martedì 25 marzo 2025

Filosofia

    

                                        Versöhnung


9 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

[N. d. B.]
Questo scritto si ricollega a quello riportato qui sotto su "L'ironia romantica", paragrafo "Le figure del nulla", sul tema della Versöhnung.

Silvio Minieri ha detto...

La “Riconciliazione”
Dalla Rivoluzione francese alla Riforma luterana, l’evoluzione del pensiero di Hegel.

Nella notte del 9 Termidoro (27 luglio 1794), una pattuglia della Guardia Nazionale, fedele alla Convenzione, fece irruzione nell’Hôtel de Ville, dove si era asserragliato Maximilien de Robespierre, assieme ai suoi fedelissimi. Nel corso dell’arresto, il gendarme Charles-André Merda sparò un colpo di pistola che fracassò la mascella di Robespierre. I chirurghi furono incaricati di bendargli la mascella rotta, per evitare che non potesse essere ghigliottinato perché infermo. Prima dell’esecuzione, in Place de la Révolution, gli fu tolta la fasciatura e la mascella fracassata si staccò dal volto, facendogli perdere copioso sangue. Ormai moribondo, il condannato fu giustiziato e la sua testa, come consuetudine, fu mostrata alla folla esultante per la fine del tiranno. Il corpo fu seppellito nella fossa comune del Cimitero degli Errancis e cosparso di calce viva. Con la morte di Robespierre ebbe fine il periodo della Rivoluzione francese del “Terrore” giacobino.
L’avvenimento storico non poteva non influire sul pensiero di Hegel, in base alla sua convinzione che la storia pone dei limiti alla filosofia: “Ogni filosofia è quella della sua epoca, è un anello della catena dello sviluppo dello Spirito; essa non deve dunque soddisfare che gli interessi corrispondenti alla sua epoca… Bisogna tenere ferma quest’idea che non esiste che un solo spirito, un solo principio che si esprime nello stato politico così come si manifesta nella religione, l’arte, la moralità, i costumi sociali, il commercio e l’industria… La filosofia è identica allo spirito dell’epoca in cui appare; essa non è al di sopra, non è che la coscienza dei fatti sostanziali del suo tempo o ancora il sapere pensante di quello che accade nel tempo. Egualmente un individuo non è il signore del suo tempo, ne è il figlio; la sostanza di questo tempo è la sua propria essenza. Non bisogna fare altro che manifestarlo sotto una forma particolare. Un individuo non può affatto uscire dalla sostanza del suo tempo non meno che uscire dalla propria pelle. Così, dunque, dal punto di vista sostanziale, la filosofia non può andare oltre il suo tempo.” Così Hegel scrive nelle sue “Lezioni sulla storia della filosofia”.

Silvio Minieri ha detto...

Il cambiamento dello sguardo sul mondo, la “Riconciliazione” [1] tra finito e infinito, mistica o concettuale che sia, significa “riconciliazione” del pensiero con la realtà. Il principio di conciliare la filosofia con la realtà significa conciliare la filosofia dello Stato con la realtà politica. Non è solo una conciliazione, ma un vero e proprio aderire del tutto tra pensiero e realtà, ed in tale ottica si può comprendere l’affermazione, contenuta nella “Prefazione” ai “Lineamenti di filosofia del diritto”: “Tutto quel che è razionale è reale, tutto quel che è reale è razionale”.
Ogni Stato esprime, per Hegel, lo spirito e il destino di un popolo determinato nella più vasta totalità organica della storia. Ogni popolo e ogni Stato è un momento dell’assoluto, un momento di dispiegamento della vita ovvero dell’Idea. Avendo compreso il mondo reale come conforme allo Spirito, la filosofia politica di Hegel è l’espressione dello Stato prussiano protestante. Essendo approfondimento del reale, infatti, la vera filosofia è comprensione del reale e dell’attuale, non già dell’ideale trascendente, un inesistente dover essere.
Questa perfetta aderenza tra filosofia e realtà, nel campo religioso, si traduce nella sua fede protestante. Nel saggio “Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del secolo XIX”, Karl Löwith scrive: “Il protestantesimo di Hegel consiste nell’aver inteso il principio dello Spirito e quindi della libertà come lo sviluppo concettuale ed il compimento del principio di Lutero della certezza della fede. Egli identifica persino l’intendimento della ragione con la fede.” Per Hegel, dunque, la fede non è un fatto storico, ma un fenomeno originario: “Noi luterani, io sono e voglio rimanere tale, possediamo soltanto quella fede originaria.” In questa fede razionale, cosciente, che l’uomo è destinato alla libertà nel suo rapporto immediato con Dio, Hegel si riconosceva come protestante.
Se quindi la Rivoluzione francese veniva salutata come il sollevamento dei cittadini in difesa della loro libertà contro lo Stato assoluto, la Riforma rappresentava la libertà delle coscienze individuali contro l’assolutezza della Chiesa di Roma.
La “riconciliazione” è il movimento dialettico che riconcilia tra loro gli opposti, in politica, il cittadino con lo Stato, in filosofia (teologia), la realtà con Dio.

