eccitazione dei folli, le loro euforie, e di cui i medici curanti possono venire investiti e, direi, contagiati. Aveva terminato la conversazione telefonica. Guardò la moglie. Si apprestava a spegnere la lampada sul comodino, quando lo colse una inespressa domanda: “Ma chi era il paziente fuggito, cioè allontanatosi di notte dall’ospedale senza avvertire?” Era stato costui ad avere provocato questo… incidente?… inconveniente, a quell’ora di notte. Si voltò a guardare la moglie. La donna non parlò. Lui disse dormiamo, la moglie si allungò nel letto, Aleph spense la luce sul comodino, si distese. Chi era? Udì domandare dalla moglie. Chi? Rispose. Vi fu un attimo di silenzio, poi la donna mormorò: “Lafleur!”
CAPITOLO 2 Come faceva la consorte di Aleph a conoscere il mio nome? Io ho una teoria. Quale? Questa. Aleph conobbe Lafleur a L’Aquila, quando si dovette ivi recare a prelevarmi, perché investitone per competenza territoriale, anche se ne ebbe contezza prima, quando seppe della rete. Strana consuetudine locale, pensò; ma non era una sua trovata quel mezzo di contenzione? No, era una consuetudine mutuata dal canile municipale. Aleph comunque era competente per il mio caso, in quanto titolare di un mandato interregionale, Lazio e Abruzzo, per il trattamento sanitario dei malati di mente, passibili di ricovero, per la gravità del male, nella sua clinica Santa Maria della Misericordia del quartiere diciannovesimo di Roma. Ma io, pur essendo un malato di mente grave, come sostenevano i miei persecutori armati della rete, per Aleph ero, in ogni caso, un malato di mente da trattare alla stessa stregua di tutti gli altri suoi pazienti, sebbene costituissi la variante di essere un “Platone” oppure un “Nietzsche”, invece dei più comuni “Napoleone” e “Garibaldi”. Io comunque non ho mai detto ad Aleph di essere Nietzsche, al massimo ho ceduto nell’ammissione sull’identità “Lafieri Silla”. Il direttore della clinica, tranne l’impressione iniziale al momento della cattura ed in quelli immediatamente successivi del suo arrivo nel capoluogo abruzzese ed il movimentato episodio con la Rosselli, all’accettazione, non aveva nessun buon motivo, nei miei due mesi scarsi di ricovero nella sua struttura ospedaliera, di conservare uno specifico ricordo di me: i ricoverati della clinica di Santa Maria della Misericordia, per chi non lo sapesse, oscillano in un numero fluttuante tra gli ottocento ed i novecento. Un migliaio, eh già! E senza contare i pazienti in ambulatorio e gli interventi di urgenza del servizio della “volante psichiatrica”. Come faceva quindi la moglie di Aleph a conoscermi, a conoscere il mio nome, il nome di Lafleur? Io, in quanto “Nietzsche”, al massimo potevo essere conosciuto con questo, diciamo, soprannome o anche per via burocratica come Lafieri Silla. Io e la signora Aleph, peraltro insigne pedagoga, come ho saputo successivamente, non ci siamo mai conosciuti. E allora? Questa è la mia spiegazione. Aleph viveva in osmosi psichica inconscia con la consorte, a cui trasferiva tutte le sue ossessioni subconscie dovute alla sua professione, per liberarsene ed operare in campo psichico libero da tabù e condizionamenti. Capisco che la mia spiegazione è insoddisfacente e priva di ogni validità nel campo della psicanalisi, ma abbiate pazienza e seguitemi. La signora Aleph, ovvero l’insigne pedagoga, anzi no, la signora Aleph, quindi individuata nel suo ruolo di consorte e non in quello professionale suo… la signora Lafleur, dicevo, pardon, la signora Aleph… l’insigne pedagoga… Aleph… Lafleur… scusatemi, mi gira un po’ la testa, forse è bene che prenda una pastiglietta, come mi consigliò tanti anni fa quella mia amica, dopo avermi dato la sveglia telefonica… chi era? Ma Claudia, la ragazza con le efelidi sul viso! Lafleur? Eh! Non era Claudia, ma Louise Andreas Salomé, Lou per gli amici. Ma che dici? Niente, scherzo. Ah! Ed ora, pover’uomo? Perché citi Fallada? Mah! E allora?
La signora Aleph doveva aver sentito pronunziare in quegli ultimi tempi il mio nome dal marito, che magari ogni tanto le riportava dei commenti su sue situazioni professionali, l’aveva registrato nella coscienza e mormorato al momento opportuno. Eh, sì! La tipica intuizione femminile! Ascoltatrici! Toh, le ascoltatrici! Mie ascoltatrici, diffidate pure di me, ma io non credo a quest’ultima spiegazione. Scusatemi, ma sono un po’ scettico; voi però non siate rigide, ma abbiate un sorriso indulgente per me, per Lafleur, io sono un vostro ammiratore, anche se sciocco, lo so… un bambino… Quale? Il bambino immaginario. Aleph si guardava intorno a sé nel buio quella notte, come un bambino, pensando a Lafleur. Ora vedeva chiaramente la scena: io mi avvicino ad Ortenzi, accendo una sigaretta, nell’oscurità il mio volto s’illumina di luce ambigua e sinistra, il pugno violento ed improvviso dal basso verso l’alto, il knock down, la fuga, i tre colpi di pistola, la lepre nella notte. Telefonò la mattina dopo al commissario Ciocchetti, provocando le mie ricerche alle stazioni Termini, Tiburtina ed Ostiense, dove non trovarono nessuna mia traccia. Si costituì un dossier a mio carico negli uffici di polizia. Quali? Quelli di competenza. Ah! La rete, la rete, Lafleur! Non ridete, la rete esiste, eccome! Traducete “rete” in inglese. Consulto il vocabolario: “net”. Il tennista lancia la palla con battuta violenta e precisa (o quasi); la palla batte contro il nastro della “rete”, rimbalza, ma cade nel campo avversario; “net” grida il giudice. Il tennista si appresta a battere di nuovo e… va bene! Accontentatevi di questa risposta e soprattutto non tenete conto di quest’altra interpretazione: inter-net, ossia international net-work, lavoro su “rete” internazionale. La rete, la rete, Lafleur! E non solo Lafleur! Internet, il Grande Occhio, il Grande Fratello, Aleph! Oh, Aleph, Lafleur! Ero sfuggito alla rete. Come? Semplicemente, prendendo il treno da Roma per Torino. Elementare, direi, se questa esclamazione accompagnata dal nome del noto assistente di Sherlock Holmes, ossia Watson, non apparisse, in maniera frustrante, tragicamente banale. Ma telefonando ad un commissario di polizia, il dottor Aleph, per altro padre di un’aspirante commissario di polizia, Elisa Aleph, sua giovane figlia, non sapeva di essere finito nella rete di Ciocchetti o meglio di essere caduto nella rete protettiva di Ciocchetti. Protettiva, hai detto? Sì, ricordate il clown di Venezia e la rete? Chi? Alvise Virgolini. Ah, già, la rete! Era bucata ed Elisa Morei, diciannove anni soltanto, era morta. Che scandalo! Che vergogna! Il dottor Aleph cadde dal trapezio volante (Lafleur), ma finì con il fondo schiena in successivi balzi attutiti su una morbida, soffice rete (Ciocchetti, Calvo e… Alessandoni, via!). Un anno dopo circa la movimentata mia fuga nella notte dal manicomio (letteralmente, ricovero per maniaci) di Aleph, un giorno, l’attento commissario Ciocchetti telefonò al direttore del “Santa Maria della Misericordia”, con cui si era già sentito periodicamente molte altre volte nel corso dell’anno, anche se non per il mio caso. Lafleur era morto. Dove? A Ponte. E dov’è Ponte? Sul Gargano. Ah!
Ma qui bisogna raccontare della vacanza estiva di Aleph trascorsa, quello stesso anno, a Capri. E bisogna riferire dei suoi fruttuosi incontri in quel suo indimenticabile soggiorno nell’incantevole cornice dell’isola dell’arcipelago partenopeo. Aleph, in appropriato costume da mare, prende il sole sulla spiaggia di Marina piccola e contempla i faraglioni. L’acqua del mare, nella baia, è verde, uno splendido verde smeraldo. Se ti metti la maschera e nuoti come un sub, vedi i pesci rossi, nella trasparenza verde dell’acqua. Ma che dici? I pesci rossi, l’acqua verde, la grotta azzurra. Un incanto, Capri, un incanto! La scala fenicia, ma come spiegare? Vediamo. Elisa Aleph, la figlia, aveva convinto l’illustre padre a passare le vacanze a Capri. Voleva visitare, diceva, sulla rocca di Anacapri, in cima alla scalinata di pietra, risalente ai Fenici, la villa di Axel Munthe, oggi trasformata in museo. Tiberio, l’imperatore romano ma prima di lui Augusto, Cesare Augusto Ottaviano, aveva scelto l’isola come sua dimora. Aleph, disteso a prendere il sole sulla spiaggetta di Marina piccola, è come l’imperatore Tiberio o come Cesare Augusto. Più indietro, una ragazza dalla pelle bianca e con i capelli biondi, in bikini viola, è in posizione seduta e cincischia sul pezzo di sopra del suo costume, indecisa. Alla fine si porta le mani dietro la schiena e si slaccia il reggiseno, poi con mossa definitiva, se lo sfila e ne apprezza la consistenza del tessuto con le mani, infine lo raccoglie e stringe in pugno in attesa di disfarsene, posandolo disinvoltamente lì accanto. Si è avvicinato un milite in divisa blu, pantaloni lunghi e camicia a maniche corte, con gli occhiali da sole scuri. Sta in piedi di fianco a lei con le gambe leggermente divaricate ed il berretto con la visiera ben calzato sulla testa. Ineccepibile! Poi, pallido in viso, si china leggermente verso la bagnante nordica e le sussurra una breve frase. Deve avere eccepito qualcosa, perché la ragazza con mossa indignata ridistende il reggiseno e se lo annoda al petto, ricoprendo le forme armoniose. La pelle candida del suo seno, che esposta ai raggi del sole mediterraneo rischiava una scottatura, se non proprio delle ustioni pericolose, è salva. Ed è anche salvo il pudore di chi ha inviato o, peggio, indottrinato il milite. Missione compiuta. Vietato scottarsi il seno, soprattutto se come due bianche colombe. Confesso che io, Lafleur, puro spirito, ho intravisto efelidi sparse su quel giovane seno di donna. Aveva già conosciuto i raggi del sole. Elio aveva già baciato il petto florido della bionda turista. Il detto di Erodoto: phtonòs theòn è stato rovesciato. Qui è stato l’uomo o la donna ad invidiare il dio. Sopraggiunse il commissario Calvo, in costume, e andò a distendersi allegramente accanto ad Aleph. Il dottore si riscosse, vedendolo, e lo salutò con cortesia, l’immancabile sorriso ironico scolpito sul volto, all’angolo della bocca. Quale spirito aleggiava sulla spiaggia di Marina piccola, quel giorno di luglio, a Capri, oltre al mio ed a quello divino di Elio?
CAPITOLO 3 Dove aveva conosciuto Aleph il commissario di polizia Giuseppe Calvo? A Capri. D’accordo, ma dove precisamente? Nella piazzetta. Era scontato: ma quando, come, in quali circostanze? La sera, quando i villeggianti vanno a prendere il fresco… Ma andiamo per ordine. Il caos degli interrogativi che si affollano rendendo tutto confuso deve essere composto nel cosmo del racconto. L’emozione e il sentimento hanno da mutarsi in ragione. Ma sarà poi possibile questo “chimico” procedimento? In quale laboratorio dell’anima o del corpo le percezioni sensibili diventano idee, sensazioni dell’anima? Dove la materia, per alchemici trasformismi, diventa mercurio spirituale, svapora ovvero dove lo spirito si materializza? Dove? Nella glandola pineale. Ma va! In nessun luogo: u-topia. Non è possibile ricomporre il solco tra corpo ed anima. Ma chi è stato? Chi è stato il responsabile di questa impossibilità del conoscere, dell’irriducibilità dell’esperienza alla coscienza? Hume? Kant? Prima, Lafleur, prima. Cartesio, il nostro René Descartes ha compiuto il misfatto? Forse in era moderna, ma già in antico… Platone e il suo Iperuranio staccato dal mondo sensibile? Prima, Lafleur, prima. Ma Platone, si sa, era un seguace dell’orfismo, da cui gli gnostici derivarono la dottrina dell’esilio dell’anima caduta prigioniera sulla Terra. La religione di Orfeo, la religione dei misteri. Prima, Lafleur, prima. Nella notte del Mito… cominciamo ad avvicinarci, Lafleur, cominciamo ad avvicinarci. Nella preistoria, l’unitarietà animale e divina dell’inizio s’incrinò e divenne frattura, una frattura da cui è scaturita la storia e la civiltà propria dell’homo sapiens. Da allora la nostra esistenza si accompagna alla ferita… Lafleur? Eh? Ordiniamo il cosmo del nostro racconto. Sì, certo. Stavamo dicendo di Aleph a Capri. Sì, nella piazzetta, a godersi il fresco della sera seduto ad uno dei tavolini dei caffé affollati, quando la calda aria della giornata estiva si va stemperando con l’imbrunire del giorno e lo spirare della brezza di mare arreca un certo sollievo gradevole, specie se accompagnato dal lento sorbire fredde bevande. Era il gesto di Aleph. Allungava la mano, afferrava il bicchiere e con la cannuccia tirava su un sorso della granita all’amarena. Poi posava il bicchiere sul tavolino e si guardava intorno. Al tavolino era seduto da solo, ma non era niente affatto solo, anzi fin troppo circondato da sconosciuti, che ogni tanto gli si avvicinavano e lo salutavano familiarmente con larghi sorrisi. Erano perlopiù giovani. Presumibilmente amici o conoscenti di Elisa Aleph. E la signora Aleph? Ad un convegno di studi a Palma de Mallorca. Oh, guarda! Non si può dire che gli Aleph non amassero il Mediterraneo ed io penso a ragione. E perché? Così! Bisogna vivere il Mediterraneo per capirlo. Ah, oui, les clubs mediterranées. Tra questi giovani che avvicinavano Aleph, seduto ad un tavolino dei caffè della piazzetta, una sera fece la sua apparizione uno meno giovane, corpulento, quadrato, con la testa completamente calva. Indossava un paio di pantaloni beige ed una maglietta bianca con griffe (tartaruga) a mezze maniche col colletto sbottonato, ai piedi mocassini traforati marrone chiaro. Era in compagnia di Elisa, che disse soltanto: “Il commissario.” Quindi scomparve. “Giuseppe Calvo” si presentò l’uomo. “Piacere, Aleph” rispose il dottore.
Si strinsero la mano e su esortazione di Aleph, il commissario di polizia si accomodò al tavolino. Il dottore commentò con grande favore l’intervento degli uomini di Calvo a salvaguardia della sicurezza dei turisti dalle scorribande di alcuni ragazzini. Aleph usò il temine classico di “scugnizzi”, che provocò un indulgente sorriso di Calvo, per il quale la razza degli “scugnizzi” era estinta da tempo, forse con gli ultimi anni della sua adolescenza, per essere sostituita da una specie più recente, ma egualmente sorpassata, cioè i “lazzaroni”. Per Calvo l’odierno nemico da battere non consisteva in uno o più individui, classificabili come “lazzaroni”, “ lestofanti”, “mascalzoni” o “delinquenti” né tanto meno come “guappi”, figure appartenenti ad un’iconografia ormai sclerotizzata e sorpassata dalla storia, ma in una entità invisibile, di cui potevano apparire partecipi mendicanti e buffoni, nane e ballerini (sic!), giostrai e neuropatici, boss e capiufficio e qui Calvo spiegò sorprendentemente al dottore che nella lingua italiana i termini boss e capoufficio sono sinonimi. Un Aleph giovane sarebbe poi andato a controllare sul dizionario dei sinonimi e dei contrari, ma l’affermato professore di psichiatria per esperienza sapeva che quel commissario di polizia se aveva fatto improvviso sfoggio di cultura era perché aveva studiato, come si dice, e quindi si riteneva sicuro del fatto suo anche nel campo della cultura, dove un “professore” poteva coglierlo in fallo. E qui è giunto il momento di soffermarsi su una notazione di ordine psico-sociologico, con approfondimenti culturali (e che più?), relativa alla categoria dei “dottori” e dei “professori” al tempo di Lafleur, che sappiamo essere un tempo scandito dall’irrazionale. Il dottore è un laureato in una delle discipline umanistiche o scientifiche, in cui appunto ha conseguito il “dottorato”. Ed invero è quest’ultima un’assurda bipartizione accademica, mai accettata da intelligenze versate in discipline interdisciplinari, composte ad un tempo da materie comprese sia nel campo umanistico che in quello scientifico. Esempio: la mia laurea in “Scienze della Psiche”, per il quale ho ricevuto il titolo di “dottore”, il “dottor Lafleur”, meno conosciuto del “dottor Zivago”, un mio caro amico – ciao Nicolae! - ma anche meno conosciuto del dottor “Mabouse”. Ebbene, dicevo, che nel mio piano di studi erano (state da me) inserite materie interdisciplinari, come ad esempio: Scienza dei calcolatori (materia scientifica); Storia del Mito (materia umanistica); Biologia dello Spirito (materia scientifica); Matematiche e Logiche della Conoscenza (materia umanistica); Ombra del cervello (materia umbratile, ma scientifica), ed altre materie o discipline consimili. Per “dottore” quindi dovrebbe intendersi un qualsiasi dottore in lettere, in musica, in scienze della cucina, l’odierna scienza dell’alimentazione, in matematica, in filosofia ed anche in medicina e chirurgia, nonché in psichiatria. Nel senso comune però il “dottore” è il medico, il dottore in medicina, quello che cura i malati ed ha prestato il giuramento di Ippocrate. Calvo era dottore, perché era laureato in Scienze giuridiche, ma Aleph era più dottore di lui, mi si perdoni la scorrettezza grammaticale, perché era laureato in Medicina e Chirurgia e quindi era dottore per antonomasia, ma anche qui non sono stato abbastanza corretto nello stile, perché ho usato una figura stilistica in modo alquanto improprio. Era dunque per questo che Calvo si rivolgeva ad Aleph con l’appellativo di “professore”, quasi come se per lui quest’ultimo titolo rappresentasse da un punto di vista grammaticale un comparativo di maggioranza o un superlativo del termine “dottore”, divenuto un anomalo aggettivo?
No, non era per questo. Calvo era perfettamente cosciente che il professore è colui che insegna nelle Scuole, quegli che ha acquistato uno speciale titolo nel campo della didattica, ma soprattutto professore è l’accademico che ha conseguito la libera docenza in una delle discipline universitarie ed in maniera eminente professore è il dottore in medicina, che ha conseguito la libera docenza in una delle discipline mediche, divenendo titolare di cattedra. Aleph aveva conseguito la libera docenza in Neurologia ed era titolare di cattedra alla quarta Università di Roma, quella sita in via Trionfale, nel quartiere diciannovesimo. Era un cattedratico. Era un illustre clinico. Il minimo di appellativo, con cui gli si poteva rivolgere era: “Professore”. E, invero, sono soprattutto i “baroni” della medicina, per usare un linguaggio del “Sessantotto”, a meritare questo titolo. Io credo che Calvo, quando avesse alluso a nane, donne non all’altezza dei posti di potere attorno a cui danzavano, e ballerini, personaggi da avanspettacolo, bravi solo a calcare le scene della rivista, non quelle delle alte sfere, aveva pensato, senza che il suo pensiero fosse affiorato alla coscienza, anche a dottori e professori, i baroni. Ma rischiava di diventare un donchisciotte. Forse fu per questo che interloquì con Aleph, in quella estate caprese. Il padre di Elisa aveva avuto contezza del commissario Calvo dalla figlia. Non aveva capito bene la storia dei ragazzini che chiedevano i soldi ai turisti sulla scala fenicia, dove per altro la giovane si era avventurata in abiti molto succinti ed una macchina fotografica al collo, nella calura del meriggio. Dal discorso era spuntato un funzionario di polizia, materializzatosi poi, nel fresco della sera, tra i tavolini dei caffé della mitica piazzetta dell’isola incantevole. Axel Munthe sostiene che quelli sono i posti più belli del mondo; senz’altro i colori e i profumi corrispondono a quelli del paradiso, dico io. Non arrivo però ad affermare che da morto sono andato in paradiso e che pertanto posso offrire la mia testimonianza, senza nessun rischio d’incriminazione per falso. No, non sono così avventato o presuntuoso, perché io, Lafleur, sono modesto. Queste precisazioni, una vera piaga del mio scrivere, costituiscono un lato del mio carattere, che Aleph, come vedremo, definì con termine strettamente scientifico “ridondante”. La ridondanza si può comprimere in messaggi più ristretti, ma di questo parleremo poi. Domanda: sono “ridondante” se affronto il tema scientifico della “ridondanza”? Aleph, Aleph a Capri, sulla piazzetta, in compagnia del commissario di polizia dell’isola. Quando si lasciarono, Calvo rassicurò il dottore romano. Sapeva delle ascendenze e della giovinezza napoletana di Aleph, ma lo giudicò e classificò “romano”. Comunque, si sarebbero rivisti, magari in spiaggia. Calvo non aveva ancora usufruito di nessuno dei suoi quarantacinque giorni di ferie. Avrebbe iniziato il primo dicembre e terminato il quindici gennaio da venire, disse senza convinzione. Elisa Aleph non aveva sporto denuncia per l’accaduto del pomeriggio sulla scala fenicia (quale accaduto?), ma anche se lo avesse fatto, la conoscenza tra lo psichiatra ed il commissario di polizia si sarebbe limitata all’incontro di quella sera, più che altro sollecitato da Elisa. Quale dunque fu la ragion d’essere degli incontri, non molti, tra Aleph e Calvo, successivi al primo? Lafleur! Eh, già! Non era difficile indovinarlo.
Quella prima sera, il professore, non so perché, parlò di me, proprio di me, fra tanti suoi malati di nervi, a Calvo, o meglio vi accennò soltanto. Il commissario drizzò le orecchie, così pensò Aleph, quando con nonchalance il direttore parlò del delitto di via Granodelturco, un clamoroso caso di cronaca nera della capitale, di cui però a Napoli non sembrava esservi stata eco. Comunque, al di là del caso giudiziario del delitto, il commissario s’interessò a Lafleur soltanto perché Aleph mi aveva menzionato. Come? Il ragionamento del commissario fu semplice: il medico romano gli parla di un malato di mente con precedenti penali, sparito, quindi bisogna seguire il caso. Ma come accadde che il discorso di Aleph scivolò, quella sera di luglio a Capri, su Lafleur? Quando aveva parlato di nane e ballerini, Calvo aveva ricompreso nei componenti dell’entità invisibile produttiva di crimini e malvivenza da combattere e contrastare, anche i neuropatici, accostati chissà perché ai giostrai. Ebbene Aleph era stato colpito del riferimento ad una categoria di soggetti, da lui conosciuta sotto il profilo scientifico (psichiatrico) come pazienti (sofferenti psichici) da curare. “Noi abbiamo fatto il classico” disse Aleph, mostrando di cooptare il suo interlocutore, il dottor Calvo, nel suo empireo culturale. “Psichiatria è la cura (iatria) dei malati psichici (psiche). Secondo me il discorso culturale sulla psiche deve essere ancora approfondito.” Calvo, il dottor Calvo, non rispose, ascoltava, con grande disponibilità. Subito Aleph passò dal tono accademico, inconsueto per lui, a quello più usuale, adatto al linguaggio di ogni giorno, la “chiacchiera”: “Prendiamo ad esempio la psiche di Lafleur, dottore in Scienze della psiche: che ne sa questo dottore della sua psiche?” Il commissario lo guardava; era attento. Il medico aveva già fatto un nome. Aleph lo guardò per invitarlo ad intervenire nel discorso. Il commissario domandò: “Chi è Lafleur?” “Lafieri, Lafleur, un paziente… strano però”. Ecco perché avevo colpito l’attenzione di Aleph: ero un paziente estraneo (“strano”) alle configurazioni tipiche dei malati di mente, penso io. Il commissario intervenne e precisò: “Lafleur o Lafieri?” “Lafleur, alias Lafieri Silla” ribatté Aleph, usando intenzionalmente un termine del gergo di polizia: “alias”. Calvo raccolse il messaggio. Questo Lafleur alias Lafieri Silla era un paziente di Aleph, ma anche un suo cliente. “È uno psicotico, uno psicopatico?” domandò Calvo, usando il gergo della psichiatria, ma senza nessuna intenzione cosciente d’invadere il campo professionale di Aleph, “Psicotico… psicogeno…” mormorò Aleph con tono leggermente interrogativo, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore, che sembrava essergli diventato improvvisamente estraneo. Al tavolino si era avvicinata una signorinella, come la definì Calvo, di quattordici, quindici anni circa. Il commissario decise che non era il momento di presentare la figlia al professore. Si alzò, posò amichevolmente il braccio sulle spalle della giovanetta e salutò Aleph. “Dottore, arrivederci.” Il dottore si riscosse subito e rispose sorridendo ai due, alzando la mano. “Ciao”, disse. “Ciao, Aleph” rispose Calvo e si allontanò con la giovanissima figlia, confondendosi tra la folla della piazzetta, nel fresco della sera estiva.
CAPITOLO 4 Una notte Aleph si svegliò. La notte era chiara, ma ancora non albeggiava, mancavano pochi minuti alle quattro. Aleph, benché si fosse coricato all’una, sapeva che non si sarebbe riaddormentato. Non si sentiva il vociare di nottambuli villeggianti, perché l’albergo era all’interno di un vasto giardino privato, ma a quell’ora i più sull’isola dormivano. Il dottore non riuscì a distinguere in seguito se la visione di me, Lafleur, della mia fuga dal suo manicomio, era un sogno trasformato in ricordo o un ricordo rivissuto in attesa dell’alba. Io propendo per la seconda ipotesi, anche se la prima può essere vera anch’essa. Forse Aleph aveva sognato “qualcosa” di Lafleur o che lo (Lafleur) concerneva o a cui lui (Lafleur) indirettamente rinviava ed ora da sveglio, pensando alla mia persona, riviveva l’immagine della mia fuga notturna, così come lui a suo modo, con sue correzioni cioè, l’aveva ricostruita a mente fredda il giorno dopo. Un’ombra scivola nella notte accanto a Gelindo, il volto s’illumina alla fiamma dell’accendino e l’ombra si allontana verso l’uscita, il custode tenta di fermare lo strano individuo, questi reagisce, il custode (“un caprone”, l’aveva dovuto pure difendere davanti a Ciocchetti) lo afferra in maniera violenta (ha pure a che fare con un pazzo o no?), il paziente reagisce e scaraventa Ortenzi per terra con un pugno (legittima difesa?) e fugge, il pazzo (Gelindo Ortenzi), invece d’inseguire, spara e fortunatamente non colpisce il bersaglio umano, poi la telefonata. Il commissario Ciocchetti del quartiere diciannovesimo aveva commentato l’episodio, riferendosi al fuggitivo ed allo sparatore con una battuta scontata: “Ma sono pazzi!” Aleph aveva dovuto “abbozzare” e l’episodio era finito lì, con una relazione scritta del custode dell’ospedale, pretesa da Ciocchetti ed infilata dall’attento e giovane funzionario di polizia in un fascicolo, che all’occhio di Aleph, non meno attento di quello di Ciocchetti, non era poi apparso del tutto scarno. Ma com’era andata quella notte della mia fuga? Come? Come l’ho raccontata io a voi, che quindi siete divenuti testimoni, ed Ortenzi ad Aleph, non come il medico, qui a Capri, ricostruiva in sogno o ad occhi svegli nel buio, in attesa dell’alba. Allora è vera l’affermazione mormorata dall’accusato: “Non è vero! E’ una macchinazione delle vostre notti bianche!” Le notti bianche non sono quelle sognanti e fantastiche di Nastenka (la piccola Anastasia) a San Pietroburgo, raccontate da Dostoewskij, ma quelle insonni di giudici irresoluti e crudeli, nel senso di crudi, che non si sono cioè fatti cuocere dall’umano calore della vita. Aleph attende l’alba e pensa a Calvo, quando il commissario napoletano gli aveva chiesto in uno dei colloqui successivi al primo, ritornando su Lafleur, i dati somatici di quest’ultimo. Il dottore aveva riferito gli scarni dati, che si possono riassumere in una scheda segnaletica: altezza media, magro, capelli ricci color cenere, occhi di ghiaccio, colorito pallido, riso raro e forte; usò l’aggettivo “forte”, per non sbilanciarsi con “gradasso”.
