1. “Le diable dans l'âme” Quando Ketty tirò la cordicella ed aprì le tendine della sua finestra, vide che fuori, nell’aria ingrigita, una fine pioggerellina aveva inumidito il giardino e la strada e le altre case di fronte. Rimase a contemplare il paesaggio invernale del mattino e voltò leggermente il capo verso il letto matrimoniale, dove giaceva un uomo addormentato. “Martedì, viene a piovere” aveva detto Asmodeo, un loro vicino di casa, quando si erano incontrati la settimana prima, scambiando qualche parola sul tempo, che in quei giorni di fine gennaio erano tersi, il sole splendente, l’aria fredda. “Perché martedì” aveva chiesto lei. “Così dicono le previsioni” si limitò ad osservare Asmodeo, ripensando che la notizia gliel’aveva data la moglie Esmeralda. Ketty l’aveva guardato, sapeva che quella risposta era incompleta, più che saperlo, lo intuiva. Non poteva vedere quell’immagine che aveva accompagnato il pensiero di Asmodeo. Nella penombra del salotto di casa, la figura della sua consorte, bellissima e conturbante, l’espressione del viso che sembrava guardarlo, veniva a sovrapporsi all’immagine del dipinto alla parete: “L’indovina”. Era quasi un’associazione di idee per quel nome zingaresco della sua donna, come la protagonista di “Notre-Dame” di Victor Hugo. La previsione si era avverata, sono i progressi del meteo, ti dicono l’ora in cui piove, smette ed esce il sole. Certo, pensava Ketty, sono le previsioni di una giornata, quelle a breve, e non è come indovinare a distanza di giorni nel corso di una settimana. Chi era l’indovina? La moglie del vicino, sicuramente. Avrebbe indovinato anche di quel giovane uomo, la chioma bionda, che ora dormiva tranquillo nel letto matrimoniale? Catherine De Backer, originaria di Liegi, cinquantaquattro anni, li avrebbe compiuti tra poco più di una settimana, il 12 febbraio, due giorni prima di San Valentino, si era trasferita a Roma da tre anni, ora parlava bene la lingua italiana. Aveva divorziato dal marito, un medico tedesco, frequenti viaggi in Africa, dove curava i malati, una devota infermiera sua connazionale che lo seguiva dovunque. Il titolo di studio, laurea in Scienze Agronomiche, conseguito presso la sua città, aveva permesso a Ketty di essere assunta come esperta presso gli uffici della FAO a Roma. Il primo anno aveva fatto la spola tra l’Italia e Belgio, e in uno di quei suoi viaggi a casa aveva conosciuto Amedeo, un giovane italiano alto e biondo, vent’anni meno di lei, che andava a specializzarsi all’Università di Liegi, in Medicina veterinaria. Non fu una rivalsa contro l’ex-marito, ma fu proprio sedotta dal giovane, ebbe questa percezione, e non si sbagliava.
Aveva iniziato lei, non voleva rimanere sola, in quel primo periodo, una breve storia con un giovane italiano, che si trasformò in passione. Quasi impaurita, e non capiva perché, decise di troncare, e scoprì che per lei fu un dolore. Che cosa le accadeva? Non riusciva più a padroneggiare i suoi sentimenti? O ripensava che forse una sua certa durezza di carattere aveva rovinato il suo primo rapporto coniugale e questa sua seconda storia. Una notte Amadeo ritornò in sogno, quando si svegliò, avvertì la sua presenza nella stanza, era lì, lei era paralizzata dalla paura, non riusciva a muoversi, urlava, ma l’ombra nella stanza non sembrava ascoltare le sue urla. Rimase così per un po', poi scosse il capo più volte, e la violenta agitazione la svegliò, nella stanza non c’era più nessuno. Amedeo era andato via. Riprese sonno, all’indomani fu risvegliata dalla luce del giorno, aveva avuto un incubo. Tempo dopo, si trovò a parlarne con un medico alienista, il dottor Franceschetti, che aveva uno studio nel quartiere. “Niente timori, signora, si tratta semplicemente di brevi paralisi notturne, in cui siamo coscienti di stare dormendo nel nostro letto, nel buio della stanza, ma siccome il sonno ci impedisce di muovere, ci rimane come una coscienza vigile. Quindi, non si tratta di presenze reali, ma solo di figure immaginarie, quelle che percepiamo ferme o aggirarsi nel buio della stanza.” Franceschetti aveva citato Schopenhauer: “Questi spettri li si percepisce, durante il dormiveglia, come quando, sebbene sognando, si scorge esattamente l’ambiente circostante. E poiché tutto quello che si vede è reale, gli spettri che si manifestano godono in un primo momento di una presunzione di realtà.” “C’est une représentation imaginaire traduisant des désirs plus ou moins conscients?” disse Ketty, e proseguì: “Le scénario de l'accomplissement du désir inconscient?” L’alienista fece segno di sì e proseguì: “Nella fase REM del sonno, i neurotrasmettitori hanno lo scopo di inibire il movimento dei muscoli per prevenire reazioni fisiche durante i sogni. Quando entrano in funzione, portano gli individui a rimanere paralizzati, pur essendo coscienti. Le allucinazioni durante la paralisi del sonno, spesso influenzate dallo stato emotivo dell’individuo, come la paura o il panico, sono una forma di sogno, derivanti dalla dissociazione tra stato REM e veglia, e possono portare le persone a percepire nell’ambiente presenze soprannaturali o minacciose.” “Le diable dans l'âme” commentò Ketty. “Un desiderio inconscio” concluse Franceschetti.
2. Una fiammata blu Ketty si mosse dalla finestra, e nel guardare l’uomo che dormiva nel suo letto, si riaggiustò la vestaglia scivolata alla cintola, lasciando il seno scoperto, un gesto istintivo di riservatezza. Poi, invece di andarsi ad allungare accanto a lui, andò in bagno per farsi la doccia. Quando uscì, mezz’ora dopo, l’uomo non c’era più. Andò a cercarlo in cucina, poi in salotto, nel corridoio, nel tinello: non c’era. Rientrò in camera da letto, si sciolse l’asciugamani legato a mo’ di turbante sulla testa, e ritornò in bagno, per asciugarsi i capelli con il phon. Prima di vestirsi e truccarsi, andò in cucina a fare colazione: “Il a mis le café / dans la tasse / il a mis le lait / dans la tasse de café / il a mis le sucre / dans le café au lait / avec la petite cuiller / il a tourné/ il a bu le café au lait / et il a reposé la tasse / sans me parler / sans me regarder.” Wilfried, i primi anni del matrimonio, due bambini, le sue partenze e i ritorni, i risvegli del mattino, i gesti divenuti abituali, i versi di Prévert: “Il s’est levé / il a mis / son chapeau sur sa tête / il a mis son manteau de pluie / parce qu’il pleuvait / et il est parti / sous la pluie / sans une parole / sans me regarder.” Guardò verso la porta di casa e lo vide: il cappello in testa, l’impermeabile, la pioggia, una figura d’uomo che svaniva. Rientrò in camera da letto, si vestì, si truccò, era pronta per uscire, guardò verso il comodino, un foglio e una breve scritta in evidenza. Prima non c’era, almeno non l’aveva visto. Prese il foglio: “Ciao Ketty, ti devo lasciare. Amedeo.” Lesse meglio la firma: “Asmodeo”. Continuò a fissare il foglio e si rivide nella sera precedente. Era scesa in strada e Amedeo le era venuto incontro, dopo tre anni, lo stesso Amedeo, poi fu un’improvvisa sulfurea fiammata blu, alchemica e diabolica a un tempo. I sogni ci rivelano che siamo plurimi e che ciascuna delle forme che compaiono in essi sono “l’uomo stesso nella sua totalità”, complete potenzialità di comportamento, frammentate in figure multiple. In questa prospettiva, i sogni non sceneggiano la situazione esistenziale, non derivano da essa, sono strumenti per tradurre l’Anima, alias i “numi” (archetipi), nel vissuto. “Le persone con le quali nei sogni mi trovo in comunicazione non sono rappresentazioni (simulacra) dei loro sé viventi, e neppure sono parti di me stesso. Sono immagini di ombra che svolgono ruoli archetipici: sono personae, maschere nella cui cavità è presente un numen. (…) Durante i sogni vengono a farci visita dàimones, ninfe, eroi e dèi, nelle sembianze dei nostri amici della sera avanti.” Così Hillman in “ Il sogno e il mondo infero”, ripreso in “Fuochi blu”. “Nel libro di stregoneria, dal quale Asmodeo trasse gli insegnamenti che comunicò a re Salomone, è scritto che colui il quale desidera rimuovere da sé lo spirito di impurità e soggiogarlo, deve essere pronto a pagare, in contraccambio dell’adempimento dei suoi desideri, tutto ciò che si chiede. Poiché lo spirito di impurità tenta il cuore dell’uomo con molti allettamenti, per prendere dimora in lui.” In questo riferimento del Sefer ha-Zoar, il testo fondamentale della qabbalah del tardo Medioevo, troviamo l’indicazione di Asmodeo come spirito demoniaco dell’impurità, libidine sfrenata causa di ogni tipo di perversione. Ma che c’entra il diavolo lussurioso con il nome di Amedeo, cioè Asmodeo? Ketty rilesse il biglietto firmato dal diavolo. Che stupido!
IL SIGNORE DELLA CASA “Scusi lei chi è?” Così Asmodeo apostrofò lo sconosciuto che gli veniva incontro in quella casa, nel salotto in penombra. “Sono Emanuel, signore, il maggiore” rispose sorpreso lo sconosciuto, in verità Emanuel, il maggiore della casa, il maggiordomo. Asmodeo aveva l’aria stralunata, vedendo giungere una donna, l’aspetto zingaresco: “Zingara, chi sei?” domandò cantando. Esmeralda, sua moglie, si avvicinò al marito, e senza parlare, gli diede uno strattone, cercando di allontanarlo da Emanuel, che osservava in silenzio, da parte, l’aria compita. “Dimmi tu perché sei venuta qui?” cantava ghignando il marito, lasciandosi trascinare via. Esmeralda lanciò un’occhiata a Emanuel che abbassò il capo. Un baleno, come una scia blu, attraversò la penombra. Dopo quella prima volta, che sconcertò non poco il maggiordomo e la signora della casa, vi un secondo e un terzo episodio di smarrimento e demenza di Asmodeo, ogni volta seguito però da un perfido ghigno. Fu allertato il dottor Franceschetti, il medico alienista del quartiere, che diagnosticò: “Alzheimer”. Ma subito rassicurò Esmeralda Pérez de Araciel, coniugata Patricelli: “Solo un principio, signora.” La malattia, invece, era a uno stadio più avanzato. Non era questo però che preoccupava Franceschetti. Quello strano ghigno di Asmodeo, alla fine di ognuna delle prime crisi di smarrimento, come faceva a conciliarsi con i sintomi dell’Alzheimer? Era forse il sintomo di un diverso caso di degenerazione mentale o rammollimento del cervello del Patricelli? E quel tic, un riso non isterico, come accade nella sindrome di Tourette o in turbe di carattere isterico, ma un vero e proprio ghigno del diavolo, a sigillo della demenza temporanea, inquietava l’alienista. Poi che cosa accadde? Avevo letto l’avviso di vendita della casa, e telefonai al numero indicato: “L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile, si prega di richiamare più tardi.” Ho chiamato più volte, nel corso della mattinata, ma l’utenza non era raggiungibile. Nel pomeriggio, abitavo in zona, mi recai all’indirizzo indicato nell’annuncio di vendita, per vedere la casa quanto meno dall’esterno. Trovai accanto alla porta d’ingresso del caseggiato il cartello con lo stesso annuncio di vendita, l’appartamento era al quarto piano. Citofonai a uno dei quattro nominativi di quel piano, nessuno rispose, soltanto lo scatto di apertura del portone. Entrai, e con l’ascensore, salii al quarto piano.
Mi diressi verso una porta socchiusa, mi avvicinai, la porta si aprì a metà e un uomo mi invitò ad entrare, bisbigliando: “Prego, signore.” Stavo per parlare a voce alta: “Sono venuto…” L’uomo m’invitò con un gesto al silenzio, mentre m’introduceva in casa, in una sala in penombra. Quindi, mi guidò verso una scala interna, e salimmo al piano superiore, in ambienti bui, un chiarore proveniente da una stanza, dove si avvertiva la presenza di persone. L’uomo mi fece cenno di entrare, una luce schermata lasciava appena intravvedere la scena: attorno a un letto addobbato a catafalco, su cui giaceva il defunto in una bara, vegliavano suoi familiari e conoscenti, tra cui occasionalmente mi trovai anch’io. Entrando, una donna china accanto al capezzale, si era voltata verso di noi, aveva dato un’occhiata, poi era tornata alla sua posa di raccoglimento. L’uomo accanto a me si era spostato, per farmi posto tra gli altri, ed io mi affacciai a guardare l’estinto: un uomo anziano, il viso di cera. Io non so che cosa accadde, ma non appena lo guardai in volto, il morto aprì gli occhi e mi lanciò uno sguardo gelido. Forse era stata soltanto una mia impressione, perché nessuno fece cenno di essersene accorto o quanto meno, semmai se n’erano accorti, non lo diedero a vedere, neppure la donna vicino a lui, rimasta immobile. O erano una cerchia di iniziati o il suggestionabile ero io, che avevo avuto un’allucinazione. Questo dubbio, però, me lo posi soltanto in seguito, al momento rimasi abbastanza raggelato, e indugiai paralizzato a vegliare il morto. Dopo un po', qualcuno dei presenti non riuscì a trattenere un breve colpo di tosse, ed io ne approfittai per ritrarmi, accennando verso l’uomo che prima, in maniera così inopinata, mi aveva accompagnato a quella imprevista veglia funebre. Egli fu subito sollecito nell’accondiscendere, scambiò uno sguardo d’intesa con la donna accanto al capezzale, verosimilmente la vedova del defunto, e con premura mi accompagnò fuori. Scendemmo la scala, attraversammo la sala in penombra e fummo alla porta. Stavo per parlare, quando l’uomo, che poi seppi era un domestico, come peraltro il suo comportamento mi aveva già lasciato intuire, disse: “Le esequie del signore della casa si terranno domani mattina.” Non sapevo come congedarmi, quando il domestico disse: “La signora l’aspetta, nel pomeriggio, per la stipula del contratto.” Ero sconcertato: “Verrò” dissi. Feci un leggero inchino, date le circostanze, e mi mossi verso l’ascensore, aspettò per chiudere la porta che io fossi sparito dalla sua vista. In quella casa, non era necessario parlare, tutto era tacito o almeno taciuto.
IL SOGNO EGIZIO Ero solo in casa, la casa che avevo acquistato nel pomeriggio del giorno prima di quello delle esequie del signore della casa, a cui ebbi l’onore di partecipare. In verità, si trattò di un’incombenza, dovuta al mio impegno d’acquisto, e già mi sembrava strano aver dovuto consentire a quella partecipazione. E strana era poi stata la stipula del contratto d’acquisto. Nella penombra del salone, c’era il notaio, un uomo vestito con abbigliamento medievale, doveva essere uscito dalla stanza dove si teneva la veglia funebre, il domestico, pardon! il maggiore della casa, la vedova, io. Firmai un contratto già pronto, la consegna era prevista per il giorno dopo, il ritiro della mobilia entro una settimana, con una clausola alternativa: uno sconto del venti per cento, se avessi consentito a tenermi i mobili, tutti. Scelsi di firmare per la clausola alternativa, anche se avevo il sospetto di un evidente artifizio: non solo mi regalavano i mobili, tutti, ma invece di ottenere un sovrapprezzo, mi facevano un notevole sconto. In verità, doversi tenere i mobili non è proprio un vantaggio, se uno vuole arredare la casa a suo gusto, e magari dover pagare per un trasloco e deposito dei mobili, in attesa di un’eventuale loro vendita. Ecco, allora, che lo sconto può apparire giustificato, ma nel caso era abbastanza alto, e se uno avesse tenuto conto dell’operazione, il guadagno ci sarebbe già stato. Allora, perché lo sconto? Perché offrirmi un ulteriore vantaggio economico? Avevo accettato, per riuscire a capire dove andava a finire questa mia linea di condotta di abbandono agli eventi, una linea che sembrava fosse già stata tracciata. Passai in rassegna gli ambienti vuoti di quella casa, che avevo comperato ad occhi chiusi, e che fino al giorno prima era gremita di gente. In quel periodo, io ero un po' spaesato, venivo da un mio soggiorno negli Stati Uniti, Georgia, avevo pagato in dollari – ecco dov’era il vantaggio dell’alienante – era stato tutto così improvviso, una vertigine. Che accadeva? Chiusi la casa e andai in albergo, dove avevo trovato alloggio al mio rientro in patria. Giorni dopo, mentre andavo verso la mia nuova casa, incontrai Gianna, una donna bionda, che avevo conosciuto di recente e incontrato la prima volta non ricordo dove. Io sono tornato dall’America circa un mese fa, quindi devo averla conosciuta da poco, mi sorrideva, le cedetti il passo. E quasi sotto casa incontrai il signor Lorenzo, anche questa una conoscenza recente, si presentò come Renzo. Ebbi modo di conoscere anche la moglie, mi parlò di una sua malattia agli occhi, mi guardò con apprensione, disse che un intervento chirurgico non era doloroso. Commentai che in anestesia non avrebbe sentito dolore, ma in verità parlavo più da paziente che da esperto sanitario. Lorenzo mi salutò e passò oltre, avrei voluto fermarmi per conversare un po', sapere qualche notizia del quartiere, di cui ero nuovo. Prima di partire per l’America, abitavo in un villino a nord di Roma, oltre il raccordo anulare, qui, nella zona dell’Appia Antica, era come se venissi da un’altra città. Entrai nella mia casa e feci un nuovo giro per le stanze, questa volta aprii tutti gli armadi, le due cassapanche e i cassetti dei mobili e dei comodini, erano tutti vuoti, tranne la libreria, intatta, quattro colonne di sei scaffali, piena di libri, a occhio e croce un migliaio. Al centro della libreria, c’era uno spazio per la televisione, e in un angolo del salone un tavolinetto con il computer.