[1] Versöhnung, in teologia, significa “Redenzione”. Nella filosofia di Hegel e degli hegeliani, Versöhnung è la “Riconciliazione” dei contrari.

Silvio Minieri ha detto...

IL DOLORE INFINITO

In “Fede e sapere”, un’opera precedente alla “Fenomenologia dello Spirito”, Hegel scriveva: “Il concetto puro, ovvero l’infinito, come abisso del niente in cui ogni cosa sparisce, designa il dolore infinito come momento, dolore che fino a quel momento era apparso nella cultura soltanto come fenomeno storico e costituiva il sentimento su cui riposa la religione moderna, il sentimento che Dio stesso è morto (Pascal ne aveva dato una definizione per così dire puramente empirica nella formula: La Natura è tale che essa porta dappertutto “il segno di un Dio perduto” sia nell’uomo che fuori dell’uomo) … [A questo dolore] il concetto puro deve dare esistenza filosofica, deve dare alla filosofia l’idea della libertà assoluta e allo stesso tempo la Passione assoluta ovvero il Venerdì Santo speculativo, che già fu storico; e lo deve ristabilire in tutta la sua empia [assenza di Dio] verità e durezza. È soltanto da questa durezza – dato che il carattere più sereno, più sprovvisto di fondamento, più singolare delle filosofie dogmatiche, come delle religioni naturali, deve sparire – che la suprema totalità con tutto il suo rigore e a partire dal suo fondamento più intimo può e deve resuscitare.” La filosofia di Hegel si annuncia nella sua dimensione teologica tale quale apparirà compiutamente nella “Fenomenologia dello Spirito”.
È solo partendo dalla coscienza religiosa luterana di Hegel, che si può penetrare a fondo il suo pensiero sistematizzato nella “Fenomenologia”, risalendo alla dura espressione di dolore, pronunciata da Lutero in uno dei suoi Inni. L’espressione fu ripresa da Johann von Rist (1607-1667), poeta e drammaturgo tedesco, autore di cori sacri: “O grosse Not / Gott selbst ist tot / am Kreuz ist gestorben.” “Oh grande angoscia / Dio stesso è morto / È morto sulla croce.” Si tratta di un canto liturgico per il Venerdì Santo. L’eco del grido di angoscia del Dio morto e il senso di radicale desolazione e sgomento che suscita segnano l’abbandono e l’assenza del divino dal mondo, uno smarrimento cantato poeticamente da Hölderlin. Negli anni di studio (1788-93) allo Stift, il seminario di teologia protestante di Tubinga, il poeta aveva stretto amicizia con Hegel e Schelling, assieme ai quali, secondo un aneddoto, avrebbe eretto il 14 luglio 1793 un albero della libertà per celebrare l’anniversario della presa della Bastiglia. Nel cantare la mancanza di Dio, Hölderlin, come rilevato da Heidegger, non nega la persistenza di un atteggiamento verso Dio da parte dei singoli e delle Chiese. Quindi, nel citare i versi della poesia “Pane e Vino”: “E perché i poeti nel tempo della povertà”, così commenta il pensiero poetico di Hölderlin, rendendo in maniera efficacia il gelo della notte mondo nell’assenza di Dio: “[Il tempo della povertà] allude all’epoca di cui facciamo ancora parte. Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di Hölderlin, la fine del giorno degli Dei. È caduta la sera. Da quando i “tre” che sono uno: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla mancanza di Dio.” Qui, in Hölderlin, il segno della perdita di Dio viene declinato in termini cristiani, ma coniugato con tutte le manifestazioni possibili di congiunzione del divino e dell’umano, il tentativo di tenere insieme il mondo greco, l’Oriente, e l’Occidente al suo tramonto, Esperia, la terra della sera.