Ma che cosa era accaduto ad Aleph, quando Aleph aveva compiuto una tale breve descrizione fisica di un suo paziente ad un funzionario di polizia che lo interrogava in proposito, a parte il fatto che l’interrogatorio era stato sagacemente (“furbescamente”, aveva registrato Calvo nel suo inconscio) provocato dall’interrogato? Che cosa era accaduto in quel pomeriggio assolato, mentre erano seduti all’ombra del bianco colonnato del Tempio ben conservato di Mnemosyne, fatto costruire dalla cognata di Tiberio (o di Augusto?), proprio accanto ai Giardini dell’omonima Dea della Memoria, il dottor Aleph ed un corpulento quarantenne in calzoncini e maglietta bianca, ai piedi i caratteristici sandali, con allacciatura alla caviglia? Aleph fissava una lucertola attaccata in posizione verticale ascendente ad una vicina colonna del tempio, immobile al sole e pensava all’evoluzione dell’antropoide, che un tempo (il tempo della Pangea?) sotto forma di artropode marino uscì dall’acqua dell’oceano e cominciò a strisciare sulla terra come un rettile, sollevandosi prima sulle quattro zampe e poi soltanto sulle due posteriori, per assumere una posizione sempre più stabilmente eretta e passare da un profilo scimmiesco ad una sagoma sempre più umana fino a rassomigliare all’odierno homo sapiens. Dov’era diretto costui? Indubbiamente dalla terra verso il cielo. Presto avrebbe imparato a volare, ad abitare nello spazio, passeggiando nel moto uniforme intersiderale e quindi, continuando nella sua evoluzione ad essere modellato dall’ambiente, sarebbe diventato sempre più angelico, sempre più annuncio di una materia ognor più trasparente ed evanescente, in via di dissolvimento in energia pensante, in puro spirito? E questa intelligenza, questo intelletto privo di qualsiasi consistenza nello spazio puro, dove andava? Il dottore aveva lo sguardo sognante, il sole si era spostato e ne illuminava tutta la figura, la testa ora rivolta verso l’alto della colonna, dove la lucertola, in successivi guizzi striscianti, era in breve risalita. Su che cosa meditava? Sull’evoluzione di quell’essere vivente evoluto da verme marino a rettile strisciante, bipede umano eretto, la testa rivolta verso il cielo, volato nello spazio, annuncio di materia evanescente, energia spirituale, intelligenza pura nell’universo? Ma perché il suo pensiero era diventato meditativo? Per non pensare ad altro? Forse che queste sue meditazioni sull’universo abitato da puri spiriti avevano contribuito ad allontanare un’idea, che ora fortunatamente non gli attraversava più la mente. Nel tempio di Mnemosyne si era compiuto il rito misterico dell’oblio, avendo la divinità dispensato il mortale, sebbene a lei non sacrificante, dal segnare nella memoria un’idea (spiacevole) trasformabile in ricordo (persecutorio). All’uscita del tempio il mistero sarà svelato. Aleph disse: “L’universo è pieno di Iddii.” Il commissario Calvo, che aveva appena finito di memorizzare la mia scheda segnaletica, trasformandola in immagine, avanzò di un passo, uscendo dall’ombra nel sole. Sorrideva all’illustre clinico romano. “E quale grande personaggio dell’antichità classica vi ha ispirato questo pensiero, dottore?” domandò. “È Proclo che cita Platone, in epigrafe alla sua Theologia” rispose Aleph. S’incamminarono. Il commissario si fermò e il dottore lo imitò. Calvo indicò il frontone del tempio ad Aleph e disse: “Lo spirito della divinità scendeva nell’edificio a lei consacrato e lo animava, librandosi poi in alto attraverso le colonne. Per questo i templi antichi dominavano con i loro colonnati aperti sulle alture, per favorire il sopraggiungere ed il muoversi del dio.” Il dottore non commentò, come rapito da un suo rinnovato pensiero. Poi entrambi si voltarono di nuovo verso la strada e ripresero il cammino.
Ma prima di lasciare i luoghi ed il pensiero classico, Calvo aveva detto, ed ora nel buio che andava schiarendo il ricordo lo assalì nitido, ora, fuori dell’area sacra di Mnemosyne, ma sempre sotto l’influsso divino della Memoria: “Talete, figlio di Examio, fu il primo a dire che principio degli elementi è l’acqua e che il cosmo è animato e pieno di divinità. A sentire Erodoto, Talete era fenicio.” Mnemosyne non è la dea del silenzio e dell’oblio, ma la dea del ricordo, e se per una sua divina saggezza aveva reso grazia ad Aleph nel suo recinto sacro, cancellando (ma non per sempre) un’impronta infelice nella sua mente, quella impronta svanita e portata via dal vento della dimenticanza si riformava ora come idea e veniva ad affacciarsi nella stanza assieme al bianco dell’alba. L’idea diveniva immagine, immagine fisica di Lafleur: magro, capelli ricci color cenere, azzurri occhi di ghiaccio. E nell’immagine viva di Lafleur, materializzatasi in quell’alba estiva, ma livida, come in uno specchio, il dottore vide riflesso sé stesso, la sua figura di giovane medico, la corporatura più magra, i capelli meno argentei, il medico che andava affermandosi come clinico illustre in psichiatria. In quel momento desiderò parlare a sua moglie. Guardò l’ora: erano quasi le cinque e trenta; non gli sembrò opportuno svegliare a quell’ora la consorte, sapendo di allarmarla. Si alzò e chiuse la serranda; nella stanza ritornò il buio. Il dottore si era coperto con il lenzuolo; cercò di riprendere sonno, ma invano, come presentiva. L’universo è pieno di Iddii: Proclo, Platone, Talete, uno dei sette sapienti, la sapienza greca, la sophia. Ritornò l’immagine della lucertola immobile al sole sulla colonna del tempio di Mnemosyne. Il dottore ritornò al pensiero precedente alle sue speculazioni biologiche e antropologiche, assecondanti la teoria evoluzionista della vita. Ricomparvi a lui in immagine. Da puro spirito vedevo me stesso, la mia immagine, presentarsi (affacciarsi alla mente) al dottore. Ero un Lafleur allucinato e dagli occhi di ghiaccio, lievemente triste (depressione?); il dottor Aleph sovrappose alla mia immagine malinconica ancora lo splendore del sole meridiano di Capri, la lucertola sulla colonna, prova vivente dell’ilozoismo. Come? Yle, la materia e zoe, la vita: materia vivente; Talete, l’ilozoismo, il cosmo vivente, come poi dirà Platone nel Timeo, l’universo animato, aveva ragione Calvo, ma lui, Aleph, non aveva torto. Talete, dicendo che l’acqua è il principio di ogni cosa, dice che la materia è vivente; nell’acqua stagnante è un rigoglio di vermi, esseri nudi e striscianti, divenuti anfibi invertebrati, a cui l’ambiente forgia successivamente uno scheletro, per rendere possibile la loro sopravvivenza sulla terra, su cui stabilizzandosi sulle zampe posteriori riescono a sollevare il capo verso la volta stellare, finendo per elevarsi dall’atmosfera alla stratosfera e quindi essere rapiti in cielo e vagare nello spazio, come annunci (angeli) di materia (energia vivente: non orbitano gli elettroni attorno al nucleo di protoni?), come spiriti puri, pura luce. Nel buio ad Aleph sembrò di vedere un punto luminoso; guardò verso le serrande abbassate, ma non filtravano raggi di sole. In quell’istante si rivide in sogno. Non aveva sognato Lafleur, ma “qualcosa” a cui Lafleur rimandava. Che cosa? Quale cosa tra le cose? Nessuna cosa? Ed allora? Una minuscola entità luminosa? Aveva sognato il suo principio e la sua fine, il suo destino: l’Aleph.
CAPITOLO 5 Aleph e Calvo continuano a salire per via Orazio ed io dietro di loro, in ispirito. “O sono due persone oppure una sola!” disse Aleph. Calvo non interloquì; manteneva lo sguardo fisso per terra, con espressione concentrata, quasi uno sforzo per non rabbuiarsi. “Qui, dobbiamo procedere alla luce solare della ragione” continuò il dottore “e per farlo, dobbiamo partire dall’ipotesi che i Lafleur siano due: Lafleur e Lafieri Silla; anche se io penso o meglio ho il sospetto che si tratti della stessa persona.” S’interruppe, notò che il suo compagno non interveniva, mostrando di essere disposto ad ascoltare tutta l’esposizione sul tema da parte dell’illustre clinico, che ricostruì l’intera vicenda con un linguaggio ed uno stile più tipici di un’inchiesta di polizia che di una relazione sull’analisi di un caso psichiatrico. Ma non convergono a volte le situazioni che rispecchiano questi due linguaggi? Nel mio caso, il caso Lafleur, certamente sì! Tout à fait, come direbbero i francesi o jawohl, come direbbero i tedeschi e ... gli inglesi? Non ricordo, non so, I don’t know… Mi sono ricordato: of course! Quando si tratta di me, io con questi espedientucci cerco sempre di sviare il lettore, che è poi il mio giudice, quello vero, non quello fittizio, tipo Gigliola Bartoloni. Lafleur? Eh! Ma non hai già confessato il tuo delitto? Quale? Quello di Alexandra Pannoncelli, la giovane segretaria, vent’anni appena, violentata ed uccisa in via Granodelturco, a Roma. Rispondo io: ma non si può trattare di autocalunnia, così tanto per esibizionismo? Eh no, non per i tuoi giustizieri! Quelli, Lafleur, sapevano! Ah! Io, in ispirito, sono con le spalle al muro e quindi svolazzo via. Però… però che cosa? Voglio aggiungere che… che io… ecco non ho violentato Alexandra. Ah, no? Non mi credete: sono sconsolato, non potete capire! Loro, però, hanno capito! Ah, ah, ah! Io, Lafleur spirito, faccio spallucce, sono triste. La tesi del Dimarzio, la tesi del Dimarzio, mi dico. Chi? Il Dimarzio, il cronista di nera che aveva ricostruito il mio delitto ovvero il delitto a me attribuito: gli uomini non sono colpevoli, perché sono le vittime che si offrono allo stupro e all'omicidio; l’antico dissidio tra l’uomo e la donna, quella lotta per la sopravvivenza della specie, che può risolversi nel bene e nel male… Nel bene e nel male, hai detto? Sì, ma come risultato virtualmente duplice, quindi vita o morte al di là di ogni giudizio morale e quindi giuridico, al di là del bene e del male... Un momento, Lafleur! Ascoltami. Ho imparato a conoscerti o meglio ho imparato a conoscere il tuo maestro e la tua guida, in tedesco Führer, il pazzo (sofferente) folle che tu fingi di essere, il suo pensiero; cito parafrasando dallo Zarathustra, il passo del pallido delinquente e del rosso giudice della parte prima: “Così parlò il rosso giudice: ‘Perché questo delinquente ha ucciso? Voleva violentare.’ Ma io vi dico: la sua anima era assetata di sangue, non di libidine: egli aveva sete della voluttà dello strangolamento.” Eh! Ma, tu, che dici? Quello che dici tu, Lafleur, che non volevi violentare, anzi che non hai violentato Alexandra. Ma che razza di... Eh! Ma tu, maledetto grillo parlante, chi sei? Io? Io, Lafleur, io sono ‘Loro’! Ah, ah, ah! Aghrrr... maledetto! E tutto questo azzuffarsi e maledirsi davanti al lettore! Lafleur e Loro, ma che maleducati! Contegno, diamine! Un maggiore contegno.
Che cosa diceva Aleph? Che cosa stava ascoltando Calvo? Diceva dei due Lafleur e dei suoi sospetti. Dottore, ma voi, voi quando avete avuto contezza di questo Lafleur per la prima volta? Una tale domanda che Aleph avrebbe voluto sentirsi rivolgere da Calvo, in modo da avere anche lui un inquisitore a cui dover dare spiegazioni, mulinava nel cervello del dottore, da tempo. Ma senza aspettare la domanda che non venne, disse: “Una vera e propria contezza di questa mio psicopatico l’ho avuta una notte, quando fui svegliato a causa della sua fuga dalla mia clinica o meglio…” C’è sempre un “o meglio” nel mio discorso, un chiarire successivo, uno giustificare, che mi appartiene sia come Aleph che come Lafleur: uno, Lafleur, ormai in due, Lafleur ed Aleph, e quindi due, Lafleur ed Aleph, in uno, Aleph – ed in questo senso Aleph, in cui ero entrato come spirito, in francese fantôme ed ora vi dimoravo come fantasme, ora a Calvo doveva apparire come ispirato, invasato direi, un soggetto da trattare con una certa attenzione, ecco perché manteneva lo sguardo fisso per terra, con espressione concentrata, quasi uno sforzo per non rabbuiarsi. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei; chi pratica lo zoppo, impara a zoppicare; le cattive compagnie… “…ebbi contezza del pazzo, di questo Lafleur la mattina dopo, ma era già pomeriggio in verità, quando nel mio ufficio, sbarazzatomi di ogni altra urgente incombenza, dovuta all’intervento del Commissario Ciocchetti per la sparatoria notturna…” “Quale sparatoria, dottore?” domandò Calvo incuriosito. “Ah!” disse Aleph e riepilogò per il commissario tutti i particolari della vicenda della mia fuga dal suo manicomio criminale, fuga peraltro già genericamente conosciuta da Calvo. Ah, il funzionario di polizia ebbe un sorriso d’indulgenza: tre botti, in aria! E poi? “E poi, dopo avere messo a posto la vicenda notturna ed avere pregato Ciocchetti di tenermi informato, finalmente mi sono potuto concentrare da solo nel mio ufficio sul fascicolo di Lafleur ovvero Lafieri Silla.” Aleph s’interruppe. Allo psichiatra non era sfuggita la impercettibile vena d’ironia nel commento di Calvo all’esposizione dei fatti relativi alla sparatoria – ed a questo proposito ora in ispirito lancio sempre un malevolo pensiero all’indirizzo dei defunti del custode della clinica Gelindo, ma non più con la stessa passione di allora che subito sbollisce, ora anch’io con la stessa indulgenza e lieve ironia di Calvo, acqua passata. “Comunque non ho certo trascorso tutta la mattinata con il commissario di quartiere” disse. “Ho dovuto pur interessarmi alle urgenze di altri casi.” “Eh, certo” rispose il funzionario napoletano. Il dottore, soddisfatto dell’approvazione, seppure scontata, continuò: “La giurisdizione, relativa al mio mandato di Medico del Servizio Psichiatro pubblico, si estende territorialmente oltre a Roma ed alle province del Lazio, anche all’Abruzzo. Ed è ad Aquila che ho visto e conosciuto de visu per la prima volta il mio paziente, di cui poi ho rievocato quella mattina anche un piccolo movimentato episodio al momento del suo primo ricovero da me…” Quale? Ho domandato, ma la mia voce spirituale non è giunta fino ad Aleph, e come poteva? Ma tu non dimoravi nello spirito di Aleph, Lafleur? Sì, ma Aleph ha momenti di lucidità, in cui non si lascia possedere dal mio demone ed allora è Aleph e soltanto Aleph, senza nessuna follia, senza nessuna divina mania, nessuna possessione. Ah! Non ha egli detto: “Qui, dobbiamo procedere alla luce solare della ragione…”? E così dicendo non si è staccato dalla notte del Mito, dall’ombra notturna della passione emotiva, per avanzare nella luce solare del giorno, nella luce della ragione… Va bene, abbiamo capito. Vai avanti! Voglio soltanto precisare che l’ipotesi da cui parte Aleph introduce un discorso scientifico e la Scienza, lo sappiamo, si basa per sua stessa ammissione su ipotesi, un sapere ipotetico quindi, privo della luce della “Verità” incontrovertibile.
La mia voce spirituale che chiedeva spiegazioni, che voleva conoscere la “Verità” sulla mia presunta aggressione alla dottoressa Rosselli non ha raggiunto il dottor Aleph intento a conversare con Calvo in cammino sulla strada della collina napoletana, a Posillipo. Il dottore, emerito psichiatra, parlava delle sue attività quotidiane al commissario di polizia napoletano, riferendo di me: “Ma poi Lafieri è diventato un paziente qualsiasi. Non una pratica tra le mille, ma un paziente da osservare e curare tra mille pazienti da osservare e curare.” Curare? E va bene! Calvo commentò sotto voce, mostrando una sua certa disapprovazione. Meglio sorvegliare e punire, azzardò. Aleph taceva. Calvo non osò oltre. In verità il dottore aveva sentito la voce del suo interlocutore, ma le parole “sorvegliare e punire” non avevano raggiunto la sua ragione cosciente, diciamo così; esse erano andate ad incasellarsi in uno scomparto della sua memoria, dove andarono a combaciare con il solco di parole sorelle, già presenti come impronte derivate dal titolo di un libro, letto da Aleph in gioventù. In quel momento egli non aveva badato a quelle parole del suo interlocutore, ma stava riflettendo tra sé e sé su quella sua perplessità insortagli allora al momento della registrazione del mio nome all’accettazione, perplessità che ora, sarà stata la vicinanza di Calvo, gli si presentò come un sentimento di sospetto di fronte alla mia imprevista reazione, uno strano trasalimento che ebbi e che al dottore apparve come strano, direi misterioso, se non fosse stato per la certezza, la luce della sua Scienza, che comunque anche lui, edotto in metafisica, conosceva come sapere ipotetico. “Fu registrato come Lafieri Silla, per sua volontà e per mia accondiscendenza, anche se in un primo tempo si presentò come Lafleur; ma erano due nomi o appellativi, se così vogliamo definirli, che riguardavano un’unica persona, quella che avevo davanti a me, mentre il mio problema, pardon! il nostro problema è se questo nome unificato Lafieri Silla alias Lafleur si riferisca, nella vicenda che andiamo a verificare, ad una sola persona oppure a due persone distinte. Hic sunt leones.” Aleph tacque. Calvo non intervenne. Il dottore riprese a parlare: “Eppure questo Lafleur sapeva!” La frase fu detta con un tono così invitante che sarebbe apparso normale a qualsiasi interlocutore intervenire con la domanda: “Che cosa?” Tale domanda il commissario non la pose ed allora Aleph insistette: “Sapeva.” “Ma faceva lo gnorri” disse ridendo Calvo, a sorpresa. Il dottore sembrò meravigliarsi, perché il commento del suo compagno dava per scontato e manifesto quello che lui non aveva detto o forse rivelava una partecipazione un po’ troppo generica e distratta all’oggetto del suo pensiero. “No, gnosi” disse sorridendo enigmaticamente. “Come?” domandò subito Calvo, inclinando l’orecchio sinistro verso la persona di Aleph, con un tono d’imbarazzo proprio di chi non aveva afferrato il suono della parola. “Lafleur sapeva di essere l’ombra di sé stesso” disse Aleph. Il commissario esplose in una allegra risata. Aleph si voltò a destra dalla sua parte, per comprendere meglio la reazione dell’amico alle sue parole, ma notò che anche Calvo si era voltato a sua volta a destra e stava salutando un giovane passante: “Ciao, Minieri.” Aleph rallentò e si voltò a guardare il giovane, poco più che un ventenne, che aveva risposto con un sorriso timido al saluto del commissario di polizia e che sembrava indeciso se fermarsi o andar via. “Ciao”, disse ancora Calvo a mo’ di congedo e sempre ridendo riprese ad andare al passo con il dottore. “È un giovane commissario di polizia” spiegò. “Un collega giovanissimo.” “Ah!” commentò Aleph e pensò a Capri, alla scala fenicia dell’estate ed a sua figlia Elisa.
Forse era anche un po’ a causa dello sprone e direi dell’ambizione della ragazza, che si trovava ad avventurarsi sempre più nel caso Lafleur, per svelare il mio mistero, lì dove lo sforzo congiunto di polizia e gendarmeria non riusciva a raggiungere un risultato gratificante per il solutore dell’enigma, gratificante per il suo senso di… di che cosa? di…potenza. Ah! “Lafleur era consapevole di essere virtuale, come noi tutti d’altronde” riprese a dire Aleph. “Come?” domandò soprappensiero Calvo. “Una scintilla divina dell’anima del Tutto” disse il dottore “quindi, come parte del vero Tutto, l’ombra di sé stesso e ad un tempo del Sé.” Aleph sorrise guardando Calvo e poi spiegò rapidamente: “Un po’ di dottrina orfica, un po’ di neoplatonismo e un po’ di Jung.” È l’anima straniera sulla terra; quando cadde dal cielo frazionandosi nelle mille scintille del tutto della Luce, incontrando la materia, l’anima ferita, disgiuntasi dal sommo Bene, incontrò il Male; da allora vaga straniera e peregrina nel suo esilio terreno, in attesa di risalire al cielo e ricongiungersi al suo Sé, l’anima del Tutto. Ma il nome, il nome, che cosa rivela il nome? Lafleur ha una sua derivazione d’Oltralpe: la fleur, il fiore; Lafieri? Un radice tematica laf- con desinenza -ieri tipica dei nomi italiani ed in diversi casi di nomi derivanti da appartenenze a corporazioni artigiane o di lavoro come ad esempio: gioiellieri, lavoratori dei gioielli, minieri, lavoratori del minio; conchiglieri, lavoratori delle conchiglie; panettieri, lavoratori del pane; carovanieri, lavoratori dei trasporti e così via. Comunque è bene tagliare corto sul senso dei nomi, rinviando sull’argomento alla lettura del “Cratilo”. Qui è interessante mettere in rilievo che “Lafieri” (lavoratori di che cosa? Lafieri, laf-ieri, lav-ieri, per traslitterazione successiva della labio-dentale v in f, lavoratori della lava, quella vulcanica dell’eruzione del Vesuvio, già descritta da Plinio) per Aleph è il nome di Lafleur più vicino alla sua vera identità, più vicino di questo contrabbandato nome, Lafleur, con cui mi presento. Ed ora qui, a Napoli, non so, ma sento che questo nome Lafieri, con desinenza in -ieri, mi è più consono di Lafleur, sarà forse per lo sfondo del Vesuvio e del golfo, di questo azzurro d’incanto, di fronte a cui il dolore e l’affanno si placa (pausilypon). Sarà! Quale che sia il nome, come bene ha capito Aleph sin dal primo momento, come ben sa Calvo ed ogni altro, qui interessa accertare se Lafleur alias Lafieri Silla sia quel brutto mascalzone che prima ha ammazzato la povera Alexandra, riuscendo a farla franca con la giustizia del suo Paese, poi si è ricongiunto a Ponte con criminali del suo rango (altro che “barbieri invisibili”!), città in cui finge di morire, per riparare poi in Sud America, credendosi di mettersi al sicuro e dove invece non riesce a sfuggire alla vendetta dei suoi pari, al suo destino di morte. E allora? Aleph, Calvo e gli altri sanno? E come? Sanno nel senso di “sospettano”, “sentono”. Ah, sensitivi, dunque! Mah! Il loro sapere è un temere ed auspicare: temono che Lafleur sia tutto questo ed auspicano che Lafleur sia stato tutto questo. La prova è là in quel freddo inverno, l’inverno definitivo di Lafleur, la sua tumulazione ultima, senza ritorno. Essi, Aleph e Calvo, stavano recandosi a piedi in via Manzoni, a casa di Caterina Raineri, la moglie del mio buon amico Osvaldo, per raccogliere ed aggiungere al mosaico ormai quasi compiuto della mia intera trascorsa vita l’ultimo tassello, quello definitivo ed illuminatore di tutta la mia vicenda, la vicenda di Lafleur, e mettere la parola “fine” alla mia storia. Ci riusciranno?
CAPITOLO 6 Sono quasi arrivati all’incrocio con via Manzoni: io svolazzo dietro di loro. Sembrano fermarsi. Ne approfitto, scendo rapidamente la via Orazio fino al muretto, dove era vergata con il gesso la scritta anonima: “Dimmelo in faccia verme!” L’homo sapiens è un verme. Guardo il mare. È incantevole il paesaggio. Chi non lo conosce, dovrebbe recarsi in questa città ad ammirarlo. Chi è stato a Napoli una o due volte, dovrebbe ritornare, per contemplare ancora il panorama del golfo. Chi lo vede frequentemente o abitualmente, ogni tanto dia un’occhiata. Chi vi abita e non ha tempo o desiderio o possibilità di fermarsi a guardare, al massimo colpito en passant qualche rara volta da stupiti forestieri, non guardi costoro con il suo sguardo di compassione, che pure è condivisione di passione e soprattutto non assuma un atteggiamento di malcelata superiorità, che maschera un sentimento di nascosta invidia per quelle anime candide o apparentemente tali, perché essi i forestieri sono veramente stupiti dal panorama, che per loro comprende anche gli abitanti del posto, circostanza quest’ultima che differenzia pertanto il panorama partenopeo nella prospettiva del diverso sguardo del forestiero e dell’indigeno, se così vogliamo definire gli abitanti del posto, ma usando il termine vuoto di ogni riferimento di inferiorità rispetto ad un colonizzatore (spagnolo), venuto da lontano. Ed io Lafleur? Sentii la voce senza volto gridarmi: Lafleur, guarda il mare! A stento trattenni l’impeto di commozione e di angoscia e volai via su dai miei amici, che intanto, appena imboccata via Manzoni, si erano fermati sotto il palazzo delle colonne, i pilotis che sorreggendo la costruzione creano un terrazzo belvedere sul panorama del golfo. Aleph ammirava lo spettacolo e si riposava, ma era uno sportivo, avendo in gioventù praticato lo sci d’acqua e tenendosi sempre in forma, l’estate con il nuoto, l’inverno con lo sci da fondo. Calvo era un ex pallanuotista, quello che sa tutto sulla palombella e sulle acque azzurre e il cloro delle piscine, ma anche del tramonto d’oro nell’acqua del mare, dove tendendo in alto il braccio ed agitando il palmo della mano che regge il pallone, come uno che suona il tamburello o con mano più ferma mantiene in equilibrio al di sopra della spalla il piatto tondo della calda pizza da servire al cliente, tenti d’ingannare l’avversario sulla traiettoria del tiro, sorprendendolo poi con un lancio teso (non a palombella, il pallonetto del tennis, ma anche del calcio) e violento, che manda il pallone a sfiorare le braccia mulinanti inutilmente protese ad intercettarlo, con il gesto tipico dell’addetto che sulla portaerei segnala lo spazio di decollo al velivolo bellico. E dopo questo mio sfoggio di proustianesimo (sono un lettore dell’autore della Recherche o meglio della sua opera, davvero interminabile), di stile definibile cioè pretenziosamente alla Proust, mi concedo nuovamente al racconto del colloquio tra Aleph e Calvo, di cui era comunque bene conoscere i trascorsi sportivi. Calvo era fermo accanto ad Aleph e taceva ed io tra loro, invisibile e commosso, io spirito, iddio, come diceva Proclo, citando il Platone delle Leggi o, se volete, animula vagula blandula, come poeticamente si esprimeva Adriano… Chi? Adriano, il famoso imperatore romano. Ah! Che cosa pensava Aleph? Io, spirito, introdottomi nella mente e nella fantasia del dottore psichiatra, non più come immagine oggetto o forse ancora in tale attitudine o sembianza, ma anche e soprattutto soggetto agente (in termini poveri, spiritello), seguivo i suoi pensieri, che con il vento mi portavano via verso l’isola di Capri, nella spiaggia di Marina piccola tra le salamandre al sole, dove per salamandre al sole intendo le pallide bagnanti del nord, in breve divenute colore aragosta. Oh, estate caprese!