Che cosa cercavo? Niente. Pensavo di dover prendere una decisione. Quale? Trasferirmi subito dall’hotel ed accamparmi in casa? Ma avevo guardato bene dappertutto? No. Nella camera da letto, al piano di sopra, trasformata in camera ardente, in occasione della morte del signore della casa, da quella prima volta, non ero più entrato. Perché? Così, per scaramanzia? O perché odorava di morte? I ceri accesi, l’aria chiusa. Ecco. Decisi che era soltanto una questione di tatto, nel senso di buon gusto estetico, non quindi di olfatto, ed entrai. La stanza era esposta a sud ovest, ed era piena di sole, erano rimasti i materassi sul letto e i cuscini, guardai nel comò, c’erano lenzuola e federe ripiegate e pulite, odoravano di lavanda. Mi posi il seguente interrogativo, abbastanza sciocco: è meglio stendersi su un letto dove ha dormito un vivo oppure su quello dove è giaciuto un morto? Ormai da quasi un mese, vivevo in albergo, dove passano tutti, tutti i vivi e tutti i morti, dico così in maniera generica, e in quella casa mi sentivo ancora the guest, in questo senso a mio agio. Abbassai la serranda della finestra, filtrava il sole, e la stanza era ancora illuminata, mi tolsi le scarpe e mi stesi sul letto, vestito, chiusi gli occhi. La donna entrò in camera, adesso in penombra, si avvicinò al letto dove ero steso, si chinò vicinissima al mio volto, volevo sollevare la testa per baciarla sulle labbra, ma non ci riuscii, “Asmodeo”, sussurrò lei e si allontanò da me. Ero nel sito archeologico dell’antico Egitto, e mi trovavo all’interno della piramide di Cheope, vidi una figura femminile venirmi incontro. Era strano, ma quella donna nell’ombra era come se indossasse un poncho, quello dei gaucho argentini, che le scivolava lentamente, quasi a rivelare un seno enorme. Mi voltai, ed ebbi la sensazione di stare in un recinto per pecore. Aprii gli occhi, nella stanza filtrava ancora la luce del sole. Avevo sognato, ma che cosa avevo sognato? Chi erano quelle figure del mio sogno? Ecco, nella stanza era entrata la signora della casa, almeno ebbi questa sensazione, certo, Asmodeo, il suo letto, giaciglio di morte. La vedova veniva a dare l’ultimo saluto di congedo all’amato o odiato defunto. Ed io? Ma non sono le figure dei sogni gli archetipi, i numi, tradotti da Anima nel nostro vissuto? Non era l’immagine della vedova del defunto Asmodeo che era venuta a visitarmi, ma allora quale archetipo? La morte che abita nella nostra vita e come immagine primordiale si mascherava nelle sembianze di Esmeralda Pérez de Araciel? Eppure, non si era lasciata baciare. Perché? Nella sua potenzialità era quella figura un frammento della totalità della vita e della morte dell’uomo come assieme multiplo. In tal senso non era un simulacro della signora della casa in sé vivente, ma un’immagine ombra, che non apparteneva neppure ad una parte di me.
Anche le altre figure oniriche evocate dal mondo infero giocavano questo loro ruolo nel sogno. E si riallacciavano ai recenti ricordi di qualche giorno e sera prima, come la mia visione di quel documentario televisivo sui siti archeologici, presentati da una guida, un’amabile figura femminile che si fondeva nello scenario della sfinge e delle piramidi egizie. E così il poncho, lo scialletto dei gaucho, riconducibile alla lettura e immaginazione di storie argentine. Nei miei giri del quartiere, avevo percorso alcuni tratturi della tenuta amaranto inglobata nel parco dell’Appia Antica, e avevo visto un gregge di pecore pascolare, e un’altra volta il recinto con un manufatto per la mungitura. Era un po' il paesaggio da me immaginato di certi racconti di Borges, ambientati in zone rurali della provincia di Buenos Aires. Forse, l’enorme seno della figura femminile, che si rivelava nell’ombra della piramide di Cheope era il simbolo dell’immagine primordiale, quella del seno materno, che nutre e dà la vita, ed ecco il recinto della mungitura degli ovini dell’agro romano. Ma questa interpretazione mi inquietava, perché l’immagine si traduceva in un sentimento di malinconia egizia, nel senso della fine di un viaggio d’avventura tra i segni di una civiltà millenaria, il congedo da una donna cara che si allontanava da me nell’ombra funeraria della piramide. Ma come si coniugava quel sentimento di malinconia con le mie fantasie sui monumenti dell’antico Egitto, solo sognato? Dovevo cercare una migliore spiegazione, decifrare i simboli. L’ombra dell’antica tomba dei Faraoni rimandava a un passato mitico, sul cui sfondo si distingue il momento dell’inizio, la festa primordiale. E come? Nell’analisi del linguaggio, se andiamo alle origini della parola festa, come spiega il filosofo Emanuele Severino, scopriamo un insieme di parole di diverso significato, ma accomunate da una stessa struttura linguistica che risale a un paio di radici indo-europee: DHE o anche DHES. E non è difficile accorgersi che in Festa, risuona la radice FE, riconducibile a DHE o DHES; ma FE è anche la radice di Felix, Felice. E felice è colui che è vicino alla fonte della felicità, il seno materno; nella lingua greca, Thele, radice THE, è il seno, la mammella, che dà il latte e la vita, l’alimento essenziale, la gioia che esso procura. Il senso iniziale della felicità diventa poi evento festivo, la festa arcaica. Il popolo greco per indicare Festa usa un termine che ci risuona stranissimo Theoria, contemplazione festiva. Se andiamo a leggere nei primi libri della Bibbia, nell’Esodo, Dio primi sei giorni lavora, poi si riposa. E così Mosè invita il popolo radunatosi ai piedi del monte Sinai a considerare un giorno consacrato esclusivamente al divino, e non compiere attività lavorative. Infine, conclude Severino, il tema della festa arcaica, diventa il centro da cui si irradiano tutte le forme di vita. Ma quale significato avevano per me quei simboli del sogno, il seno materno e il latte come fonte di vita, bene essenziale, che rimandavano alla festa primordiale, la festa della vita? E quel mancato bacio di Esmeralda? Ero confuso. Mi alzai, andai alla finestra e riaprii la serranda, il sole tramontava. Scesi al piano di sotto e lasciai la casa.
LA SCADENZA DEL CONTRATTO Qualche tempo dopo, ricevetti uno strano messaggio sul telefonino: “Il contratto scade il prossimo ottobre.” Chi aveva mandato il messaggio? E perché? E soprattutto di quale contratto si trattava? Subito pensai a Esmeralda e al contratto di vendita della casa, l’acquisto da me compiuto, in circostanze così particolari. Eravamo agli inizi di aprile, come dice il poeta: “Primavera d'intorno, brilla nell'aria e per li campi esulta”. Mi sentivo rinascere a nuova vita, dopo il mio rientro in patria, ma forte avvertivo un senso di spaesamento, come quello di chi ha dovuto interpretare a lungo il ruolo di “guest”, l’ospite, lo straniero. Ora, ero tornato a casa, ma non mi ci ritrovavo più, forse dovevo riabituarmi, l’acquisto di quella strana abitazione non aveva risolto la mia situazione psicologica. E adesso questa telefonata, ma non poteva essere stato un errore? Decisi di andare a fare una passeggiata al centro, alloggiavo in un hotel, all’inizio della Laurentina, presi la metro B, cambiai a Termini, e con la linea A scesi a Spagna; quindi, imboccai il corridoio d’uscita sulla piazza. In quel momento, ricevetti un secondo messaggio: “Il contratto scade il 30 ottobre.” Non era un errore. O forse l’errore non era stato voluto, nel senso che il mittente aveva il mio numero di telefono, ma era quello sbagliato. Errare humanum est, perseverare aut diabolicum. Sull’onda di questo pensiero, telefonai al numero di Esmeralda, che avevo registrato sul mio telefonino, prima di uscire dall’hotel. Mi rispose la segreteria telefonica, la voce di un uomo: “Lo studio è temporaneamente chiuso, si prega di lasciare un messaggio dopo il segnale”. Sentii il bip, rimasi in silenzio, esitavo, chiusi la comunicazione. Che dovevo dire? E se avesse risposto la signora Pérez de Araciel, che cosa avrei detto? Avevo pensato Esmeralda e ora già dicevo signora, ma non mi stava baciando in sogno? No, era un bacio mancato. Freud sostiene che il sogno è la realizzazione di un desiderio, Michel Foucault lo critica e parla di natura allucinatoria della soddisfazione del desiderio. Ma io neppure in sogno, quello strano sogno egizio, avevo soddisfatto il desiderio, peraltro un’allucinazione. Ma dei due, lo psicologo e l’antropologo, chi ha ragione? Avevo raggiunto la Fontana della Barcaccia, svoltai a destra ed imboccai la via Condotti, guardavo le vetrine dei negozi, mi soffermai davanti a una gioielleria, ma pensavo al bacio mancato, ah! ecco perché.
Qualcuno mi aveva dato un colpetto sulla spalla, mi voltai sorpreso. Un uomo alto, con gli occhiali, i capelli corti, brizzolati, come la barba, il pizzetto, un aspetto austero, ma l’espressione sorridente. “Pier”, disse. Chi era? Notò il mio sconcerto: “Ti presento mia moglie” disse. Aveva leggermente balbettato, nel parlare, e io, nel rivolgermi alla donna di mezza età al suo fianco, per quel particolare, mi ricordai d’un tratto di lui: “Pietrangelo Lo Turco.” Eravamo stati militari insieme, io amante della poesia, lui del teatro, io non amante dalla rigida forma della disciplina, lui marziale, io mi congedai presto, lui rimase in servizio. Calcolai rapidamente, eravamo entrambi quarantenni: “Colonnello Lo Turco” dissi con l’aria di chi si complimenta, accentuando l’espressione del viso. “Tenente Colonnello” precisò. Ecco il militare. “In promozione,” aggiunsi subito. La moglie si illuminò in viso. Mi prese sottobraccio: “Andiamo a prendere un caffè”. Cominciò a parlare del teatro di Ugo Betti, e mentre parlava, io pensavo ad altro, eravamo entrati in un caffè riccamente arredato. Avrei dovuto pagare io, non sapevo se avessi portato con me i documenti di credito o il contante, mi toccai macchinalmente le tasche, mentre assentivo a quello che diceva sul teatro, e notai che Lo Turco aveva notato il mio gesto. “Da certe battute del copione si capisce che l’autore è un magistrato” dissi per distogliere l’attenzione dalla nostra realtà presente e riportarla a quella immaginaria della scena teatrale. “Corruzione a palazzo di giustizia” disse Lo Turco. In verità, pensavo ad un altro dramma, che avevo visto di recente, dove l’interprete sentendosi chiamato in causa, rispondeva sorpreso: “Io?” Lo Turco subito indovinò il titolo, quando un attimo dopo riferii della scenetta, e disse: “Il vento notturno”. Poi iniziò un discorso sulla verità della scena e la finzione della vita, dicendo che la realtà contiene elementi di finzione e che la finzione contiene elementi di verità. “E di fronte a questo dilemma un giudice si trova a confrontarsi ogni volta, come nella commedia del padre.” Pensai a Pirandello, mi distraevo dalla mia realtà ed entravo nella realtà comune, quel nostro attuale discorso sulle scene e sul teatro. Antonio, il commendatore di “Il vento notturno”, alla fine si rivela il padre di Elena, aveva sognato di ritrovarla in un luogo molto più bello, dove saranno vere tutte le cose desiderate: la trascendenza di Betti. Il “padre” di Pirandello, la figura principale di “Sei personaggi in cerca d’autore”, è lui l’autore invisibile del copione, il capocomico è soltanto il regista.
Cominciavo a seguire con più attenzione Pietrangelo, disse che la commedia era in cartellone al teatro Argentina. “Argentina” rimarcai. “T’interessa?” disse. Non risposi, mi ricordai del poncho argentino del mio sogno egizio. “Pier?” Mi riscossi, mi ripresi: “L’ho già visto più di una volta, l’ho studiato, più o meno.” S’illuminò alla mia risposta: “Il personaggio del “padre”, come la “figliastra”, più degli altri sei, sanno di essere personaggi, che soffrono il dramma di una loro storia da voler rappresentare in modo da concedere loro la possibilità di esistere. Eppure, non possono sospettare che è proprio questa impossibilità, questa ingiustizia, la vera funzione della loro esistenza. Se qualcuno glielo dicesse, non gli crederebbero, dice Pirandello, perché non è possibile credere che l’unica ragione della nostra vita sia tutta in un tormento che ci appare ingiusto e inesplicabile.” Pietrangelo conosceva bene Pirandello, era un colonnello dell’esercito, ma anche un critico teatrale. “Non si dà storia, se la storia non viene raccontata” dissi. Marito e moglie mi guardarono, ne approfittai, per aggiungere: “Se questa nostra storia, che qui noi stiamo vivendo, non viene raccontata, non esiste come storia.” Sapevamo noi se qualcuno la stava raccontando? Non posi quest’interrogativo, ma dissi: “Ci troviamo una sera e andiamo a teatro, magari all’Argentina, quando va in scena la commedia di Pirandello.” Scossero entrambi la testa, la programmazione era per maggio, e Pietrangelo sarebbe partito in missione a giorni. Ecco la caducità dell’interrogativo. “Ti mando un commento dal campo” disse. Eravamo fuori del caffè, mi accompagnarono all’incrocio con piazza di Spagna, ci congedammo, io pensavo sempre a quello che stava scrivendo questa mia storia, ed ero un po' io, così come la figura del padre è un po' quella del capocomico. Ma qual era questa storia del padre? Quella di Pirandello, nella mente allucinata della consorte, padre incestuoso, tanto che la figlia Lina tenta il suicidio con un colpo di pistola, c’è un colpo di pistola nella commedia. Il fantasma di quest’allucinazione lo perseguitava e l’ha messo in scena e ha messo in scena sé stesso in una condizione di logica impossibilità di raccontare questo suo dramma, il travaglio del suo spirito, come dice il drammaturgo infelice. Ed io? Non sono un drammaturgo, o forse lo sono, e sto raccontando, mettendo in scena, il travaglio del mio spirito. Quale? Ero arrivato alla stazione della metro, percorsi il corridoio, scesi con la scala mobile ed ero sulla banchina, in attesa del convoglio per Anagnina. Tra un po’ avrei cambiato a Termini, avrei preso la linea B e sarei sceso a Laurentina, poi sarei entrato in albergo. In quel presente di un passato appena trascorso, il congedo dai Lo Turco e l’entrata nella stazione della metro, mi trovavo teso verso un immediato futuro di rientro a casa. Non si dà tempo se il tempo non viene raccontato: dovevo ancora raccontare il tempo di questo rientro. Nella mia casa oppure nel mio hotel? Ero ancora the guest.
MONUMENTO DEL TEMPO Mi svegliai di colpo. Dov’ero? Non riconoscevo il letto e la stanza al buio. Chi cantava? By the rivers of Babylon, there we sat down ye-eah we wept, when we remembered Zion. Nessuno cantava, io cantavo, il ritornello mi rimbalzava di continuo nella mente. By the rivers of Babylon, there we sat down ye-eah we wept, when we remembered Zion. Prima di andare ad aprire la serranda della finestra in alto, la stanza era ad un livello di qualche scalino più in basso della porta, mi resi conto di dove stavo: un hotel di Notting Hill. Aprii la finestra, entrò una luce fioca, quella del cielo grigio di Londra. Salii due scalini ed entrai nella stanza da bagno a lavarmi. All’arrivo, mi avevano dirottato in quell’albergo, per mancanza di posti in quello prenotato, la gestione era indiana o pakistana, subito la stanza mi era sembrata soffocante. Ero uscito ed ero andato a cena in un ristorante italiano, osservai un mio vicino che aveva versato il vino bianco nel risotto allo zafferano. Non persi l’occasione per mangiare penne all’arrabbiata e l’ossobuco con piselli, serviti dal gestore, un romano molto simpatico., poi sotto la pioggia ero ritornato in hotel. Mentre finivo di prepararmi, sentii alla televisione che i reali d’Inghilterra erano in partenza per l’Italia. Che ci facevo a Londra? Andai al check-out, nel vedermi, la ragazza si mise a ridere, ero abituato a quei sorrisi maliziosi, e non mi dispiacevano, ma questa volta lei non aveva potuto trattenere il riso, il classico riso della donna tracia, ero scettico. Perché? Chiesi informazioni per sapere dov’era l’Hilton, si poteva raggiungere a piedi. Avrei preso alloggio in un albergo più decente, anche se più caro. Dovevo incontrare qualcuno? Sono rimasto altri due giorni, ho rivisitato tutti i posti più turistici della capitale inglese, che ricordavo tutti dalla mia prima volta, quando avevo vent’anni, e sono andato anche a Portobello, ecco, la musica di Bob Marley, e la musica reggae. By the rivers of Babylon, there we sat down ye-eah we wept, when we remembered Zion. Il complesso Boney M., i cantanti britannici di origine giamaicana, base in Germania, la canzone, uno "spiritual" rastafariano, gli ebrei esiliati a Babilonia, e come loro la nostalgia della patria lontana. When the wicked Carried us away in captivity Required from us a song Now how shall we sing the lord's song in a strange land. Ero venuto a Londra per visitare il British Museum, un’anglo-egiziana guidava i visitatori alla stele di Rosetta, più che ai reperti dei faraoni, ero attento alle spiegazioni della guida, la sua lunga e fluente chioma di capelli neri ricci. Ma non c’era solo l’Egitto nel mio sogno, c’era anche lei, la donna che ero venuto a cercare a Londra, e che all’Hilton non avevo trovato. Ora potevo ricostruire questa mia situazione di guest, non tanto guest, se ormai questo mio ruolo mi era diventato familiare. Quando avevo lasciato i coniugi Lo Turco a piazza di Spagna, alla stazione della metro, sulla banchina in attesa, nell’istante tra il passato appena trascorso e il futuro subito immediato, avevo come rimosso quello strano messaggio ricevuto sul telefonino, e la conferma della scadenza del contratto. Avevo come dimenticato la spiegazione del bacio mancato del mio sogno, intorno a cui cercavo la soluzione, e che invece avevo colto proprio nell’attimo in cui avevo udito pronunciare il mio nome: “Pier”.