Silvio Minieri ha detto...

È quest’ultima declinazione che viene letta da Heidegger: “La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo Dio e gli Dei sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza.” La mancanza di Dio è la mancanza di ogni fondamento. Che accade? Quello che accade è un precipitare nell’abisso, ossia un continuo precipitare nel vuoto senza fondo. “Nell’epoca della notte del mondo l’abisso deve essere riconosciuto e subito fino in fondo. Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi siano coloro che arrivano all’abisso.” I mortali sono quelli che prima dei celesti arrivano nell’abisso. Ora, noi ci domandiamo in che cosa consiste questo abisso senza fondo (Abgrund).
“– Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dal suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?” (Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125)
Nessuna immagine poteva rendere meglio la notte del mondo, quella in cui è necessario accendere la lanterna anche alla chiara luce del mattino ed in cui si avverte un eterno precipitare, il vagare in un infinito nulla. Il nichilismo, quest’ospite inquietante, viene a bussare alla nostra porta, e adesso l’ospite inquietante si aggira familiarmente per la nostra casa. Siamo dunque destinati al nulla, la morte eterna? Hegel risponde di no e anche Nietzsche, Ricoeur dice che è difficile pensare questi due termini insieme. È un infinito dolore, il Venerdì Santo dello Spirito.

Silvio Minieri ha detto...