Il dottore si era svegliato, senza capire di avere sognato l’Aleph, il punto luminoso che tutto contiene nel presente del suo invisibile imperscrutabile centro, il passato e il futuro, la vita e la morte, l’universo e le cose, gli animali, le piante, i pianeti, la storia e il destino, gli uomini, il dolore e il ricordo, Lafleur e il suo delitto, il golfo di Napoli, il dottor Aleph stesso ed il commissario Calvo, che ora cominciava ad animarsi, la telefonata dello psichiatra alla moglie in vacanza alle Baleari, la scala fenicia e tutto, tutto, tutto ancora, anche il nulla. Rievocando la telefonata alla moglie, poi effettuata nell’attonita alba di Capri, Aleph si mosse, imitato da un Calvo silenzioso e serioso, in aderenza alla silenziosità e seriosità del suo collega dottore, collega di silenzio e di serietà ed anche di università. Nel suo spirito, in cui ormai io dimoravo, si affermava un sentimento di leggera malinconia, la melanina dell’anima, rievocando l’aleph, il suo (del dottore) destino cosmico, ed in quest’ultimo senso il destino del dottor Aleph era il destino dell’Universo, il principio e la fine, il punto Omega. Aleph sentì, allontanandosi dalla balconata dei pilotis e distogliendo lo sguardo dal golfo di Napoli e dal suo paradiso di sole e di azzurro mediterraneo, un’irresistibile nostalgia per quelle strade della sua infanzia, che non c’era più ed io con lui commosso e invisibile, sparito tra agli umani ed in forse tra i divini, io Lafleur Aleph. La moglie sentendo una spaurita animula pallidula, rigida, nudula, (come direbbe Adriano), in quell’alba tragica (tragica, addirittura!), capì che una sconvolgente intestina spirale risucchiava il marito verso il fondo e dalla lontananza del suo luogo di villeggiatura (ma non era andata ad un congresso!) … e dalla lontananza del luogo dove era impegnata professionalmente, Palma di Maiorca, riuscì, attraverso il telefono, la voce a distanza, a raggiungere emotivamente il marito e – ed in questo consiste la particolarità – ad affacciarsi sull’orlo del pozzo della nevrosi, in cui lo spirito del male, quel tale Lafleur, ahimé trascinava impercettibilmente il suo illustre, ma ingenuo consorte. Questo atteggiamento della signora Aleph sarebbe stato facilmente coglibile da chi tra i congressisti avesse seguito con attenzione l’intervento della pedagoga romana, incentrato sullo studio della mente dei giovani da educare, che non doveva tralasciare una sapienza (parole della dottoressa Aleph) della medicina, e più precisamente la medicina ipnotico allopatica, una teoria caposaldo degli studi in proposito del marito, teoria però non conosciuta nell’aspetto interpretativo dai congressisti presenti alle Baleari, così come presentato dalla studiosa italiana, nel senso che ignoravano non la teoria, ma quell’interpretazione ed ovviamente l’autore. Ma che cosa era questa allopatia ipnotica? Io credo che si trattasse di empatia, una specie di transfert e contro-transfert, quella interazione tra paziente e curante, che stava per l’appunto travolgendo il marito, incapace nel dosare le dosi (sempre parole della dottoressa Aleph) di una tale medicina. Dottrina stramba, esposta in modo strambo? Succede nei recinti della malattia della mente. Comunque io sono stato sommario ed impreciso, d’altronde non potevo qui riportare il trattato di Aleph sulla medicina allopatica ipnotica. Ed ora? Aleph, il mio fratello in ispirito, ormai conscio dell’Aleph, che cosa diceva a Calvo, procedendo in via Manzoni, in direzione della casa di Caterina Raineri? Nulla in particolare, ma riassumendo un’ultima volta la mia vicenda, così si espresse: “A Ponte ho scoperto una bara vuota, ma non credo a Napoli.” Erano giunti all’altezza, dalla parte destra della strada, di una villa immersa nel verde, un peristilio all’ingresso, le colonne di candido marmo di stile corinzio, il portone scuro verniciato, l’aspetto silenzioso ed austero. Si avvicinarono e raggiunsero l’ingresso di casa Raineri.
CAPITOLO 7 La signora Caterina Raineri credeva nei suoi occhi, anche se ora l'età e gli affanni della vita ormai trascorsa già per ampio tratto le avevano affaticato la vista, che non era più acuta come un tempo. Ma questo indebolimento fisico nello scrutare le scene della realtà a lei circostante, l'anziana signora aveva imparato a sostituirlo con una maggiore perspicacia, dote sua indubbiamente naturale, ma arricchita dall'esperienza, se così si può dire. Era lei buon’amica di mia madre, o almeno quella presunta tale, quella di cui comunque portavo il nome di famiglia, sebbene non fosse della sua famiglia ancestrale, ma di quella nel cui ceppo si era inserita per diritto coniugale. Caterina Raineri frequentava anche lo stesso ambiente della sua amica Elvira Lafleur e come lei si era introdotta nei laboratori del dottor Sigma, il serio studioso svizzero di genetica molecolare; si era introdotta nei laboratori del dottor Sigma, ma non nelle sue più discrete intimità private, quelle in cui invece la disinvolta Madame Lafleur, forse grazie al suo nome, che poteva contrabbandare come svizzero del cantone francese, a quanto pare, stando alle credenze o meglio ai racconti, o meglio ancora alle allusioni o alle frasi sussurrate della sua "migliore" amica, si era infilata senza troppi complimenti. Questo era stato più o meno il racconto che più di una volta aveva fatto al marito, più divertito che interessato alle parole della moglie, e che poi aveva lei stessa provveduto a spargere, appunto con allusioni o sussurri, nel giro delle comuni conoscenze, cioè anche quelle della signora Lafleur. Un giorno, era un pomeriggio, l'amica Elvira le aveva detto che doveva recarsi fuori città, più esattamente a Vico Equense, per alcuni acquisti di stoffe ed altri tessuti. Lei, Caterina, a cui da qualche tempo l'amica si sottraeva, in special modo il pomeriggio, aveva assentito ed aveva rinunciato ad accompagnarla, assecondando così il desiderio di mia madre, che voleva compiere gli acquisti, senza essere troppo condizionata da orari comuni. Ebbene, quel giorno, cioè quel pomeriggio, Caterina Raineri pensò bene di recarsi in via Chiaia, presso lo studio del dottor Sigma, per chiedere alcuni consulti su problemi ginecologici di una sua nipote diciottenne: sì, era questo il motivo della visita non programmata. Giunse con un taxi in via Chiaia, attraversò la strada e s'infilò dritta nel portone, senza dare neppure un'occhiata alla guardiola del portiere. Salì rapidamente a piedi fino al secondo piano, poi si arrestò di fronte alla porta chiusa dello studio del dottor Sigma, ma non bussò. Si voltò, ritornò indietro sul pianerottolo e si diresse verso la porta a vetri del laboratorio: le due ante in legno esterne, di giorno e quindi anche nella pausa pomeridiana, erano sempre aperte. Tentò di aprire, ma la porta a vetri era chiusa a chiave. Che cosa fece Caterina Raineri?
Quello che, io penso, aveva programmato già da lungo tempo, quando una volta aveva sorpreso un'addetta del laboratorio a trafficare accanto ad una delle due grosse piante poste a fianco all'ingresso. Ed infatti si chinò verso la pianta di sinistra, la spostò, la smosse, trafficò a lungo, ma dopo un po’ si rialzò leggermente perplessa ed a mani vuote. Rifletté alcuni istanti poi si chinò sulla pianta di destra e frugò a lungo, ma invano. Si rialzò e cominciò a fissare la porta a vetri. Pensava. No, non pensava, tendeva l'orecchio, ascoltava nel silenzio pomeridiano, quale può essere il silenzio pomeridiano a Napoli, per distinguere rumori nelle scale o di là dai vetri. Silenzio. Silenzio assoluto. Caterina frugò nella borsa ed estrasse una strana chiave (uno spadino? Un passepartout?). Si guardò d'intorno tese l'orecchio e fece scivolare la chiave nella toppa. Pochi colpi smussati e decisi: la serratura funzionò, ma lei non spinse la porta subito. Estrasse la chiave e la infilò in una tasca interna del vestito, perché il suo vestito aveva tasche interne e segrete. Lievemente mosse l'uscio, estrasse un filo metallico dalla borsa e lo infilò verso l'alto, per bloccare il campanellino. Contemporaneamente spinse decisa la porta a vetri e la spalancò. Ehilà, Caterina! La donna ebbe un sussulto. Possibile che avesse udito la mia esclamazione dall'aldilà, tra l'altro in un tempo trascorso! Oddìo, nell'aldilà, il tempo è circolare e quindi, invertendo la freccia del tempo, si può tornare indietro nel passato e, per esempio, scoprire Caterina Raineri che forza l'ingresso del laboratorio del dott. Karl Sigma, eminente scienziato di Basilea e dottissimo di genetica (Caterina non distingue tra genetica e ginecologia, ma il problema di una tale distinzione al momento le parrebbe sinceramente inopportuno) spostatosi a Napoli negli anni cinquanta, per approfondire i suoi studi o meglio le sue conoscenze in questo settore. Ma a questo punto vorrei fare un'obiezione: chi vi ha detto che nell'aldilà il tempo è circolare? Tu! Io? Sì! D'accordo, ma consideriamo insieme il problema, il problema del tempo... certo, io parlo dall'aldilà e quindi so che in questo aldiqua da cui parlo, che per voi è l'aldilà, il tempo è circolare, ma questo non significa che nell'aldiqua, quello vostro, il tempo non debba essere anch'esso circolare, anzi la dottrina orientale e quella occidentale non si sono sempre soffermate sul tempo ciclico, il tempo dei cicli delle stagioni della piantagione e del raccolto e della semina autunnale e del rifiorire in primavera, dopo il risveglio dal sonno invernale... Alt! Alt, Lafleur! Stop! Rientriamo nel nostro tempo, il tempo del nostro racconto e limitiamo la digressione, lasciando ad altra occasione la possibilità di scrivere un trattato filosofico sul tempo che scorre, sullo spazio-tempo, sul tempo lineare e l'eskaton, il tempo dell'ultimo giorno. Dove eravamo rimasti? Rileggiamo le righe un po’ sopra: Sigma, a Napoli, negli anni Cinquanta, approfondisce, nel suo studio laboratorio di via Chiaia, i suoi studi, le sue conoscenze su problemi di genetica, che Caterina Rainieri, moglie del pittore Raineri, mio amico, direi fraterno, creando in questo modo per me quasi un'affinità con il suo intraprendente coniuge…
Ehilà, che succede? Caterina Raineri sussultò. Che cosa era successo? La donna aveva avuto un sussulto non perché era stata raggiunta dall'esclamazione di quell'improbabile fantasma che sono io, uno spirito dell'aldilà, che a quanto pare vaga nell'aldiqua, ma forse perché sorpresa da un rumore inatteso, che io con le mie orecchie purtroppo non più materialmente esistenti non ho sentito. Comunque si ricompose, quando scoprì che quel rumore, forse lo squillo tardivo del campanellino della porta a vetri, che credeva di aver bloccato, non aveva prodotto effetti. Chiuse la porta e s'incamminò con aria indifferente tra le stanze del laboratorio, guardando a destra e a sinistra, tra banchi, vasche di vetro, provette ed alambicchi gorgoglianti, come se si aggirasse tra le bancarelle di un mercato per fare la spesa quotidiana. Giunse infine alla porta divisoria tra lo studio e il laboratorio, dove sul piano, il secondo del palazzo seicentesco, si ricongiungevano i due appartamenti, corrispondenti ai due diversi interni. Con le dita della mano destra operò una leggera pressione sul legno della porta, che ovviamente, come lei immaginava, non cedette. Allora, stanca, diede le spalle a quell'ingresso e si appoggiò allo stipite, considerando, scoraggiata, il suo fallito tentativo di penetrare nello studio del dottor Sigma. Ma non faceva prima a bussare? Eh, Lafleur, ma tu non hai capito niente! Non voglio fare come quello spettatore inopportuno, che tutti gli altri del pubblico, visibilmente seccati, invitano ad allontanarsi, quando si alza per dire come va a finire la storia. E allora siediti e stai zitto! Caterina Raineri, appoggiata di spalle alla porta che divideva lo studio dal laboratorio di Sigma, lasciava scaricare l'accumulo di tensione provocato dal suo ingresso clandestino in quel pomeridiano laboratorio di genetica. Era deserto. Considerò che aveva esaminato tutte le stanze e che lo studio era gelosamente inaccessibile. Si voltò sulla sua sinistra e guardò la porta chiusa dell'ultima stanzetta, dove non era entrata. Era lo spogliatoio per le donne delle pulizie e gli addetti al laboratorio. Chissà se c'è sempre quell'odore di naftalina, contrastante con l'odore di cloroformio di tutto il resto del laboratorio, pensò Caterina Raineri e allungò una mano sul pomo della maniglia, più che altro per appoggiarsi. Poi, spostò il peso del corpo dalla gamba destra a quella sinistra, per riequilibrare le sue forze, ma così facendo fece pressione sul lato sinistro di tutto il corpo e per mantenersi meglio in equilibrio, involontariamente ruotò il polso e la mano sinistra sul pomo della maniglia, che girando finì per aprire e spalancare la porta dello spogliatoio, nel cui riquadro lei Caterina si stagliò sbilanciata, avendo perso l'equilibrio per l'improvvisa mancanza del punto fisso d'appoggio. Sobbalzò, soffocò un grido e repentinamente richiuse la porta, con un sorprendente riequilibrio della sua persona. Il cuore le batteva forte in petto: aveva udito bene pronunciare il suo nome ed aveva visto, trasalendo, quello che lei aveva sicuramente presagito e forse anche immaginato, ma che avendo smesso di cercare, le si era parato davanti in maniera così inaspettata da farla trasalire. Quando la porta si era spalancata, sotto la spinta involontaria della sua mano ed era andata a finire nel riquadro aperto, la moglie di Osvaldo aveva sorpreso il dottor Sigma seminudo, riverso sul corpo femminile, steso sulla lettiga, accantonata in un angolo. In quell'attimo, Elvira Lafleur era emersa con la testa da sotto il corpo, massiccio in verità, del dottore svizzero, facendo capolino sulla spalla di lui ed aveva esclamato, con aria disincantata, venata di un leggero sconforto: "Caterina!"
Caterina non aveva potuto resistere a quel richiamo, e a quell’esclamazione del suo nome, aveva subitaneamente richiuso la porta. Ora il cuore le batteva in maniera meno violenta. Dopo un po' sembrava essersi calmata. Riacquistò il colore, perché il sangue le era di nuovo rifluito in testa. Si accertò dei rumori provenienti dall’altra parte che i due si stessero ricomponendo e con espressione indifferente, riaprì la porta. L'amica si reggeva i vestiti davanti al corpo, Sigma in un angolo finiva di stringersi la cinta dei pantaloni e cominciava ad abbottonarsi la camicia, mormorando a voce alta: "Ma come ha fatto?" Poi Elvira Lafleur cominciò a vestirsi e disse: "Caterina, entra." Passarono alcuni istanti e presto il ripostiglio del laboratorio analisi del dottor Sigma si trasformò in un salotto. "Dovevo essere a Vico Equense, a quest'ora." "Hai perso il treno, Elvira." "Ho incontrato Karl." "Già." "Sai, da "Stefano Longhi" di Vico gli acquisti sono proprio convenienti" proseguì mia madre e continuò illustrando all'amica tutti i vantaggi dell'acquisto di stoffe nel negozio "Longhi" di Vico Equense, insistendo sul particolare pregio dei tessuti, il cui prezzo altrove, per non parlare di alcune boutique a Napoli, sarebbe stato sicuramente il triplo o il quadruplo. Ormai Elvira Lafleur si era completamente risistemata e anche il dottore in un angolo appariva ricomposto. Caterina capì che il momento era giunto, quando mia madre tacque un istante e poi le domandò: "Ma tu, come mai ti trovi qui?" Lo stesso Sigma, a questa domanda, si fece più attento alla conversazione fra le due donne. Disinvoltamente Caterina spiegò della nipote e del quesito ginecologico che voleva rivolgere al professore. Questi, chiamato in causa, si avvicinò alle due amiche. Mia madre si sedette con comodo sulla lettiga, suo territorio privato. Sigma prese uno sgabello e lo porse a Caterina, che ringraziò e si sedette. "Anche lei, professore" disse. L'altro andò in un angolo a prendere un altro sgabello si riavvicinò e sedette. Quindi iniziò a conversare con la stessa discrezione e cura con cui avrebbe colloquiato in un salotto, dove d'altronde sempre teneva un contegno da accademico, quando discorreva su argomenti di medicina e ricerca scientifica in genetica e ginecologia. Spiegò sommariamente i principi generali delle ultime tecniche di fecondazione artificiale, rassicurò poi Caterina sulle preoccupazioni per la nipote, quando l'amica di mia madre elencò, a precisa richiesta del medico, i sintomi dei disturbi della giovane e finì illustrando il caso che lo occupava nella sua ultima ricerca sulla possibilità di rivitalizzare gocce di liquido spermatico congelate da secoli e fecondare ovuli donati alla sua banca della vita da "generose madri" del nostro tempo. Il professore si volse a guardare Elvira Lafleur, quasi a trarre ispirazione o forse consenso, anzi senz'altro consenso, per continuare. Mia madre guardò l'amica, che dichiarò di non essere più così giovane per doni di quel tipo alla banca. Sigma dichiarò: "N'importe l’âge. Certo, le giovani madri hanno naturaliter un più lungo futuro."
CAPITOLO 8 A quell’epoca mia madre, Elvira Lafleur, aveva meno di venticinque anni ed era una donna bellissima, mentre la sua amica ne aveva quasi trenta, qualcuno meno del dottor Sigma. Sono passati più di quarant’anni e siamo ora nel salotto della villa di via Manzoni, dove lei Caterina Raineri, ormai oltre i settanta, ma sempre giovane nell’animo, ha accolto gli ospiti: l’illustre clinico romano, il dottor Aleph, ed il suo accompagnatore napoletano, il commissario di polizia Calvo. È un ambiente in ombra, dove si respira una soffocante aria di chiuso. Caterina, che ha fatto accomodare gli ospiti sul divano, comprende il loro disagio, si alza e va ad aprire il balcone sul terrazzo, spalancandolo; entrano aria e luce, ma per la sua posizione ad oriente, l’ambiente rimane sempre meno illuminato rispetto alla luce esterna del giorno. Nel riquadro è apparso un anziano signore malfermo sulle gambe, che avrà quasi cento anni ed assomiglia sorprendentemente ad Osvaldo: è il suocero di Caterina ed il papà del mio amico. Prega immediatamente sia Aleph che Calvo, i quali si sono alzati in piedi per salutarlo, di rimanere seduti e si accomoda su una sedia dietro al tavolo tondo, situato in un angolo del salotto, in verità più che un salotto un’ampia sala, dove sussistono tinello e salotto insieme. Dalla porta entra Liuba, una bionda ucraina quarantenne, che indossa un vestito con il grembiule, la divisa della collaboratrice domestica: è la donna che ha aperto la porta ad Aleph e Calvo e che dall’ingresso li ha introdotti in salotto; entra pure Osvaldo, quest’ultimo sorridente e incuriosito. Dopo un breve giro di consultazioni, viene stabilito che sarà offerto caffè per tutti, tranne che per il papà di Osvaldo, nonno Mario, come l’ho chiamato qualche volta da piccolo, ed acqua minerale; Liuba esce, e Caterina, rivolgendosi soprattutto ad Aleph, introduce l’argomento su mia madre e me. Da come la donna parla, se Aleph possa avere avuto ancora qualche dubbio sulla mia identità, lo dissipa immediatamente; io sono Lafleur, figlio di Elvira Ruyz Maurili, coniugata Lafleur. Il padre di Elvira pare fosse appunto imparentato con la famiglia dei Maurili, qui a Napoli titolari di un’importante catena di laboratori di oreficeria. È morto giovane il papà, rievoca Caterina, subito dopo la fine della guerra, per una malattia riportata in prigionia in Germania. La mamma di Elvira è ancora viva… Oh!... Come hai detto, Caterina? È ancora viva? “È completamente cieca e vive quasi paralizzata su una sedia a rotelle nell’Istituto della Congregazione “Ancelle del Signore”, qui a Posillipo, in via del Casale Laurenzano.” Ah! In effetti per il tempo che sono stato a Napoli, io me la ricordavo viva, ma era sempre malata e poi non abitava con me e mia madre. “Ma fino a quando il giovane Lafleur è rimasto a Napoli?” interloquì Aleph, che al mio casato in verità era interessato fino ad un certo punto. Sono sicuro che il dottore avrà pensato: “Ruyz? Magari era un graduato dell’esercito spagnolo, neppure un ufficiale, ai tempi di Re…” Ed inoltre: “Maurili? Magari è il più povero di tutti i Maurili, che stanno a Napoli e in Campania.” O forse questi erano i pensieri di Calvo? No, il commissario ascoltava con attenzione e rispetto quanto Caterina Raineri andava raccontando su di me e sulle mie ascendenze. “Lafleur…” Ecco quello era un nome su cui concentrarsi. Credo questo fosse l’ordine dei pensieri di Aleph, che lo portarono ad interrompere l’ospite (anche la padrona di casa, come i suoi ospiti, è ospite), per chiedere di me e tagliare corto; soltanto non si rese conto, Aleph, che chiedendo di me, tirava in ballo mio padre e qui Caterina trasse un gran sospiro.
“Io ed Elvira eravamo molto amiche, fin dall’infanzia, poi abbiamo frequentato la stessa Scuola, anche se in anni diversi, mio fratello…” Aleph e Calvo stavano per doversi sorbire tutta la storia del corteggiamento che il fratello di Caterina Raineri aveva messo in atto in età adolescenziale nei confronti di Elvira, quando provvidenzialmente entrò Liuba con il vassoio, su cui era stato sistemato il miglior servizio di caffè per sei in ceramica. Comunque sorseggiando il caffè, non sfuggì loro che Caterina dovette sacrificare tutto il racconto, relativo alle storie d’amore dei suoi fratelli, due, e sorelle, una sola, riassumendo in breve però i loro destini coniugali, con figli vari, ormai grandi e sposati. Sui propri due figli, lasciò ad Osvaldo la gloria di vantarsene: “Uno è nel New Jersey, General Manager, l’altro negli Emirati, petroliere.” “Sono sposati?” domandò Calvo, mentre posava la tazzina di caffé sul piattino che teneva con la mano sinistra. Osvaldo guardò la moglie, che aveva assunto una vaga aria infelice, forse non riconducibile alla nostalgia per i figli lontani, che infatti sentiva spesso per telefono e che venivano non di rado a trovarla. E allora? “La moglie americana,” disse, guardando più verso il marito che non verso gli ospiti o più precisamente Calvo, che ora era intento ad armeggiare con la tazzina del caffé. Il marito non raccolse l’invito a proseguire sull’argomento o forse il monito sottinteso a tacerne, contenuto nell’espressione della moglie, o quanto meno l’esortazione ad una decisione in merito, se parlarne o meno, o un incoraggiamento, per lei, chissà! Per Aleph fu l’occasione buona, per rilanciare il discorso su di me, ma questa volta iniziò da mio padre: “Elvira aveva sposato un Lafleur?” domandò, accentuando il finale retorico della domanda. Caterina Raineri trasse un sospiro, che non si capiva bene se si riferisse alla faccenda della “moglie americana” o quant’altro su quella storia oppure alla difficoltà nel dover riassumere la mia storia, partendo dalla sua amica, cioè mia madre. Io devo dire che in salotto, pur essendo io invisibile e spirituale, mi andavo facendo più attento, perché andavo incalzando, seppure in maniera indiretta ed incerta, i sentieri occulti della mia discendenza, anche se capivo di non essere stato concepito tra scorpioni e farfalle gialle di un bagno crepuscolare, come Aureliano Babilonia, quello delle stirpi condannate a cento anni di solitudine, ma verosimilmente nell’angolo più appartato di un laboratorio di genetica molecolare, che è una maniera più elegante di nominare un ambiente adibito a spogliatoio o ripostiglio, dove uno scienziato medico di origine svizzera saziava la sua lussuria con una generosa nobildonna napoletana, nel pomeriggio mediterraneo ed azzurro del golfo partenopeo. “Elvira doveva andare a Vico Equense quel giorno” disse. Tacque un istante, come fa un conferenziere che passa in rapidissima e sommaria rassegna gli argomenti che si è preparato per esporli, poi disse: “Invece si è fidanzata col dottor Karl Sigma quel pomeriggio e non è più andata a Vico.” Si guardò attorno, con aria complice. Poteva essere più essenziale? No, dico, poteva, Caterina Raineri, sulla vicenda della mia venuta al mondo, essere più essenziale e concisa di così? In quel salotto no e soprattutto con ospiti così curiosi ed interroganti, soprattutto il dottore, il medico, Aleph insomma. Questi guardò la padrona di casa, che a sua volta ora lo osservava in silenzio, sorridente e con l’aria di dire: “Non avete capito? E che altro di più posso dire?” La migliore amica di Elvira aveva elegantemente confidato in pubblico i miei natali, in maniera chiara ed essenziale, senza aggiungere commenti o pettegolezzi.