Qualche giorno dopo, forse il giorno dopo stesso, ero andato nello studio del notaio, a cui corrispondeva il numero di telefono lasciatomi da Esmeralda Pérez de Araciel. Si trovava vicino alla piazza San Lorenzo in Lucina, mi aprì il notaio Notarangelo, come si presentò. Aveva capelli bianchi, i baffi bianchi spioventi, ora si era seduto dietro la scrivania, prese una penna stilografica e cominciò a scrivere. Ma che cosa scriveva? Dissi del messaggio anonimo, del mio contratto d’acquisto della casa Patricelli. Il notaio, non era quello della stipula in abiti medievali, alzò la testa, mi guardò, poi si alzò, prese un faldone dallo scaffale di archivio alle sue spalle, estrasse un fascicolo, l’aprì, e mise il contratto di acquisto davanti ai miei occhi, indicando le firme. “È questo?” disse. Accennai di sì con la testa e domandai: “Quando scade?” Il notaio mi guardò, aveva gli occhiali, l’espressione neutra: “Mai” disse. E allora perché il messaggio sul telefonino? Non rispose, ritirò il contratto, lo rimise nel fascicolo, lo ripose nel faldone. Perché? Insistetti. Mi tese un biglietto, su cui c’era scritto: “Hilton, Mrs. Esmeralda Dalloway, Londra.” Si alzò e ripose il faldone nello scaffale d’archivio alle sue spalle, poi si voltò verso di me. Indicai l’altro foglio sulla scrivania, su cui prima aveva vergato alcune righe. Il notaio abbassò lo sguardo sul foglio, poi guardò me, come a chiedersi quale relazione intercorresse tra me e quello che lui aveva scritto poco prima. Prese il foglio, lesse il contenuto, quindi me lo diede, lessi: “Perché vivendo a Westminster – da quanti anni ormai? più di venti – anche in mezzo al traffico, o svegliandosi di notte, si percepisce, Clarissa ne era certa, un silenzio particolare, o solennità; una tregua indescrivibile; una sospensione (ma quello poteva essere il suo cuore, debilitato, dicevano, dall’influenza) prima dei rintocchi del Big Ben. Ecco! Eccolo che risuonava! Prima un avvertimento, musicale; poi l’ora, irrevocabile.” Che significava? L’uomo si riprese il foglio e lo ripose sulla scrivania, quindi alzò le spalle: “Virginia Woolf, Mrs. Dalloway.” E allora? L’uomo si mosse da dietro la scrivania e mi si avvicinò: “Menardi, venga!” disse forte, mi toccò il braccio e in silenzio mi accompagnò alla porta, quindi mi invitò ad uscire. Oltre la soglia, mi voltai a guardarlo. Chiuse la porta, lessi l’incisione sulla targhetta in ottone: “Andrea Notarangeli – Notaio in Roma.” Poi l’immagine si sfuocò. Guardai in alto il Big Ben, l’orologio della torre di palazzo Westminster, imbruniva, ero seduto su una panchina del prato di fronte al Parlamento, in cielo volava un aereo. Londra, il Big Ben, il monumento del tempo, dovevo rientrare a Roma.
Il testo della canzone è un frammento del Salmo 137, un canto di lamento degli Israeliti in cattività a Babilonia. Esso riflette il dolore e la nostalgia per la loro patria, Sion, mentre si trovano in terra straniera.
By the rivers of Babylon, there we sat down Presso i fiumi di Babilonia là ci sedemmo Yeah, we wept when we remembered Zion Già, abbiamo pianto ricordandoci di Sion By the rivers of Babylon, there we sat down Presso i fiumi di Babilonia là ci sedemmo Yeah, we wept when we remembered Zion Già, abbiamo pianto ricordandoci di Sion There the wicked Là i malvagi Carried us away in captivity Ci ha portato via in cattività Required from us a song Ci è stata richiesta una canzone Now, how shall we sing the Lord's song Ora, come canteremo la canzone del Signore? In a strange land? In una terra straniera? There the wicked Là i malvagi Carried us away in captivity Ci ha portato via in cattività Requiring of us a song Ci è stata richiesta una canzone Now, how shall we sing the Lord's song Ora, come canteremo la canzone del Signore? In a strange land? In una terra straniera?
LA PORTA GRIGIA “Gli attori recitano e non possono uscire dal loro ruolo di attori, non possono sfondare la quarta parete, quella invisibile tra loro e il pubblico. Se lo fanno, sospingono davanti a sé questa parete trasparente, fino a quando non scompaiono dall’orizzonte dello sguardo degli spettatori.” Avevo ricevuto questo messaggio da Lo Turco, e per il colonnello in missione nel Medio Oriente, quel messaggio era importante non per i suoi contenuti, ma per la forma ovvero la direzione della traiettoria verso Occidente. Era una risposta alla mia osservazione sulla Figliastra dei “Sei Personaggi”, che alla fine della Commedia, scende dalla scena in platea sghignazzando, e abbandona il teatro. Ponevo il quesito se fosse la rappresentazione della follia, che lascia la scena della finzione, ed entrando nella realtà, diventa una folle risata liberatoria dalla follia. Il mio quesito non era peregrino, perché voleva riflettere quel “travaglio dello spirito” dell’autore, che soffriva della pazzia della moglie e mandava in scena quei suoi deliri, al fine di una sua catarsi interiore, lo spirito purificatore della tragedia come indica Aristotele. E l’umorismo pirandelliano è un po' una rivincita dell’evidenza drammatica del reale in contesa con l’illusione di una verità irreale, la finzione, l’arte. Ma, dicevo, Lo Turco inviava il suo messaggio in ragione della sua traiettoria da una lontana zona di operazioni militari verso la sua terra patria non soggetta a tali inquietudini. Avevo, ormai, preso pieno possesso della mia casa, per la quale il mio contratto di acquisto era definitivo, non era soggetto a scadenza. Ma chi l’aveva messo in dubbio? Io? No, non sono l’autore dei messaggi indirizzati al mio telefonino, anche se erano sintomi di una stranezza della situazione. Chi scriveva quelle cose? Un giorno, mentre tornavo a casa, ho incontrato Lorenzo, e l’ho invitato a salire con me nella mia abitazione, per la quale aveva mostrato curiosità, ma non era il solo, anche Gianna. Era stata lei, quella sera, in sella a una motocicletta, che mi aveva salutato, sfrecciandomi davanti sulla strada, che stavo per attraversare? Penso di sì. Siamo passati dall’ingresso alla sala interna e abbiamo visitato insieme tutte le stanze del piano superiore, siamo scesi e stavamo andando in cucina, dove l’avevo invitato a prendere un caffè, quando lui ha indicato in un angolo una porta grigia, semicoperta da una tenda. Allora, ci siamo avvicinati e lui ha aperto la porta, un attimo solo, e l’ha richiusa di botto. Mi ha guardato esterrefatto, era paralizzato, io non ho mostrato segni di stupore, sono rimasto impassibile a guardarlo. Ha mormorato qualcosa, era divenuto pallidissimo, poi in fretta si è diretto deciso all’ingresso, ha aperto l’uscio ed è sgusciato via. Che cosa era successo?
Quando ha aperto la porta grigia, io ho visto il cadavere del defunto signore della casa, ritto nella rigidità della morte, che ha aperto gli occhi e ha lanciato uno sguardo gelido. E lui? Io credo che abbia avuto una visione terrorizzante, d’altronde come altri della zona conosceva Asmodeo da vivo, era una conoscenza del dottor Franceschetti, l’alienista, che lo stesso Lorenzo una volta aveva nominato, non so a che proposito. Intendiamoci, io sapevo che cosa c’era dietro la porta grigia, l’avevo aperta diverse volte, fin dalla prima volta ch’ero entrato in casa, e non vi avevo trovato mai nulla di strano. Quella volta che Lorenzo l’aveva aperta forse abbastanza imprudentemente ed era rimasto di sasso, io ero rimasto impassibile di fronte a quel suo turbamento forse eccessivo, quasi presentivo che non sapesse. Che cosa? Quello che sapevo io, e siccome sono un tipo scrupoloso, sono poi subito andato a controllare. E infatti, era come pensavo: quando ho aperto la porta grigia, ho visto lo specchio a muro, che è stato sempre là. E allora? Io ero dietro di lui ed ho immaginato il signore della casa defunto, di cui avevo avuto visione la prima volta quando era in posizione orizzontale. È naturale che io posso immaginarlo, ovvero immaginare la sua figura che si aggira per quella che era stata la sua casa, non vedo nulla di straordinario in questo, e quindi immaginarlo anche dietro la porta grigia. E l’immagine che io ho del mio predecessore, ecco, l’ho detto, il mio predecessore, era quella di un viso di cera, rigido nella rigidità della morte. Aveva aperto gli occhi e lanciato uno sguardo gelido? È una stranezza poco credibile, infatti ricordo che ero rimasto abbastanza incredulo quella volta, ma è l’unica visione e ricordo che io conservo di Asmodeo, il defunto signore della casa. Ma Lorenzo? Non credo che abbia avuto la mia stessa visione. E allora quel terrore negli occhi e il precipitoso allontanamento? Si possono trasmettere sensazioni, ma non credo oggettivare, diciamo così, le immagini della mente e renderle visibili agli altri accanto a noi, al massimo si possono raccontare. Aveva visto riflesso sé stesso o la mia figura, non saprei dire se la mia immagine era coperta dalla sua. E quindi? Solo un nuovo confronto poteva sciogliere l’enigma della porta grigia, come magari si può definire l’insolito episodio. E l’occasione si presentò una sera, era ormai estate, giugno, mi sembra. Dopo una certa ora su quel viale di periferia, illuminato da una fila di lampioni, rimaneva accesa solo la vetrina della notte del bar ormai chiuso, e nelle ombre buie, illuminati di riflesso, scorsi Lorenzo assieme a un altro, uno stradino che conoscevo di vista. Mi unii ai due, dopo aver salutato l’amico, che mi guardò, un sorriso malizioso all’angolo della bocca. Era passata la paura, ma rimaneva vigile l’attenzione nei miei confronti, perché ai suoi occhi la mia impassibilità di quella volta doveva averlo impressionato più della visione da lui avuta. Io non so, ma era come se fosse stato investito da una folata di aria gelida, quando io avevo visto il morto aprire gli occhi, e la successione di queste due emozioni lo aveva sconvolto, allora. Dopo un banale scambio di battute sul tempo mite e la quiete serale, Franco, così si chiamava lo stradino, che identificavo come tale, perché l’avevo visto con la pettorina gialla, mentre spazzava il viale, fece alcune battute sul proprietario del bar. Entrambi si intendevano su alcune conoscenze del quartiere, e allora io dissi della donna bionda, Gianna, che avevo visto in moto. Ah, una vampata di capelli rossi! commentò Lorenzo, forse parlavamo di donne diverse. Franco non disse nulla, dopo un po' mi congedai da loro, e tornai a casa. Ero il forestiero divenuto di casa, una casa dove avvenivano, in verità, strane sconcertanti situazioni, come quelle della porta grigia.
TRA LE SUE BRACCIA Alla fine, mi decisi, e telefonai per chiedere un incontro con il dottor Franceschetti, mi rispose una voce femminile, dicendo che il dottore era in partenza per la villeggiatura al Circeo; quindi, poteva fissare una data alla fine di settembre o ai primi di ottobre. Colsi la palla al balzo: “Prima del 30 ottobre, se possibile.” L’altra sembrò sollevata: “Ah! Vediamo, Il 30 ottobre è un giovedì, lei ha detto prima?” Confermai: “Sì.” Consultò il calendario: “Ci sarebbero martedì 28 oppure giovedì 23.” Il tempo di riflettere, poi dissi: “Il 23 andrebbe bene, comunque se crede anche il 28 va bene.” Controllò, poi disse: “Giovedì 23, alle dieci o alle dodici.” Scelsi tra me, quindi dissi: “Mezzogiorno, signora.” Confermò: “Giovedì 23, alle dodici, mi dice il suo nome?” “Pierfrancesco Menardi.” La donna mi chiese se fosse il primo appuntamento, dissi di sì, e poi mi chiese anche la data di nascita: “Il 30 ottobre 1982.” Sentii che sorrideva: “Ah, ecco, il giorno del suo compleanno!” Disse che mi avrebbe registrato sul loro database, quindi concluse: “La prego di confermare una settimana prima.” Tacevo. “Signore?” Sentii che mi chiamava. “Sì?” risposi. “Dicevo di una sua conferma, almeno una settimana prima dell’incontro.” “Oh, certo!” “D’accordo, signor Menardi, giovedì 23 ottobre, alle dodici. Mi raccomando.” Quindi, arrivederci e grazie, come da saluti di prammatica. La comunicazione era finita. Il 30 ottobre era il mio compleanno, non ci avevo mica pensato, o meglio questo pensiero era rimasto sullo sfondo, quando mi era arrivato il messaggio della fine del contratto. E ora mi chiedevo che significato avesse quel termine di scadenza. Uno scherzo di cattivo gusto di chi conosceva la mia data di nascita, e chissà perché pensai ad Asmodeo, il defunto signore della casa. Ma se era morto? Quindi, rimaneva la vedova, non il notaio che mi aveva messo alla porta. Si preparava un acquazzone estivo, il cielo si era scurito, mi affrettai verso casa, e feci appena in tempo, quando arrivarono i primi goccioloni, un lampo, il tuono vicinissimo, entrai nel portone e salii al quarto piano. Nella penombra, davanti all’ingresso, in attesa c’era lei: Esmeralda Pérez de Araciel. Non distinguevo bene l’espressione del suo viso, aprii la porta, e sulla soglia, le presi un braccio e la trascinai dentro, o meglio lei entrò senza fare resistenza, mentre allentavo la presa.
Qualche tempo dopo, avevo ormai deciso e stavo per telefonare alla segreteria del dottor Franceschetti, per disdire il mio appuntamento, quando fui raggiunto prima da una telefonata: “Pronto, il signor Menardi?” “Sì?” “Sono Franceschetti, mia moglie l’ha invitato nella nostra villa al Circeo.” “Non so.” “L’invito è stato recapitato a casa sua, dovrebbe essere già nella sua cassetta postale.” “Controllo subito.” “Sono convinto che verrà a trovarci, signor Pierfrancesco.” “Pier” dissi. “Io, Leo, a presto, Pier.” “Arrivederci.” “Di nuovo.” Aveva chiuso la comunicazione, rimasi a guardare il telefonino. Io sono uno che si lascia subito convincere, mi abbandono alla corrente, che mi trascina via. Dove? Da Esmeralda, una nuova amicizia? No, la scoperta di un amore. L’ultimo? Forse. Chi mi aveva mandato il messaggio di scadenza del contratto? Quale contratto? Un patto matrimoniale? Esmeralda cadde dalle nuvole: non mi aveva mandato nessun messaggio del genere, mai. “Ma tu conosci i Franceschetti?” “Sì, per Asmodeo.” “Ci hanno invitati al Circeo, la prossima settimana, tu vieni?” Mi sembrò contrariata, ragionavo ancora come se fossi solo. “Dicevo, ti fa piacere?” Non rispose. E che doveva dire? Mi aveva già detto tutto. Il cerchio si era chiuso, l’anello mancante era Asmodeo, ed io l’avevo sostituito, in breve tempo. Ma dove era stata Esmeralda in quel breve tempo, dalla scomparsa del suo defunto consorte al mio subentro. Gelosia? Sì, un po', lo riconosco, con la vedova era stato un colpo di fulmine al primo sguardo, nella camera ardente. Ecco la spiegazione del lampo gelido dello sguardo del morto, ed ecco perché nessuno l’aveva visto, tranne me. Ma non l’avevo immaginato, non era un fatto inverosimile? Sì. Allora, era una mia invenzione. È una contraddizione? Certo, ma nella nostra esistenza non ci sono tante contraddizioni? “Asmodeo era geloso?” Avevo posto la domanda, appena rientrato in casa, subito dopo aver ripercorso mentalmente, durante il tragitto di ritorno, il breve scambio di battute avuto con lei il giorno prima, sull’invito ricevuto da Margherita Franceschetti. Non avevo però domandato della sua assenza, ecco era stata lei ad assentarsi dalla casa. E adesso volevo sapere, per quel vuoto di tempo, che non avevo passato con lei, una leggera malinconia per quello che non era stato o gelosia? Un misto di entrambe. “Come sto?” Non aveva risposto alla mia domanda, si stava guardando nello specchio a muro, quello della porta grigia, che avevamo rimosso, e ora si era voltata verso di me. “Bene” dissi. “Bene?” rispose con aria di finto rimprovero, avanzando verso di me. “Benissimo” feci in tempo a correggermi, prima di finire tra le sue braccia. Una scia blu attraversò la stanza come un lampo alle mie spalle, non la vidi, né avvertii l’odore sulfureo che l’accompagnava, non potevo, lei mi stringeva tra le braccia. “Asmodeo è morto” mi sussurrò all’orecchio. Io sono vivo, non lo dissi, lei lo sapeva già. La scadenza era il 30 ottobre, avevamo tutta l’estate davanti, avevo firmato un patto con il diavolo. Quando e come? Ma non ho finito di raccontarlo e spiegarlo adesso?