L’IRONIA ROMANTICA

“Dalle opinioni e dalle dottrine di Friedrich von Schlegel, si sviluppò in seguito in forme varie la cosiddetta ironia. Questa trovò il suo fondamento più profondo, per uno dei suoi lati, nella filosofia di Fichte, nella misura in cui i principi di questa filosofia furono applicati all’arte. Friedrich von Schlegel e Schelling partirono entrambi dal piano fichtiano, Schelling per superarlo compiutamente, Schlegel per svilupparlo in maniera propria e sottrarvisi. Per quel che riguarda la connessione più stretta tra le asserzioni di Fichte e l’una delle tendenze dell’ironia, ci basta mettere in rilievo il seguente punto: Fichte fissa come principio assoluto di ogni sapere, di ogni ragione e conoscenza, l’Io, anzi l’Io che rimane del tutto astratto e formale.
Quest’Io, in secondo luogo, è perciò in sé assolutamente semplice e, da un lato, sono negati ogni particolarità, determinatezza, ogni contenuto in esso, essendo ogni cosa sommersa in quest’astratta libertà ed unità; dall’altro, ogni contenuto che deve valere per l’Io, è solo come posto e riconosciuto dall’Io. Ciò che è, è solo ad opera dell’Io, e ciò che è opera mia, posso egualmente Io di nuovo negare. Se ora si rimane in queste forme del tutto vuote, che prendono origine dall’assolutezza dell’Io astratto, allora niente è considerato in sé e per sé ed avente in sé valore, ma solo come originato dalla soggettività dell’Io. Ma allora l’Io può anche rimanere il signore e padrone di tutto, e, nella sfera dell’eticità, del diritto, dell’umano e del divino, del profano e del sacro, non vi è nulla che non sia da porre solo ad opera dell’Io e che perciò non possa egualmente essere annientato dall’Io. Quindi ogni essere in sé e per sé è solo parvenza, non vero e reale a causa ed opera propria, ma semplice parvenza ad opera dell’Io ed in piena balia del suo potere ed arbitrio. Il lasciar essere e il negare dipendono puramente dal beneplacito dell’Io come Io già assoluto in sé stesso.
In terzo luogo, l’Io è un individuo vivo, attivo, e la sua vita consiste nel fare la propria individualità per sé, come per gli altri, nell’esternarsi e portarsi ad apparenza. Infatti, ogni uomo, in quanto vive, cerca di realizzarsi e si realizza. In rapporto al bello e all’arte, questo significa appunto vivere da artista e dare forma artistica alla propria vita. Ma io vivo, conformemente a questo principio, come ogni artista, quando ogni mio agire ed estrinsecare, per quanto riguarda un contenuto qualsiasi, rimangono per me solo parvenza ed assumono una forma che è interamente in mio potere. In tal caso io non trovo vera serietà né in questo contenuto, né nella sua estrinsecazione e realizzazione. Infatti vera serietà viene solo da un interesse sostanziale, da una cosa in sé stessa valida, la verità, l’eticità etc. – da un contenuto, che per me vale essenzialmente già come tale, cosicché io divengo a me essenziale per me stesso, solo in quanto mi sono immerso in tale contenuto e sono divenuto a lui conforme in tutto il mio sapere ed agire. In questo stadio in cui l’artista è l’io che da sé tutto pone e dissolve, ed alla coscienza nessun contenuto appare come assoluto e in sé e per sé, ma come parvenza da sé prodotta e distruttibile, non può esserci una simile serietà, giacché è da attribuire validità solo al formalismo dell’Io. Può sì per gli altri essere seria l’apparenza in cui mi offro loro, qualora credano che io faccio sul serio, essi sono allora solo illusi, poveri limitati soggetti, privi dell’organo e della capacità di cogliere e raggiungere l’altezza del mio livello.

Silvio Minieri ha detto...

Con ciò mi si mostra che non tutti sono così liberi (cioè formalmente liberi) da vedere, in tutto ciò che per l’uomo ha per altro valore, dignità e santità, un prodotto della potenza del proprio beneplacito, in cui l’uomo può o meno attribuire cose, e lasciarsi determinare e permeare da esse. E questa virtuosità di una vita ironico artistica concepisce sé stessa come genialità divina, per cui ogni cosa è solo creatura priva di essenza, alla quale il libero creatore, che si sa libero ed esente da ogni cosa, non si lega, perché può egualmente annullarla o crearla. Chi si colloca in tale stadio di genialità divina, guarda allora agli altri uomini dall’alto in basso, li trova limitati e piatti, in quanto per essi diritto, eticità etc. valgono ancora saldamente, sono obbligatori ed essenziali. Così l’individuo che vive come artista può, sì, avere rapporti con gli altri, può avere relazioni d’amicizia, di amore etc., ma come genio questo rapporto con la sua realtà determinata, con le sue azioni particolari, come anche con l’universale in sé e per sé, è al contempo per lui un nulla, verso cui si comporta ironicamente.
Questo è il significato generale della geniale ironia divina, come tale concentrazione dell’Io in sé, per cui sono rotti tutti i vincoli, e che può vivere solo nella beatitudine dell’auto-godimento. Questa è l’ironia che il signor Friedrich von Schlegel ha inventato e di cui molti dopo di lui hanno blaterato o di bel nuovo blaterano.
La forma più diretta di questa negatività dell’ironia è da un lato la vanità di ogni cosa concreta, di ogni eticità, di ogni cosa avente un contenuto in sé, la nullità di ogni oggettivo e di ciò che è valido in sé e per sé. Se l’Io si arresta a questo stadio, a lui tutto appare come nullo e vano: eccetto la propria soggettività, che perciò diviene vuota e vana essa stessa. Ma d’altro canto, l’Io non si può sentire soddisfatto di questo auto-godimento, ma è destinato a diventare indigente, cosicché avverte di aver sete del sostanziale e del solido, di interessi determinati ed essenziali. Nasce allora da ciò uno stato d’infelicità unito alla contraddizione che, da un lato, il soggetto vuole certo essere nella verità ed ha desiderio di oggettività, mentre dall’altro non può liberarsi da questo isolamento, da questo ritirarsi in sé, non può sottrarsi a questa interiorità astratta insoddisfatta, ed è preso allora da quello struggimento che parimenti abbiamo visto spuntare dalla filosofia di Fichte. L’insoddisfazione per questa quiete e questa impotenza – che non può agire, che nulla può toccare, per non rinunziare all’armonia interna, e che pur con il desiderio di realtà e di assoluto, rimane tuttavia irreale e vuota, anche se in sé pura – fa sì che sorgano lo struggimento e la malattia dell’anima bella. Infatti un’anima veramente bella agisce ed è reale, mentre quel rimpianto è solo il sentimento della nullità del soggetto vuoto e vano, a cui manca la forza di sfuggire a questa vanità e di riempirsi di contenuto sostanziale.