“Ma ha sposato un Lafleur?” interloquì sorprendentemente Aleph, insistendo sulla sua prima domanda. Nel contempo, forse per disattenzione, posò in maniera che risultò un po’ troppo violenta il piattino con la tazzina del caffé sul piccolo tavolino davanti a lui, scuotendo leggermente un po’ tutti gli astanti ed anche la padrona di casa. La donna guardò in direzione della tazzina, per vedere se si era versato del caffè, ma riusci comunque a rispondere tempestivamente ed in maniera neutrale e generica: “Sì, dopo.” Caterina non aveva dubbi né tanto meno si lasciava mettere in soggezione su quello che per lei era una certezza, un dogma, un “vissuto”, direi. In quel momento accadde che il commissario Calvo stava per intervenire, ma poi desistette, forse non ritenendo opportuno esprimere il pensiero che aveva pensato, un antico brocardo romano: “Mater sempre certa est, pater nunquam.” Sarebbe apparso indelicato e la citazione era di troppo basso profilo per quel salotto; in ogni caso sarebbe stato come mettere in dubbio quanto la padrona di casa andava asserendo con estrema certezza e questo era ancora più di cattivo gusto, pensò. Caterina Raineri era una donna di mondo, intelligente, intuitiva; tolse dall’imbarazzo il commissario di polizia o forse glielo aumentò, sentenziando per lui e per tutti: “Mater sempre certa est: Elvira; pater idem: Sigma.” E adesso, Calvo? “Karl Sigma?” interrogò Aleph con aria scettica: era evidente che per lui, Sigma non poteva essere mio padre. Ma perché poi? Nella mia invisibile e spirituale presenza, io ero tra loro in salotto e seguivo con attenzione il dibattito tra i due ospiti. “Ma, scusi, signora Raineri,” continuò Aleph “ci spieghi un po’. Capisco che soltanto a lei la defunta Elvira Lafleur confidasse la verità; ma se lei stessa, dico, se lei stessa, la madre del nostro Lafleur cioè non sapesse…” “Come, non sapesse?” interruppe Caterina Raineri, che in verità non capiva; ed invero l’obiezione di Aleph metteva subito in discussione quanto da lei proprio un istante prima sentenziato: Mater sempre certa est, nel caso Elvira Lafleur. Nessuno meglio di Caterina sapeva, avendo accertato de visu quanto accaduto ed avendo portato poi il conto, calcolando esattamente i mesi, le settimane, i giorni. Ma sapeva, soprattutto perché a quel tempo viveva in simbiosi con Elvira ed in questo senso quello che accadeva ad Elvira accadeva a lei e quello che accadeva a lei accadeva… sarebbe dovuto accadere ad Elvira, soltanto che… Sul suo volto apparve l’ombra di un dubbio, era un’ombra pallida, quasi invisibile, che poteva sfuggire ad uno sguardo superficiale, ma non a quello indagatore e attento di Aleph, a cui sappiamo nulla sfugge, neppure la variazione più umbratile e minima, non ostante quell’eterno abbozzo di sorriso ironico disegnato all’angolo inferiore del labbro possa indurre in errore sulle sue capacità di attenzione. Il dottore approfittò di quell’attimo di smarrimento di Caterina per intervenire: “Io conosco il professor Sigma, uno scienziato di fama internazionale; non sono stato suo allievo, ma ho assistito in più occasioni a sue conferenze o lezioni. Direi che nel campo della genetica molecolare, ma anche in tutti i settori della genetica è indubbiamente un’autorità riconosciuta e di prestigio…” Il professor Aleph sarebbe andato ancora avanti per un pezzo con il panegirico del collega Sigma, che lo precedeva soltanto di una generazione, vale a dire una ventina d’anni circa, se la sua interlocutrice non l’avesse interrotto: “Sì, ma come uomo era uguale a tutti gli altri.”
Di fronte a questa perentoria affermazione, incontestabile, Aleph sembrò messo con le spalle al muro. La padrona di casa percorreva senza dubbio un sentiero a lui precluso, e allora, con il mio aiuto spirituale, invasivo del suo intelletto e delle sue facoltà immaginative, gli si prospettò la visione del riposto angolo del laboratorio di genetica del professor Sigma di via Chiaia, di cui lui aveva soltanto vagamente sentito parlare. Volò con la fantasia, accortamente da me guidato, ad oltre quarant’anni prima, in età anteriore alla mia nascita della mia vita mortale e vide la scena. In quel momento, nel salotto di Caterina Raineri, nella villa di via Manzoni, osservai l’espressione del suo viso: era gradevolmente compiaciuto, direi leggermente rapito. E lo credo bene! Stava immaginando, o meglio stava vedendo, nella particolarità di una visione ad un tempo immaginaria e reale, Elvira Lafleur che le belle forme disciolte dai veli iniziava a rivestirsi. E forse non vide quello che però a me non sfuggì: anche Caterina osservava le belle forme di Elvira disciolte dai veli, con lo sguardo critico tipicamente femminile, alla ricerca di una qualche piccola imperfezione, ma inutilmente. Ecco perché, penso, inconsciamente rafforzasse la sua convinzione di esserle amica ed invero non era stato grazie ad Elvira Lafleur che era venuto fuori Osvaldo? Questo Caterina poteva anche accettarlo come un particolare superfluo, perché nell’essenziale Osvaldo Raineri aveva sposato lei Caterina Esposto e l’essenziale respinge il superfluo come un lusso non necessario. Guardo ancora Aleph, che mi sembra perso nella sua contemplazione, ma che starà fantasticando? Sigma, mentre con aria vergognosa si riveste, per un attimo si volta verso Caterina, per vedere se la donna lo guarda e scopre che invece l’altra contempla l’amica; allora insiste a guardarla per un attimo, come colto da una certa perplessità e nota che lentamente lei si gira verso destra, dalla parte dove sta lui, quasi avendone sentito addosso lo sguardo, senza però distogliere l’attenzione dall’oggetto della sua contemplazione, che poi è ammirazione; nel frangente, Sigma, timoroso di essere sorpreso nell’atto di spiare ed ancora semivestito, ritrae subito lo sguardo e continua a vestirsi. Che cosa invece fantastica Aleph? L’illustre psichiatra, come ogni buon allievo, cerca sempre di estendere i limiti raggiunti dal maestro nel campo della ricerca e della conoscenza; in questo caso credo che stia esagerando il fugace sospetto di Sigma sul rapporto di amicizia tra le due donne, che poi finisce volente o nolente per coinvolgere anche l’uomo. Aleph verosimilmente corre troppo con la fantasia, anche se soltanto ai fini della pure conoscenza: ma che cosa si starà figurando? Aleph è ritornato nel salotto di Caterina Raineri: “Nei laboratori di genetica si praticano le tecniche di fecondazione artificiale, per offrire la possibilità della paternità e della maternità a coppie sterili.” Così dice e quello che dice sembra sia una puntualizzazione, la messa in opera di un paletto divisorio tra i due campi: la fecondazione naturale, dalla cui visione viene duori appena ora e la fecondazione artificiale, che nei laboratori si attua. Sigma, a quanto pare, in questo campo, non poneva limiti nei laboratori: bisognava stabilire se nel caso concreto, il mio caso cioè, io ero venuto fuori, naturalmente o artificialmente. Ecco l’oggetto della contemplazione di Aleph: l’idea platonica della fecondazione, altro che stranite fantasticherie, come ho sospettato malevolmente, quasi preso da insana gelosia. Entrò Liuba, annunciando l’arrivo del medico per il signor Mario. Avevano suonato il campanello di casa ed io assorto nelle mie elucubrazioni sul dottor Aleph non me n’ero accorto. Intanto, il duello tra Aleph e Caterina Raineri ebbe un momento di tregua.
CAPITOLO 9 “Fu un caso di cronaca, se ben ricordo, che io ho ricavato più che altro dalla lettura dei giornali” disse Aleph. Il dottore aveva ripreso la parola dopo che il signor Mario assistito da Liuba e il giovane medico appena arrivato erano usciti in gruppo dalla sala per la consueta visita di controllo pomeridiano dell’anziano uomo. “Sì, ricordo, anch’io” aveva risposto Caterina Raineri. In verità si seppe che nel laboratorio di genetica del dottor Sigma si conducevano studi ed esperimenti sulla fecondazione artificiale, ai limiti della legge, e corse voce che Elvira Lafleur fosse stata inseminata artificialmente; la donna si trasferì a Ginevra, dove risultò che avesse sposato un brillante uomo d’affari, Jean-Claude Lafleur, con cui tornò a vivere insieme a Napoli, prima della mia nascita, anche se non per molto tempo. Nello stesso periodo, Sigma aveva smontato il suo laboratorio di via Chiaia ed era rientrato definitivamente in Svizzera. Qualche anno prima, senza però nessun successivo collegamento a questa cronaca napoletana, sui giornali era apparsa la notizia di uno sbalorditivo ritrovamento, sulle Alpi della Savoia, della salma congelata, che doveva essere appartenuta, secondo gli studi e le misurazioni antropologiche effettuate, ad un homo alpinus, vissuto tremila anni prima, nella stessa regione in cui, molti secoli dopo, si insediarono gli Allobrogi, all’epoca delle grandi migrazioni di popolazioni celtiche in Europa. La novità non consisteva tanto nel ritrovamento del cadavere, quasi integro, di un uomo preistorico, quanto nel fatto che accanto a quelle spoglie mortali poté essere recuperato, anch’esso conservato dal gelo, un piccolo quantitativo di liquido seminale, verosimile ultimo sussulto di vita dell’uomo primitivo sorpreso da una bufera di neve in alta quota e seppellito da una slavina. La notizia fu però ripresa e approfondita soltanto dalla stampa franco-svizzera, trovando scarsa eco in quella italiana ed europea, per la diffusa sensazione che si trattasse più che altro di uno dei periodici scoop giornalistici che non di un vero e proprio veritiero ritrovamento d’interesse per la scienza. Passò così abbastanza inosservato il comportamento di uno studioso svizzero di genetica, il professor Sigma, che riuscì ad ottenere un prelievo di quel liquido seminale umano congelato, ai fini della sua ricerca. In seguito Sigma si trasferì a Napoli e la stampa franco-svizzera finì per disinteressarsi dei suoi studi ed esperimenti scientifici. Intanto Caterina Raineri scuoteva la testa: “In quel periodo, Elvira fece un viaggio sulla costiera amalfitana e soggiornò anche per un po’ di tempo a Sorrento.” Aleph non rispose subito, quasi riflettendo su quale rilevanza potesse avere questa notizia nella discussione in questione, poi disse: “Si desume dalle cronache dei giornali napoletani dell’epoca che Elvira Lafleur frequentasse il laboratorio di genetica del dottor Sigma, per un esperimento di fecondazione artificiale, con impianto dell’ovulo fecondato nell’utero della madre. Pare che si fosse portato da Zurigo un certo quantitativo di liquido seminale maschile, congelato in provetta, e che a Napoli cercasse donne disposte a donare ovuli e quindi a portare avanti una maternità da lui procurata in vitro. Ecco queste erano le ricerche e gli esperimenti di Sigma. E nulla esclude che Elvira Lafleur fosse una delle donatrici più generose, considerando il suo carattere espansivo, come mi sembra capire dai suoi racconti.”
“Una donna generosa ed espansiva, senza dubbio!” commentò Caterina Raineri; poi si volse verso Osvaldo, quasi invocandone l’aiuto e l’intervento: “Stavo parlando di quando ci siamo fidanzati, all’Università, professor Aleph.” Questi trovò naturale che alla donna facesse piacere mettere in mostra i suoi successi professionali e familiari davanti ad ospiti di un certo riguardo, quale appariva lui, un illustre clinico di psichiatria. Intervenne Osvaldo: “Diciamo che Elvira e Sigma si sono fidanzati ed hanno fatto quel viaggio insieme e poi sono partiti per la Svizzera, anche se separatamente.” “Comunque, alla fine, il padre legittimo di Lafleur risulta essere Jean-Claude Lafleur, perché nato in costanza di matrimonio con la moglie Elvira Ruyz Maurili, non è così?” “Eh, sì!” confermò Osvaldo. “Sì.” approvò la moglie. “Certo,” disse a sorpresa, entrando, Mario Raineri, malfermo sulle gambe. Assentirono anche Liuba e il medico che accompagnavano l’anziano uomo. L’approvazione veniva quindi da tutti i membri della famiglia, compresi gli avventizi, non potevano esserci dubbi: il mio nome è Lafleur. Il medico sopraggiunto riassunse le sue ultime raccomandazioni al suo paziente, salutò tutti i presenti e si congedò accompagnato da Liuba. Aleph ne approfittò per alzarsi in piedi, si alzarono anche i coniugi Raineri, e Mario Raineri che aveva raggiunto il tavolo d’angolo nella sala e indugiava, anche Calvo era in piedi, in un certo senso anch’io, seppure invisibile, assunsi l’atteggiamento di chi si appresta a salutare e prendere congedo. Calvo disse: “Il professore era venuto per vedere la tomba.” “Ah, certo!” rispose Osvaldo. La moglie convenne e si diresse verso il balcone, seguita dal marito, imitato a sua volta da Aleph e Calvo, che si trovarono così a passare davanti a Mario Raineri, che sorrise loro in maniera sincera, anche se un’ombra gli attraversò il volto, sapendo dove gli ospiti venivano accompagnati. In breve, seguendo Caterina Raineri, raggiungemmo in cinque il giardino, attraverso la terrazza e scendendo la piccola scala in pietra; seguimmo un viottolo e sbucammo in un prato e di lì finimmo in un altro giardino, al cui margine si vedeva il porticato e le colonne di un chiostro. Raggiungemmo un cancello in ferro, Osvaldo precedette la moglie e suonò al citofono; presto lo scatto ci segnalò l’apertura del cancello, entrammo in quattro, nessuno ci venne incontro, Osvaldo provvedette ad accostare il cancello, facendo un cenno alla moglie, rimasta all’esterno, poi ci guidò nel chiostro e di lì sbucammo in un piccolo cimitero. Raggiungemmo un piccolo monumento funebre, dove c’era la mia tomba, Osvaldo si mise di lato ed Aleph e Calvo sostarono di fronte in silenzio, io svolazzai qua e là sulla lastra tombale, sotto cui giacevano le mie spoglie mortali in pieno disfacimento, assumevo sempre più l’aspetto di uno scheletro umano.
Aleph si chinò a leggere l’iscrizione alla base, inginocchiato a metà e scostando con la mano alcuni ciuffi d’erba umida ed un’ombra di terriccio: "Qui giacciono e riposano nell'eterno i resti mortali dell'ultimo discendente dei Lafleur. Napoli, il freddo inverno." Anche Calvo si era curvato a leggere, mentre Osvaldo era rimasto composto in piedi nella sua prima posizione. I due accertatori ufficiali della mia fine mortale avevano esaurito il loro compito, Osvaldo era il muto testimone per loro attendibile della veridicità e legittimità della mia sepoltura, non vi potevano essere dubbi: Lafleur e la sua vicenda avevano avuto fine, definitivamente, non in un primo imprevedibile inverno, in cui la sua esumazione aveva rivelato una strana sparizione, ma in un secondo, quello che custodisce il gelo della morte, il freddo inverno. Chi aveva dettato il mio epitaffio, con quelle due apparentemente enigmatiche parole finali? Se dico Lafleur, la risposta è soddisfacente? Aleph e Calvo non posero l’obiezione al mio amico Osvaldo: per Aleph, quel “freddo inverno” era sia l’altro inverno nel senso dell’inverno australe, dove rimanevano custoditi gli ultimi momenti della mia vita e quindi l’evento della mia morte sia questo come quello vero e definitivo, come in fondo pensavo anch’io. Forse il commissario Calvo, meno indulgente, avrebbe interpretato più restrittivamente il “freddo inverno” soltanto come “inverno australe”, con le implicazioni dell’Aurora australe ed i sospetti sulla mia morte. Ma ormai ero morto e sepolto, come ufficialmente accertato. Mi sono allontanato aleggiante da quel giardino funebre, nell’ultima luce del pomeriggio vedo da lontano i tre uomini che adesso hanno finito e si allontanano, dall’alto vedo che non sono molto lontani da Caterina Raineri, che pazientemente li aspetta al di fuori del chiostro del convento dei Santi d'Oriente di Posillipo, confinante con il parco giardino della sua casa; adesso il gruppetto si è ricomposto e si muove per rientrare verso casa, chiacchierano tra loro in giardino, tra un poco si lasceranno e forse di me non vi sarà ulteriore memoria. Che senso, dunque, può avere ancora parlare della mia nascita e della mia discendenza, una volta che sono morto, e cercare di capire se in vita sono stato un pazzo o un criminale? La morte trascina tutto nel suo oblio, anche crimini e follie. Certo, per soddisfare più la curiosità o l’amore della conoscenza per le cronache di scienza che non per le cronache nere, sarebbe stato utile raggiungere la certezza sulla dinamica del mio concepimento. Sigma aveva scongelato lo sperma dell’homo alpinus, incredibilmente vitale dopo tremila anni, l’era non più glaciale o meglio glaciale unicamente per me, che accompagna nell’arco dei suoi trenta secoli il destino di meraviglia e di dolore dell’homo sapiens. Io spermatozoo, non ancora umano embrionale, risvegliato dal gelo, in cui sono stato differito nei secoli, avevo iniziato la mia folle corsa assieme a milioni di miei simili per raggiungere unico vivente l’ovulo in vitro, donato da mia madre, che da quella cellula mi attirava con il più grande abbraccio d’amore e di vita. Mia madre genetica, Elvira Lafleur?
Caterina Raineri, mentre contestava l’ipotesi di Aleph di una mia nascita in vitro, aveva di fronte la visione di un pomeriggio di oltre quarant’anni prima, quando aveva sorpreso il dottor Sigma seminudo, riverso sul corpo femminile di Elvira Lafleur, stesa sulla lettiga in un angolo, che alla sua irruzione improvvisa aveva fatto capolino da sotto il corpo dominante e massiccio, esclamando sconsolata il suo nome. Io sono nato l'anno dopo lo svolgersi degli avvenimenti di quel pomeriggio napoletano così rievocati. Di chi sono figlio io? Io, Lafleur, sono il figlio del silenzio e del gelo. Sono nato in differita, dopo trenta secoli, dal getto di sperma generatore del mio genitore antico. "Io ho tremila anni, signora!", "Sì, lo so, Lafleur, la sua è la storia e l'età trimillenaria dell'homo sapiens." Tipico intuito femminile, le donne "sanno" sempre tutto. Io sono stato partorito (Ilitia) a Napoli (Moira) da Madame Elvira Lafleur (Calloné), come già era stato profetizzato nel "Simposio" da Platone venticinque secoli prima. Mio padre è uno sconosciuto Homo Alpinus, mia madre è la più fedele donatrice del dottor Sigma. Quale il dubbio? E se l'ovulo... Su questo sono sicuro: non perché l'ovulo non potesse appartenere a una donna diversa da Elvira Lafleur, ma perché quando descrivono Madame Lafleur descrivono me al femminile. Io sento il richiamo del sangue, il profumo di mare della Terra dove sono nato, nella cornice di quel golfo unico al mondo, dominato dall'irripetibile profilo azzurro del Vesuvio, dove in un quadro di bellezza incomparabile splende dappertutto la luce del sole meridiano e la morbidezza dell'aria è attraversata dalla dolce fragranza della malvarosa. E se Caterina quel giorno avesse visto giusto? Il dottor Sigma, dico io. E allora perché non il dottor Aleph oppure Osvaldo? Signor commissario di polizia, dottor Aleph, Osvaldo caro, volevamo rovesciare l'antico brocardo latino? Eh, no! I Romani erano lapidari, le loro erano "sentenze": "Mater semper certa est, pater numquam." Con buona pace di ogni tecnica genetica, che sempre s'illuderà di cambiare il volto della vita. E tu allora? Io? Io ho trenta secoli di vita, la mia età rappresenta la storia trimillenaria, carica di dolore e di meraviglia dell’homo sapiens, io sono l’uomo differito.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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IL FREDDO INVERNO
INTRODUZIONE
Questo volume si compone di due libri, gli ultimi del ciclo di “L’uomo differito”, ossia: “Il dottor Aleph” e “Il freddo inverno”. Protagonisti di questa parte finale dell’opera sono lo spirito del defunto Lafleur e il dottor Aleph, un illustre clinico, professore di psichiatria e direttore di manicomio. La storia viene raccontata dal fantasma di Lafleur, che nel primo dei due testi, con un discorso prolisso e frammentato, contorto e ridondante, commenta l’ultima parte della sua vita, venendoci contemporaneamente a svelare i suoi segreti, riguardanti non soltanto il tempo dell’uomo differito, ma qualcuno anche dell’uomo camuffato, e rivelatori della sua impossibile o quantomeno inverosimile origine, nonché di una nuova sua fine, forse più credibile da un punto di vista razionale, ma non per questo meno sorprendente.
Il racconto si snoda, nel secondo volume, seguendo le mosse del dottor Aleph, che nell’inseguire le tracce della sorte finale di Lafleur e correndo il rischio di subirne e ad un tempo assorbirne la follia dello spirito, nella sua ricerca per giungere ad un’accettabile verità sulla persona e le gesta dell’anomalo soggetto, anche se non tanto accettabile, mettendoci noi dal suo punto di vista di psichiatra, finisce per incalzarne i sentieri più occulti della sua discendenza ultramillenaria (“Sì, lo so, Lafleur, la sua è la storia e l'età trimillenaria dell'homo sapiens…”), di cui alla fine si scioglie l’enigma.
IL FREDDO INVERNO
“Be through my lips to unawakened earth
the trumpet of a prophecy! O wind,
winter comes, can spring be far behind?”
“Diventa attraverso le mie labbra per la terra
addormentata la tromba di una profezia! O Vento,
l’inverno viene, può la primavera essere lontana?”
Shilley, Ode the West Wind
Ode al Vento dell’Ovest
CAPITOLO 1
Ciao Aleph! Ti vedo risalire via Orazio, a Napoli, in questo assolato pomeriggio. In compagnia di chi sei? E’ un uomo tarchiato, simpatico e gioviale come te e come te corpulento. In definitiva vi somigliate nella sagoma; soltanto, il tuo compagno è più basso. Chi è?
Il dottor Aleph era uscito dal portone di un Ufficio in compagnia del commissario di polizia Calvo, che per coincidenza era anche affetto da calvizie, aveva cioè una bella testa tonda, lucida e pelata. Conversavano armoniosamente, direi.
“Caro Giuseppe” diceva Aleph “la telenovela Lafleur non è ancora terminata. Io lo cerco in Puglia, dove tu mi segnali il suo decesso, ma lì dopo una necessaria riesumazione scopro una bara vuota. Poi tu…” Il dottore lasciò a metà la frase, nel momento in cui, abbandonata la stradina laterale in ombra, erano sbucati nella più ampia e panoramica via Orazio, dove furono entrambi investiti dalla luce violenta del sole.
Il commissario di polizia calvo, Giuseppe Calvo, approfittò della pausa del professore per intervenire subito:
“No, professore, vi ho avvisato prima; non poi, prima” insistette sull’ultimo avverbio.
“Certo, certo, mi avete avvisato subito, altrimenti qual era la necessità della riesumazione! Calvo, ma con voi debbo sempre misurare le parole!”
“No, Aleph, scusa, ma è stato Ciocchetti che ha imbrogliato le carte.”
“Lo so, lo so.”
I due avevano cominciato a risalire lentamente via Orazio.
“Vengo a sapere” usò questa formula Aleph, per riprendere il discorso “che sicuramente la salma era stata trafugata da una banda di criminali.”
“L’Aurora Australe. Quest’anno, professore, più di cinquanta omicidi, soltanto a Napoli e hinterland, fino ad ora. E siamo all’inizio di settembre!”
Il commissario aveva assunto un’aria cupa e guardava fisso davanti a sé, mentre pronunziava quest’ultima frase.
“Godiamoci questo sole di settembre, Calvo!” esortò con aria disincantata Aleph. Ora aveva acquistato il suo aspetto consueto, il volto illuminato da un leggero sorriso ironico.
Io seguo i due sul marciapiedi, ma non ascolto le loro parole, sono troppo intento a godermi la vista in tinta azzurra del mare e del Vesuvio sullo sfondo del golfo; loro avanzano, le sagome appaiate, egualmente larghe, una più alta e l’altra più bassa, confondendosi nell’abbaglio del sole. Io mi godo il finire dell’estate partenopea, vengo dal contestuale gelo dell’inverno australe, la stagione degli antipodi, che è poi il gelo della mia morte. Il gelo mi ha accompagnato per tutta la mia vita trimillenaria, essendo io il figlio concepito e conservato nel gelo, ed ha contraddistinto il momento finale della mia desolata – vedete? ora mi sono intristito, io che… mi piace sempre essere allegro – esistenza terrena, ossia il tratto da me vissuto, per quarantacinque anni, come Lafleur, lo sfortunato Lafleur.
Ma lasciatemi godere questo sole di Napoli!
Aleph e Calvo dialogavano sulla mia telenovela.
“Ma il morto di Ponte sparito era sicuramente un Lafleur, che si voleva camuffare da Lafieri Silla” disse Aleph con convinzione.
Calvo tacque. Aleph continuò:
“C’è un legame tra l’Aurora Australe e questo morto rimpatriato dall’Uruguay: collasso cardiocircolatorio! E’ il referto del mio collega sudamericano, che poi diventa il certificato di morte.”
“Un’altra riesumazione, professore!”
“No, commissario, non credo che sarà necessaria. Qui non ci interessa sapere com’è morto Lafleur. Qui a noi basta capire che è morto.”
La telenovela Lafleur: uso il termine “telenovela” in senso improprio, fuori cioè dal significato universalmente accettato. “Telenovela” è la serie interminabile di puntate di sdolcinati sceneggiati televisivi prodotti in Sud America, al cui proposito sono sorte anche polemiche sulla loro attraibilità. Io invece uso il termine nel senso di racconto sudamericano (dallo spagnolo “novela”) a distanza (dalla radice greca “tele”), dove il racconto sudamericano non è una produzione televisiva di un paese di quel continente, ma il racconto della storia di Lafleur in Sudamerica, commentato a distanza di spazio e di tempo e che deborda poi da quell’emisfero geografico planetario, ampliandosi nei luoghi dove io ho lasciato traccia indelebile, ma invisibile all’occhio mortale.
Prima di riassumere il senso della mia telenovela nell’ottica di Aleph e Calvo, quest’ultimo come interlocutore dell’illustre professore di psichiatria, vorrei però prima riferirvi di alcune battute, colte al volo fra i due (il gatto e la volpe) dal mio spirito, svolazzante avanti e indietro per via Orazio, sebbene alquanto distratto.
“Ma il referto del medico di Ponte, che ha stilato il certificato di morte di Lafleur alias Lafieri Silla, a quale causa attribuiva il decesso?” domandò con una certa noncuranza Calvo.
“Collasso cardiocircolatorio” rispose subito Aleph.
Il commissario di polizia rise ironico: “Lafleur era debole di cuore!”
Già, il mio cuore malato! Malato, ma di che cosa? Di un’inguaribile nostalgia, nostalgia della mia vita terrena, ora che abitavo la sfera celeste. Mentre seguivo i due, al suono struggente della musica inaudibile di un concertino di chitarra e mandolino di due vecchi professori, miei compagni di paradiso (il giardino dell’innocenza), nell’assolato pomeriggio napoletano, rapito nell’azzurro del golfo, tra mare e cielo, e confuso nell’abbaglio del sole, mentre seguivo i due, dunque, nella lenta risalita della collina che conduce a Posillipo, ho sentito un tuffo al cuore. Come era bello vivere tra quegli esseri là, quando anch’io ero mortale! Com’era bello vivere, amare e soffrire, ridere e piangere, odiare e sanguinare, com’era bello! La vita è bellezza (Calloné).