LA SCRITTURA DEL SOGNO Quando Esmeralda salutò Ludovica Morelli, una giovane donna dai capelli biondi, che avevamo incrociato sotto il portone di casa, io le domandai chi fosse, lei rispose: “Ludo, la figlia di Daniel Morelli, un coinquilino del nostro condominio.” Era andata in crociera nel Mediterraneo con lei ed altri conoscenti. “C’era anche il padre?” “No, c’era un suo amico, Sergio, ed altri. Io ero sola.” Disse che aveva progettato il viaggio con Asmodeo, una crociera in Spagna, Nordafrica, Sicilia, poi il marito si era ammalato ed era morto. Quando aveva saputo da Ludo della crociera si era aggregata. “Avevo dei piccoli risparmi.” Tacque mi guardò, poi disse: “I soldi della casa sono per Joaquin” “Sono contento” dissi. Mi baciò, e mi fece vedere la foto sull’iPhone di un giovane riccioluto, leggermente grassottello. “È alto un metro e novanta ed è molto robusto.” “Come il padre?” Interrogai. “Sì, il padre era alto come lui, ma più magro, biondiccio.” Mi spiegò, Esmeralda, che erano molto giovani, lei aveva diciassette anni, lui era un sergente ventenne, era poi partito per l’Africa, in Mauritania, e non si era più visto. Il nonno, un britannico, si era arruolato nella Brigata Internazionale, durante la Guerra Civile, ed era morto. Joaquin viveva a Londra, faceva parte del personale di servizio all’Hilton di Paddington e studiava Economia all’Università. I soldi della casa, che mi aveva venduto, servivano a sostenerlo negli studi e nella sua vita futura. Ottimo! Io ero diventato il signore della casa, lei era tornata ad essere la signora della casa, e per ristabilire il quadro, mancava solo il maggiore dei domestici, il maggiordomo, ma io non ne sentivo la mancanza, per ora, per un domani non so. Avevamo rimosso la porta grigia, che copriva lo specchio a muro, e che era stata voluta da Asmodeo, non perché fosse geloso o irritato dalla moglie che perdeva troppo tempo a specchiarsi: infatti, per farlo, non bastava aprire la porta? Certo, e allora? Aprendo la porta d’ingresso, si rifletteva di giorno la luce del sole, di notte l’illuminazione del pianerottolo e il riflesso feriva lo sguardo, distorcendo le immagini. Così diceva Asmodeo, ed era vero, anche se Esmeralda non sembrava dello stesso parere. Infatti, quando la porta fu rimossa, lei si mise davanti allo specchio e mi domandò: “Ti sembra un’immagine storta?” “Sei meglio dal vivo.” Si voltò ridendo, in quel momento la porta d’ingresso alle nostre spalle era chiusa, mancava l’abbaglio, e devo dire che quella penombra favoriva meglio una certa complicità. Ora, stavamo preparandoci per il week-end dai Franceschetti. “Ma io non ho bisogno di un incontro con l’alienista.” Dissi d’un tratto. Lei mi guardò interrogativa: “Sono amici.” Perché Franceschetti mi voleva nella sua cerchia di amicizie? Pensai, ma non lo dissi. Trascuravo Esmeralda, che peraltro lui conosceva. Veramente, no. Conosceva il defunto marito come suo paziente, lei forse l’aveva solamente accompagnato.
Ad ogni buon fine, trascrissi il mio sogno egizio sull’iPhone, e lo mostrai a Esmeralda, che lo guardò appena senza leggere, l’avrei mostrato a Franceschetti, l’amico Leo. “La donna entrò in camera, adesso in penombra, si avvicinò al letto dove ero steso, si chinò vicinissima al mio volto, volevo sollevare la testa per baciarla sulle labbra, ma non ci riuscii, “Asmodeo”, sussurrò lei e si allontanò da me. Ero nel sito archeologico dell’antico Egitto, e mi trovavo all’interno della piramide di Cheope, vidi una figura femminile venirmi incontro. Era strano, ma quella donna nell’ombra era come se indossasse un poncho, quello dei gaucho argentini, che le scivolava lentamente, quasi a rivelare un seno enorme. [Mi voltai, ed ebbi la sensazione di stare in un recinto per pecore.] Aprii gli occhi, nella stanza filtrava ancora la luce del sole. Avevo sognato, ma che cosa avevo sognato? Chi erano quelle figure del mio sogno?” Adesso sapevo chi erano, la scrittura del sogno mi aveva rivelato il suo significato e indicato chi fossero quelle figure. Ma era proprio così? O vi era un qualche segno non ancora decifrato da questa mia scrittura? Come sciogliere questo dubbio? Era questo il motivo, per cui tornavo a pensarci, a spiegarmi particolari. Se le figure che nel sogno vengono a visitarci sono la condensazione in un’unica persona sconosciuta di più persone o personaggi da noi conosciuti, una tale immagine psichica può rivestire diversi significati, come nel mio caso. Io ero sicuro che la figura femminile chinatasi vicinissima al mio viso, suscitando il mio desiderio di baciarla sulle labbra, fosse quella che allora conoscevo come la signora della casa, come dire Esmeralda. Ma poi mi resi conto che quella rappresentazione che da regista avevo messo in scena nel mio teatro onirico personale aveva una diversa valenza. E avevo fatto questa scoperta un attimo prima dell’incontro con l’amico Pietrangelo Lo Turco. Ma perché tornavo a pensarci, visto che avevo poi realizzato il desiderio, peraltro irrealizzato nel sogno? Perché quel bacio mancato non era da attribuire a Esmeralda, ma ad una sconosciuta ragazza moscovita di tanti anni prima, una ventina. In una delle gallerie dei grandi magazzini GUM, un imponente palazzo dall’architettura barocca, che occupa un lato della Piazza Rossa e sta di fronte al Cremlino, mi ero seduto al tavolino di un caffè, e venne una giovane a richiedere l’ordinazione. Si piegò con il viso su di me, fin quasi a sfiorarmi le labbra, l’espressione gioiosa, bastava sollevarmi di un soffio e l’avrei baciata. Se l’aspettava? Non lo so. Mi provocava? Certo. Sapevo di questa usanza dei russi di baciarsi sulla bocca, ma era un segno di pace tra i Capi di Stato, come appariva in certe gigantografie storiche esposte in pubblico, e come si poteva vedere in televisione, ricordo Kruscev sbarcato dall’aereo in Jugoslavia che baciava Tito. Ma avevo visto questa stessa scena del bacio sulla bocca tra due anziani barboni sulla pubblica via, lui si era avvicinato e l’aveva baciata, lei era rimasta estasiata. Io non ero un anziano barbone né un Capo di Stato, in effetti temevo di essere notato, perché eravamo in pubblico, ed era proprio per questo che la giovane servente se la rideva. Ma nel mio sogno egizio, questa scena l’avevo sognata o ricordata al risveglio? Ora ho un dubbio, comunque, apparteneva alla descrizione del mio sogno, e nel mio sogno, meglio nella sua descrizione da parte mia, c’era anche quel bisbiglio: “Asmodeo”.
“Il mondo è pieno di oscuri derelitti. Al meglio – i Marulli dell’antica Roma lo sapevano – viene il momento del ritiro dignitoso e onorevole, non drammatico, non il castigo per sé o per la famiglia – solo un addio, un bagno caldo e una vena aperta.” John Steinbeck, “L’inverno del nostro scontento.”
Aveva piovuto durante la notte, al mattino aveva smesso, ma il cielo era nuvoloso, l’aria grigia, ci stavamo preparando per andare al mare, non era la giornata adatta, e poi era venerdì. È un giorno poco raccomandabile, perché secondo la Cabala è quello in cui sono stati creati gli spiriti maligni. D’altra parte, però, il venerdì è il giorno di Venere, la dea dell’amore, e quindi favorevole a lieti eventi, come le nozze. Noi non stavamo partendo per il viaggio di nozze, anche se in un certo senso lo era, era il primo nostro viaggio insieme, quindi: “sposa bagnata, sposa fortunata”. Infatti, mentre stavamo salendo in macchina già pioveva, ed Esmeralda stentava a non bagnarsi, coprendosi i capelli con la borsetta. E gli spiriti maligni? Ma è solo superstizione, mentre per la sposa bagnata non è così, è soltanto un segno di buon auspicio. Ah, ecco! Partimmo, la pioggia aumentò, divenne un acquazzone, come può accadere nei primi giorni di luglio. Accendemmo la radio, musica classica. Arrivati a San Felice, seguimmo le istruzioni, per giungere al villino dei Franceschetti. Esmeralda telefonò un paio di volte, con il viva voce, per chiedere migliori indicazioni, affinché sentissi anch’io. Rispose una voce femminile, riconobbi l’accento, e lo dissi, Esmeralda mi chiese se avessi capito quello che lei aveva detto. Certo, la prima a sinistra, e dopo la curva, a destra, lasciando il lungomare. Osservavo la linea delle spiagge: sulla riva, la schiuma delle onde assecondava l’impeto del vento, il cielo era grigio, piovigginava, in breve arrivammo all’indirizzo indicato. Non era una giornata di mare, rimanemmo sul terrazzino, sotto la tenda da sole, che riparava anche dalla pioggia, per un aperitivo poco alcolico. Non volevo iniziare un discorso sulle attività psichiche e spingere l’amico Leo a parlare dei suoi argomenti professionali, mi sembrava indelicato. Margherita ed Esmeralda erano andate in cucina, ed io ero un po' imbarazzato nella mia veste di nuovo compagno di una vedova, visto che entrambi i coniugi di casa conoscevano Asmodeo, scomparso da poco. Le occasioni mondane servono forse proprio a superare gli imbarazzi su certi assortimenti di coppie, come esse vogliono apparire in pubblico. In effetti, non era chiaro quale fosse il vero intendimento di Franceschetti nel volermi conoscere da vicino, visto che la nuova coppia formatasi poteva certo interessarlo sotto il profilo psicologico e sociale, ma il suo obiettivo era un altro, e questa era la mia sensazione. Al pranzo sarebbero intervenuti anche una giovane cugina della moglie con l’amico, Margherita l’aveva annunciato al telefono, mentre io guardavo il mare. Noi avevamo portato una cassetta di vini in dono, pensando che il regalo si rivelasse opportuno, e così fu. “Vini italiani” precisai, quando l’ospite accolse l’omaggio.
Ed ora, all’aperitivo, Franceschetti ebbe l’occasione di ascoltare, su mio input, un discorso sul mio soggiorno americano e il conseguente business. “Un long drink,” dissi, commentando i cocktail che Margherita aveva servito. “La versione americana di una buona abitudine europea,” commentò Leo. Allora, mi decisi e iniziai il mio racconto, spiegando che avevo ricevuto in eredità, alla morte di mia madre, una buona parte delle quote sociali di un’azienda di produzione del rayon, una fibra per tessuti artificiali, con la fabbrica principale a Rome, nella Stato della Georgia, USA. E non mancai di dare qualche notizia sulla storia della città. L’area in principio era occupata dalla tribù indiana dei Creek e poi dei Cherokee. Costruita nel 1834 da coloni europei e americani su sette colline, alla confluenza dei fiumi Etowah e Oostanaula, che formano il fiume Coosa, per questa sua caratteristica, i fondatori decisero di chiamarla come la capitale dell'Italia. “Come i Marulli dell’antica Roma” aggiunsi, in maniera non del tutto asintattica. Franceschetti mi guardava attento, pronto a cogliere ogni mia parola, ed ora tacevo per dargli occasione d’intervenire, ma non intervenne. Allora parlai ancora: “Per Marullo, il denaro non ha cuore.” L’alienista s’illuminò in volto: “È l’inverno del nostro scontento,” disse. Poi, voltandosi verso l’esterno del terrazzo, dove ora pioveva forte, aggiunse sorridente: “fatto estate radiosa da questo sole del Circeo.” Non si poteva negare, il mio attento e colto interlocutore, aveva ricostruito la logica del discorso, ricostituendo la sintassi violata nella sua ironica parafrasi della citazione di Shakespeare, da cui Steinbeck aveva tratto il titolo del suo romanzo. Marullo, il contraltare di Ethan, il protagonista negativo della storia, è un emigrato italiano, la cui vita è lo specchio della legge americana della sopravvivenza, come recitano i versi Emma Lazarus: “Give me your tired, your poor, your huddled masses yearning to breathe free, the wretched refuse of your teeming shore. Send these, the homeless, tempest-tossed to me, I lift my lamp beside the golden door!” "Datemi le vostre stanche, povere masse infreddolite, desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre sponde brulicanti. Inviatemi costoro, i senza patria, sbattuti dai marosi, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata." “Prima di emigrare, imparò le parole che stanno sul piedistallo della Statua della Libertà. Aveva imparato a memoria la dichiarazione di Indipendenza, nel suo dialetto. La Carta dei Diritti, parole di fuoco. E poi non poté entrare. E allora è venuto lo stesso, un brav’uomo gli diede una mano, gli prese tutto quello che aveva e lo lasciò sulla risacca. Raggiunse la riva a piedi. Gli ci volle del tempo per imparare come vanno le cose in America, ma lo imparò, lo imparò eccome. Bisogna fare la grana. Questo è il punto primo! Lo imparò, non è scemo. Stette attento al primo punto.” Stavo per commentare il passo del romanzo, che avevo citato, quando si svela l’inganno tramato da Ethan, il commesso del negozio, nei confronti del proprietario, l’emigrato siciliano Marullo, e poi quello finale del tentato suicidio del protagonista: “Il mondo è pieno di oscuri derelitti. Al meglio – i Marulli dell’antica Roma lo sapevano – viene il momento del ritiro dignitoso e onorevole, non drammatico, non il castigo per sé o per la famiglia – solo un addio, un bagno caldo e una vena aperta.” – e proprio allora suonarono al campanello di casa. Era l’arrivo degli ospiti attesi, Franceschetti si alzò per andare in salotto incontro ai nuovi venuti, ed io lo seguii. Il discorso era stato interrotto, non ero riuscito a concludere di essere rientrato a Roma, solo quando avevo regolato i miei affari in America. E forse era stato meglio così.
UN LADRO INVISIBILE La cugina di Margherita era una ragazzetta minuta con i capelli neri, accompagnata da un giovane più alto di lei, un napoletano dall’aria disinvolta e dall’eloquio facile. Lei andò a salutare la cugina in cucina, noi restammo a parlottare in piedi sulle condizioni del tempo. I due giovani venivano dalla loro casa estiva di Terracina, e come disse lui, si chiamava Tommaso, avevano portato il sole. Infatti, aveva finito di piovere, il cielo si era schiarito ed era spuntato un raggio di sole, timido, tra le nubi. La tavola fu imbandita dentro casa, anche se l’ampio terrazzo, dove avevamo preso l’aperitivo, era il luogo programmato, ma il tempo era incerto. Stavo per prendere la parola, mi premeva di parlare dell’America, degli affari e dei dollari, volendo dare assicurazione all’alienista, che mi aveva preso in cura, di essere un buon pagatore per le sue parcelle. Come avevo già detto, io sono un tronco d’albero che si lascia portare via dalla corrente. Non avevo fatto in tempo a disdire il mio appuntamento con il medico, ma quello mi aveva già preso in carico. Ed ora? Parlava Tommaso, lui era medico, avevano finito da poco il viaggio di nozze in America con Claudia, eccolo là, diede uno sguardo tenero alla mogliettina, ed ora continuavano le vacanze al mare per il mese di luglio, poi ad agosto al lavoro. Continuò a parlare del viaggio: New York, Chicago, la California, il Messico, Acapulco, Montezuma, ed avrebbe continuato con la storia degli Aztechi, la civiltà Maya, l’occupazione spagnola, fino ad arrivare alla storia recente, se non fosse stato interrotto da uno squillo del telefonino della moglie. Tutti ascoltammo in silenzio: “Un cadavere?” La ragazza aveva chiesto dov’era. A Sezze, va bene adesso veniamo, chiuse. Si alzarono, stavamo ancora alle pietanze, Tommaso finì di bere il calice di vino: “Torniamo appena finito,” disse. La moglie prese la borsetta, frugò un attimo dentro, poi entrambi si allontanarono. “È un medico legale?” domandai. “No, è specializzato in cardiologia,” precisò Franceschetti. “Claudia è il vicecapo della squadra mobile di Latina” disse Margherita. Ah, ecco! La ragazza era un commissario di polizia. Ma non erano in ferie? “Viene chiamata anche quando è in ferie” disse lei. Anche in America? Domandai, ridendo. “Ci hanno provato” disse lei. Non so perché, pensai al messaggio anonimo ricevuto sulla mia scadenza del 30 ottobre. Almeno, non vivevo nell’incertezza, avendo in questo senso un termine, ma l’imprevisto è dietro l’angolo, da un momento all’altro.
“Momento to moment” dissi, e iniziai a parlare della mia America, quella dei Marulli, non quella dei turisti, quella che si regge sullo spirito del capitalismo, fondato su un’etica protestante d’impronta luterana e calvinista, come teorizzato da Max Weber sul suo saggio, che connette i due temi. “Considera che il tempo è denaro… Considera che il credito è denaro… Considera che il denaro ha una sua natura feconda e fruttuosa… Considera che secondo il proverbio, chi paga puntualmente è il padrone della borsa di tutti… Un uomo deve tenere conto delle azioni più irrilevanti che pure influenzano il suo credito… Chi spreca tempo per il valore di cinque scellini, perde cinque scellini, e tanto varrebbe che gettasse cinque scellini nel mare. Chi perde cinque scellini, perde non solo tale somma, ma tutto ciò che avrebbe potuto guadagnare, impiegandola nella sua attività, il che ammonta a una cifra veramente rilevante, se si tratta di un giovane che giunge a tarda età.” Chi è che ci fa questa predica? La mia domanda, che era quella desunta dal testo di Weber, la posi in modo retorico. È Beniamin Franklin, rispose a sorpresa Franceschetti. Ecco! L’alienista non poteva non conoscere il saggio di Weber: “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.” Quindi aggiunse: “È la predica che Ferdinand Kürnberger, lo scrittore austriaco, un rivoluzionario del 1848, schernisce come la pretesa della professione di fede degli Yankees, in quella sua immagine della civiltà americana che sprizza intelligenza e veleno. Ma Weber va oltre nella sua disanima.” Avevamo appena finito di pranzare, quando a sorpresa si ripresentarono gli sposini. C’era stato un equivoco: si trattava di un morto nel giardino di casa, un anziano cardiopatico colpito da infarto. I giovani coniugi si erano seduti nuovamente a tavola, per concludere il loro pranzo, così inopinatamente interrotto. Noi facevamo loro compagnia sorseggiando il caffè. La morte può arrivare di nascosto come un ladro, disse il medico, facendomi venire in mente un romanzo che avevo letto di recente: “Morte di un professore di zoologia”. “Sì, è vero” dissi “un ladro invisibile.” E raccontai in sintesi il passo del libro, che poi andai a rileggere. Sono le battute di un dialogo tra due protagonisti di un mimo, che vivono il loro racconto, ambientato nell’occasione a Parigi.