Silvio Minieri ha detto...

Ora l’ironia, una volta che è stata fatta forma dell’arte, non si è accontentata di foggiare artisticamente solo la vita e l’individualità particolare del soggetto ironico, ma l’artista ha dovuto creare come prodotti della fantasia, oltre l’opera d’arte delle proprie azioni etc., anche opere d’arte esterne. Il principio di queste produzioni, le quali possono risultare pienamente soltanto nella poesia, è ancora una volta la rappresentazione del divino come ironico. Ma l’ironico quale individualità geniale consiste nell’auto-annientamento di ciò che è magnifico, grande ed eccellente; e così anche le forme d’arte obiettive dovranno manifestare solo il principio della soggettività a sé assoluta, in quanto esse mostrano che ciò che per l’uomo ha valore e dignità è un auto-annientantesi nulla. E’ per questo che non solo non vi sarebbe serietà nel diritto, nell’etico e nel vero, ma anche in ciò che è alto ed ottimo non vi sarebbe alcun valore, giacché l’alto e ottimo si negano e si annullano nel loro apparire in individui, caratteri ed azioni, e sono così l’ironia di sé stessi. Questa forma, presa astrattamente, si accosta al principio del comico, sebbene il comico, pure in questa affinità, debba essere distinto in maniera essenziale dall’ironico. Infatti il comico deve limitarsi al fatto che tutto quel che si annulla è in sé stesso un nulla, un’apparenza falsa e contraddittoria, per es. una fisima, una bizzarria, un capriccio particolare di contro ad una passione potente, od anche un principio che pretende d’essere sostenibile, o una massima che pretende di essere salda. Ma la cosa è interamente diversa quando ciò che è in effetti etico e vero, in generale un contenuto in sé sostanziale si presenta come nulla in un individuo e ad opera di esso. In tal caso un simile individuo è, nel suo carattere, nullo e disprezzabile, e anche la debolezza e mancanza di carattere ne vengono rappresentate. In questa differenza tra ironico e comico è essenzialmente in questione il contenuto di ciò che viene distrutto. Si tratta però di soggetti cattivi, incapaci, che non sanno tener fermo ad un loro fine saldo ed importante, ma vi rinunciano e lo fanno in sé distruggere. Quest’ironia della mancanza di carattere ama l’ironia. Infatti è proprio di un vero carattere da un lato un contenuto essenziale di fini, dall’altro il tener fermo a questo fine, cosicché l’individualità perderebbe la sua intera esistenza, se dovesse staccarsene e vi dovesse rinunciare. Questa saldezza e sostanzialità costituisce il tono fondamentale del carattere. Catone può vivere solo da romano e repubblicano. Ma se l’ironia viene presa come tono fondamentale della manifestazione, allora quel che è il meno artistico viene considerato come il principio dell’opera d’arte. Infatti si hanno in tal caso o figure piatte, o figure prive e di consistenza e di fermezza, in quanto il sostanziale si dimostra in essi come il nulla; o vi si aggiungono infine quello struggimento e quelle insolute contraddizioni dell’animo, cui abbiamo prima accennato. Tali manifestazioni non possono risvegliare alcun vero interesse. Da ciò anche i continui lamenti, da parte dell’ironia, sulla mancanza di senso profondo, di visione artistica e di genio nel pubblico, che non comprende queste altezze dell’ironia; il che significa che al pubblico non piacciono queste banalità in parte insipide, in parte senza carattere. Ed è bene che non piacciano queste nature prive di consistenza e nostalgiche, ed è un conforto che non vi siano di gradimento slealtà e ipocrisia e che gli uomini invece aspirino sia a veri e pieni interessi che a caratteri che rimangano fedeli ai loro importanti contenuti.” (Hegel, Estetica, Einaudi, Torino, 1997 pp. 76-80)