Siamo arrivati al tornante. Calvo, all’interno, favorito da pendio, sembra raggiungere l’altezza di Aleph. Seguo le due sagome, che girano contro sole, e giro anch’io, ma l’abbaglio di luce meridiana non impedisce al mio occhio, l’occhio di Lafleur, di cogliere una scolorita scritta sul muretto di fronte e leggerla mentalmente, durante la svolta della strada: “Dimmelo in faccia verme”. L’anonimo writer, l’innamorata tradita, rimprovera al drudo fedifrago la sua bassezza strisciante e lo sfida sprezzante. Io sospiro. Com’era bello vivere, tra quei vermi là! Com’era bello vivere con Gabrielle Finari (e Laura Cantone)! Come era bello quando… io ero mortale, quando ero un verme mortale.
Ho il cuore gonfio di nostalgia, ho il cuore malato, ed il mio cuore malato non ha retto: collasso cardiocircolatorio! Sono morto per una dismisura di passione, la mia esistenza mortale è crollata in frantumi sotto l’insostenibile carico della passione. Ahimé, ora che non sono più mortale!
Perdonatemi, se fugacemente mi strofino con il lato esterno della falange del dito indice l’attaccatura posteriore della palpebra destra dove si congiunge con l’umido ciglio e poi, coraggio, proseguiamo su per via Orazio.
Le due sagome salgono affiancate. Continuano a parlare tra loro, Aleph e Calvo, in maniera contorta e sibillina per i comuni mortali: questa volta uso il termine “mortale” non in opposizione ad “immortale”, ma come sinonimo di persona qualunque e fallibile, un “quisque de populo”, comune mortale; non mortale fuori del comune, come può essere quello che l’antico greco denominò “eroe”, una figura in bilico, in mezzo (metaxy) tra il cielo e la terra, i mortali e gli immortali. Il linguaggio dei due non è però sibillino per me e non perché sono divenuto immortale, sebbene forse ricongiungendomi con la sostanza celeste del mio demiurgo sono “tornato” ad essere immortale e neppure perché, seguendoli lungo questa fascinosa strada che si arrampica sulla collina partenopea, in antico nominata pausilypon (tregua del dolore), svelando l’incanto di un panorama indimenticabile, possa spiarli ed ascoltarli e decodificare i simboli della loro conversazione, che è tutta un giuoco delle parti, ma perché conosco i loro cuori, sì, conosco il fondo dei loro cuori.
Forse però è tempo di riassumere la mia vicenda, la mia telenovela, vista attraverso l’ottica di Aleph ed ora anche di Calvo, a cui Aleph compiutamente, grazie anche al commissario, la espone, entrambi a passeggio per via Orazio, per raggiungere alla sommità via Manzoni.
Quando Lafleur è affiorato “pienamente” nella coscienza del professor Aleph?
Accadde una notte. Era febbraio o marzo, era comunque ancora inverno nell’emisfero boreale. Aleph dormiva nel letto matrimoniale insieme con la moglie, quando fu svegliato nel cuore della notte dal trillo insistente di una telefonata. Si sedette in mezzo al letto, accese la lampada sul comodino, ed afferrò il telefono.
“È fuggito, è riuscito a fuggire!” proclamò una voce concitata.
Aleph era ancora assonnato. Non capì, aspettò che l’altro si spiegasse meglio. Sentì che il suo interlocutore stava riprendendo fiato, come dopo una corsa affannosa.
“Chi è?” domandò il dottore.
“Lui!” confermò prontamente l’altro.
“Chi è?” chiese la moglie con gli occhi chiusi, quindi nel sonno.
“Lui” rispose Aleph alla dormiente, ma continuando a tenere accostato alla bocca il microfono dell’apparecchio telefonico.
“Sì, lui!” confermò la voce sconosciuta al telefono, interpretando a suo modo quanto Aleph aveva pronunziato.
“Chi parla?” domandò il dottore.
“Io” rispose l’altro. Poi subito, avendo ripreso respiro e quindi una certa calma e una maggiore capacità razionale, aggiunse: “Io, Gelindo, professor Aleph.”
Il tono familiare e le parole anch’esse familiari, con cui lo sconosciuto lo aveva da ultimo interpellato, diedero al dottore la consapevolezza di dover conoscere l’anonimo al telefono, ora non più anonimo, ma con un nome, un nome peraltro, come dire?, domestico, nel senso che presentarsi con il solo prenome al professore, facendo seguire, nel vocativo, al titolo accademico anche il nome della persona appellata, rivelava una volontà di presentarsi da parte dell’appellante Gelindo in una certa maniera ad un tempo subordinata e confidenziale nella sua dimensione di sottostante, se così ci si può esprimere.
I neuroni del cervello del professor Aleph intanto avevano già provveduto ad elaborare i segnali ricevuti, connettendo i fonemi in morfemi, i morfemi in una frase, le frasi in un discorso, il discorso in immagini; ed ora l’informazione attesa era pronta: Gelindo Ortenzi, il custode della clinica.
In quel momento la dormiente, non più nel dormiveglia, ma ormai sicuramente sveglia, ancora distesa al suo fianco ad occhi chiusi, domandò: “Che vuole?”
Questa volta, Aleph si preoccupò di rispondere soltanto a Gelindo, ma registrò nella sua coscienza l’interrogativo della moglie, che forse era meglio se continuasse a dormire. “Che vuole, Gelindo?” domandò.
“Ho dovuto sparare: tre colpi, tre botti, professore,” rispose il custode, concludendo la frase con un tono, in cui smarrita la tensione iniziale, sembrava riconoscersi un timbro più rilassato.
Ma questa rilassatezza fu subito rintuzzata da un Aleph definitivamente sveglio e con un tono che non ammetteva repliche: “Ma che cosa è successo, Ortenzi!” La moglie si rizzò a sedere sul letto, spalancando gli occhi.
“Ma niente…” rispose l’altro smorzando il tono della voce.
“Ed allora perché mi telefona?” replicò vivacemente il professore e poi subito aggiunse con tono improvvisamente calmo: “Mi racconti bene quello che è successo, Ortenzi.” Ma l’altro aveva perso ogni suo entusiasmo iniziale nel riferire al massimo responsabile della struttura sanitaria, di cui lui l’interlocutore appellante era un dipendente, maggiori particolari sui fatti accaduti. Disse: “Ho chiamato il medico di guardia. Arriva.”
Il telefono, un cellulare, passò di mano e quindi si udì la voce del dottor Alessi: “Mi dica, professore.”
“Senti, Alessi, Ortenzi ha sparato a qualcuno, tre colpi, dimmi se ci sono morti, sangue, feriti. Fammi sapere.”
“Subito” rispose Alessi.
Aleph sentì in sottofondo la voce del medico di guardia, a cui durante la guardia, per sua disposizione, era consentito dormire, ripetere pedissequamente al vicino, in modo interrogativo e cantilenante, i concetti da lui espressi un attimo prima: “… morti, sangue, feriti?” Immaginò che l’altro rispondesse negativamente, scuotendo la testa: non gli aveva già detto prima: “Ma niente…”? Ecco lui, Aleph, voleva sapere da Alessi che cosa fosse quel “niente”.
“Non ci sono feriti. Il paziente è riuscito a fuggire” riferì Alessi.
“Ma ci sono tracce di sangue? È stato compiuto un sopralluogo sulla strada? Vi sono testimoni?” incalzò Aleph.
La risposta arrivò un attimo dopo, durante il quale presumibilmente Alessi aveva interrogato con lo sguardo il custode, ottenendone una contestuale risposta negativa, avendo l’Ortenzi potuto sentire le domande declamate da Aleph con tono in sostanza didascalico, anche se formalmente inquisitorio: “No, professore:”
Poi ci fu un breve parlottio fra i suoi due interlocutori dall’ospedale, Aleph attese. Infine il dottor Alessi espose il motivo di quella chiamata notturna.
“Ortenzi chiedeva se lei può fare una telefonata al commissario di polizia Ciocchetti del quartiere diciannovesimo, per giustificare i tre colpi sparati in aria.”
Aleph trasse un sospiro. “Domani, domani” disse non senza far trasparire volutamente una nota di scoramento nella voce, atteggiamento divenuto per lui un’abitudine professionale. Io penso si tratti di un’autodifesa contro la disforia indotta e susseguente alle febbrili crisi di eccitazione dei folli, le loro euforie, e di cui i medici curanti possono venire investiti e, direi, contagiati.
Aveva terminato la conversazione telefonica. Guardò la moglie. Si apprestava a spegnere la lampada sul comodino, quando lo colse una inespressa domanda: “Ma chi era il paziente fuggito, cioè allontanatosi di notte dall’ospedale senza avvertire?” Era stato costui ad avere provocato questo… incidente?… inconveniente, a quell’ora di notte. Si voltò a guardare la moglie. La donna non parlò. Lui disse dormiamo, la moglie si allungò nel letto, Aleph spense la luce sul comodino, si distese. Chi era? Udì domandare dalla moglie. Chi? Rispose. Vi fu un attimo di silenzio, poi la donna mormorò: “Lafleur!”
CAPITOLO 2
Come faceva la consorte di Aleph a conoscere il mio nome?
Io ho una teoria. Quale? Questa.
Aleph conobbe Lafleur a L’Aquila, quando si dovette ivi recare a prelevarmi, perché investitone per competenza territoriale, anche se ne ebbe contezza prima, quando seppe della rete. Strana consuetudine locale, pensò; ma non era una sua trovata quel mezzo di contenzione? No, era una consuetudine mutuata dal canile municipale. Aleph comunque era competente per il mio caso, in quanto titolare di un mandato interregionale, Lazio e Abruzzo, per il trattamento sanitario dei malati di mente, passibili di ricovero, per la gravità del male, nella sua clinica Santa Maria della Misericordia del quartiere diciannovesimo di Roma.
Ma io, pur essendo un malato di mente grave, come sostenevano i miei persecutori armati della rete, per Aleph ero, in ogni caso, un malato di mente da trattare alla stessa stregua di tutti gli altri suoi pazienti, sebbene costituissi la variante di essere un “Platone” oppure un “Nietzsche”, invece dei più comuni “Napoleone” e “Garibaldi”. Io comunque non ho mai detto ad Aleph di essere Nietzsche, al massimo ho ceduto nell’ammissione sull’identità “Lafieri Silla”.
Il direttore della clinica, tranne l’impressione iniziale al momento della cattura ed in quelli immediatamente successivi del suo arrivo nel capoluogo abruzzese ed il movimentato episodio con la Rosselli, all’accettazione, non aveva nessun buon motivo, nei miei due mesi scarsi di ricovero nella sua struttura ospedaliera, di conservare uno specifico ricordo di me: i ricoverati della clinica di Santa Maria della Misericordia, per chi non lo sapesse, oscillano in un numero fluttuante tra gli ottocento ed i novecento. Un migliaio, eh già! E senza contare i pazienti in ambulatorio e gli interventi di urgenza del servizio della “volante psichiatrica”.
Come faceva quindi la moglie di Aleph a conoscermi, a conoscere il mio nome, il nome di Lafleur? Io, in quanto “Nietzsche”, al massimo potevo essere conosciuto con questo, diciamo, soprannome o anche per via burocratica come Lafieri Silla. Io e la signora Aleph, peraltro insigne pedagoga, come ho saputo successivamente, non ci siamo mai conosciuti. E allora?
Questa è la mia spiegazione. Aleph viveva in osmosi psichica inconscia con la consorte, a cui trasferiva tutte le sue ossessioni subconscie dovute alla sua professione, per liberarsene ed operare in campo psichico libero da tabù e condizionamenti. Capisco che la mia spiegazione è insoddisfacente e priva di ogni validità nel campo della psicanalisi, ma abbiate pazienza e seguitemi. La signora Aleph, ovvero l’insigne pedagoga, anzi no, la signora Aleph, quindi individuata nel suo ruolo di consorte e non in quello professionale suo… la signora Lafleur, dicevo, pardon, la signora Aleph… l’insigne pedagoga… Aleph… Lafleur… scusatemi, mi gira un po’ la testa, forse è bene che prenda una pastiglietta, come mi consigliò tanti anni fa quella mia amica, dopo avermi dato la sveglia telefonica… chi era? Ma Claudia, la ragazza con le efelidi sul viso! Lafleur? Eh! Non era Claudia, ma Louise Andreas Salomé, Lou per gli amici. Ma che dici? Niente, scherzo. Ah! Ed ora, pover’uomo? Perché citi Fallada? Mah! E allora?
La signora Aleph doveva aver sentito pronunziare in quegli ultimi tempi il mio nome dal marito, che magari ogni tanto le riportava dei commenti su sue situazioni professionali, l’aveva registrato nella coscienza e mormorato al momento opportuno. Eh, sì! La tipica intuizione femminile!
Ascoltatrici! Toh, le ascoltatrici! Mie ascoltatrici, diffidate pure di me, ma io non credo a quest’ultima spiegazione. Scusatemi, ma sono un po’ scettico; voi però non siate rigide, ma abbiate un sorriso indulgente per me, per Lafleur, io sono un vostro ammiratore, anche se sciocco, lo so… un bambino… Quale? Il bambino immaginario.
Aleph si guardava intorno a sé nel buio quella notte, come un bambino, pensando a Lafleur. Ora vedeva chiaramente la scena: io mi avvicino ad Ortenzi, accendo una sigaretta, nell’oscurità il mio volto s’illumina di luce ambigua e sinistra, il pugno violento ed improvviso dal basso verso l’alto, il knock down, la fuga, i tre colpi di pistola, la lepre nella notte.
Telefonò la mattina dopo al commissario Ciocchetti, provocando le mie ricerche alle stazioni Termini, Tiburtina ed Ostiense, dove non trovarono nessuna mia traccia. Si costituì un dossier a mio carico negli uffici di polizia. Quali? Quelli di competenza. Ah! La rete, la rete, Lafleur! Non ridete, la rete esiste, eccome! Traducete “rete” in inglese. Consulto il vocabolario: “net”. Il tennista lancia la palla con battuta violenta e precisa (o quasi); la palla batte contro il nastro della “rete”, rimbalza, ma cade nel campo avversario; “net” grida il giudice. Il tennista si appresta a battere di nuovo e… va bene! Accontentatevi di questa risposta e soprattutto non tenete conto di quest’altra interpretazione: inter-net, ossia international net-work, lavoro su “rete” internazionale. La rete, la rete, Lafleur! E non solo Lafleur! Internet, il Grande Occhio, il Grande Fratello, Aleph! Oh, Aleph, Lafleur!
Ero sfuggito alla rete. Come? Semplicemente, prendendo il treno da Roma per Torino. Elementare, direi, se questa esclamazione accompagnata dal nome del noto assistente di Sherlock Holmes, ossia Watson, non apparisse, in maniera frustrante, tragicamente banale.
Ma telefonando ad un commissario di polizia, il dottor Aleph, per altro padre di un’aspirante commissario di polizia, Elisa Aleph, sua giovane figlia, non sapeva di essere finito nella rete di Ciocchetti o meglio di essere caduto nella rete protettiva di Ciocchetti. Protettiva, hai detto? Sì, ricordate il clown di Venezia e la rete? Chi? Alvise Virgolini. Ah, già, la rete! Era bucata ed Elisa Morei, diciannove anni soltanto, era morta. Che scandalo! Che vergogna!
Il dottor Aleph cadde dal trapezio volante (Lafleur), ma finì con il fondo schiena in successivi balzi attutiti su una morbida, soffice rete (Ciocchetti, Calvo e… Alessandoni, via!). Un anno dopo circa la movimentata mia fuga nella notte dal manicomio (letteralmente, ricovero per maniaci) di Aleph, un giorno, l’attento commissario Ciocchetti telefonò al direttore del “Santa Maria della Misericordia”, con cui si era già sentito periodicamente molte altre volte nel corso dell’anno, anche se non per il mio caso. Lafleur era morto. Dove? A Ponte. E dov’è Ponte? Sul Gargano. Ah!
Ma qui bisogna raccontare della vacanza estiva di Aleph trascorsa, quello stesso anno, a Capri. E bisogna riferire dei suoi fruttuosi incontri in quel suo indimenticabile soggiorno nell’incantevole cornice dell’isola dell’arcipelago partenopeo.
Aleph, in appropriato costume da mare, prende il sole sulla spiaggia di Marina piccola e contempla i faraglioni. L’acqua del mare, nella baia, è verde, uno splendido verde smeraldo. Se ti metti la maschera e nuoti come un sub, vedi i pesci rossi, nella trasparenza verde dell’acqua. Ma che dici? I pesci rossi, l’acqua verde, la grotta azzurra. Un incanto, Capri, un incanto! La scala fenicia, ma come spiegare? Vediamo. Elisa Aleph, la figlia, aveva convinto l’illustre padre a passare le vacanze a Capri. Voleva visitare, diceva, sulla rocca di Anacapri, in cima alla scalinata di pietra, risalente ai Fenici, la villa di Axel Munthe, oggi trasformata in museo. Tiberio, l’imperatore romano ma prima di lui Augusto, Cesare Augusto Ottaviano, aveva scelto l’isola come sua dimora. Aleph, disteso a prendere il sole sulla spiaggetta di Marina piccola, è come l’imperatore Tiberio o come Cesare Augusto.
Più indietro, una ragazza dalla pelle bianca e con i capelli biondi, in bikini viola, è in posizione seduta e cincischia sul pezzo di sopra del suo costume, indecisa. Alla fine si porta le mani dietro la schiena e si slaccia il reggiseno, poi con mossa definitiva, se lo sfila e ne apprezza la consistenza del tessuto con le mani, infine lo raccoglie e stringe in pugno in attesa di disfarsene, posandolo disinvoltamente lì accanto. Si è avvicinato un milite in divisa blu, pantaloni lunghi e camicia a maniche corte, con gli occhiali da sole scuri. Sta in piedi di fianco a lei con le gambe leggermente divaricate ed il berretto con la visiera ben calzato sulla testa. Ineccepibile! Poi, pallido in viso, si china leggermente verso la bagnante nordica e le sussurra una breve frase. Deve avere eccepito qualcosa, perché la ragazza con mossa indignata ridistende il reggiseno e se lo annoda al petto, ricoprendo le forme armoniose. La pelle candida del suo seno, che esposta ai raggi del sole mediterraneo rischiava una scottatura, se non proprio delle ustioni pericolose, è salva. Ed è anche salvo il pudore di chi ha inviato o, peggio, indottrinato il milite. Missione compiuta. Vietato scottarsi il seno, soprattutto se come due bianche colombe. Confesso che io, Lafleur, puro spirito, ho intravisto efelidi sparse su quel giovane seno di donna. Aveva già conosciuto i raggi del sole. Elio aveva già baciato il petto florido della bionda turista. Il detto di Erodoto: phtonòs theòn è stato rovesciato. Qui è stato l’uomo o la donna ad invidiare il dio.
Sopraggiunse il commissario Calvo, in costume, e andò a distendersi allegramente accanto ad Aleph. Il dottore si riscosse, vedendolo, e lo salutò con cortesia, l’immancabile sorriso ironico scolpito sul volto, all’angolo della bocca.
Quale spirito aleggiava sulla spiaggia di Marina piccola, quel giorno di luglio, a Capri, oltre al mio ed a quello divino di Elio?
CAPITOLO 3
Dove aveva conosciuto Aleph il commissario di polizia Giuseppe Calvo? A Capri. D’accordo, ma dove precisamente? Nella piazzetta. Era scontato: ma quando, come, in quali circostanze? La sera, quando i villeggianti vanno a prendere il fresco… Ma andiamo per ordine. Il caos degli interrogativi che si affollano rendendo tutto confuso deve essere composto nel cosmo del racconto. L’emozione e il sentimento hanno da mutarsi in ragione. Ma sarà poi possibile questo “chimico” procedimento? In quale laboratorio dell’anima o del corpo le percezioni sensibili diventano idee, sensazioni dell’anima? Dove la materia, per alchemici trasformismi, diventa mercurio spirituale, svapora ovvero dove lo spirito si materializza? Dove? Nella glandola pineale. Ma va! In nessun luogo: u-topia. Non è possibile ricomporre il solco tra corpo ed anima. Ma chi è stato? Chi è stato il responsabile di questa impossibilità del conoscere, dell’irriducibilità dell’esperienza alla coscienza? Hume? Kant? Prima, Lafleur, prima. Cartesio, il nostro René Descartes ha compiuto il misfatto? Forse in era moderna, ma già in antico… Platone e il suo Iperuranio staccato dal mondo sensibile? Prima, Lafleur, prima. Ma Platone, si sa, era un seguace dell’orfismo, da cui gli gnostici derivarono la dottrina dell’esilio dell’anima caduta prigioniera sulla Terra. La religione di Orfeo, la religione dei misteri. Prima, Lafleur, prima. Nella notte del Mito… cominciamo ad avvicinarci, Lafleur, cominciamo ad avvicinarci. Nella preistoria, l’unitarietà animale e divina dell’inizio s’incrinò e divenne frattura, una frattura da cui è scaturita la storia e la civiltà propria dell’homo sapiens. Da allora la nostra esistenza si accompagna alla ferita…
Lafleur? Eh? Ordiniamo il cosmo del nostro racconto. Sì, certo. Stavamo dicendo di Aleph a Capri. Sì, nella piazzetta, a godersi il fresco della sera seduto ad uno dei tavolini dei caffé affollati, quando la calda aria della giornata estiva si va stemperando con l’imbrunire del giorno e lo spirare della brezza di mare arreca un certo sollievo gradevole, specie se accompagnato dal lento sorbire fredde bevande.
Era il gesto di Aleph. Allungava la mano, afferrava il bicchiere e con la cannuccia tirava su un sorso della granita all’amarena. Poi posava il bicchiere sul tavolino e si guardava intorno. Al tavolino era seduto da solo, ma non era niente affatto solo, anzi fin troppo circondato da sconosciuti, che ogni tanto gli si avvicinavano e lo salutavano familiarmente con larghi sorrisi. Erano perlopiù giovani. Presumibilmente amici o conoscenti di Elisa Aleph. E la signora Aleph? Ad un convegno di studi a Palma de Mallorca. Oh, guarda!
Non si può dire che gli Aleph non amassero il Mediterraneo ed io penso a ragione. E perché? Così! Bisogna vivere il Mediterraneo per capirlo. Ah, oui, les clubs mediterranées.
Tra questi giovani che avvicinavano Aleph, seduto ad un tavolino dei caffè della piazzetta, una sera fece la sua apparizione uno meno giovane, corpulento, quadrato, con la testa completamente calva. Indossava un paio di pantaloni beige ed una maglietta bianca con griffe (tartaruga) a mezze maniche col colletto sbottonato, ai piedi mocassini traforati marrone chiaro. Era in compagnia di Elisa, che disse soltanto: “Il commissario.” Quindi scomparve.
“Giuseppe Calvo” si presentò l’uomo.
“Piacere, Aleph” rispose il dottore.
Si strinsero la mano e su esortazione di Aleph, il commissario di polizia si accomodò al tavolino. Il dottore commentò con grande favore l’intervento degli uomini di Calvo a salvaguardia della sicurezza dei turisti dalle scorribande di alcuni ragazzini. Aleph usò il temine classico di “scugnizzi”, che provocò un indulgente sorriso di Calvo, per il quale la razza degli “scugnizzi” era estinta da tempo, forse con gli ultimi anni della sua adolescenza, per essere sostituita da una specie più recente, ma egualmente sorpassata, cioè i “lazzaroni”. Per Calvo l’odierno nemico da battere non consisteva in uno o più individui, classificabili come “lazzaroni”, “ lestofanti”, “mascalzoni” o “delinquenti” né tanto meno come “guappi”, figure appartenenti ad un’iconografia ormai sclerotizzata e sorpassata dalla storia, ma in una entità invisibile, di cui potevano apparire partecipi mendicanti e buffoni, nane e ballerini (sic!), giostrai e neuropatici, boss e capiufficio e qui Calvo spiegò sorprendentemente al dottore che nella lingua italiana i termini boss e capoufficio sono sinonimi.
Un Aleph giovane sarebbe poi andato a controllare sul dizionario dei sinonimi e dei contrari, ma l’affermato professore di psichiatria per esperienza sapeva che quel commissario di polizia se aveva fatto improvviso sfoggio di cultura era perché aveva studiato, come si dice, e quindi si riteneva sicuro del fatto suo anche nel campo della cultura, dove un “professore” poteva coglierlo in fallo.
E qui è giunto il momento di soffermarsi su una notazione di ordine psico-sociologico, con approfondimenti culturali (e che più?), relativa alla categoria dei “dottori” e dei “professori” al tempo di Lafleur, che sappiamo essere un tempo scandito dall’irrazionale.
Il dottore è un laureato in una delle discipline umanistiche o scientifiche, in cui appunto ha conseguito il “dottorato”. Ed invero è quest’ultima un’assurda bipartizione accademica, mai accettata da intelligenze versate in discipline interdisciplinari, composte ad un tempo da materie comprese sia nel campo umanistico che in quello scientifico. Esempio: la mia laurea in “Scienze della Psiche”, per il quale ho ricevuto il titolo di “dottore”, il “dottor Lafleur”, meno conosciuto del “dottor Zivago”, un mio caro amico – ciao Nicolae! - ma anche meno conosciuto del dottor “Mabouse”. Ebbene, dicevo, che nel mio piano di studi erano (state da me) inserite materie interdisciplinari, come ad esempio: Scienza dei calcolatori (materia scientifica); Storia del Mito (materia umanistica); Biologia dello Spirito (materia scientifica); Matematiche e Logiche della Conoscenza (materia umanistica); Ombra del cervello (materia umbratile, ma scientifica), ed altre materie o discipline consimili.
Per “dottore” quindi dovrebbe intendersi un qualsiasi dottore in lettere, in musica, in scienze della cucina, l’odierna scienza dell’alimentazione, in matematica, in filosofia ed anche in medicina e chirurgia, nonché in psichiatria. Nel senso comune però il “dottore” è il medico, il dottore in medicina, quello che cura i malati ed ha prestato il giuramento di Ippocrate. Calvo era dottore, perché era laureato in Scienze giuridiche, ma Aleph era più dottore di lui, mi si perdoni la scorrettezza grammaticale, perché era laureato in Medicina e Chirurgia e quindi era dottore per antonomasia, ma anche qui non sono stato abbastanza corretto nello stile, perché ho usato una figura stilistica in modo alquanto improprio.
Era dunque per questo che Calvo si rivolgeva ad Aleph con l’appellativo di “professore”, quasi come se per lui quest’ultimo titolo rappresentasse da un punto di vista grammaticale un comparativo di maggioranza o un superlativo del termine “dottore”, divenuto un anomalo aggettivo?
No, non era per questo. Calvo era perfettamente cosciente che il professore è colui che insegna nelle Scuole, quegli che ha acquistato uno speciale titolo nel campo della didattica, ma soprattutto professore è l’accademico che ha conseguito la libera docenza in una delle discipline universitarie ed in maniera eminente professore è il dottore in medicina, che ha conseguito la libera docenza in una delle discipline mediche, divenendo titolare di cattedra. Aleph aveva conseguito la libera docenza in Neurologia ed era titolare di cattedra alla quarta Università di Roma, quella sita in via Trionfale, nel quartiere diciannovesimo. Era un cattedratico. Era un illustre clinico. Il minimo di appellativo, con cui gli si poteva rivolgere era: “Professore”. E, invero, sono soprattutto i “baroni” della medicina, per usare un linguaggio del “Sessantotto”, a meritare questo titolo.
Io credo che Calvo, quando avesse alluso a nane, donne non all’altezza dei posti di potere attorno a cui danzavano, e ballerini, personaggi da avanspettacolo, bravi solo a calcare le scene della rivista, non quelle delle alte sfere, aveva pensato, senza che il suo pensiero fosse affiorato alla coscienza, anche a dottori e professori, i baroni. Ma rischiava di diventare un donchisciotte. Forse fu per questo che interloquì con Aleph, in quella estate caprese.