“Secondo il decreto della Prefettura di polizia i cadaveri di persone non identificate vengono ricoverati qui. Ed invero, se risaliamo all’origine del termine morgue, troviamo il verbo “morguer”, che significa dévisager, guardare in faccia, secondo la procedura eseguita dai guardiani della prigione di Châtelet incaricati di identificare all’arrivo i detenuti, onde riconoscerli in caso di tentativo d’evasione. Nel Settecento, i cadaveri rinvenuti in strada venivano raccolti ed ammucchiati nei sotterranei, sempre della prigione di Châtelet. Lì si presentavano familiari ed amici per il riconoscimento, alla luce di una lanterna portata all’altezza del viso dei cadaveri. Nell’Ottocento, la morgue viene trasferita alla île de la Cité, e i cadaveri, dopo essere stati composti e rivestiti, venivano messi in esposizione dietro un vetro, alla vista della popolazione, che veniva a sfilare lì davanti, onde tentarne una identificazione o anche per semplice svago. Hai capito, Decio Livio? Mi senti? Decio! – Eh? – Hai finito? – Sì, ora esco. - Ah, eccoti! Allora, apri bene le orecchie, Decio Livio: la tecnica di esporre i cadaveri in pubblico rendeva sovente possibile alle autorità l’arresto dei criminali, che discretamente venivano ad osservare i loro “trofei”. – Traseo Nera, ma chi ti ha raccontato tutte queste cose? – Sono notizie facilmente reperibili su internet. – Ah! – Entriamo, dunque, nella camera mortuaria ad osservare il nostro “trofeo” di caccia: Palleschi. – Sei sicuro, Nera, che oltre alla salma, dentro, non vi sia qualcun altro ad attenderci? – Sicurissimo. – Ed allora sicuramente ci sarà qualcun altro. – Sì, un’entità impalpabile, che non si vede. – Come? – Decio, quando hai compiuto la traversata della città addormentata, volando tra anime di tenebra vestite, come tu stesso ti sei espresso, nel nostro incontro ai Campi Elisi, anticipando il tuo itinerario nella notte profonda, chi era con te? –Nessuno mi seguiva, Nera. – Sei sicuro, Livio? – Sicurissimo. – Ed allora qualcuno certamente ti seguiva, quello stesso che ora ci attende, oltre la porta della camera mortuaria. – Chi, dunque? – Entriamo. – Oh! – Hai visto? – Sì, ma avviciniamoci al tavolo di marmo, Nera, per potere meglio osservare la salma ivi distesa, illuminata dalla bianca luce della luna, che attraverso il vetro della finestra, schiarisce il buio. – Riconosci il suo volto, ora, Decio Livio? – Sì, è lui, Palleschi, il professore di zoologia del liceo Darwin: la corporatura robusta, il volto un tempo pieno, le gote arrossate ora pallide, il bianco striato di grigio cenere della capigliatura crespa, la barba canuta intorno al mento, i folti baffi argentei. – Qui giunto cadavere. – Chi l’assassino, Nera? – Il medico legale, che ha compiuto l’autopsia del cadavere, ne ha osservato a lungo il cuore, estratto dal petto, rigirandolo perplesso tra le sue professionali mani di esperto chirurgo. – Ed il cuore ha parlato? – Sì, ha rivelato il nome del suo assassino.” Ero arrivato alla fine del mio racconto, mancava il sigillo finale. E il verdetto non lo emise il medico legale del racconto, ma Tommaso, il cardiologo, che a tavola era comunque rimasto ad ascoltarmi attentamente assieme alla moglie: “Il killer silenzioso” disse. Un’istantanea, lo scatto di una fotografia: “Un click” disse Claudia, il commissario di polizia. Nessuno di noi commentò.
IL SANGUE E LA FIAMMA Il giorno dopo, finalmente una vera giornata di sole estivo, caldo, andammo in spiaggia, ancora umida. Presto ci raggiunsero i giovani Tommaso e Claudia, che erano ritornati la sera a Terracina, mentre noi eravamo stati alloggiati al piano superiore della villetta, una stanza con servizi autonomi. Io avevo sognato, la notte. Avevo ricordi confusi, avvertivo come l’eco di uno scatto, un click, che associavo alla data del 30 ottobre, come un oscuro presagio. Poi mi resi conto che d’un tratto, nel buio, mi ero svegliato e avevo acceso la luce della lampada sul comodino, un click, e poi l’avevo spenta. La lampada accesa e la lampada spenta coesistono. Dove? Nelle immagini della mente di chi le pensa entrambe come eterni: la vita e la morte. “Il fulmine governa ogni cosa”, il frammento di Eraclito, fatto scolpire da Heidegger all’ingresso della sua baita, nella Foresta Nera, viene commentato così da Gadamer: "Der Blitz steuert alles!" “Pensiamo all’esperienza del fulmine, là dove essa appare in tutta la sua potenza, nella notte. Nel giro di un istante tutto si fa visibile nella luce più abbagliante, per inabissarsi, un attimo dopo, in una notte ancora più profonda.” È il lampo improvviso (fulmineo) che squarcia le tenebre e per un istante lascia vedere tutte le cose come se fosse giorno, il repentino risveglio della coscienza. “Perché hai acceso la luce, stanotte?” mi aveva chiesto Esmeralda, un po' dopo che c’eravamo svegliati. Non avevo risposto, cercavo di cancellare dai miei pensieri il tema semantico della filosofia: la verità come disvelamento, uscendo dall’oscuramento. “Ma stai ancora dormendo? Svegliati.” Ho afferrato il braccio nudo di Esmeralda, cercando di attirarla dalla mia parte. “Stai fermo! E sbrigati, che dobbiamo andare in spiaggia.” Certo, i modi scontrosi della mia compagna, che si era liberata dalla stretta, colpendo con un pugno la mia mano. “Tu, la sera non devi mangiare e bere troppo.” È vero, ma non avevamo quasi cenato, prima di andare a dormire, non erano dovuti a cattiva digestione i miei notturni incubi, o forse no. “Hai fatto brutti sogni,” concluse. Ma come faceva a saperlo? Ti dormiva accanto! Io, allora, quando avevo acceso con un click la lampada sul comodino, l’avevo svegliata nel cuore della notte? È ovvio. Andai in bagno, mi guardai allo specchio, per radermi la barba, e rividi la scena di qualche tempo prima in un museo di Milano. Avevo infilato gli occhiali, per leggere la dicitura sotto la targhetta di una scultura di Emile Claudel, e nel richiuderli dopo essermeli tolti, si avvertì in sala un secco rumore metallico: un click. Una giovane sorvegliante coni i capelli biondi lunghi arricciati si voltò verso di me, “buia” in volto, e con aria brusca mi disse che era vietato scattare fotografie. Subito, senza scompormi, le mostrai l’origine di quel suono singolare, procurato dalle stanghette metalliche degli occhiali. La giovane, allora, “s’illuminò” e con il più dolce dei suoi sorrisi cercò di rimediare in mio favore, che dopotutto ero un visitatore pagante.
Ma perché racconto questo fatterello di un semplice click, che fulmineo può produrre il buio e la luce, la vita e la morte. Non alludevo al museo in quest’ultima enunciazione dei contrari, ma al commento del giorno precedente di Claudia, il commissario di polizia. Il click di un grilletto è assimilabile a un clic dei leoni di tastiera? Sì, certo, cambia solo l’effetto reale rispetto a quello virtuale, come dire, in maniera analoga, la stessa differenza tra la realtà della vita e l’illusione del sogno. Ecco, il sogno, dovevo prepararmi a parlarne in spiaggia con Franceschetti, l’amico Leo. Eravamo seduti, io e l’alienista, su sedie a sdraio con lo schienale rialzato, sulla riva Esmeralda e Margherita in piedi parlottavano tra loro, le gambe nell’acqua, più avanti scherzavano tra le onde leggere Tommaso e Claudio. Era il momento atteso, allungai l’IPhone all’amico su cui avevo trascritto il mio sogno egizio, Franceschetti lo prese e fissò lo schermo, sembrava che non leggesse, perché rimase immobile. Poi così disse, mentre me lo restituiva: “Alla domanda del suo intervistatore, Oscar Ferrari, che aveva ricordato a Borges la sua osservazione sui sogni – avere identificato l’atto di scrivere con quello del sognare – lo scrittore argentino aveva replicato: “Sì, e anche l’atto di vivere con quello del sognare.” Avevo ripreso l’iPhone da Franceschetti, che nel riconsegnarmelo, aveva dato il suo responso. Ma aveva letto il mio breve testo, quelle righe che io ora fissavo e rileggevo? “La donna entrò in camera, adesso in penombra, si avvicinò al letto dove ero steso, si chinò vicinissima al mio volto, volevo sollevare la testa per baciarla sulle labbra, ma non ci riuscii, “Asmodeo”, sussurrò lei e si allontanò da me. Ero nel sito archeologico dell’antico Egitto, e mi trovavo all’interno della piramide di Cheope, vidi una figura femminile venirmi incontro. Era strano, ma quella donna nell’ombra era come se indossasse un poncho, quello dei gaucho argentini, che le scivolava lentamente, quasi a rivelare un seno enorme. [Mi voltai, ed ebbi la sensazione di stare in un recinto per pecore.] Aprii gli occhi, nella stanza filtrava ancora la luce del sole. Avevo sognato, ma che cosa avevo sognato? Chi erano quelle figure del mio sogno?” Sì, l’aveva letto, e per associazione di idee – l’Argentina, i gaucho – aveva citato Borges, non solo, ma subito aggiunse: “Michel Foucault, sulla scia dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger, dà del sogno un’interpretazione antropologica, in opposizione a quella psicologica di Freud, un’interpretazione esistenziale, non memoriale.” Qual era il senso concreto del mio sogno? “Il tuo sogno, caro Pier, è bifido, vi sono due presenze femminili nelle tue immagini notturne, che indicano due percorsi differenti, la necessità di una scelta.” Franceschetti aveva espresso il suo giudizio e anche indicato una traccia, un modello astratto: “Il sogno è la realizzazione del desiderio (Freud), ma come sogno è appunto desiderio non realizzato, soltanto un’allucinazione (Foucault).” In seguito, avrei approfondito il tema, consultando il saggio scritto in proposito dall’amico alienista: “Il sangue la fiamma”. Ci alzammo, per andare a raggiungere sul bagnasciuga le nostre consorti. Io ne approfittai, per tuffarmi in acqua e cominciare a nuotare in direzione della linea d’orizzonte del mare.
“Il sangue è lo spirito liquido della vita”, Jung, “Seminari Zarathustra”, Terza Conferenza, maggio ‘35. “Il fuoco onirico rappresenta la bruciante soddisfazione del desiderio dei sensi”, Michel Foucault, “Introduction in L. Binswanger, Le rêve et l’existence”, 1994.
1. Il diavolo I due termini del titolo “Il sangue e la fiamma” sono rispecchiati nei due sostantivi citati in epigrafe: “esistenza” (sangue) e “sogno” (“fiamma”), e per essi si rimanda ad un apposito commento ai testi sull’argomento, rispettivamente di Foucault e Binswanger, integrati dal pensiero di altri autori: Freud, Jung, Hillman, con riferimenti ai classici antichi, principalmente Platone e Aristotele, nonché ad altre fonti. Intanto, possiamo dire che la narrazione della storia di finzione è attraversata da due temi principali: il diavolo e il sogno, con la preponderanza di quest’ultimo. Lungo lo svolgimento del racconto, s’incontrano però anche altri argomenti secondari, in ragione della scala di importanza che ad essi viene assegnata nella narrazione. Si tratta comunque di una limitazione soggettiva, imputabile a me come autore, non corrispondente però al loro oggettivo gradiente di rilevanza nelle attività discorsive dei linguaggi della letteratura, della filosofia, della scienza e di altre dottrine. Scansionando il testo, s’incontra in primis il diavolo: di che diavolo si tratta? “Le diable dans l'âme”. Eh? Diamo spazio per la risposta all’IA: “Un synonyme de "le diable dans l'âme" pourrait être "une part d'ombre dans l'esprit" ou "une influence maléfique intérieure". On peut aussi utiliser des expressions comme "un démon en soi" ou "un penchant pour le mal" pour traduire l'idée d'une présence malveillante dans la conscience d'une personne.” E perché siamo scivolati nella lingua francese? Perché Ketty, la protagonista che inaugura il racconto, è francofona. Infatti, apprendiamo che Catherine De Backer, cinquantaquattro anni, una donna di età adulta, è originaria di Liegi, la prima area urbana della Vallonia, terza del Belgio, dopo gli agglomerati di Bruxelles e Anversa. Ah, ecco! Comunque traduciamo in italiano la definizione dell’IA, riconoscendo in questo strumento dell’era digitale un carattere interlinguistico. “Un sinonimo di “le diable dans l'âme"– letteralmente, il diavolo nell’anima – potrebbe essere “una zona d’ombra dello spirito” o “un’influenza malefica interiore”. Si possono usare anche espressioni come “un demone dentro di noi” – “Demon en soi" e "demonio in sé" sono espressioni che, nel contesto filosofico e religioso, si riferiscono all'idea di un demone come entità intrinseca o essenza, piuttosto che come un'entità esterna o un'influenza. In altre parole, si tratta della concezione di un demone come parte integrante della natura di una persona o di una cosa, piuttosto che come un'entità separata che agisce su di essa.” IA. – o un’inclinazione al male, per indicare l’idea di una presenza maligna nella coscienza di una persona. Et voilà! E su “le diable dans l'âme”, abbiamo detto quanto basta. Ma non su Ketty, perché?
Nello sgomitolare il filo del racconto abbiamo smarrito il personaggio, ed è un peccato, ma abbiamo dovuto seguire, meglio inseguire, la traccia di Asmodeo, diavolo biblico, e ci siamo distratti dalla storia di Catherine De Backer, di cui comunque avevamo tracciato uno schizzo con i tratti essenziali del suo profilo. C’era da inventare una seconda storia, per la seconda parte della sua vita, che non abbiamo ancora inventato. E non so se mai la inventeremo. Chissà! Forse la ritroveremo sotto altre spoglie in altri svolgimenti narrativi, in una diversa configurazione della realtà. E nel dire così, rivelo di essermi ispirato in quella sua figura, guardando a un modello reale, anch’esso però variabile, anche se in un certo senso sempre uguale a sé stesso, come le eterne Idee dell’oltre-cielo di Platone. E il mio modello si può dire sempre uguale a sé stesso, perché colto sub specie aetenitatis, in istanti presenti fuori dal tempo. Bon! Il diavolo, dunque, parliamo del diavolo, peraltro un demonio ben individuato con il suo proprio nome: Asmodeo. Subito, però, il mio diavolo perde il suo sembiante, quando si dissolve in un incubo dell’inconscio, e quindi gioca il suo ruolo tra la psicologia del profondo e la demonologia e il mito. Ed ora, mi sembra opportuno spiegare l’antefatto, che mi ha portato ad introdurre nel racconto il personaggio di Asmodeo, che non so se abbia – probabilmente no – un goethiano tratto mefistofelico. Nella continuità della mia attività di narratore, mi ritrovo sempre in flussi di ispirazione dovuti alle mie letture e studi, che poi risolvo in creazioni letterarie, più o meno riuscite per i miei gusti, o traduco in brevi commenti discorsivi su temi di dottrine prevalentemente filosofiche, e anche in argomenti di critica letteraria. In tale contesto, sono quindi influenzato dai relativi interessi del momento o da quelli immediatamente precedenti, coniugati con il magma culturale accumulato nel corso della mia vita. Prima di iniziare la stesura del testo narrativo in commento, avevo scritto un breve racconto: “Gusci d’uova”, in cui già comparivano il personaggio dell’alienista, il dottor Leonardo Franceschetti, e una ragazza, Ludovica, diminutivo Ludo, che fa una breve indiretta apparizione in “Il sangue e la fiamma”, all’inizio del paragrafo: “La scrittura del sogno”. “Quando Esmeralda salutò Ludovica Morelli, una giovane donna dai capelli biondi, che avevamo incrociato sotto il portone di casa, io le domandai chi fosse, lei rispose: “Ludo, la figlia di Daniel Morelli, un coinquilino del nostro condominio.” Era andata in crociera nel Mediterraneo con lei ed altri conoscenti. “C’era anche il padre?” “No, c’era un suo amico, Sergio, ed altri. Io ero sola.” Disse che aveva progettato il viaggio con Asmodeo, una crociera in Spagna, Nordafrica, Sicilia, poi il marito si era ammalato ed era morto. Quando aveva saputo da Ludo della crociera, lei si era aggregata.”