Silvio Minieri ha detto...

LE FIGURE DEL NULLA
“L’artista è l’io che da sé tutto pone e dissolve, e alla coscienza nessun contenuto appare come assoluto e in sé e per sé, ma come parvenza da sé prodotta e distruttibile.”
È questa la critica hegeliana all’estetica propria dell’ironia romantica, la geniale ironia divina, in cui l’autore prevarica nei confronti della sua stessa opera, nullificandola nel momento stesso in cui la pone in essere, il creatore che nega e annulla la sua creatura, sottraendole la sostanza dell’essere vero. La svalutazione hegeliana della letteratura romantica del suo tempo, e di riflesso il superamento dell’attività artistica letteraria, che in quanto arte diventa un fenomeno del passato, privo di sostanza vivente, è un giudizio di supremazia ed esclusività della verità della filosofia sulla verità della finzione. A rifletterci bene, la critica di Hegel ai romantici era una presa di distanza dell’assolutezza di verità del suo romanzo filosofico dalla relatività della finzione artistica degli altri romanzi, del romanzo in genere come forma d’arte.
“Quanto a loro, i romantici fingono di non capire, continuano a rendere omaggio al Professore, ma di fatto lo ignorano. E se scrivono romanzi, è per confutare l’assunto che sta alla base dell’impresa speculativa hegeliana: la riconciliazione, la redenzione, la Versöhnung come fatto compiuto. Che i romanzi appaiano (hegelianamente) necessari, e cioè che esistano, che vengano letti, che contribuiscano a formare la comune percezione degli eventi, significa che la Versöhnung filosofica, al pari della Versöhnung religiosa non è se non una stella cometa che avrà pure sfiorato la Terra, se mai l’ha fatto, ma per inabissarsi in un suo cielo remoto e togliersi dalla vista degli uomini. I quali possono avere memoria: donde la convinzione che tutto ciò che accade sia nel segno di un doppio abisso, e dica l’inferno e il paradiso, la perdizione e la salvezza, e comunque abissale pozzo senza fondo sia l’esperienza dell’uno e dell’altro. Ma possono anche averne smarrito qualsiasi traccia, quando non venga negata esplicitamente: e allora il mistero è qui, non foss’altro che la totale assenza di mistero, l’abissalità più enigmatica e inquietante è tutta qui, nel cuore di questa vita. In un caso e nell’altro, lo spazio che si è aperto tra la realtà redenta e realtà da redimere è infinito e non si vede come possa essere colmato . Infatti nonostante di tanto in tanto qualche epigono hegeliano venga ad annunciare la morte del romanzo, il romanzo gode di ottima salute. Il romanzo contiene tutte le voci del mondo, tutte le dissonanze e anche tutti i silenzi, lo spazio del romanzo contemporaneo.”
(Sergio Givone, “Il bibliotecario di Leibniz”, Torino, 2005, p.16)