Il padre di Elisa aveva avuto contezza del commissario Calvo dalla figlia. Non aveva capito bene la storia dei ragazzini che chiedevano i soldi ai turisti sulla scala fenicia, dove per altro la giovane si era avventurata in abiti molto succinti ed una macchina fotografica al collo, nella calura del meriggio. Dal discorso era spuntato un funzionario di polizia, materializzatosi poi, nel fresco della sera, tra i tavolini dei caffé della mitica piazzetta dell’isola incantevole.
Axel Munthe sostiene che quelli sono i posti più belli del mondo; senz’altro i colori e i profumi corrispondono a quelli del paradiso, dico io. Non arrivo però ad affermare che da morto sono andato in paradiso e che pertanto posso offrire la mia testimonianza, senza nessun rischio d’incriminazione per falso. No, non sono così avventato o presuntuoso, perché io, Lafleur, sono modesto. Queste precisazioni, una vera piaga del mio scrivere, costituiscono un lato del mio carattere, che Aleph, come vedremo, definì con termine strettamente scientifico “ridondante”. La ridondanza si può comprimere in messaggi più ristretti, ma di questo parleremo poi. Domanda: sono “ridondante” se affronto il tema scientifico della “ridondanza”?
Aleph, Aleph a Capri, sulla piazzetta, in compagnia del commissario di polizia dell’isola. Quando si lasciarono, Calvo rassicurò il dottore romano. Sapeva delle ascendenze e della giovinezza napoletana di Aleph, ma lo giudicò e classificò “romano”. Comunque, si sarebbero rivisti, magari in spiaggia. Calvo non aveva ancora usufruito di nessuno dei suoi quarantacinque giorni di ferie. Avrebbe iniziato il primo dicembre e terminato il quindici gennaio da venire, disse senza convinzione.
Elisa Aleph non aveva sporto denuncia per l’accaduto del pomeriggio sulla scala fenicia (quale accaduto?), ma anche se lo avesse fatto, la conoscenza tra lo psichiatra ed il commissario di polizia si sarebbe limitata all’incontro di quella sera, più che altro sollecitato da Elisa. Quale dunque fu la ragion d’essere degli incontri, non molti, tra Aleph e Calvo, successivi al primo?
Lafleur! Eh, già! Non era difficile indovinarlo.
Quella prima sera, il professore, non so perché, parlò di me, proprio di me, fra tanti suoi malati di nervi, a Calvo, o meglio vi accennò soltanto. Il commissario drizzò le orecchie, così pensò Aleph, quando con nonchalance il direttore parlò del delitto di via Granodelturco, un clamoroso caso di cronaca nera della capitale, di cui però a Napoli non sembrava esservi stata eco. Comunque, al di là del caso giudiziario del delitto, il commissario s’interessò a Lafleur soltanto perché Aleph mi aveva menzionato. Come? Il ragionamento del commissario fu semplice: il medico romano gli parla di un malato di mente con precedenti penali, sparito, quindi bisogna seguire il caso.
Ma come accadde che il discorso di Aleph scivolò, quella sera di luglio a Capri, su Lafleur?
Quando aveva parlato di nane e ballerini, Calvo aveva ricompreso nei componenti dell’entità invisibile produttiva di crimini e malvivenza da combattere e contrastare, anche i neuropatici, accostati chissà perché ai giostrai. Ebbene Aleph era stato colpito del riferimento ad una categoria di soggetti, da lui conosciuta sotto il profilo scientifico (psichiatrico) come pazienti (sofferenti psichici) da curare.
“Noi abbiamo fatto il classico” disse Aleph, mostrando di cooptare il suo interlocutore, il dottor Calvo, nel suo empireo culturale. “Psichiatria è la cura (iatria) dei malati psichici (psiche). Secondo me il discorso culturale sulla psiche deve essere ancora approfondito.”
Calvo, il dottor Calvo, non rispose, ascoltava, con grande disponibilità.
Subito Aleph passò dal tono accademico, inconsueto per lui, a quello più usuale, adatto al linguaggio di ogni giorno, la “chiacchiera”:
“Prendiamo ad esempio la psiche di Lafleur, dottore in Scienze della psiche: che ne sa questo dottore della sua psiche?”
Il commissario lo guardava; era attento. Il medico aveva già fatto un nome. Aleph lo guardò per invitarlo ad intervenire nel discorso.
Il commissario domandò: “Chi è Lafleur?”
“Lafieri, Lafleur, un paziente… strano però”. Ecco perché avevo colpito l’attenzione di Aleph: ero un paziente estraneo (“strano”) alle configurazioni tipiche dei malati di mente, penso io.
Il commissario intervenne e precisò: “Lafleur o Lafieri?”
“Lafleur, alias Lafieri Silla” ribatté Aleph, usando intenzionalmente un termine del gergo di polizia: “alias”.
Calvo raccolse il messaggio. Questo Lafleur alias Lafieri Silla era un paziente di Aleph, ma anche un suo cliente.
“È uno psicotico, uno psicopatico?” domandò Calvo, usando il gergo della psichiatria, ma senza nessuna intenzione cosciente d’invadere il campo professionale di Aleph,
“Psicotico… psicogeno…” mormorò Aleph con tono leggermente interrogativo, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore, che sembrava essergli diventato improvvisamente estraneo.
Al tavolino si era avvicinata una signorinella, come la definì Calvo, di quattordici, quindici anni circa. Il commissario decise che non era il momento di presentare la figlia al professore. Si alzò, posò amichevolmente il braccio sulle spalle della giovanetta e salutò Aleph.
“Dottore, arrivederci.”
Il dottore si riscosse subito e rispose sorridendo ai due, alzando la mano.
“Ciao”, disse.
“Ciao, Aleph” rispose Calvo e si allontanò con la giovanissima figlia, confondendosi tra la folla della piazzetta, nel fresco della sera estiva.
CAPITOLO 4
Una notte Aleph si svegliò. La notte era chiara, ma ancora non albeggiava, mancavano pochi minuti alle quattro. Aleph, benché si fosse coricato all’una, sapeva che non si sarebbe riaddormentato. Non si sentiva il vociare di nottambuli villeggianti, perché l’albergo era all’interno di un vasto giardino privato, ma a quell’ora i più sull’isola dormivano.
Il dottore non riuscì a distinguere in seguito se la visione di me, Lafleur, della mia fuga dal suo manicomio, era un sogno trasformato in ricordo o un ricordo rivissuto in attesa dell’alba. Io propendo per la seconda ipotesi, anche se la prima può essere vera anch’essa. Forse Aleph aveva sognato “qualcosa” di Lafleur o che lo (Lafleur) concerneva o a cui lui (Lafleur) indirettamente rinviava ed ora da sveglio, pensando alla mia persona, riviveva l’immagine della mia fuga notturna, così come lui a suo modo, con sue correzioni cioè, l’aveva ricostruita a mente fredda il giorno dopo. Un’ombra scivola nella notte accanto a Gelindo, il volto s’illumina alla fiamma dell’accendino e l’ombra si allontana verso l’uscita, il custode tenta di fermare lo strano individuo, questi reagisce, il custode (“un caprone”, l’aveva dovuto pure difendere davanti a Ciocchetti) lo afferra in maniera violenta (ha pure a che fare con un pazzo o no?), il paziente reagisce e scaraventa Ortenzi per terra con un pugno (legittima difesa?) e fugge, il pazzo (Gelindo Ortenzi), invece d’inseguire, spara e fortunatamente non colpisce il bersaglio umano, poi la telefonata. Il commissario Ciocchetti del quartiere diciannovesimo aveva commentato l’episodio, riferendosi al fuggitivo ed allo sparatore con una battuta scontata: “Ma sono pazzi!” Aleph aveva dovuto “abbozzare” e l’episodio era finito lì, con una relazione scritta del custode dell’ospedale, pretesa da Ciocchetti ed infilata dall’attento e giovane funzionario di polizia in un fascicolo, che all’occhio di Aleph, non meno attento di quello di Ciocchetti, non era poi apparso del tutto scarno.
Ma com’era andata quella notte della mia fuga? Come? Come l’ho raccontata io a voi, che quindi siete divenuti testimoni, ed Ortenzi ad Aleph, non come il medico, qui a Capri, ricostruiva in sogno o ad occhi svegli nel buio, in attesa dell’alba. Allora è vera l’affermazione mormorata dall’accusato: “Non è vero! E’ una macchinazione delle vostre notti bianche!” Le notti bianche non sono quelle sognanti e fantastiche di Nastenka (la piccola Anastasia) a San Pietroburgo, raccontate da Dostoewskij, ma quelle insonni di giudici irresoluti e crudeli, nel senso di crudi, che non si sono cioè fatti cuocere dall’umano calore della vita.
Aleph attende l’alba e pensa a Calvo, quando il commissario napoletano gli aveva chiesto in uno dei colloqui successivi al primo, ritornando su Lafleur, i dati somatici di quest’ultimo. Il dottore aveva riferito gli scarni dati, che si possono riassumere in una scheda segnaletica: altezza media, magro, capelli ricci color cenere, occhi di ghiaccio, colorito pallido, riso raro e forte; usò l’aggettivo “forte”, per non sbilanciarsi con “gradasso”.
Ma che cosa era accaduto ad Aleph, quando Aleph aveva compiuto una tale breve descrizione fisica di un suo paziente ad un funzionario di polizia che lo interrogava in proposito, a parte il fatto che l’interrogatorio era stato sagacemente (“furbescamente”, aveva registrato Calvo nel suo inconscio) provocato dall’interrogato? Che cosa era accaduto in quel pomeriggio assolato, mentre erano seduti all’ombra del bianco colonnato del Tempio ben conservato di Mnemosyne, fatto costruire dalla cognata di Tiberio (o di Augusto?), proprio accanto ai Giardini dell’omonima Dea della Memoria, il dottor Aleph ed un corpulento quarantenne in calzoncini e maglietta bianca, ai piedi i caratteristici sandali, con allacciatura alla caviglia?
Aleph fissava una lucertola attaccata in posizione verticale ascendente ad una vicina colonna del tempio, immobile al sole e pensava all’evoluzione dell’antropoide, che un tempo (il tempo della Pangea?) sotto forma di artropode marino uscì dall’acqua dell’oceano e cominciò a strisciare sulla terra come un rettile, sollevandosi prima sulle quattro zampe e poi soltanto sulle due posteriori, per assumere una posizione sempre più stabilmente eretta e passare da un profilo scimmiesco ad una sagoma sempre più umana fino a rassomigliare all’odierno homo sapiens. Dov’era diretto costui? Indubbiamente dalla terra verso il cielo. Presto avrebbe imparato a volare, ad abitare nello spazio, passeggiando nel moto uniforme intersiderale e quindi, continuando nella sua evoluzione ad essere modellato dall’ambiente, sarebbe diventato sempre più angelico, sempre più annuncio di una materia ognor più trasparente ed evanescente, in via di dissolvimento in energia pensante, in puro spirito? E questa intelligenza, questo intelletto privo di qualsiasi consistenza nello spazio puro, dove andava?
Il dottore aveva lo sguardo sognante, il sole si era spostato e ne illuminava tutta la figura, la testa ora rivolta verso l’alto della colonna, dove la lucertola, in successivi guizzi striscianti, era in breve risalita. Su che cosa meditava? Sull’evoluzione di quell’essere vivente evoluto da verme marino a rettile strisciante, bipede umano eretto, la testa rivolta verso il cielo, volato nello spazio, annuncio di materia evanescente, energia spirituale, intelligenza pura nell’universo? Ma perché il suo pensiero era diventato meditativo? Per non pensare ad altro? Forse che queste sue meditazioni sull’universo abitato da puri spiriti avevano contribuito ad allontanare un’idea, che ora fortunatamente non gli attraversava più la mente. Nel tempio di Mnemosyne si era compiuto il rito misterico dell’oblio, avendo la divinità dispensato il mortale, sebbene a lei non sacrificante, dal segnare nella memoria un’idea (spiacevole) trasformabile in ricordo (persecutorio). All’uscita del tempio il mistero sarà svelato.
Aleph disse: “L’universo è pieno di Iddii.”
Il commissario Calvo, che aveva appena finito di memorizzare la mia scheda segnaletica, trasformandola in immagine, avanzò di un passo, uscendo dall’ombra nel sole. Sorrideva all’illustre clinico romano.
“E quale grande personaggio dell’antichità classica vi ha ispirato questo pensiero, dottore?” domandò.
“È Proclo che cita Platone, in epigrafe alla sua Theologia” rispose Aleph.
S’incamminarono. Il commissario si fermò e il dottore lo imitò. Calvo indicò il frontone del tempio ad Aleph e disse: “Lo spirito della divinità scendeva nell’edificio a lei consacrato e lo animava, librandosi poi in alto attraverso le colonne. Per questo i templi antichi dominavano con i loro colonnati aperti sulle alture, per favorire il sopraggiungere ed il muoversi del dio.”
Il dottore non commentò, come rapito da un suo rinnovato pensiero. Poi entrambi si voltarono di nuovo verso la strada e ripresero il cammino.
Ma prima di lasciare i luoghi ed il pensiero classico, Calvo aveva detto, ed ora nel buio che andava schiarendo il ricordo lo assalì nitido, ora, fuori dell’area sacra di Mnemosyne, ma sempre sotto l’influsso divino della Memoria: “Talete, figlio di Examio, fu il primo a dire che principio degli elementi è l’acqua e che il cosmo è animato e pieno di divinità. A sentire Erodoto, Talete era fenicio.”
Mnemosyne non è la dea del silenzio e dell’oblio, ma la dea del ricordo, e se per una sua divina saggezza aveva reso grazia ad Aleph nel suo recinto sacro, cancellando (ma non per sempre) un’impronta infelice nella sua mente, quella impronta svanita e portata via dal vento della dimenticanza si riformava ora come idea e veniva ad affacciarsi nella stanza assieme al bianco dell’alba.
L’idea diveniva immagine, immagine fisica di Lafleur: magro, capelli ricci color cenere, azzurri occhi di ghiaccio. E nell’immagine viva di Lafleur, materializzatasi in quell’alba estiva, ma livida, come in uno specchio, il dottore vide riflesso sé stesso, la sua figura di giovane medico, la corporatura più magra, i capelli meno argentei, il medico che andava affermandosi come clinico illustre in psichiatria.
In quel momento desiderò parlare a sua moglie. Guardò l’ora: erano quasi le cinque e trenta; non gli sembrò opportuno svegliare a quell’ora la consorte, sapendo di allarmarla. Si alzò e chiuse la serranda; nella stanza ritornò il buio. Il dottore si era coperto con il lenzuolo; cercò di riprendere sonno, ma invano, come presentiva.
L’universo è pieno di Iddii: Proclo, Platone, Talete, uno dei sette sapienti, la sapienza greca, la sophia. Ritornò l’immagine della lucertola immobile al sole sulla colonna del tempio di Mnemosyne. Il dottore ritornò al pensiero precedente alle sue speculazioni biologiche e antropologiche, assecondanti la teoria evoluzionista della vita. Ricomparvi a lui in immagine. Da puro spirito vedevo me stesso, la mia immagine, presentarsi (affacciarsi alla mente) al dottore. Ero un Lafleur allucinato e dagli occhi di ghiaccio, lievemente triste (depressione?); il dottor Aleph sovrappose alla mia immagine malinconica ancora lo splendore del sole meridiano di Capri, la lucertola sulla colonna, prova vivente dell’ilozoismo. Come? Yle, la materia e zoe, la vita: materia vivente; Talete, l’ilozoismo, il cosmo vivente, come poi dirà Platone nel Timeo, l’universo animato, aveva ragione Calvo, ma lui, Aleph, non aveva torto.
Talete, dicendo che l’acqua è il principio di ogni cosa, dice che la materia è vivente; nell’acqua stagnante è un rigoglio di vermi, esseri nudi e striscianti, divenuti anfibi invertebrati, a cui l’ambiente forgia successivamente uno scheletro, per rendere possibile la loro sopravvivenza sulla terra, su cui stabilizzandosi sulle zampe posteriori riescono a sollevare il capo verso la volta stellare, finendo per elevarsi dall’atmosfera alla stratosfera e quindi essere rapiti in cielo e vagare nello spazio, come annunci (angeli) di materia (energia vivente: non orbitano gli elettroni attorno al nucleo di protoni?), come spiriti puri, pura luce.
Nel buio ad Aleph sembrò di vedere un punto luminoso; guardò verso le serrande abbassate, ma non filtravano raggi di sole. In quell’istante si rivide in sogno. Non aveva sognato Lafleur, ma “qualcosa” a cui Lafleur rimandava. Che cosa? Quale cosa tra le cose? Nessuna cosa? Ed allora? Una minuscola entità luminosa?
Aveva sognato il suo principio e la sua fine, il suo destino: l’Aleph.
CAPITOLO 5
Aleph e Calvo continuano a salire per via Orazio ed io dietro di loro, in ispirito.
“O sono due persone oppure una sola!” disse Aleph.
Calvo non interloquì; manteneva lo sguardo fisso per terra, con espressione concentrata, quasi uno sforzo per non rabbuiarsi.
“Qui, dobbiamo procedere alla luce solare della ragione” continuò il dottore “e per farlo, dobbiamo partire dall’ipotesi che i Lafleur siano due: Lafleur e Lafieri Silla; anche se io penso o meglio ho il sospetto che si tratti della stessa persona.”
S’interruppe, notò che il suo compagno non interveniva, mostrando di essere disposto ad ascoltare tutta l’esposizione sul tema da parte dell’illustre clinico, che ricostruì l’intera vicenda con un linguaggio ed uno stile più tipici di un’inchiesta di polizia che di una relazione sull’analisi di un caso psichiatrico. Ma non convergono a volte le situazioni che rispecchiano questi due linguaggi? Nel mio caso, il caso Lafleur, certamente sì! Tout à fait, come direbbero i francesi o jawohl, come direbbero i tedeschi e ... gli inglesi? Non ricordo, non so, I don’t know… Mi sono ricordato: of course! Quando si tratta di me, io con questi espedientucci cerco sempre di sviare il lettore, che è poi il mio giudice, quello vero, non quello fittizio, tipo Gigliola Bartoloni.
Lafleur? Eh! Ma non hai già confessato il tuo delitto? Quale? Quello di Alexandra Pannoncelli, la giovane segretaria, vent’anni appena, violentata ed uccisa in via Granodelturco, a Roma. Rispondo io: ma non si può trattare di autocalunnia, così tanto per esibizionismo? Eh no, non per i tuoi giustizieri! Quelli, Lafleur, sapevano! Ah!
Io, in ispirito, sono con le spalle al muro e quindi svolazzo via. Però… però che cosa? Voglio aggiungere che… che io… ecco non ho violentato Alexandra. Ah, no?
Non mi credete: sono sconsolato, non potete capire!
Loro, però, hanno capito! Ah, ah, ah!
Io, Lafleur spirito, faccio spallucce, sono triste. La tesi del Dimarzio, la tesi del Dimarzio, mi dico. Chi? Il Dimarzio, il cronista di nera che aveva ricostruito il mio delitto ovvero il delitto a me attribuito: gli uomini non sono colpevoli, perché sono le vittime che si offrono allo stupro e all'omicidio; l’antico dissidio tra l’uomo e la donna, quella lotta per la sopravvivenza della specie, che può risolversi nel bene e nel male… Nel bene e nel male, hai detto? Sì, ma come risultato virtualmente duplice, quindi vita o morte al di là di ogni giudizio morale e quindi giuridico, al di là del bene e del male... Un momento, Lafleur! Ascoltami. Ho imparato a conoscerti o meglio ho imparato a conoscere il tuo maestro e la tua guida, in tedesco Führer, il pazzo (sofferente) folle che tu fingi di essere, il suo pensiero; cito parafrasando dallo Zarathustra, il passo del pallido delinquente e del rosso giudice della parte prima: “Così parlò il rosso giudice: ‘Perché questo delinquente ha ucciso? Voleva violentare.’ Ma io vi dico: la sua anima era assetata di sangue, non di libidine: egli aveva sete della voluttà dello strangolamento.” Eh! Ma, tu, che dici? Quello che dici tu, Lafleur, che non volevi violentare, anzi che non hai violentato Alexandra. Ma che razza di... Eh! Ma tu, maledetto grillo parlante, chi sei? Io? Io, Lafleur, io sono ‘Loro’! Ah, ah, ah! Aghrrr... maledetto! E tutto questo azzuffarsi e maledirsi davanti al lettore! Lafleur e Loro, ma che maleducati! Contegno, diamine! Un maggiore contegno.
Che cosa diceva Aleph? Che cosa stava ascoltando Calvo?
Diceva dei due Lafleur e dei suoi sospetti. Dottore, ma voi, voi quando avete avuto contezza di questo Lafleur per la prima volta? Una tale domanda che Aleph avrebbe voluto sentirsi rivolgere da Calvo, in modo da avere anche lui un inquisitore a cui dover dare spiegazioni, mulinava nel cervello del dottore, da tempo. Ma senza aspettare la domanda che non venne, disse:
“Una vera e propria contezza di questa mio psicopatico l’ho avuta una notte, quando fui svegliato a causa della sua fuga dalla mia clinica o meglio…”
C’è sempre un “o meglio” nel mio discorso, un chiarire successivo, uno giustificare, che mi appartiene sia come Aleph che come Lafleur: uno, Lafleur, ormai in due, Lafleur ed Aleph, e quindi due, Lafleur ed Aleph, in uno, Aleph – ed in questo senso Aleph, in cui ero entrato come spirito, in francese fantôme ed ora vi dimoravo come fantasme, ora a Calvo doveva apparire come ispirato, invasato direi, un soggetto da trattare con una certa attenzione, ecco perché manteneva lo sguardo fisso per terra, con espressione concentrata, quasi uno sforzo per non rabbuiarsi. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei; chi pratica lo zoppo, impara a zoppicare; le cattive compagnie…
“…ebbi contezza del pazzo, di questo Lafleur la mattina dopo, ma era già pomeriggio in verità, quando nel mio ufficio, sbarazzatomi di ogni altra urgente incombenza, dovuta all’intervento del Commissario Ciocchetti per la sparatoria notturna…”
“Quale sparatoria, dottore?” domandò Calvo incuriosito.
“Ah!” disse Aleph e riepilogò per il commissario tutti i particolari della vicenda della mia fuga dal suo manicomio criminale, fuga peraltro già genericamente conosciuta da Calvo. Ah, il funzionario di polizia ebbe un sorriso d’indulgenza: tre botti, in aria! E poi?
“E poi, dopo avere messo a posto la vicenda notturna ed avere pregato Ciocchetti di tenermi informato, finalmente mi sono potuto concentrare da solo nel mio ufficio sul fascicolo di Lafleur ovvero Lafieri Silla.”
Aleph s’interruppe. Allo psichiatra non era sfuggita la impercettibile vena d’ironia nel commento di Calvo all’esposizione dei fatti relativi alla sparatoria – ed a questo proposito ora in ispirito lancio sempre un malevolo pensiero all’indirizzo dei defunti del custode della clinica Gelindo, ma non più con la stessa passione di allora che subito sbollisce, ora anch’io con la stessa indulgenza e lieve ironia di Calvo, acqua passata.
“Comunque non ho certo trascorso tutta la mattinata con il commissario di quartiere” disse. “Ho dovuto pur interessarmi alle urgenze di altri casi.”
“Eh, certo” rispose il funzionario napoletano.
Il dottore, soddisfatto dell’approvazione, seppure scontata, continuò:
“La giurisdizione, relativa al mio mandato di Medico del Servizio Psichiatro pubblico, si estende territorialmente oltre a Roma ed alle province del Lazio, anche all’Abruzzo. Ed è ad Aquila che ho visto e conosciuto de visu per la prima volta il mio paziente, di cui poi ho rievocato quella mattina anche un piccolo movimentato episodio al momento del suo primo ricovero da me…”
Quale? Ho domandato, ma la mia voce spirituale non è giunta fino ad Aleph, e come poteva? Ma tu non dimoravi nello spirito di Aleph, Lafleur? Sì, ma Aleph ha momenti di lucidità, in cui non si lascia possedere dal mio demone ed allora è Aleph e soltanto Aleph, senza nessuna follia, senza nessuna divina mania, nessuna possessione. Ah! Non ha egli detto: “Qui, dobbiamo procedere alla luce solare della ragione…”? E così dicendo non si è staccato dalla notte del Mito, dall’ombra notturna della passione emotiva, per avanzare nella luce solare del giorno, nella luce della ragione… Va bene, abbiamo capito. Vai avanti!
Voglio soltanto precisare che l’ipotesi da cui parte Aleph introduce un discorso scientifico e la Scienza, lo sappiamo, si basa per sua stessa ammissione su ipotesi, un sapere ipotetico quindi, privo della luce della “Verità” incontrovertibile.
La mia voce spirituale che chiedeva spiegazioni, che voleva conoscere la “Verità” sulla mia presunta aggressione alla dottoressa Rosselli non ha raggiunto il dottor Aleph intento a conversare con Calvo in cammino sulla strada della collina napoletana, a Posillipo. Il dottore, emerito psichiatra, parlava delle sue attività quotidiane al commissario di polizia napoletano, riferendo di me: “Ma poi Lafieri è diventato un paziente qualsiasi. Non una pratica tra le mille, ma un paziente da osservare e curare tra mille pazienti da osservare e curare.”
Curare? E va bene! Calvo commentò sotto voce, mostrando una sua certa disapprovazione. Meglio sorvegliare e punire, azzardò. Aleph taceva. Calvo non osò oltre.
In verità il dottore aveva sentito la voce del suo interlocutore, ma le parole “sorvegliare e punire” non avevano raggiunto la sua ragione cosciente, diciamo così; esse erano andate ad incasellarsi in uno scomparto della sua memoria, dove andarono a combaciare con il solco di parole sorelle, già presenti come impronte derivate dal titolo di un libro, letto da Aleph in gioventù. In quel momento egli non aveva badato a quelle parole del suo interlocutore, ma stava riflettendo tra sé e sé su quella sua perplessità insortagli allora al momento della registrazione del mio nome all’accettazione, perplessità che ora, sarà stata la vicinanza di Calvo, gli si presentò come un sentimento di sospetto di fronte alla mia imprevista reazione, uno strano trasalimento che ebbi e che al dottore apparve come strano, direi misterioso, se non fosse stato per la certezza, la luce della sua Scienza, che comunque anche lui, edotto in metafisica, conosceva come sapere ipotetico.
“Fu registrato come Lafieri Silla, per sua volontà e per mia accondiscendenza, anche se in un primo tempo si presentò come Lafleur; ma erano due nomi o appellativi, se così vogliamo definirli, che riguardavano un’unica persona, quella che avevo davanti a me, mentre il mio problema, pardon! il nostro problema è se questo nome unificato Lafieri Silla alias Lafleur si riferisca, nella vicenda che andiamo a verificare, ad una sola persona oppure a due persone distinte. Hic sunt leones.”
Aleph tacque. Calvo non intervenne.