Nell’incipit di “Il sangue e la fiamma” Asmodeo viene presentato come un vicino di casa di Ketty, che da un loro incontro e da un commento sulle previsioni del tempo di quest’ultimo, suscita in lei una tipica reazione femminile, nel suo domandarsi chi fosse la consorte dell’uomo, e se tra i due era lei quella brava a indovinare (avere la capacità di conoscere il passato, il presente e il futuro): “Chi era l’indovina? La moglie del vicino, sicuramente. Avrebbe indovinato anche di quel giovane uomo, la chioma bionda, che ora dormiva tranquillo nel letto matrimoniale?” Ecco il diavolo, che per le loro consorti però è soltanto un uomo, con tutti i limiti che le donne attribuiscono ai loro uomini, almeno così Ketty, e in verità anche Esmeralda. Ma noi usciamo dalle banalità del quotidiano dei rapporti (scontati) tra uomini e donne, e ci addentriamo con spirito allegro verso i sentieri più occulti di strane diavolerie, tipo “La porta grigia”. E qui mi tocca fare un inciso, nel senso che mi è balenata una storia non raccontata su questa porta grigia, che avrebbe dovuto trovare un quadro narrativo di più ampio respiro, per essere raccontata, una storia rivelatrice di uno squarcio di pazzia, che forse aggiungerò a queste “Postille”, come una sorta di anomalo corollario. E devo dire che si tratta di un’anomalia bifida, abbiamo imparato il termine. Non è un corollario perché la storia non è un teorema, e comunque se lo fosse, sarebbe dissonante rispetto alla tesi del teorema: la figura di Esmeralda. E l’ipotesi? Gianna. Chi? Giovanna Finero. Ah! La dimostrazione è “Il sangue e la fiamma”? Sì. E le “Postille” il corollario? Certo. Anomalo, però. Indubbiamente, infatti in questa nostra narrazione tutto è anomalo, a cominciare da Asmodeo, diavolo terrorizzante e buffone. Questo Asmodeo, però, affonda le sue radici in sfuggenti personaggi, nominati Amedeo. Sono le contro figure di Asmodeo. No, sono personaggi anodini, come dire insignificanti, in verità no, sono personaggi che recano in sé significati di significanti. Come? Un’altra volta. Adesso parliamo del Thénardier dei “Miserabili” di Victor Hugo, come avevamo lasciato detto in scritti pregressi, scomparsi dal cerchio dell’apparire dei post del Blog, ma che noi richiamiamo sempre nello stesso cerchio dell’apparire: “Quando scrivo un mio racconto e lo rileggo, lo trovo abbastanza anodino, come dire insignificante, poi rileggendolo, comincio ad apprezzarlo. Perché? La riflessione critica sulla mia arte letteraria mi porta a riconoscere le immagini prodotte dalle mie fonti di ispirazione, a cui io avevo cangiato sembianze, quando esse riemergono dall’oblio. E allora acquisto consapevolezza delle influenze degli altri autori sulle mie produzioni artistiche, artefatti un po' troppo artigianali, ma siamo sempre nel campo dell’arte, non è così? Sì, più o meno, ma più meno, che più. Come? È come l’addizione di un numero di segno positivo con un altro di segno negativo più grande, la somma è negativa, per esempio cinque più apertura parentesi meno sei chiusura parentesi uguale meno uno. Meno uno? Sì, uno in meno, uno come te, un uno di cui si può fare a meno. Eccolo là! Chi? Il buffone, colui che ci deve fare sempre ridere, non ne può fare a meno. E perché? Perché, quando la faccenda diventa seria, è meglio ridere. Come? Come il Thénardier dei “Miserabili” di Victor Hugo. Chi? Poi ti spiego. Va bene.” – “Un uomo onesto avrebbe avuto paura: costui si mise a ridere.” Questo il commento dell’autore all’azione scellerata del suo losco personaggio, che ora riportiamo. Siamo sul campo di battaglia di Waterloo, la notte che segue. *
LA FIGURA DEL DIAVOLO Nel mio racconto il diavolo è Asmodeo, una figura di diavolo che ha un nome proprio rispetto all’appellativo generico di angelo infernale. Ed ecco che nel definire il diavolo un angelo infernale, si coglie questa figura come delineata nel racconto biblico: il diavolo è la definizione generica di creature spirituali, incorporee, costituenti nell’insieme quelle schiere angeliche, precipitate nell’Inferno, con in testa Lucifero, per essersi ribellate a Dio. Consultiamo, in proposito, un testo non proprio canonico di teologia: Vito Mancuso, “Il principio di passione”, Garzanti, 2013. “Il termine greco diàbolos viene usato dalla Bibbia dei Settanta (la versione greca della Bibbia ebraica risalente al II secolo a. C., talora abbreviata con il numero romano LXX e detta anche Septuaginta), per tradurre l’ebraico satan. I due termini sono quindi perfettamente sinonimi e infatti i Vangeli parlano ora di Satana ora di Diavolo senza nessuna specifica distinzione.” (p. 283) Subito dopo, l’autore approfondisce l’etimologia del termine: “Il sostantivo diàbolos viene dal verbo diaballo, infinito diaballein, che ha il senso complessivo di “separare”, in diretta contrapposizione a sumballo, infinito sumballein, che significa invece “unire” e da cui deriva il termine “simbolo” (da intendersi anzitutto nel significato arcaico di mezzo di riconoscimento costituito da una delle parti ottenute spezzando in due un oggetto, e poi nel significato traslato di oggetto o persona in grado di unire la mente a un’idea più ampia, come quando diciamo che la bandiera è il simbolo della patria o Ulisse il simbolo dell’astuzia).” Queste stesse osservazioni terminologiche sono state tenute come introduzione ad un discorso tematico di psicologia, relativo ad una più complessa dottrina del simbolo, condotto su un binario completamente differente da quello che porta, mediante il significato del diaballein, il disunire, alla figura del diavolo in demonologia. Intanto, restiamo in quest’ultimo ambito, seguendo l’esposizione che ne fa Mancuso nel suo trattato di teologia sistematica, il cui obiettivo è di riproporre nel contesto contemporaneo il tema teologico del “de Deo creante” (“Sul Dio creatore”). Per inciso, vogliamo qui precisare che questo discorso teologico, fondato su premesse di fede, che affondano le loro radici nell’esperienza religiosa cristiana, in un’ottica laica viene considerato, relativamente alla figura del diavolo, come riguardante racconti mitologici, suscettibile di analisi antropologiche e sociologiche, che poi esamineremo. Egualmente, rimandiamo a più avanti anche gli argomenti relativi al diaballein e sumballein, come elementi propri di un’analisi psicologica.
Ritornando alla demonologia, le fonti a cui attinge Mancuso sono principalmente le Sacre Scritture, in base alle quali egli si pone il seguente interrogativo: “Che cos’è quella materia primordiale, informe, caotica, testimoniata dalla Bibbia e da molte altre cosmogonie dell’antichità, modellando la quale Dio configura il mondo attuale?” La risposta è quella canonica della Chiesa cattolica: materia creata dal nulla da Dio creatore. Si costituisce così il modello di creazione ex nihilo, una costruzione logica aspramente criticata dal filosofo Emanuele Severino, per il quale ammettere il nulla significa affermare che l’essere è il nulla. Sull’aporia dell’essere del nulla, rimandiamo la discussione ad altra sede, rinviando per ora a un mio scritto pregresso: “Il teorema del non-Essere”, un commento al tema trattato nel “Sofista” da Platone. Quindi, il teologo Mancuso continua il suo discorso, prendendo le distanze dalla dottrina ufficiale della Chiesa, sul problema della radice del male. “Per il cristiano, che pensa il mondo come buono originariamente, ma non divino e non perfetto, come bene ma non come il bene, il problema del male si pone in tutta la sua intensità. Io penso che ai nostri giorni tale problema imponga una revisione radicale della teologia del rapporto Dio-mondo; quindi, credo sia essenziale verificare se vi sia traccia nella Bibbia di strade alternative, che possano contribuire a formare una più matura visione del mondo, riconducibile alla Bibbia e insieme in grado di sostenere la verità dell’esperienza vitale.” (pag. 250) Segue una sua diversa interpretazione dei testi biblici rispetto alla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, per il quale il caos primordiale, può essere spiegato in due modi: “o assegnandone la responsabilità a entità alquanto misteriose distinte da Dio, oppure assegnandone la responsabilità a Dio stesso.” Questa seconda prospettiva è quella seguita dal filosofo cattolico Luigi Pareyson, nel suo “discorso temerario” sul male in Dio, testo compreso nella raccolta dal titolo: “Ontologia della libertà.” (Cfr. “Il nodo alla gola”) Alla prima prospettiva, dice Mancuso, appartengono soggetti abbastanza indecifrabili classificabili in tre gruppi: Mostri, Signorie cosmiche, Potenze sataniche. I primi gruppi risultano soprattutto dalle Scritture ebraiche, gli altri due dal Nuovo Testamento. Il diavolo, quindi, è una potenza satanica, e nello stesso senso può definirsi il demonio.
L'ESISTENZA DEL DIAVOLO Il diavolo, quindi, è una potenza satanica, e in questo stesso senso di potenza satanica, può definirsi come demonio, nonché Satana. Ma il diavolo esiste? Sull’esistenza del diavolo come persona il teologo Mancuso è scettico. “I dati essenziali della dottrina cattolica sul Diavolo si possono così riassumere: – esiste un essere dotato di volontà di seduzione, chiamato Satana o Diavolo, di cui Paolo VI in un celebre discorso parlò come di “un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore […] il nemico numero uno, il tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero.” – esso è un Angelo creato buono, ma divenuto malvagio per una libera scelta, che lo condusse a peccare; – altri Angeli lo seguirono; – tale peccato angelico è imperdonabile; – l’Angelo divenuto Diavolo benne cacciato sulla terra; – il Figlio di Dio è venuto per distruggere le sue opere; – l’azione attuale del Diavolo sulla terra è permessa dalla Divina Provvidenza; – la ragione di questa permissione è ignota, rimane “un grande mistero”. Secondo Jeffrey Burton Russell, studioso americano che ha dedicato buona parte dell’esistenza alla demonologia, il nucleo concetto Diavolo è il seguente: “Esiste un altro potere cosmico, oltre a quello del Signore buono, un potere che vuole il male e lo alimenta per amore del male, che odia il bene in quanto bene, un potere attivo in tutto il cosmo, anche nelle cose umane.” Se questo è il nucleo della demonologia, io lo nego in radice, perché non credo che esista un potere cosmico alternativo a Dio, non credo, cioè, che esista il Diavolo come “essere vivo, spirituale”. (pag.274-5) L’autore prosegue affermando che questa sua convinzione deriva da due ragioni: una di carattere filosofico, legata al concetto di persona, l’altra di carattere teologico legata alla natura di Dio come purissimo bene. Se la persona è frutto dell’armonia delle relazioni, il Diavolo, come essere personale di disunione, non può esistere. Inoltre, se Dio è puro bene, non può mantenere l’esistenza reale del male, il Diavolo, riconducibile a lui. Sarebbe un discorso temerario (Pareyson), cfr. “Il nodo alla gola”. Non esiste una figura reale del Diavolo, dice Mancuso, soltanto una spersonalizzata diabolicità, rappresentabile in maschera, come quella di cui il filosofo polacco Leszek Kolakowski si serve per un’intervista al diavolo, di cui viene riportato un brano. “Esaminate da vicino la vostra coscienza, voi che siete cristiani e voi che siete atei, scavate al di sotto del terreno vergine del vostro linguaggio fiorito, della vostra metafisica e della vostra psicologia. Togliete le incrostazioni, tornate in voi stessi […]. Riuscirete a vedermi senza alcuna meraviglia e avrete l’impressione, contrariamente a quanto vi insegnano le vostre teorie, di avermi sempre conosciuto. Scoprirete un volto familiare, abituale, ma visto veramente per la prima volta. Sentirete un alito fresco e sconosciuto anche nei recessi del vostro cervello […]. Una forza devastatrice che non desidera altro che la distruzione. Voi la incontrate ovunque e sperimentate la sua presenza nelle vostre delusioni e nei vostri errori, nella crudeltà e nella morte, nella solitudine e nelle frustrazioni. Ogni giorno vi trovate faccia a faccia con essa, che è sempre presente, non dove la distruzione è palese, dove la crudeltà e il male sono semplici strumenti, ma ovunque essi siano, sono fini a sé stessi […] Satana appare soltanto là dove la distruzione non ha alcun senso, dove la crudeltà e l’umiliazione vengono perpetrate per sé stesse, la morte per la morte, dove la sofferenza non ha scopo o dove questi fini sono solo una maschera e un pretesto per razionalizzare la ste di distruzione […]. Il Diavolo non si può spiegare, riempie la vostra esistenza, è un dato di fatto, è quello che è.” (“Appunti della conferenza stampa metafisica tenuta dal Demonio a Varsavia il 20 dicembre 1963”)
I NOMI DEL DIAVOLO Restando in campo demonologico, nel suo testo di teologia sistematica, l’autore Vito Mancuso si sofferma sull’aspetto terminologico, passando in rassegna la tassonomia evangelica delle potenze sataniche, che sistema in ordine alfabetico in tre colonne, secondo l’originale greco, e la rispettiva traduzione in latino e italiano. Riportiamo qui i nomi in lingua italiana, venti: Sterminatore, Anticristo, Principe della potenza dell’aria, Principe di questo mondo, Principe dei Demoni, Belzebù, Beliar, Demonio, Dèmone, Diavolo, Drago, Nemico, Mammona, Serpente amico, Tentatore, Spirito impuro, Spirito del male, Maligno, Satana, Dio di questo mondo. Passando poi in rassegna l’elenco, l’autore nota come i nomi propri rintracciabili, tra i venti, siano soltanto tre: Belzebù, Beliar e Mammona. Vanno inoltre aggiunti i nomi di altre entità malefiche, presenti nell’Antico Testamento: Azazel, Lilit, Asmodeo, Baal-Peor. Infine, può ricomprendersi nell’elenco anche Lucifero del NT, dove non è considerato però come uno spirito maligno. Ora, quando si parla di diavolo, nel linguaggio comune, in genere i nomi più usati sono, oltre al diavolo stesso, il demonio, Satana. Spiegata l’etimologia del termine Diavolo, l’autore si sofferma quindi sugli altri due. “Satana viene dall’ebraico satan, che ha il significato di “accusatore” o “avversario militare”. In Occidente è il termine più usato per indicare la personificazione della forza del male e viene inteso comunemente come un nome proprio.” Dopo una rassegna delle fonti bibliche, l’autore così riassume il suo pensiero, indicando vari punti: il ruolo negativo come di un essere umano in veste di accusatore o nemico, angelo della corte divina in veste di accusatore o istigatore di azione sgradire a Dio. Esclude comunque il ruolo di Satana come nemico giurato di Dio. Più avanti nel testo, Mancuso spiega come si sia passati da questa figura originaria delle Scritture ebraiche a quella negativa neotestamentaria. L’evoluzione è dovuta, spiega l’autore, ad un processo di spiritualizzazione, per cui dalla designazione di un ruolo (satan) si è passati ad una identità ipostatica autonoma rispetto a Dio (Satana). Se prima il controllo del mondo era riferito unicamente alla divinità, nel bene e nel male, nel NT è avvenuta una dolorosa scissione tra Dio totalmente buono e “questo mondo” perlopiù cattivo. E la frattura ha investito pure la dimensione trascendente, in quanto anche in “cielo” vi sono forze ostili a Dio. In tale prospettiva è difficile trovare una soluzione al problema del male, che rivela la grande aporia al centro della dogmatica cattolica. Questa discende dal mito della perfezione del creato turbato dal peccato originale, ricollegato a un precedente peccato degli angeli, costituendosi come una “vera e propria archeologia del negativo”. L’autore affronta il problema in un capitolo successivo, noi ci limitiamo a citare alcuni nostri studi, compresi nella raccolta: “Sofferenza e colpa”, in pubblicazione nei prossimi giorni.
IL DEMONIO Dopo i nomi di Satana e del Diavolo, l’autore illustra quello del Demonio. Sono i tre appellativi, equivalenti per nominare la figura del Male, un’alterità, rispetto a Dio, sommo Bene, e vengono comunemente usati nella comunità religiosa cristiana, quando si evoca questa entità spirituale esistente. Sull’esistenza e coscienza degli spiriti, ci riserviamo di riprendere un discorso lasciato in sospeso tempo addietro. Noi abbiamo chiara coscienza della distinzione tra demone e demonio, ma seguiamo l’attento esame che fa il teologo Mancuso del termine. “Occorre distinguere il termine “demonio” (più frequente) dal termine demone (più raro). Demonio viene dal greco daimonion, di genere neutro, in latino daemonium. Demone invece viene dal greco daimon, di genere maschile, in latino daemon. I due termini, nel mondo classico, spesso si sovrappongono, anche se in linea di massima si può dire che daimon indica l’essere divino o la divinità in tutte le sue molteplici gradazioni, comprese quelle negative, mentre daimonion indica l’influsso, positivo o negativo, sulla vita degli uomini della dimensione divina.” Come da tradizione, anche Mancuso, riguardo al daimonion, cita il Socrate della “Apologia” (40a): “La voce profetica che mi è abituale”, quella della coscienza, che lo distoglieva dal male. Inoltre, l’autore cita Epitteto, che usava però il termine daimon: “Quando chiudete le porte e fate buio dentro, ricordate di non dire mai che siete soli, infatti non lo siete: dentro di voi c’è Dio, e il vostro demone.” (“Diatribe”, I, 14, 13-14) Comunque, osserva l’autore, in genere si usa il temine demone nella sua accezione negativa, per esprimere un vizio, come ad es. “il demone del gioco” [1], della gelosia, dell’invidia e così via. Si tratta di una passione oscura, stabilizzatasi nell’interiorità umana, che avvince e imprigiona la mente: “Ed è precisamente in questo senso che il termine venne usato da Fëdor Dostoevskij per il romanzo “I dèmoni” del 1872”. Osserviamo in proposito che il titolo originale in lingua russa dell’opera è Бесы (Bsy) ossia “dèmoni”, anche se alcune edizioni hanno tradotto il titolo con “indemoniati”. L’autore osserva che “ancora più univoco e privo di sfumature è diventato il termine demonio, che contrassegna lo spirito del male, e il plurale demoni che rimanda alle forze maligne direttamente collegate alla sua azione.” L’osservazione è pertinente, perché la pluralità dei demoni, rispetto al demonio, rende possibile quel suo moltiplicarsi penetrando come potenze malefiche gli esseri umani, che diventano degli indemoniati, come testimonia il passo evangelico sulla “mandria dei porci”, peraltro citato dal teologo. [2]
[1] Ricordo un insospettabile professionista napoletano del secolo scorso, che per esorcizzare il demone del gioco, da cui si presume dovesse essere stato affetto lui stesso, recitava la formula di rito: “Diavule ncopp e’ fuosse”, ripetendola più volte e accompagnandola con un gesto delle mani, che si aprivano entrambe ritmicamente, come a spargere un fluido invisibile sulle carte da gioco allineate su un tavolo verde. Dalla Intelligenza Artificiale apprendiamo che – "Ncopp e fuosse" in napoletano significa "sul marciapiede" o "sul bordo della strada". "Ncopp" è una contrazione di "ncoppa", che significa "sopra" o "su" in italiano, mentre "fuosse" è la forma dialettale per "marciapiede" o "bordo della strada". Quello che però la IA non sa dire, ma che l’esperienza della lingua (dialetto) ci racconta è che “fuosse” sono i fossi; quindi, i “diavoli sopra i fossi” sono… che cosa sono? Quelli che sull’orlo dell’abisso (i fossi) venivano appunto ricacciati in fondo ai fossi, l’inferno, dagli scongiuri dell’antico mago partenopeo, e questi diavoli erano simboleggiati dalle carte da gioco. Bon!
[2] Sulla “mandria dei porci” non posso fare a meno di citare alcuni brani, decisamente pittoreschi ed esilaranti tratti dal mio “L’uomo differito”, III, V, “I barbieri invisibili”, che verranno riportati in seguito.
FIGURE DEMONIACHE Oltre al demonio, nella Bibbia ebraica, vengono citate altre potenze demoniache: Azazel, Lilit, Asmodeo, Baal-Peor. Avremo modo di ritornare su queste figure diaboliche del negativo, da un punto di vista non più teologico demonologico, ma da una più laica prospettiva antropologica e sociologica. Chi è Azazel? Nelle scritture viene citato in “Levitico” (16:5-22). “Una volta all'anno, nel giorno dell'espiazione, il sommo sacerdote prendeva due capri. Un capro (scelto a sorte) era sacrificato nel santuario come espiazione dei peccati d'Israele. Il sommo sacerdote poi metteva le mani sull'altro capro, confessando le iniquità degli Israeliti e così riversandoli sul capro. Il capro era poi mandato nel deserto "ad Azazel". Così in realtà era il primo capro ad essere il vero capro espiatorio, anche se nel linguaggio comune moderno chi porta gli errori degli altri, somigliando così al secondo capro, viene chiamato il capro espiatorio. I due capri rappresentano due aspetti della salvezza dal peccato, la punizione per il peccato e la rimozione del peccato, che sono stati realizzati in modo perfetto nel sacrifico unico di Gesù Cristo (Isaia 53:5-6). Ci sono due interpretazioni principali della parola "Azazel", che è usata quattro volte in questo capitolo e mai altrove nella Bibbia. Il Libro di Enoch (un testo apocrifo giudaico del prima secolo a.C.) dice che Azazel era un demonio. Non è chiaro se il termine fosse usato al tempo del libro di Levitico. In ogni caso il capro non era un sacrificio al demonio: pochi versetti dopo, in Lev 17:7, quella pratica era proibita, e la Bibbia non insegna mai che serve dare qualcosa ai demoni affinché i peccati siano perdonati. Invece i peccati sarebbero stati mandati via al deserto, un luogo impuro, al dominio del male, dove appartenevano. Un'alternativa è di accettare le consonanti del testo ebraico, ma mettere vocali diverse, visto che le vocali sono un'aggiunta posteriore al testo originale (800 d.C. circa), anche se in conformità alla tradizione orale che era più vecchia di quella data. Infatti, anche la traduzione greca dell'Antico Testamento (la Septuaginta) fa così, traducendo invece "capro che va via" o "capro da mandare via". https://www.laparola.net
“Lilit (anche Lilith), figura femminile della tradizione ebraica, in cui rappresenta la prima moglie di Abramo, divenuta poi una specie di demone notturno, ricorre una sola volta nella Bibbia, in “Isaia” 34, 14, dove a proposito del territorio di Edom devastato dal castigo divino si dice: “Là si poserà anche Lilit e vi troverà dimora”. Asmodeo ricorre in “Tobia”, 3, 8 e 3,17, dove viene qualificato come cattivo demonio. “Nello stesso giorno capitò a Sara figlia di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media, di sentire insulti da parte di una serva di suo padre. Bisogna sapere che essa era stata data in moglie a sette uomini e che Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli. A lei appunto disse la serva: «Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti. Ecco, sei già stata data a sette mariti e neppure di uno hai potuto godere. Perché vuoi battere noi, se i tuoi mariti sono morti? Vattene con loro e che da te non abbiamo mai a vedere né figlio né figlia». https://www.laparola.net/testo.php?riferimento=Tobia3&versioni[]=C.E.I. Baal-Peor, come già Beelzebul, è di per sé il nome di una divinità, che significa “dio di Peor”, formato da Baal, “dio, signore”, e dal nome del luogo Peor. Esso ricorre in “Numeri”, 25, dove si dice che “Israele aderì a Baal-Peor”, riportando poco dopo l’intransigente ordine di Mosè ai giudici israeliti: “Ognuno di voi uccida dei suoi uomini coloro che hanno aderito a Baal-Peor.” [3] La connotazione negativa di questo “dio”, un demonio quindi, richiedeva la condanna di coloro che lo veneravano. L’autore, infine, conclude: “Questo nome, nella traduzione greca dei Settanta e nella tradizione latina Volgata, divenne Beelphegor, da cui si originò in italiano Belfagor.” Un ultimo paragrafo viene dedicato a Lucifero, in cui viene evidenziato come al nome non viene associato, all’inizio, nulla di negativo. L’originale greco phosphoros significa “portatore di luce”: “phos”, luce, e “phero”, portare, e indicava il pianeta Venere, “la stella del mattino”. In latino, Lucifero è composto da “lux”, luce, e fero, portare. Il nome sottolinea l’autore non aveva nulla di “luciferino”, “tant’è vero il NT non esita a riferirlo a Cristo, visto che è del tutto evidente che la “stella del mattino”, che deve sorgere nei cuori dei credenti è Cristo. Allo stesso modo i cristiani dei primi secoli usavano il termine anche come nome proprio, e nel IV secolo si ebbe anche un santo con tale nome, san Lucifero, vescovo di Cagliari.” E qui l’autore si pone l’interrogativo: “Come mai allora Lucifero portatore di luce è diventato Satana portatore di tenebre?”
[3] Di Baal “dio di Peor” ne parla Sigmund Freud nel saggio, che fu l’ultima sua opera: “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, (1938).
All’interrogativo del teologo cristiano – “Come mai allora Lucifero portatore di luce è diventato Satana portatore di tenebre?” – diamo risposta con la riflessione del filosofo dell’antichità. “Socrate, intanto, che s'era seduto sul letto, piegando una gamba, cominciò a grattarsela a lungo: «Che strana cosa, amici, sembra quella che gli uomini chiamano piacere. E che straordinario rapporto tra questo e il suo contrario, cioè il dolore. E pensare che essi convivono nell'uomo e pur si respingono sempre e chi cerca e riesce a cogliere l'uno, si vede costretto, sempre, a sobbarcarsi anche l'altro come se, pur essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo.» «Credo,» soggiunse, «che se Esopo ci avesse pensato su ne avrebbe fatto una favola presso a poco così: ‹Dio, volendo riconciliare questi due, sempre in guerra tra loro e non riuscendovi, li legò insieme per la testa così che dove va l'uno va anche l'altro.› È quello che è capitato a me: per la catena, qui, alla gamba, poco fa, io sentivo dolore; ed ecco che ora sento piacere.» (Platone, “Fedone”, 60b) La ragione greca di Socrate risponde seguendo lo schema logico dei contrari, riferito a una situazione semplice della vita: alleviare un dolore alla gamba con un massaggio. E siccome è un filosofo, subito aggiunge la sua riflessione sulla coppia dolore e piacere in generale, riscontrabile nell’uomo, come voluta dal dio. È come dire che ogni realtà si determina nel suo contrario, secondo quella linea di pensiero eraclitea del divenire, da cui Hegel trasse la sua dialettica triadica: tesi, antitesi e sintesi. Ai due poli opposti della sfera del pensiero teologico di Mancuso troviamo la luce e le tenebre, indubbiamente tra loro irriducibili, come ogni altra coppia di contrari, ma tra loro indissolubilmente legati, secondo l’osservazione del Socrate prigioniero liberato. E come la Luce evoca le Tenebre, così l’Essere evoca il Nulla, lo Spirito la Materia, il Bene il Male, Dio il Diavolo. Quest’ultima opposizione non trova corrispondenza nelle religioni monoteistiche, che escludono dalla sfera del divino qualsiasi altra realtà. La trascendenza dell’Assoluto genera allora il problema di quella frattura tra il divino e l’umano, che la religione cattolica concilia con i suoi dogmi, in buona parte contestati dal nostro teologo, come riassunti nella sintesi di cui alla Nota riportata di seguito. Qui però vogliamo accennare a una particolare dottrina, quella del gesuita Pierre Teilhard de Chardin, i cui scritti non sempre sono stati bene accolti in Vaticano.
NOTA – Sulla dottrina del teologo Mancuso abbiamo interrogato la IA, che in sintesi ha dato la risposta seguente.
VITO MANCUSO È un teologo e filosofo italiano che ha espresso posizioni dottrinali non conformi alla dottrina cattolica tradizionale su alcuni punti chiave. In particolare, le sue riflessioni criticano il concetto di peccato originale, la creazione dell'anima da parte di Dio, la risurrezione dei corpi e la dannazione eterna. Inoltre, Mancuso interpreta la salvezza come il risultato di una vita giusta e buona, includendo anche non credenti, in contrasto con la visione cattolica che la lega alla fede in Cristo e ai sacramenti. Ecco alcuni punti chiave del pensiero di Mancuso e il suo rapporto con la dottrina cattolica. Punti di discordanza con la dottrina cattolica. Peccato originale: Mancuso non accetta la dottrina del peccato originale come stato di inimicizia con Dio in cui nascono tutti gli esseri umani. Creazione dell'anima: rifiuta l'idea che l'anima sia creata direttamente da Dio al momento del concepimento, senza il coinvolgimento dei genitori. Risurrezione dei corpi e dannazione eterna: Mancuso mette in dubbio la risurrezione dei corpi e la dannazione eterna, collegando la morte non al peccato, ma alla natura dell'essere creato. Salvezza e redenzione: non lega la salvezza a un evento storico come la morte e risurrezione di Cristo, ma piuttosto alla pratica di una vita buona e giusta, aperta anche a non credenti. Etica: in ambito etico, si è espresso a favore di temi come la contraccezione, la fecondazione assistita, l'autodeterminazione per il fine vita e la donazione di cellule staminali embrionali, posizioni in contrasto con la dottrina cattolica. Interpretazione della fede e della comunità: Mancuso vede la fede anche come fiducia nella vita e nella sua natura, non solo come accettazione di una rivelazione. La sua visione della salvezza come frutto di una vita giusta lo porta a includere nel cammino di fede anche gli atei e gli agnostici. Alcuni critici sostengono che tale visione è più individualistica e meno legata alla dimensione comunitaria della fede, presente invece nell'insegnamento cattolico. In sintesi, Vito Mancuso propone una riflessione teologica e filosofica, che pur ispirandosi a concetti cristiani, si discosta in modo significativo dalla dottrina tradizionale della Chiesa cattolica su alcuni punti fondamentali. Il suo pensiero è caratterizzato da una forte attenzione alla dimensione etica e alla ricerca della verità, ma anche da una visione della salvezza più aperta e inclusiva.
. . . Se prima il controllo del mondo era riferito unicamente alla divinità, nel bene e nel male, nel NT è avvenuta una dolorosa scissione tra Dio totalmente buono e “questo mondo” perlopiù cattivo. E la frattura ha investito pure la dimensione trascendente, in quanto anche in “cielo” vi sono forze ostili a Dio. In tale prospettiva è difficile trovare una soluzione al problema del male, che rivela la grande aporia al centro della dogmatica cattolica. Questa discende dal mito della perfezione del creato turbato dal peccato originale, ricollegato a un precedente peccato degli angeli, costituendosi come una “vera e propria archeologia del negativo”. L’autore affronta il problema in un capitolo successivo, noi ci limitiamo a citare alcuni nostri studi, compresi nella raccolta: “Sofferenza e colpa”.
UN GRIDO DI TRACOTANZA La quiete olimpica degli dèi immortali non smossa dallo scorrere del tempo rende quindi immaginabile una loro potenza superiore a quella dell’uomo mortale, ma anche essi sono soggetti ad Ananke, una forza invincibile. Così, infatti, viene definita la Necessità da Eschilo nel “Prometeo incatenato”. Prometeo, il figlio di Giapeto, si trova incatenato ad una rupe, avendo suscitato la collera di suo cugino Zeus, perché ha rubato il fuoco agli dèi e ne ha fatto dono agli uomini, donando loro la techné, l’arte del fare, la tecnica. Questa è impotente di fronte al Fato, dichiara Prometeo. “Ma chi del Fato (Ananke) tiene il governo?” domanda il Coro. “Le tre Moire e le memori Erinni.” “E meno di loro è potente Zeus?” “Tenterebbe invano di sottrarsi ad Ananke.” Il limite non oltrepassabile segnato dalle Moire e dalle Erinni, di cui parla Eschilo, trova rispondenza in Eraclito (fr.94): “Neppure il sole andrà oltre misura [l’ordine del Cosmo], a cui guardia si trovano le Erinni, ministre di Dike.” Queste, infatti, interpretano lo spirito di vendetta contro ogni violazione della giustizia. Il Fato a cui neppure Zeus può sfuggire non è allora il suo perpetuo regnare? Interroga il Coro. “Questo non domandare, non far di ciò preghiera.” È quindi un mistero sacro quello celato. Anche il sovrano degli dèi non sfugge al suo destino. [1] “Riuscirà l’uomo, e se non l’uomo quantomeno un dio, a distruggere tutte le pietre che volano nello spazio…?” Questo era il mio interrogativo. Era più che altro un grido di tracotanza (hybris), per introdurre il discorso sulla volontà di potenza e sul tempo monumentale, un discorso che riprenderemo. Può allora spezzare l’ordine dei mondi, il cosmo, un dio? “Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli dèi, né uno degli uomini, ma è sempre stato ed è e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne.” Così recita la sentenza di Eraclito (fr.30). Sulla scia di tale concezione dell’Universo, che in eterno come fuoco vivo si accende e spegne, si costituì la dottrina stoica, l’ecpirosi o conflagrazione universale, che porta alla fine del mondo e alla sua palingenesi, un’apocatastasi per il ristabilimento dello stato originario. Deve dirsi che la scienza moderna è giunta alla formulazione della teoria della nascita dell’Universo, il Bing Bang, la grande esplosione iniziale, quando tutta l’energia e la materia presente nell’Universo era concentrata in una sola singolarità. Attraverso l’osservazione del fenomeno così detto del “redshift”, spostamento verso il rosso della luce emessa dalle galassie, che indicava il loro progressivo allontanamento nello spazio, si formulò l’ipotesi dell’universo in espansione. In maniera simmetrica, rispetto al Big Bang, poi, si sostenne che, se la forza di gravità di tutta la materia ed energia dell’orizzonte osservabile diventa abbastanza grande, allora essa può fermare l'espansione dell'Universo. Avrebbe allora inizio un processo di contrazione, con un progressivo riavvicinamento delle galassie, che al culmine porterebbe l’universo a collassare su sé stesso, Bing Crunch, fino a ridursi in una singolarità gravitazionale. A quest’ultima ipotesi, in fisica si oppone però il secondo principio della termodinamica, che prevede l’intrinseca irreversibilità di molti fenomeni naturali, per cui appare impossibile ristabilire l’ordine dello stato iniziale. Per esempio, nel passaggio di calore di un corpo a temperatura più alta a quello a temperatura più bassa non è possibile il processo inverso. Il secondo principio della termodinamica, in tale prospettiva, si lega all’irreversibilità della freccia del tempo. In campo scientifico, comunque non si può ignorare il principio di falsificabilità di Popper, in base al quale ogni teoria è valida finché non viene confutata da osservazioni empiriche successive.
In filosofia, il mito dell’Universo che gira prima in un senso e poi in quello contrario è narrato da Platone nel “Politico” e come le teorie scientifiche illustrate rispecchia l’attitudine mentale a considerare la possibilità dell’inversione di un ciclo. Così, ad esempio, una sfera che ruota in una certa direzione implica nel suo stesso movimento la possibilità di ruotare in senso inverso. Appare evidente che tutte queste possibilità cosmiche non possano essere governate dall’uomo né tanto meno da un dio, anche se nel mito platonico è proprio uno dei due cicli cosmici ad essere governato dal dio, Crono, al contrario dell’altro, il ciclo di Zeus, dove mancando l’ordine divino, tutto si svolge in maniera caotica e disordinata, per cui si rende necessaria un’arte politica, che disciplini le attività umane. Nell’onnipotenza dell’unico Dio delle religioni monoteistiche non appare invece possibile, essendo peraltro logicamente contraddittorio, porre limiti alla sua libertà. È un’assoluta libertà creativa, che implica ovviamente anche la fine del mondo creato, come è rivelabile dal testo biblico dell’Apocalisse, letteralmente "Rivelazione degli eventi della fine dei tempi". [2] Anche nel racconto biblico, analogamente al mito greco, viene narrata la storia di una ribellione, e come nel mito, anche qui alla ribellione contro l’ordine divino segue il castigo tremendo, commisurato alla gravità della colpa: Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore di popoli? Eppure, tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell'assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all'Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell'abisso! L’atto di superbia di Lucifero, la stella del mattino, viene punita con la caduta dall’altezza del Cielo nell’abisso dell’Inferno (Isaia 14:3-20).