Il dottore riprese a parlare: “Eppure questo Lafleur sapeva!” La frase fu detta con un tono così invitante che sarebbe apparso normale a qualsiasi interlocutore intervenire con la domanda: “Che cosa?” Tale domanda il commissario non la pose ed allora Aleph insistette: “Sapeva.” “Ma faceva lo gnorri” disse ridendo Calvo, a sorpresa. Il dottore sembrò meravigliarsi, perché il commento del suo compagno dava per scontato e manifesto quello che lui non aveva detto o forse rivelava una partecipazione un po’ troppo generica e distratta all’oggetto del suo pensiero.
“No, gnosi” disse sorridendo enigmaticamente. “Come?” domandò subito Calvo, inclinando l’orecchio sinistro verso la persona di Aleph, con un tono d’imbarazzo proprio di chi non aveva afferrato il suono della parola.
“Lafleur sapeva di essere l’ombra di sé stesso” disse Aleph.
Il commissario esplose in una allegra risata. Aleph si voltò a destra dalla sua parte, per comprendere meglio la reazione dell’amico alle sue parole, ma notò che anche Calvo si era voltato a sua volta a destra e stava salutando un giovane passante: “Ciao, Minieri.”
Aleph rallentò e si voltò a guardare il giovane, poco più che un ventenne, che aveva risposto con un sorriso timido al saluto del commissario di polizia e che sembrava indeciso se fermarsi o andar via. “Ciao”, disse ancora Calvo a mo’ di congedo e sempre ridendo riprese ad andare al passo con il dottore.
“È un giovane commissario di polizia” spiegò. “Un collega giovanissimo.”
“Ah!” commentò Aleph e pensò a Capri, alla scala fenicia dell’estate ed a sua figlia Elisa.
Forse era anche un po’ a causa dello sprone e direi dell’ambizione della ragazza, che si trovava ad avventurarsi sempre più nel caso Lafleur, per svelare il mio mistero, lì dove lo sforzo congiunto di polizia e gendarmeria non riusciva a raggiungere un risultato gratificante per il solutore dell’enigma, gratificante per il suo senso di… di che cosa? di…potenza. Ah!
“Lafleur era consapevole di essere virtuale, come noi tutti d’altronde” riprese a dire Aleph. “Come?” domandò soprappensiero Calvo.
“Una scintilla divina dell’anima del Tutto” disse il dottore “quindi, come parte del vero Tutto, l’ombra di sé stesso e ad un tempo del Sé.”
Aleph sorrise guardando Calvo e poi spiegò rapidamente: “Un po’ di dottrina orfica, un po’ di neoplatonismo e un po’ di Jung.” È l’anima straniera sulla terra; quando cadde dal cielo frazionandosi nelle mille scintille del tutto della Luce, incontrando la materia, l’anima ferita, disgiuntasi dal sommo Bene, incontrò il Male; da allora vaga straniera e peregrina nel suo esilio terreno, in attesa di risalire al cielo e ricongiungersi al suo Sé, l’anima del Tutto.
Ma il nome, il nome, che cosa rivela il nome?
Lafleur ha una sua derivazione d’Oltralpe: la fleur, il fiore; Lafieri? Un radice tematica laf- con desinenza -ieri tipica dei nomi italiani ed in diversi casi di nomi derivanti da appartenenze a corporazioni artigiane o di lavoro come ad esempio: gioiellieri, lavoratori dei gioielli, minieri, lavoratori del minio; conchiglieri, lavoratori delle conchiglie; panettieri, lavoratori del pane; carovanieri, lavoratori dei trasporti e così via.
Comunque è bene tagliare corto sul senso dei nomi, rinviando sull’argomento alla lettura del “Cratilo”. Qui è interessante mettere in rilievo che “Lafieri” (lavoratori di che cosa? Lafieri, laf-ieri, lav-ieri, per traslitterazione successiva della labio-dentale v in f, lavoratori della lava, quella vulcanica dell’eruzione del Vesuvio, già descritta da Plinio) per Aleph è il nome di Lafleur più vicino alla sua vera identità, più vicino di questo contrabbandato nome, Lafleur, con cui mi presento. Ed ora qui, a Napoli, non so, ma sento che questo nome Lafieri, con desinenza in -ieri, mi è più consono di Lafleur, sarà forse per lo sfondo del Vesuvio e del golfo, di questo azzurro d’incanto, di fronte a cui il dolore e l’affanno si placa (pausilypon). Sarà!
Quale che sia il nome, come bene ha capito Aleph sin dal primo momento, come ben sa Calvo ed ogni altro, qui interessa accertare se Lafleur alias Lafieri Silla sia quel brutto mascalzone che prima ha ammazzato la povera Alexandra, riuscendo a farla franca con la giustizia del suo Paese, poi si è ricongiunto a Ponte con criminali del suo rango (altro che “barbieri invisibili”!), città in cui finge di morire, per riparare poi in Sud America, credendosi di mettersi al sicuro e dove invece non riesce a sfuggire alla vendetta dei suoi pari, al suo destino di morte.
E allora? Aleph, Calvo e gli altri sanno? E come? Sanno nel senso di “sospettano”, “sentono”. Ah, sensitivi, dunque! Mah! Il loro sapere è un temere ed auspicare: temono che Lafleur sia tutto questo ed auspicano che Lafleur sia stato tutto questo. La prova è là in quel freddo inverno, l’inverno definitivo di Lafleur, la sua tumulazione ultima, senza ritorno.
Essi, Aleph e Calvo, stavano recandosi a piedi in via Manzoni, a casa di Caterina Raineri, la moglie del mio buon amico Osvaldo, per raccogliere ed aggiungere al mosaico ormai quasi compiuto della mia intera trascorsa vita l’ultimo tassello, quello definitivo ed illuminatore di tutta la mia vicenda, la vicenda di Lafleur, e mettere la parola “fine” alla mia storia.
Ci riusciranno?
CAPITOLO 6
Sono quasi arrivati all’incrocio con via Manzoni: io svolazzo dietro di loro. Sembrano fermarsi. Ne approfitto, scendo rapidamente la via Orazio fino al muretto, dove era vergata con il gesso la scritta anonima: “Dimmelo in faccia verme!” L’homo sapiens è un verme. Guardo il mare. È incantevole il paesaggio. Chi non lo conosce, dovrebbe recarsi in questa città ad ammirarlo. Chi è stato a Napoli una o due volte, dovrebbe ritornare, per contemplare ancora il panorama del golfo. Chi lo vede frequentemente o abitualmente, ogni tanto dia un’occhiata. Chi vi abita e non ha tempo o desiderio o possibilità di fermarsi a guardare, al massimo colpito en passant qualche rara volta da stupiti forestieri, non guardi costoro con il suo sguardo di compassione, che pure è condivisione di passione e soprattutto non assuma un atteggiamento di malcelata superiorità, che maschera un sentimento di nascosta invidia per quelle anime candide o apparentemente tali, perché essi i forestieri sono veramente stupiti dal panorama, che per loro comprende anche gli abitanti del posto, circostanza quest’ultima che differenzia pertanto il panorama partenopeo nella prospettiva del diverso sguardo del forestiero e dell’indigeno, se così vogliamo definire gli abitanti del posto, ma usando il termine vuoto di ogni riferimento di inferiorità rispetto ad un colonizzatore (spagnolo), venuto da lontano.
Ed io Lafleur? Sentii la voce senza volto gridarmi: Lafleur, guarda il mare! A stento trattenni l’impeto di commozione e di angoscia e volai via su dai miei amici, che intanto, appena imboccata via Manzoni, si erano fermati sotto il palazzo delle colonne, i pilotis che sorreggendo la costruzione creano un terrazzo belvedere sul panorama del golfo. Aleph ammirava lo spettacolo e si riposava, ma era uno sportivo, avendo in gioventù praticato lo sci d’acqua e tenendosi sempre in forma, l’estate con il nuoto, l’inverno con lo sci da fondo. Calvo era un ex pallanuotista, quello che sa tutto sulla palombella e sulle acque azzurre e il cloro delle piscine, ma anche del tramonto d’oro nell’acqua del mare, dove tendendo in alto il braccio ed agitando il palmo della mano che regge il pallone, come uno che suona il tamburello o con mano più ferma mantiene in equilibrio al di sopra della spalla il piatto tondo della calda pizza da servire al cliente, tenti d’ingannare l’avversario sulla traiettoria del tiro, sorprendendolo poi con un lancio teso (non a palombella, il pallonetto del tennis, ma anche del calcio) e violento, che manda il pallone a sfiorare le braccia mulinanti inutilmente protese ad intercettarlo, con il gesto tipico dell’addetto che sulla portaerei segnala lo spazio di decollo al velivolo bellico.
E dopo questo mio sfoggio di proustianesimo (sono un lettore dell’autore della Recherche o meglio della sua opera, davvero interminabile), di stile definibile cioè pretenziosamente alla Proust, mi concedo nuovamente al racconto del colloquio tra Aleph e Calvo, di cui era comunque bene conoscere i trascorsi sportivi. Calvo era fermo accanto ad Aleph e taceva ed io tra loro, invisibile e commosso, io spirito, iddio, come diceva Proclo, citando il Platone delle Leggi o, se volete, animula vagula blandula, come poeticamente si esprimeva Adriano… Chi? Adriano, il famoso imperatore romano. Ah!
Che cosa pensava Aleph? Io, spirito, introdottomi nella mente e nella fantasia del dottore psichiatra, non più come immagine oggetto o forse ancora in tale attitudine o sembianza, ma anche e soprattutto soggetto agente (in termini poveri, spiritello), seguivo i suoi pensieri, che con il vento mi portavano via verso l’isola di Capri, nella spiaggia di Marina piccola tra le salamandre al sole, dove per salamandre al sole intendo le pallide bagnanti del nord, in breve divenute colore aragosta. Oh, estate caprese!
Il dottore si era svegliato, senza capire di avere sognato l’Aleph, il punto luminoso che tutto contiene nel presente del suo invisibile imperscrutabile centro, il passato e il futuro, la vita e la morte, l’universo e le cose, gli animali, le piante, i pianeti, la storia e il destino, gli uomini, il dolore e il ricordo, Lafleur e il suo delitto, il golfo di Napoli, il dottor Aleph stesso ed il commissario Calvo, che ora cominciava ad animarsi, la telefonata dello psichiatra alla moglie in vacanza alle Baleari, la scala fenicia e tutto, tutto, tutto ancora, anche il nulla.
Rievocando la telefonata alla moglie, poi effettuata nell’attonita alba di Capri, Aleph si mosse, imitato da un Calvo silenzioso e serioso, in aderenza alla silenziosità e seriosità del suo collega dottore, collega di silenzio e di serietà ed anche di università. Nel suo spirito, in cui ormai io dimoravo, si affermava un sentimento di leggera malinconia, la melanina dell’anima, rievocando l’aleph, il suo (del dottore) destino cosmico, ed in quest’ultimo senso il destino del dottor Aleph era il destino dell’Universo, il principio e la fine, il punto Omega. Aleph sentì, allontanandosi dalla balconata dei pilotis e distogliendo lo sguardo dal golfo di Napoli e dal suo paradiso di sole e di azzurro mediterraneo, un’irresistibile nostalgia per quelle strade della sua infanzia, che non c’era più ed io con lui commosso e invisibile, sparito tra agli umani ed in forse tra i divini, io Lafleur Aleph.
La moglie sentendo una spaurita animula pallidula, rigida, nudula, (come direbbe Adriano), in quell’alba tragica (tragica, addirittura!), capì che una sconvolgente intestina spirale risucchiava il marito verso il fondo e dalla lontananza del suo luogo di villeggiatura (ma non era andata ad un congresso!) … e dalla lontananza del luogo dove era impegnata professionalmente, Palma di Maiorca, riuscì, attraverso il telefono, la voce a distanza, a raggiungere emotivamente il marito e – ed in questo consiste la particolarità – ad affacciarsi sull’orlo del pozzo della nevrosi, in cui lo spirito del male, quel tale Lafleur, ahimé trascinava impercettibilmente il suo illustre, ma ingenuo consorte.
Questo atteggiamento della signora Aleph sarebbe stato facilmente coglibile da chi tra i congressisti avesse seguito con attenzione l’intervento della pedagoga romana, incentrato sullo studio della mente dei giovani da educare, che non doveva tralasciare una sapienza (parole della dottoressa Aleph) della medicina, e più precisamente la medicina ipnotico allopatica, una teoria caposaldo degli studi in proposito del marito, teoria però non conosciuta nell’aspetto interpretativo dai congressisti presenti alle Baleari, così come presentato dalla studiosa italiana, nel senso che ignoravano non la teoria, ma quell’interpretazione ed ovviamente l’autore.
Ma che cosa era questa allopatia ipnotica? Io credo che si trattasse di empatia, una specie di transfert e contro-transfert, quella interazione tra paziente e curante, che stava per l’appunto travolgendo il marito, incapace nel dosare le dosi (sempre parole della dottoressa Aleph) di una tale medicina. Dottrina stramba, esposta in modo strambo? Succede nei recinti della malattia della mente. Comunque io sono stato sommario ed impreciso, d’altronde non potevo qui riportare il trattato di Aleph sulla medicina allopatica ipnotica. Ed ora?
Aleph, il mio fratello in ispirito, ormai conscio dell’Aleph, che cosa diceva a Calvo, procedendo in via Manzoni, in direzione della casa di Caterina Raineri? Nulla in particolare, ma riassumendo un’ultima volta la mia vicenda, così si espresse: “A Ponte ho scoperto una bara vuota, ma non credo a Napoli.”
Erano giunti all’altezza, dalla parte destra della strada, di una villa immersa nel verde, un peristilio all’ingresso, le colonne di candido marmo di stile corinzio, il portone scuro verniciato, l’aspetto silenzioso ed austero. Si avvicinarono e raggiunsero l’ingresso di casa Raineri.
CAPITOLO 7
La signora Caterina Raineri credeva nei suoi occhi, anche se ora l'età e gli affanni della vita ormai trascorsa già per ampio tratto le avevano affaticato la vista, che non era più acuta come un tempo. Ma questo indebolimento fisico nello scrutare le scene della realtà a lei circostante, l'anziana signora aveva imparato a sostituirlo con una maggiore perspicacia, dote sua indubbiamente naturale, ma arricchita dall'esperienza, se così si può dire.
Era lei buon’amica di mia madre, o almeno quella presunta tale, quella di cui comunque portavo il nome di famiglia, sebbene non fosse della sua famiglia ancestrale, ma di quella nel cui ceppo si era inserita per diritto coniugale. Caterina Raineri frequentava anche lo stesso ambiente della sua amica Elvira Lafleur e come lei si era introdotta nei laboratori del dottor Sigma, il serio studioso svizzero di genetica molecolare; si era introdotta nei laboratori del dottor Sigma, ma non nelle sue più discrete intimità private, quelle in cui invece la disinvolta Madame Lafleur, forse grazie al suo nome, che poteva contrabbandare come svizzero del cantone francese, a quanto pare, stando alle credenze o meglio ai racconti, o meglio ancora alle allusioni o alle frasi sussurrate della sua "migliore" amica, si era infilata senza troppi complimenti.
Questo era stato più o meno il racconto che più di una volta aveva fatto al marito, più divertito che interessato alle parole della moglie, e che poi aveva lei stessa provveduto a spargere, appunto con allusioni o sussurri, nel giro delle comuni conoscenze, cioè anche quelle della signora Lafleur.
Un giorno, era un pomeriggio, l'amica Elvira le aveva detto che doveva recarsi fuori città, più esattamente a Vico Equense, per alcuni acquisti di stoffe ed altri tessuti. Lei, Caterina, a cui da qualche tempo l'amica si sottraeva, in special modo il pomeriggio, aveva assentito ed aveva rinunciato ad accompagnarla, assecondando così il desiderio di mia madre, che voleva compiere gli acquisti, senza essere troppo condizionata da orari comuni.
Ebbene, quel giorno, cioè quel pomeriggio, Caterina Raineri pensò bene di recarsi in via Chiaia, presso lo studio del dottor Sigma, per chiedere alcuni consulti su problemi ginecologici di una sua nipote diciottenne: sì, era questo il motivo della visita non programmata.
Giunse con un taxi in via Chiaia, attraversò la strada e s'infilò dritta nel portone, senza dare neppure un'occhiata alla guardiola del portiere. Salì rapidamente a piedi fino al secondo piano, poi si arrestò di fronte alla porta chiusa dello studio del dottor Sigma, ma non bussò. Si voltò, ritornò indietro sul pianerottolo e si diresse verso la porta a vetri del laboratorio: le due ante in legno esterne, di giorno e quindi anche nella pausa pomeridiana, erano sempre aperte. Tentò di aprire, ma la porta a vetri era chiusa a chiave. Che cosa fece Caterina Raineri?
Quello che, io penso, aveva programmato già da lungo tempo, quando una volta aveva sorpreso un'addetta del laboratorio a trafficare accanto ad una delle due grosse piante poste a fianco all'ingresso. Ed infatti si chinò verso la pianta di sinistra, la spostò, la smosse, trafficò a lungo, ma dopo un po’ si rialzò leggermente perplessa ed a mani vuote. Rifletté alcuni istanti poi si chinò sulla pianta di destra e frugò a lungo, ma invano. Si rialzò e cominciò a fissare la porta a vetri. Pensava. No, non pensava, tendeva l'orecchio, ascoltava nel silenzio pomeridiano, quale può essere il silenzio pomeridiano a Napoli, per distinguere rumori nelle scale o di là dai vetri. Silenzio. Silenzio assoluto. Caterina frugò nella borsa ed estrasse una strana chiave (uno spadino? Un passepartout?). Si guardò d'intorno tese l'orecchio e fece scivolare la chiave nella toppa. Pochi colpi smussati e decisi: la serratura funzionò, ma lei non spinse la porta subito. Estrasse la chiave e la infilò in una tasca interna del vestito, perché il suo vestito aveva tasche interne e segrete. Lievemente mosse l'uscio, estrasse un filo metallico dalla borsa e lo infilò verso l'alto, per bloccare il campanellino. Contemporaneamente spinse decisa la porta a vetri e la spalancò. Ehilà, Caterina! La donna ebbe un sussulto. Possibile che avesse udito la mia esclamazione dall'aldilà, tra l'altro in un tempo trascorso! Oddìo, nell'aldilà, il tempo è circolare e quindi, invertendo la freccia del tempo, si può tornare indietro nel passato e, per esempio, scoprire Caterina Raineri che forza l'ingresso del laboratorio del dott. Karl Sigma, eminente scienziato di Basilea e dottissimo di genetica (Caterina non distingue tra genetica e ginecologia, ma il problema di una tale distinzione al momento le parrebbe sinceramente inopportuno) spostatosi a Napoli negli anni cinquanta, per approfondire i suoi studi o meglio le sue conoscenze in questo settore. Ma a questo punto vorrei fare un'obiezione: chi vi ha detto che nell'aldilà il tempo è circolare? Tu! Io? Sì! D'accordo, ma consideriamo insieme il problema, il problema del tempo... certo, io parlo dall'aldilà e quindi so che in questo aldiqua da cui parlo, che per voi è l'aldilà, il tempo è circolare, ma questo non significa che nell'aldiqua, quello vostro, il tempo non debba essere anch'esso circolare, anzi la dottrina orientale e quella occidentale non si sono sempre soffermate sul tempo ciclico, il tempo dei cicli delle stagioni della piantagione e del raccolto e della semina autunnale e del rifiorire in primavera, dopo il risveglio dal sonno invernale... Alt! Alt, Lafleur! Stop! Rientriamo nel nostro tempo, il tempo del nostro racconto e limitiamo la digressione, lasciando ad altra occasione la possibilità di scrivere un trattato filosofico sul tempo che scorre, sullo spazio-tempo, sul tempo lineare e l'eskaton, il tempo dell'ultimo giorno. Dove eravamo rimasti? Rileggiamo le righe un po’ sopra: Sigma, a Napoli, negli anni Cinquanta, approfondisce, nel suo studio laboratorio di via Chiaia, i suoi studi, le sue conoscenze su problemi di genetica, che Caterina Rainieri, moglie del pittore Raineri, mio amico, direi fraterno, creando in questo modo per me quasi un'affinità con il suo intraprendente coniuge…
Ehilà, che succede? Caterina Raineri sussultò. Che cosa era successo? La donna aveva avuto un sussulto non perché era stata raggiunta dall'esclamazione di quell'improbabile fantasma che sono io, uno spirito dell'aldilà, che a quanto pare vaga nell'aldiqua, ma forse perché sorpresa da un rumore inatteso, che io con le mie orecchie purtroppo non più materialmente esistenti non ho sentito. Comunque si ricompose, quando scoprì che quel rumore, forse lo squillo tardivo del campanellino della porta a vetri, che credeva di aver bloccato, non aveva prodotto effetti. Chiuse la porta e s'incamminò con aria indifferente tra le stanze del laboratorio, guardando a destra e a sinistra, tra banchi, vasche di vetro, provette ed alambicchi gorgoglianti, come se si aggirasse tra le bancarelle di un mercato per fare la spesa quotidiana. Giunse infine alla porta divisoria tra lo studio e il laboratorio, dove sul piano, il secondo del palazzo seicentesco, si ricongiungevano i due appartamenti, corrispondenti ai due diversi interni. Con le dita della mano destra operò una leggera pressione sul legno della porta, che ovviamente, come lei immaginava, non cedette. Allora, stanca, diede le spalle a quell'ingresso e si appoggiò allo stipite, considerando, scoraggiata, il suo fallito tentativo di penetrare nello studio del dottor Sigma. Ma non faceva prima a bussare? Eh, Lafleur, ma tu non hai capito niente! Non voglio fare come quello spettatore inopportuno, che tutti gli altri del pubblico, visibilmente seccati, invitano ad allontanarsi, quando si alza per dire come va a finire la storia. E allora siediti e stai zitto!
Caterina Raineri, appoggiata di spalle alla porta che divideva lo studio dal laboratorio di Sigma, lasciava scaricare l'accumulo di tensione provocato dal suo ingresso clandestino in quel pomeridiano laboratorio di genetica. Era deserto. Considerò che aveva esaminato tutte le stanze e che lo studio era gelosamente inaccessibile. Si voltò sulla sua sinistra e guardò la porta chiusa dell'ultima stanzetta, dove non era entrata. Era lo spogliatoio per le donne delle pulizie e gli addetti al laboratorio. Chissà se c'è sempre quell'odore di naftalina, contrastante con l'odore di cloroformio di tutto il resto del laboratorio, pensò Caterina Raineri e allungò una mano sul pomo della maniglia, più che altro per appoggiarsi. Poi, spostò il peso del corpo dalla gamba destra a quella sinistra, per riequilibrare le sue forze, ma così facendo fece pressione sul lato sinistro di tutto il corpo e per mantenersi meglio in equilibrio, involontariamente ruotò il polso e la mano sinistra sul pomo della maniglia, che girando finì per aprire e spalancare la porta dello spogliatoio, nel cui riquadro lei Caterina si stagliò sbilanciata, avendo perso l'equilibrio per l'improvvisa mancanza del punto fisso d'appoggio. Sobbalzò, soffocò un grido e repentinamente richiuse la porta, con un sorprendente riequilibrio della sua persona. Il cuore le batteva forte in petto: aveva udito bene pronunciare il suo nome ed aveva visto, trasalendo, quello che lei aveva sicuramente presagito e forse anche immaginato, ma che avendo smesso di cercare, le si era parato davanti in maniera così inaspettata da farla trasalire.
Quando la porta si era spalancata, sotto la spinta involontaria della sua mano ed era andata a finire nel riquadro aperto, la moglie di Osvaldo aveva sorpreso il dottor Sigma seminudo, riverso sul corpo femminile, steso sulla lettiga, accantonata in un angolo. In quell'attimo, Elvira Lafleur era emersa con la testa da sotto il corpo, massiccio in verità, del dottore svizzero, facendo capolino sulla spalla di lui ed aveva esclamato, con aria disincantata, venata di un leggero sconforto: "Caterina!"
Caterina non aveva potuto resistere a quel richiamo, e a quell’esclamazione del suo nome, aveva subitaneamente richiuso la porta. Ora il cuore le batteva in maniera meno violenta. Dopo un po' sembrava essersi calmata. Riacquistò il colore, perché il sangue le era di nuovo rifluito in testa. Si accertò dei rumori provenienti dall’altra parte che i due si stessero ricomponendo e con espressione indifferente, riaprì la porta. L'amica si reggeva i vestiti davanti al corpo, Sigma in un angolo finiva di stringersi la cinta dei pantaloni e cominciava ad abbottonarsi la camicia, mormorando a voce alta: "Ma come ha fatto?"
Poi Elvira Lafleur cominciò a vestirsi e disse:
"Caterina, entra."
Passarono alcuni istanti e presto il ripostiglio del laboratorio analisi del dottor Sigma si trasformò in un salotto.
"Dovevo essere a Vico Equense, a quest'ora."
"Hai perso il treno, Elvira."
"Ho incontrato Karl."
"Già."
"Sai, da "Stefano Longhi" di Vico gli acquisti sono proprio convenienti" proseguì mia madre e continuò illustrando all'amica tutti i vantaggi dell'acquisto di stoffe nel negozio "Longhi" di Vico Equense, insistendo sul particolare pregio dei tessuti, il cui prezzo altrove, per non parlare di alcune boutique a Napoli, sarebbe stato sicuramente il triplo o il quadruplo. Ormai Elvira Lafleur si era completamente risistemata e anche il dottore in un angolo appariva ricomposto.
Caterina capì che il momento era giunto, quando mia madre tacque un istante e poi le domandò: "Ma tu, come mai ti trovi qui?"
Lo stesso Sigma, a questa domanda, si fece più attento alla conversazione fra le due donne.
Disinvoltamente Caterina spiegò della nipote e del quesito ginecologico che voleva rivolgere al professore. Questi, chiamato in causa, si avvicinò alle due amiche. Mia madre si sedette con comodo sulla lettiga, suo territorio privato. Sigma prese uno sgabello e lo porse a Caterina, che ringraziò e si sedette.
"Anche lei, professore" disse.
L'altro andò in un angolo a prendere un altro sgabello si riavvicinò e sedette. Quindi iniziò a conversare con la stessa discrezione e cura con cui avrebbe colloquiato in un salotto, dove d'altronde sempre teneva un contegno da accademico, quando discorreva su argomenti di medicina e ricerca scientifica in genetica e ginecologia.
Spiegò sommariamente i principi generali delle ultime tecniche di fecondazione artificiale, rassicurò poi Caterina sulle preoccupazioni per la nipote, quando l'amica di mia madre elencò, a precisa richiesta del medico, i sintomi dei disturbi della giovane e finì illustrando il caso che lo occupava nella sua ultima ricerca sulla possibilità di rivitalizzare gocce di liquido spermatico congelate da secoli e fecondare ovuli donati alla sua banca della vita da "generose madri" del nostro tempo. Il professore si volse a guardare Elvira Lafleur, quasi a trarre ispirazione o forse consenso, anzi senz'altro consenso, per continuare. Mia madre guardò l'amica, che dichiarò di non essere più così giovane per doni di quel tipo alla banca. Sigma dichiarò: "N'importe l’âge. Certo, le giovani madri hanno naturaliter un più lungo futuro."
CAPITOLO 8
A quell’epoca mia madre, Elvira Lafleur, aveva meno di venticinque anni ed era una donna bellissima, mentre la sua amica ne aveva quasi trenta, qualcuno meno del dottor Sigma. Sono passati più di quarant’anni e siamo ora nel salotto della villa di via Manzoni, dove lei Caterina Raineri, ormai oltre i settanta, ma sempre giovane nell’animo, ha accolto gli ospiti: l’illustre clinico romano, il dottor Aleph, ed il suo accompagnatore napoletano, il commissario di polizia Calvo. È un ambiente in ombra, dove si respira una soffocante aria di chiuso. Caterina, che ha fatto accomodare gli ospiti sul divano, comprende il loro disagio, si alza e va ad aprire il balcone sul terrazzo, spalancandolo; entrano aria e luce, ma per la sua posizione ad oriente, l’ambiente rimane sempre meno illuminato rispetto alla luce esterna del giorno. Nel riquadro è apparso un anziano signore malfermo sulle gambe, che avrà quasi cento anni ed assomiglia sorprendentemente ad Osvaldo: è il suocero di Caterina ed il papà del mio amico. Prega immediatamente sia Aleph che Calvo, i quali si sono alzati in piedi per salutarlo, di rimanere seduti e si accomoda su una sedia dietro al tavolo tondo, situato in un angolo del salotto, in verità più che un salotto un’ampia sala, dove sussistono tinello e salotto insieme.
Dalla porta entra Liuba, una bionda ucraina quarantenne, che indossa un vestito con il grembiule, la divisa della collaboratrice domestica: è la donna che ha aperto la porta ad Aleph e Calvo e che dall’ingresso li ha introdotti in salotto; entra pure Osvaldo, quest’ultimo sorridente e incuriosito. Dopo un breve giro di consultazioni, viene stabilito che sarà offerto caffè per tutti, tranne che per il papà di Osvaldo, nonno Mario, come l’ho chiamato qualche volta da piccolo, ed acqua minerale; Liuba esce, e Caterina, rivolgendosi soprattutto ad Aleph, introduce l’argomento su mia madre e me.
Da come la donna parla, se Aleph possa avere avuto ancora qualche dubbio sulla mia identità, lo dissipa immediatamente; io sono Lafleur, figlio di Elvira Ruyz Maurili, coniugata Lafleur. Il padre di Elvira pare fosse appunto imparentato con la famiglia dei Maurili, qui a Napoli titolari di un’importante catena di laboratori di oreficeria. È morto giovane il papà, rievoca Caterina, subito dopo la fine della guerra, per una malattia riportata in prigionia in Germania. La mamma di Elvira è ancora viva… Oh!... Come hai detto, Caterina? È ancora viva? “È completamente cieca e vive quasi paralizzata su una sedia a rotelle nell’Istituto della Congregazione “Ancelle del Signore”, qui a Posillipo, in via del Casale Laurenzano.” Ah! In effetti per il tempo che sono stato a Napoli, io me la ricordavo viva, ma era sempre malata e poi non abitava con me e mia madre.
“Ma fino a quando il giovane Lafleur è rimasto a Napoli?” interloquì Aleph, che al mio casato in verità era interessato fino ad un certo punto. Sono sicuro che il dottore avrà pensato: “Ruyz? Magari era un graduato dell’esercito spagnolo, neppure un ufficiale, ai tempi di Re…” Ed inoltre: “Maurili? Magari è il più povero di tutti i Maurili, che stanno a Napoli e in Campania.” O forse questi erano i pensieri di Calvo? No, il commissario ascoltava con attenzione e rispetto quanto Caterina Raineri andava raccontando su di me e sulle mie ascendenze.
“Lafleur…” Ecco quello era un nome su cui concentrarsi. Credo questo fosse l’ordine dei pensieri di Aleph, che lo portarono ad interrompere l’ospite (anche la padrona di casa, come i suoi ospiti, è ospite), per chiedere di me e tagliare corto; soltanto non si rese conto, Aleph, che chiedendo di me, tirava in ballo mio padre e qui Caterina trasse un gran sospiro.
“Io ed Elvira eravamo molto amiche, fin dall’infanzia, poi abbiamo frequentato la stessa Scuola, anche se in anni diversi, mio fratello…” Aleph e Calvo stavano per doversi sorbire tutta la storia del corteggiamento che il fratello di Caterina Raineri aveva messo in atto in età adolescenziale nei confronti di Elvira, quando provvidenzialmente entrò Liuba con il vassoio, su cui era stato sistemato il miglior servizio di caffè per sei in ceramica.
Comunque sorseggiando il caffè, non sfuggì loro che Caterina dovette sacrificare tutto il racconto, relativo alle storie d’amore dei suoi fratelli, due, e sorelle, una sola, riassumendo in breve però i loro destini coniugali, con figli vari, ormai grandi e sposati. Sui propri due figli, lasciò ad Osvaldo la gloria di vantarsene: “Uno è nel New Jersey, General Manager, l’altro negli Emirati, petroliere.” “Sono sposati?” domandò Calvo, mentre posava la tazzina di caffé sul piattino che teneva con la mano sinistra. Osvaldo guardò la moglie, che aveva assunto una vaga aria infelice, forse non riconducibile alla nostalgia per i figli lontani, che infatti sentiva spesso per telefono e che venivano non di rado a trovarla. E allora? “La moglie americana,” disse, guardando più verso il marito che non verso gli ospiti o più precisamente Calvo, che ora era intento ad armeggiare con la tazzina del caffé. Il marito non raccolse l’invito a proseguire sull’argomento o forse il monito sottinteso a tacerne, contenuto nell’espressione della moglie, o quanto meno l’esortazione ad una decisione in merito, se parlarne o meno, o un incoraggiamento, per lei, chissà!
Per Aleph fu l’occasione buona, per rilanciare il discorso su di me, ma questa volta iniziò da mio padre: “Elvira aveva sposato un Lafleur?” domandò, accentuando il finale retorico della domanda. Caterina Raineri trasse un sospiro, che non si capiva bene se si riferisse alla faccenda della “moglie americana” o quant’altro su quella storia oppure alla difficoltà nel dover riassumere la mia storia, partendo dalla sua amica, cioè mia madre.
Io devo dire che in salotto, pur essendo io invisibile e spirituale, mi andavo facendo più attento, perché andavo incalzando, seppure in maniera indiretta ed incerta, i sentieri occulti della mia discendenza, anche se capivo di non essere stato concepito tra scorpioni e farfalle gialle di un bagno crepuscolare, come Aureliano Babilonia, quello delle stirpi condannate a cento anni di solitudine, ma verosimilmente nell’angolo più appartato di un laboratorio di genetica molecolare, che è una maniera più elegante di nominare un ambiente adibito a spogliatoio o ripostiglio, dove uno scienziato medico di origine svizzera saziava la sua lussuria con una generosa nobildonna napoletana, nel pomeriggio mediterraneo ed azzurro del golfo partenopeo.
“Elvira doveva andare a Vico Equense quel giorno” disse. Tacque un istante, come fa un conferenziere che passa in rapidissima e sommaria rassegna gli argomenti che si è preparato per esporli, poi disse: “Invece si è fidanzata col dottor Karl Sigma quel pomeriggio e non è più andata a Vico.” Si guardò attorno, con aria complice. Poteva essere più essenziale? No, dico, poteva, Caterina Raineri, sulla vicenda della mia venuta al mondo, essere più essenziale e concisa di così? In quel salotto no e soprattutto con ospiti così curiosi ed interroganti, soprattutto il dottore, il medico, Aleph insomma.
Questi guardò la padrona di casa, che a sua volta ora lo osservava in silenzio, sorridente e con l’aria di dire: “Non avete capito? E che altro di più posso dire?” La migliore amica di Elvira aveva elegantemente confidato in pubblico i miei natali, in maniera chiara ed essenziale, senza aggiungere commenti o pettegolezzi.
“Ma ha sposato un Lafleur?” interloquì sorprendentemente Aleph, insistendo sulla sua prima domanda. Nel contempo, forse per disattenzione, posò in maniera che risultò un po’ troppo violenta il piattino con la tazzina del caffé sul piccolo tavolino davanti a lui, scuotendo leggermente un po’ tutti gli astanti ed anche la padrona di casa. La donna guardò in direzione della tazzina, per vedere se si era versato del caffè, ma riusci comunque a rispondere tempestivamente ed in maniera neutrale e generica: “Sì, dopo.” Caterina non aveva dubbi né tanto meno si lasciava mettere in soggezione su quello che per lei era una certezza, un dogma, un “vissuto”, direi.
In quel momento accadde che il commissario Calvo stava per intervenire, ma poi desistette, forse non ritenendo opportuno esprimere il pensiero che aveva pensato, un antico brocardo romano: “Mater sempre certa est, pater nunquam.” Sarebbe apparso indelicato e la citazione era di troppo basso profilo per quel salotto; in ogni caso sarebbe stato come mettere in dubbio quanto la padrona di casa andava asserendo con estrema certezza e questo era ancora più di cattivo gusto, pensò.
Caterina Raineri era una donna di mondo, intelligente, intuitiva; tolse dall’imbarazzo il commissario di polizia o forse glielo aumentò, sentenziando per lui e per tutti: “Mater sempre certa est: Elvira; pater idem: Sigma.” E adesso, Calvo?
“Karl Sigma?” interrogò Aleph con aria scettica: era evidente che per lui, Sigma non poteva essere mio padre. Ma perché poi? Nella mia invisibile e spirituale presenza, io ero tra loro in salotto e seguivo con attenzione il dibattito tra i due ospiti. “Ma, scusi, signora Raineri,” continuò Aleph “ci spieghi un po’. Capisco che soltanto a lei la defunta Elvira Lafleur confidasse la verità; ma se lei stessa, dico, se lei stessa, la madre del nostro Lafleur cioè non sapesse…”
“Come, non sapesse?” interruppe Caterina Raineri, che in verità non capiva; ed invero l’obiezione di Aleph metteva subito in discussione quanto da lei proprio un istante prima sentenziato: Mater sempre certa est, nel caso Elvira Lafleur. Nessuno meglio di Caterina sapeva, avendo accertato de visu quanto accaduto ed avendo portato poi il conto, calcolando esattamente i mesi, le settimane, i giorni. Ma sapeva, soprattutto perché a quel tempo viveva in simbiosi con Elvira ed in questo senso quello che accadeva ad Elvira accadeva a lei e quello che accadeva a lei accadeva… sarebbe dovuto accadere ad Elvira, soltanto che… Sul suo volto apparve l’ombra di un dubbio, era un’ombra pallida, quasi invisibile, che poteva sfuggire ad uno sguardo superficiale, ma non a quello indagatore e attento di Aleph, a cui sappiamo nulla sfugge, neppure la variazione più umbratile e minima, non ostante quell’eterno abbozzo di sorriso ironico disegnato all’angolo inferiore del labbro possa indurre in errore sulle sue capacità di attenzione.
Il dottore approfittò di quell’attimo di smarrimento di Caterina per intervenire: “Io conosco il professor Sigma, uno scienziato di fama internazionale; non sono stato suo allievo, ma ho assistito in più occasioni a sue conferenze o lezioni. Direi che nel campo della genetica molecolare, ma anche in tutti i settori della genetica è indubbiamente un’autorità riconosciuta e di prestigio…”
Il professor Aleph sarebbe andato ancora avanti per un pezzo con il panegirico del collega Sigma, che lo precedeva soltanto di una generazione, vale a dire una ventina d’anni circa, se la sua interlocutrice non l’avesse interrotto: “Sì, ma come uomo era uguale a tutti gli altri.”
Di fronte a questa perentoria affermazione, incontestabile, Aleph sembrò messo con le spalle al muro. La padrona di casa percorreva senza dubbio un sentiero a lui precluso, e allora, con il mio aiuto spirituale, invasivo del suo intelletto e delle sue facoltà immaginative, gli si prospettò la visione del riposto angolo del laboratorio di genetica del professor Sigma di via Chiaia, di cui lui aveva soltanto vagamente sentito parlare. Volò con la fantasia, accortamente da me guidato, ad oltre quarant’anni prima, in età anteriore alla mia nascita della mia vita mortale e vide la scena. In quel momento, nel salotto di Caterina Raineri, nella villa di via Manzoni, osservai l’espressione del suo viso: era gradevolmente compiaciuto, direi leggermente rapito. E lo credo bene! Stava immaginando, o meglio stava vedendo, nella particolarità di una visione ad un tempo immaginaria e reale, Elvira Lafleur che le belle forme disciolte dai veli iniziava a rivestirsi. E forse non vide quello che però a me non sfuggì: anche Caterina osservava le belle forme di Elvira disciolte dai veli, con lo sguardo critico tipicamente femminile, alla ricerca di una qualche piccola imperfezione, ma inutilmente. Ecco perché, penso, inconsciamente rafforzasse la sua convinzione di esserle amica ed invero non era stato grazie ad Elvira Lafleur che era venuto fuori Osvaldo? Questo Caterina poteva anche accettarlo come un particolare superfluo, perché nell’essenziale Osvaldo Raineri aveva sposato lei Caterina Esposto e l’essenziale respinge il superfluo come un lusso non necessario.
Guardo ancora Aleph, che mi sembra perso nella sua contemplazione, ma che starà fantasticando? Sigma, mentre con aria vergognosa si riveste, per un attimo si volta verso Caterina, per vedere se la donna lo guarda e scopre che invece l’altra contempla l’amica; allora insiste a guardarla per un attimo, come colto da una certa perplessità e nota che lentamente lei si gira verso destra, dalla parte dove sta lui, quasi avendone sentito addosso lo sguardo, senza però distogliere l’attenzione dall’oggetto della sua contemplazione, che poi è ammirazione; nel frangente, Sigma, timoroso di essere sorpreso nell’atto di spiare ed ancora semivestito, ritrae subito lo sguardo e continua a vestirsi. Che cosa invece fantastica Aleph?
L’illustre psichiatra, come ogni buon allievo, cerca sempre di estendere i limiti raggiunti dal maestro nel campo della ricerca e della conoscenza; in questo caso credo che stia esagerando il fugace sospetto di Sigma sul rapporto di amicizia tra le due donne, che poi finisce volente o nolente per coinvolgere anche l’uomo. Aleph verosimilmente corre troppo con la fantasia, anche se soltanto ai fini della pure conoscenza: ma che cosa si starà figurando?
Aleph è ritornato nel salotto di Caterina Raineri: “Nei laboratori di genetica si praticano le tecniche di fecondazione artificiale, per offrire la possibilità della paternità e della maternità a coppie sterili.” Così dice e quello che dice sembra sia una puntualizzazione, la messa in opera di un paletto divisorio tra i due campi: la fecondazione naturale, dalla cui visione viene duori appena ora e la fecondazione artificiale, che nei laboratori si attua. Sigma, a quanto pare, in questo campo, non poneva limiti nei laboratori: bisognava stabilire se nel caso concreto, il mio caso cioè, io ero venuto fuori, naturalmente o artificialmente. Ecco l’oggetto della contemplazione di Aleph: l’idea platonica della fecondazione, altro che stranite fantasticherie, come ho sospettato malevolmente, quasi preso da insana gelosia.
Entrò Liuba, annunciando l’arrivo del medico per il signor Mario. Avevano suonato il campanello di casa ed io assorto nelle mie elucubrazioni sul dottor Aleph non me n’ero accorto. Intanto, il duello tra Aleph e Caterina Raineri ebbe un momento di tregua.
CAPITOLO 9
“Fu un caso di cronaca, se ben ricordo, che io ho ricavato più che altro dalla lettura dei giornali” disse Aleph. Il dottore aveva ripreso la parola dopo che il signor Mario assistito da Liuba e il giovane medico appena arrivato erano usciti in gruppo dalla sala per la consueta visita di controllo pomeridiano dell’anziano uomo.
“Sì, ricordo, anch’io” aveva risposto Caterina Raineri.
In verità si seppe che nel laboratorio di genetica del dottor Sigma si conducevano studi ed esperimenti sulla fecondazione artificiale, ai limiti della legge, e corse voce che Elvira Lafleur fosse stata inseminata artificialmente; la donna si trasferì a Ginevra, dove risultò che avesse sposato un brillante uomo d’affari, Jean-Claude Lafleur, con cui tornò a vivere insieme a Napoli, prima della mia nascita, anche se non per molto tempo. Nello stesso periodo, Sigma aveva smontato il suo laboratorio di via Chiaia ed era rientrato definitivamente in Svizzera.
Qualche anno prima, senza però nessun successivo collegamento a questa cronaca napoletana, sui giornali era apparsa la notizia di uno sbalorditivo ritrovamento, sulle Alpi della Savoia, della salma congelata, che doveva essere appartenuta, secondo gli studi e le misurazioni antropologiche effettuate, ad un homo alpinus, vissuto tremila anni prima, nella stessa regione in cui, molti secoli dopo, si insediarono gli Allobrogi, all’epoca delle grandi migrazioni di popolazioni celtiche in Europa. La novità non consisteva tanto nel ritrovamento del cadavere, quasi integro, di un uomo preistorico, quanto nel fatto che accanto a quelle spoglie mortali poté essere recuperato, anch’esso conservato dal gelo, un piccolo quantitativo di liquido seminale, verosimile ultimo sussulto di vita dell’uomo primitivo sorpreso da una bufera di neve in alta quota e seppellito da una slavina.
La notizia fu però ripresa e approfondita soltanto dalla stampa franco-svizzera, trovando scarsa eco in quella italiana ed europea, per la diffusa sensazione che si trattasse più che altro di uno dei periodici scoop giornalistici che non di un vero e proprio veritiero ritrovamento d’interesse per la scienza. Passò così abbastanza inosservato il comportamento di uno studioso svizzero di genetica, il professor Sigma, che riuscì ad ottenere un prelievo di quel liquido seminale umano congelato, ai fini della sua ricerca. In seguito Sigma si trasferì a Napoli e la stampa franco-svizzera finì per disinteressarsi dei suoi studi ed esperimenti scientifici.
Intanto Caterina Raineri scuoteva la testa: “In quel periodo, Elvira fece un viaggio sulla costiera amalfitana e soggiornò anche per un po’ di tempo a Sorrento.”
Aleph non rispose subito, quasi riflettendo su quale rilevanza potesse avere questa notizia nella discussione in questione, poi disse: “Si desume dalle cronache dei giornali napoletani dell’epoca che Elvira Lafleur frequentasse il laboratorio di genetica del dottor Sigma, per un esperimento di fecondazione artificiale, con impianto dell’ovulo fecondato nell’utero della madre. Pare che si fosse portato da Zurigo un certo quantitativo di liquido seminale maschile, congelato in provetta, e che a Napoli cercasse donne disposte a donare ovuli e quindi a portare avanti una maternità da lui procurata in vitro. Ecco queste erano le ricerche e gli esperimenti di Sigma. E nulla esclude che Elvira Lafleur fosse una delle donatrici più generose, considerando il suo carattere espansivo, come mi sembra capire dai suoi racconti.”
“Una donna generosa ed espansiva, senza dubbio!” commentò Caterina Raineri; poi si volse verso Osvaldo, quasi invocandone l’aiuto e l’intervento: “Stavo parlando di quando ci siamo fidanzati, all’Università, professor Aleph.”
Questi trovò naturale che alla donna facesse piacere mettere in mostra i suoi successi professionali e familiari davanti ad ospiti di un certo riguardo, quale appariva lui, un illustre clinico di psichiatria. Intervenne Osvaldo: “Diciamo che Elvira e Sigma si sono fidanzati ed hanno fatto quel viaggio insieme e poi sono partiti per la Svizzera, anche se separatamente.”
“Comunque, alla fine, il padre legittimo di Lafleur risulta essere Jean-Claude Lafleur, perché nato in costanza di matrimonio con la moglie Elvira Ruyz Maurili, non è così?”
“Eh, sì!” confermò Osvaldo.
“Sì.” approvò la moglie.
“Certo,” disse a sorpresa, entrando, Mario Raineri, malfermo sulle gambe.
Assentirono anche Liuba e il medico che accompagnavano l’anziano uomo. L’approvazione veniva quindi da tutti i membri della famiglia, compresi gli avventizi, non potevano esserci dubbi: il mio nome è Lafleur. Il medico sopraggiunto riassunse le sue ultime raccomandazioni al suo paziente, salutò tutti i presenti e si congedò accompagnato da Liuba. Aleph ne approfittò per alzarsi in piedi, si alzarono anche i coniugi Raineri, e Mario Raineri che aveva raggiunto il tavolo d’angolo nella sala e indugiava, anche Calvo era in piedi, in un certo senso anch’io, seppure invisibile, assunsi l’atteggiamento di chi si appresta a salutare e prendere congedo.
Calvo disse: “Il professore era venuto per vedere la tomba.”
“Ah, certo!” rispose Osvaldo. La moglie convenne e si diresse verso il balcone, seguita dal marito, imitato a sua volta da Aleph e Calvo, che si trovarono così a passare davanti a Mario Raineri, che sorrise loro in maniera sincera, anche se un’ombra gli attraversò il volto, sapendo dove gli ospiti venivano accompagnati.
In breve, seguendo Caterina Raineri, raggiungemmo in cinque il giardino, attraverso la terrazza e scendendo la piccola scala in pietra; seguimmo un viottolo e sbucammo in un prato e di lì finimmo in un altro giardino, al cui margine si vedeva il porticato e le colonne di un chiostro. Raggiungemmo un cancello in ferro, Osvaldo precedette la moglie e suonò al citofono; presto lo scatto ci segnalò l’apertura del cancello, entrammo in quattro, nessuno ci venne incontro, Osvaldo provvedette ad accostare il cancello, facendo un cenno alla moglie, rimasta all’esterno, poi ci guidò nel chiostro e di lì sbucammo in un piccolo cimitero. Raggiungemmo un piccolo monumento funebre, dove c’era la mia tomba, Osvaldo si mise di lato ed Aleph e Calvo sostarono di fronte in silenzio, io svolazzai qua e là sulla lastra tombale, sotto cui giacevano le mie spoglie mortali in pieno disfacimento, assumevo sempre più l’aspetto di uno scheletro umano.
Aleph si chinò a leggere l’iscrizione alla base, inginocchiato a metà e scostando con la mano alcuni ciuffi d’erba umida ed un’ombra di terriccio: "Qui giacciono e riposano nell'eterno i resti mortali dell'ultimo discendente dei Lafleur. Napoli, il freddo inverno." Anche Calvo si era curvato a leggere, mentre Osvaldo era rimasto composto in piedi nella sua prima posizione. I due accertatori ufficiali della mia fine mortale avevano esaurito il loro compito, Osvaldo era il muto testimone per loro attendibile della veridicità e legittimità della mia sepoltura, non vi potevano essere dubbi: Lafleur e la sua vicenda avevano avuto fine, definitivamente, non in un primo imprevedibile inverno, in cui la sua esumazione aveva rivelato una strana sparizione, ma in un secondo, quello che custodisce il gelo della morte, il freddo inverno.
Chi aveva dettato il mio epitaffio, con quelle due apparentemente enigmatiche parole finali? Se dico Lafleur, la risposta è soddisfacente? Aleph e Calvo non posero l’obiezione al mio amico Osvaldo: per Aleph, quel “freddo inverno” era sia l’altro inverno nel senso dell’inverno australe, dove rimanevano custoditi gli ultimi momenti della mia vita e quindi l’evento della mia morte sia questo come quello vero e definitivo, come in fondo pensavo anch’io. Forse il commissario Calvo, meno indulgente, avrebbe interpretato più restrittivamente il “freddo inverno” soltanto come “inverno australe”, con le implicazioni dell’Aurora australe ed i sospetti sulla mia morte. Ma ormai ero morto e sepolto, come ufficialmente accertato.
Mi sono allontanato aleggiante da quel giardino funebre, nell’ultima luce del pomeriggio vedo da lontano i tre uomini che adesso hanno finito e si allontanano, dall’alto vedo che non sono molto lontani da Caterina Raineri, che pazientemente li aspetta al di fuori del chiostro del convento dei Santi d'Oriente di Posillipo, confinante con il parco giardino della sua casa; adesso il gruppetto si è ricomposto e si muove per rientrare verso casa, chiacchierano tra loro in giardino, tra un poco si lasceranno e forse di me non vi sarà ulteriore memoria.
Che senso, dunque, può avere ancora parlare della mia nascita e della mia discendenza, una volta che sono morto, e cercare di capire se in vita sono stato un pazzo o un criminale? La morte trascina tutto nel suo oblio, anche crimini e follie. Certo, per soddisfare più la curiosità o l’amore della conoscenza per le cronache di scienza che non per le cronache nere, sarebbe stato utile raggiungere la certezza sulla dinamica del mio concepimento. Sigma aveva scongelato lo sperma dell’homo alpinus, incredibilmente vitale dopo tremila anni, l’era non più glaciale o meglio glaciale unicamente per me, che accompagna nell’arco dei suoi trenta secoli il destino di meraviglia e di dolore dell’homo sapiens. Io spermatozoo, non ancora umano embrionale, risvegliato dal gelo, in cui sono stato differito nei secoli, avevo iniziato la mia folle corsa assieme a milioni di miei simili per raggiungere unico vivente l’ovulo in vitro, donato da mia madre, che da quella cellula mi attirava con il più grande abbraccio d’amore e di vita. Mia madre genetica, Elvira Lafleur?
Caterina Raineri, mentre contestava l’ipotesi di Aleph di una mia nascita in vitro, aveva di fronte la visione di un pomeriggio di oltre quarant’anni prima, quando aveva sorpreso il dottor Sigma seminudo, riverso sul corpo femminile di Elvira Lafleur, stesa sulla lettiga in un angolo, che alla sua irruzione improvvisa aveva fatto capolino da sotto il corpo dominante e massiccio, esclamando sconsolata il suo nome. Io sono nato l'anno dopo lo svolgersi degli avvenimenti di quel pomeriggio napoletano così rievocati. Di chi sono figlio io? Io, Lafleur, sono il figlio del silenzio e del gelo. Sono nato in differita, dopo trenta secoli, dal getto di sperma generatore del mio genitore antico. "Io ho tremila anni, signora!", "Sì, lo so, Lafleur, la sua è la storia e l'età trimillenaria dell'homo sapiens." Tipico intuito femminile, le donne "sanno" sempre tutto. Io sono stato partorito (Ilitia) a Napoli (Moira) da Madame Elvira Lafleur (Calloné), come già era stato profetizzato nel "Simposio" da Platone venticinque secoli prima. Mio padre è uno sconosciuto Homo Alpinus, mia madre è la più fedele donatrice del dottor Sigma.
Quale il dubbio? E se l'ovulo... Su questo sono sicuro: non perché l'ovulo non potesse appartenere a una donna diversa da Elvira Lafleur, ma perché quando descrivono Madame Lafleur descrivono me al femminile. Io sento il richiamo del sangue, il profumo di mare della Terra dove sono nato, nella cornice di quel golfo unico al mondo, dominato dall'irripetibile profilo azzurro del Vesuvio, dove in un quadro di bellezza incomparabile splende dappertutto la luce del sole meridiano e la morbidezza dell'aria è attraversata dalla dolce fragranza della malvarosa.
E se Caterina quel giorno avesse visto giusto? Il dottor Sigma, dico io. E allora perché non il dottor Aleph oppure Osvaldo? Signor commissario di polizia, dottor Aleph, Osvaldo caro, volevamo rovesciare l'antico brocardo latino? Eh, no! I Romani erano lapidari, le loro erano "sentenze": "Mater semper certa est, pater numquam." Con buona pace di ogni tecnica genetica, che sempre s'illuderà di cambiare il volto della vita. E tu allora?
Io? Io ho trenta secoli di vita, la mia età rappresenta la storia trimillenaria, carica di dolore e di meraviglia dell’homo sapiens, io sono l’uomo differito.
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