IL MIGLIORE DEI MONDI “C'est, comme la déesse l’expliqua, parce qu’entre une infinité de mondes possibles, il y a le meilleur de tous, autrement Dieu ne serait point déterminé à en créer aucun.” [1] (a) Così Leibnitz, a conclusione del suo saggio, la Teodicea, spiega la ragione del male nel mondo, giustificando (facendo giusta) la volontà divina che questo mondo ha così creato. Si deve notare che l’autore scriveva direttamente in francese, lingua che aveva appreso alla perfezione durante il suo soggiorno a Parigi (1672-1676), per una migliore diffusione dei suoi scritti in Europa. Il catastrofico terremoto di Lisbona (1755), con i suoi ottantamila morti, scatenò un’ondata di ribellione in tutto il continente contro l’ottimismo teologico e filosofico propagandato soprattutto dalla dottrina di Leibnitz. Nel suo romanzo “Candide”, Voltaire ne svolge una satira ironica e irriverente: “Il y avait en Vestphalie, dans le château de M. le baron de Thunder-ten-tronckh, un jeune garçon... Candide... Le precepteur Pangloss était l’oracle de la maison... enseignait... que, dans ce meilleur des mondes possibiles, le château de Mgr le baron était le plus beau des châteaux et Madame la meilleure des baronesses possibles.” (b) Questo è l’inizio di una serie di disavventure e sciagure per Candido e Pangloss tali da mostrare l’infondatezza della convinzione illuminista e leibniziana del migliore dei mondi possibili. Morale: “Il faut cultiver notre jardin”. Deve dirsi, comunque, che la satira era indirizzata anche contro Rousseau, il quale, nella sua “Lettre sur la Providence”, aveva criticato la tesi dell’esistenza di un nascosto principio del male sulla Terra espressa da Voltaire nel “Poème sur le désastre de Lisbonne”, sostenendo che molto di quello che accade dipende dalla volontà degli uomini: “La natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani... e se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto.” Ma come era arrivato Leibnitz a formulare la sua dottrina del migliore dei mondi possibili? “Eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate.” “Sono le stesse quelle cose, di cui l’una può sostituire l’altra mantenendone integra la verità.” Questo principio matematico degli indiscernibili è una logica conseguenza del principio di ragion sufficiente: “Nihil est sine ratione, cur potius sit quam non sit.” “Nulla esiste senza ragione, perché c’è dell’essere invece del nulla.” Esiste una ragione perché vi sia qualcosa invece di niente.
A tale proposito, va notato che proprio in base a questo schema di pensiero (0≠1), l’essere “qualcosa” (esistenza) distinto dall’essere puro (concettualmente non distinguibile dal nulla), Aristotele criticava la teoria del “Nulla è” di Gorgia di Lentini: “L’essere qualcosa e l’essere non sono lo stesso, perché non è vero che se il non essere è qualcosa, esso è anche semplicemente.” (“Confutazioni sofistiche” 25, 180a, 36-38) La distinzione si basa su due diversi significati di essere, copulativo ed esistenziale, che nell’affermazione di Gorgia vengono messi sullo stesso piano. Se, quindi, in base al principio degli indiscernibili, esistessero due enti identici, l’uno sarebbe “senza ragione” rispetto all’altro. E così, argomenta Leibnitz, Dio non poteva creare un mondo perfetto, in quanto il creato sarebbe stato del tutto identico a Lui stesso; pertanto nella scelta dei mondi imperfetti da creare, Egli ha dovuto optare per il migliore dei mondi possibili. Nella Teodicea, il criterio logico-matematico, di cui abbiamo fatto cenno, viene presentato sotto la forma di una favola finale. A questo proposito, dobbiamo notare che nel Timeo 29d, quando si tratta di dover spiegare la genesi del mondo, come dire l’attuale universo, Platone pone la premessa che si tratta di un racconto verosimile. E sempre sul tema va detto che anche il cristianesimo si rimette ad un racconto, quello del primo libro della Bibbia, considerandolo allegorico, ma predicandolo come dogma, assoluta verità di fede. La forma narrativa prevale pertanto anche su quella dialogica, che contiene nella sua forma del dire e contraddire la pretesa della verità. Nella Teodicea, Leibnitz parte dall’interrogativo di Boezio, sintetizzandolo: “Si Deus est unde malum? Et si non est, unde bonum?” “Se Dio esiste, da dove viene il male? E se non esiste, da dove viene il bene?” (De consolatione philosophiae, I, prosa IV). Prendendo poi spunto dal dialogo dell’umanista italiano Lorenzo Valla (1407-1457), Dialogus de libero arbitrio, scritto in opposizione al V Libro del De Consolatione, ne riporta passi in una libera traduzione dal latino in francese, e proseguendone la "finzione", trasforma il dialogo in racconto, introducendo la figura di Teodoro, sacerdote sacrificatore, che da Giove viene invitato a recarsi ad Atene da Pallade, simbolo della sapienza divina. Addormentatosi, viene accompagnato in sogno dalla dea, attraverso un labirinto, nel palazzo dei destini, dove è rappresentato nella forma dei vari piani di una piramide, non soltanto quello che è, ma anche quello che è possibile. E quando finalmente accede all’appartamento supremo, il mondo esistente ovvero quello migliore possibile, Teodoro viene rapito in estasi e risvegliato con una goccia di divino liquore: “Il ne pouvait manquer de choisir ce monde qui surpasse en perfection tous les autres, qui fait la pointe de la pyramide: autrement Jupiter aurait renoncé à sa sagesse, il m'aurait bannie, moi qui suis sa fille.”(c) Alla fine Teodoro si sveglia e rendendo grazie alla dea e giustizia a Giove, continuerà a svolgere la sua funzione sacerdotale di offrire sacrifici alla divinità, con tutta la gioia possibile per un mortale. Quale conclusione trarre? Il mondo migliore (o peggiore) di quello reale è soltanto quello che possiamo immaginare e descrivere o recitare.
[1] Riporto la traduzione in lingua italiana dei passi in francese del testo, non perché ritengo che i miei lettori non conoscano la lingua francese, un pensiero che non mi sfiora, ma perché possano mentalmente confrontare la mia traduzione con la loro e stabilire se la mia sia stata la migliore delle traduzioni possibili, quella cioè che mi fu data apprendere in sogno dallo ierofante Teodoro. (a) “È, come spiegò la dea, perché tra un’infinità di mondi possibili, c’è il migliore di tutti, altrimenti Dio non si sarebbe deciso a crearne alcuno.” (b) “C’era in Vestfalia, nel castello del Signor barone de Thunder-ten-troncckh, un giovane garzone… Candido… Il precettore Pangloss era l’oracolo della casa… insegnava… che, in quel migliore dei mondi possibili, il castello di Monsignore il barone era il più bello dei castelli e la Signora la migliore delle baronesse possibili.” (c) “Egli non poteva mancare di scegliere questo mondo che supera in perfezione tutti gli altri, che costituisce il vertice della piramide: altrimenti Giove avrebbe rinunciato alla sua saggezza e avrebbe bandito me, che sono sua figlia.”
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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IL SANGUE E LA FIAMMA
1. “Le diable dans l'âme”
Quando Ketty tirò la cordicella ed aprì le tendine della sua finestra, vide che fuori, nell’aria ingrigita, una fine pioggerellina aveva inumidito il giardino e la strada e le altre case di fronte. Rimase a contemplare il paesaggio invernale del mattino e voltò leggermente il capo verso il letto matrimoniale, dove giaceva un uomo addormentato. “Martedì, viene a piovere” aveva detto Asmodeo, un loro vicino di casa, quando si erano incontrati la settimana prima, scambiando qualche parola sul tempo, che in quei giorni di fine gennaio erano tersi, il sole splendente, l’aria fredda. “Perché martedì” aveva chiesto lei. “Così dicono le previsioni” si limitò ad osservare Asmodeo,
ripensando che la notizia gliel’aveva data la moglie Esmeralda. Ketty l’aveva guardato, sapeva che quella risposta era incompleta, più che saperlo, lo intuiva. Non poteva vedere quell’immagine che aveva accompagnato il pensiero di Asmodeo. Nella penombra del salotto di casa, la figura della sua consorte, bellissima e conturbante, l’espressione del viso che sembrava guardarlo, veniva a sovrapporsi all’immagine del dipinto alla parete: “L’indovina”. Era quasi un’associazione di idee per quel nome zingaresco della sua donna, come la protagonista di “Notre-Dame” di Victor Hugo.
La previsione si era avverata, sono i progressi del meteo, ti dicono l’ora in cui piove, smette ed esce il sole. Certo, pensava Ketty, sono le previsioni di una giornata, quelle a breve, e non è come indovinare a distanza di giorni nel corso di una settimana. Chi era l’indovina? La moglie del vicino, sicuramente. Avrebbe indovinato anche di quel giovane uomo, la chioma bionda, che ora dormiva tranquillo nel letto matrimoniale?
Catherine De Backer, originaria di Liegi, cinquantaquattro anni, li avrebbe compiuti tra poco più di una settimana, il 12 febbraio, due giorni prima di San Valentino, si era trasferita a Roma da tre anni, ora parlava bene la lingua italiana. Aveva divorziato dal marito, un medico tedesco, frequenti viaggi in Africa, dove curava i malati, una devota infermiera sua connazionale che lo seguiva dovunque. Il titolo di studio, laurea in Scienze Agronomiche, conseguito presso la sua città, aveva permesso a Ketty di essere assunta come esperta presso gli uffici della FAO a Roma. Il primo anno aveva fatto la spola tra l’Italia e Belgio, e in uno di quei suoi viaggi a casa aveva conosciuto Amedeo, un giovane italiano alto e biondo, vent’anni meno di lei, che andava a specializzarsi all’Università di Liegi, in Medicina veterinaria. Non fu una rivalsa contro l’ex-marito, ma fu proprio sedotta dal giovane, ebbe questa percezione, e non si sbagliava.
Aveva iniziato lei, non voleva rimanere sola, in quel primo periodo, una breve storia con un giovane italiano, che si trasformò in passione. Quasi impaurita, e non capiva perché, decise di troncare, e scoprì che per lei fu un dolore. Che cosa le accadeva? Non riusciva più a padroneggiare i suoi sentimenti? O ripensava che forse una sua certa durezza di carattere aveva rovinato il suo primo rapporto coniugale e questa sua seconda storia. Una notte Amadeo ritornò in sogno, quando si svegliò, avvertì la sua presenza nella stanza, era lì, lei era paralizzata dalla paura, non riusciva a muoversi, urlava, ma l’ombra nella stanza non sembrava ascoltare le sue urla. Rimase così per un po', poi scosse il capo più volte, e la violenta agitazione la svegliò, nella stanza non c’era più nessuno. Amedeo era andato via. Riprese sonno, all’indomani fu risvegliata dalla luce del giorno, aveva avuto un incubo. Tempo dopo, si trovò a parlarne con un medico alienista, il dottor Franceschetti, che aveva uno studio nel quartiere. “Niente timori, signora, si tratta semplicemente di brevi paralisi notturne, in cui siamo coscienti di stare dormendo nel nostro letto, nel buio della stanza, ma siccome il sonno ci impedisce di muovere, ci rimane come una coscienza vigile. Quindi, non si tratta di presenze reali, ma solo di figure immaginarie, quelle che percepiamo ferme o aggirarsi nel buio della stanza.” Franceschetti aveva citato Schopenhauer: “Questi spettri li si percepisce, durante il dormiveglia, come quando, sebbene sognando, si scorge esattamente l’ambiente circostante. E poiché tutto quello che si vede è reale, gli spettri che si manifestano godono in un primo momento di una presunzione di realtà.” “C’est une représentation imaginaire traduisant des désirs plus ou moins conscients?” disse Ketty, e proseguì: “Le scénario de l'accomplissement du désir inconscient?” L’alienista fece segno di sì e proseguì: “Nella fase REM del sonno, i neurotrasmettitori hanno lo scopo di inibire il movimento dei muscoli per prevenire reazioni fisiche durante i sogni. Quando entrano in funzione, portano gli individui a rimanere paralizzati, pur essendo coscienti. Le allucinazioni durante la paralisi del sonno, spesso influenzate dallo stato emotivo dell’individuo, come la paura o il panico, sono una forma di sogno, derivanti dalla dissociazione tra stato REM e veglia, e possono portare le persone a percepire nell’ambiente presenze soprannaturali o minacciose.” “Le diable dans l'âme” commentò Ketty. “Un desiderio inconscio” concluse Franceschetti.
2. Una fiammata blu
Ketty si mosse dalla finestra, e nel guardare l’uomo che dormiva nel suo letto, si riaggiustò la vestaglia scivolata alla cintola, lasciando il seno scoperto, un gesto istintivo di riservatezza. Poi, invece di andarsi ad allungare accanto a lui, andò in bagno per farsi la doccia. Quando uscì, mezz’ora dopo, l’uomo non c’era più. Andò a cercarlo in cucina, poi in salotto, nel corridoio, nel tinello: non c’era. Rientrò in camera da letto, si sciolse l’asciugamani legato a mo’ di turbante sulla testa, e ritornò in bagno, per asciugarsi i capelli con il phon. Prima di vestirsi e truccarsi, andò in cucina a fare colazione: “Il a mis le café / dans la tasse / il a mis le lait / dans la tasse de café / il a mis le sucre / dans le café au lait / avec la petite cuiller / il a tourné/ il a bu le café au lait / et il a reposé la tasse / sans me parler / sans me regarder.” Wilfried, i primi anni del matrimonio, due bambini, le sue partenze e i ritorni, i risvegli del mattino, i gesti divenuti abituali, i versi di Prévert: “Il s’est levé / il a mis / son chapeau sur sa tête /
il a mis son manteau de pluie / parce qu’il pleuvait / et il est parti / sous la pluie / sans une parole / sans me regarder.” Guardò verso la porta di casa e lo vide: il cappello in testa, l’impermeabile, la pioggia, una figura d’uomo che svaniva.
Rientrò in camera da letto, si vestì, si truccò, era pronta per uscire, guardò verso il comodino, un foglio e una breve scritta in evidenza. Prima non c’era, almeno non l’aveva visto. Prese il foglio: “Ciao Ketty, ti devo lasciare. Amedeo.” Lesse meglio la firma: “Asmodeo”. Continuò a fissare il foglio e si rivide nella sera precedente. Era scesa in strada e Amedeo le era venuto incontro, dopo tre anni, lo stesso Amedeo, poi fu un’improvvisa sulfurea fiammata blu, alchemica e diabolica a un tempo.
I sogni ci rivelano che siamo plurimi e che ciascuna delle forme che compaiono in essi sono “l’uomo stesso nella sua totalità”, complete potenzialità di comportamento, frammentate in figure multiple. In questa prospettiva, i sogni non sceneggiano la situazione esistenziale, non derivano da essa, sono strumenti per tradurre l’Anima, alias i “numi” (archetipi), nel vissuto. “Le persone con le quali nei sogni mi trovo in comunicazione non sono rappresentazioni (simulacra) dei loro sé viventi, e neppure sono parti di me stesso. Sono immagini di ombra che svolgono ruoli archetipici: sono personae, maschere nella cui cavità è presente un numen. (…) Durante i sogni vengono a farci visita dàimones, ninfe, eroi e dèi, nelle sembianze dei nostri amici della sera avanti.” Così Hillman in “ Il sogno e il mondo infero”, ripreso in “Fuochi blu”. “Nel libro di stregoneria, dal quale Asmodeo trasse gli insegnamenti che comunicò a re Salomone, è scritto che colui il quale desidera rimuovere da sé lo spirito di impurità e soggiogarlo, deve essere pronto a pagare, in contraccambio dell’adempimento dei suoi desideri, tutto ciò che si chiede. Poiché lo spirito di impurità tenta il cuore dell’uomo con molti allettamenti, per prendere dimora in lui.” In questo riferimento del Sefer ha-Zoar, il testo fondamentale della qabbalah del tardo Medioevo, troviamo l’indicazione di Asmodeo come spirito demoniaco dell’impurità, libidine sfrenata causa di ogni tipo di perversione. Ma che c’entra il diavolo lussurioso con il nome di Amedeo, cioè Asmodeo? Ketty rilesse il biglietto firmato dal diavolo. Che stupido!
IL SIGNORE DELLA CASA
“Scusi lei chi è?” Così Asmodeo apostrofò lo sconosciuto che gli veniva incontro in quella casa, nel salotto in penombra. “Sono Emanuel, signore, il maggiore” rispose sorpreso lo sconosciuto, in verità Emanuel, il maggiore della casa, il maggiordomo. Asmodeo aveva l’aria stralunata, vedendo giungere una donna, l’aspetto zingaresco: “Zingara, chi sei?” domandò cantando. Esmeralda, sua moglie, si avvicinò al marito, e senza parlare, gli diede uno strattone, cercando di allontanarlo da Emanuel, che osservava in silenzio, da parte, l’aria compita. “Dimmi tu perché sei venuta qui?” cantava ghignando il marito, lasciandosi trascinare via. Esmeralda lanciò un’occhiata a Emanuel che abbassò il capo. Un baleno, come una scia blu, attraversò la penombra.
Dopo quella prima volta, che sconcertò non poco il maggiordomo e la signora della casa, vi un secondo e un terzo episodio di smarrimento e demenza di Asmodeo, ogni volta seguito però da un perfido ghigno. Fu allertato il dottor Franceschetti, il medico alienista del quartiere, che diagnosticò: “Alzheimer”. Ma subito rassicurò Esmeralda Pérez de Araciel, coniugata Patricelli: “Solo un principio, signora.” La malattia, invece, era a uno stadio più avanzato. Non era questo però che preoccupava Franceschetti. Quello strano ghigno di Asmodeo, alla fine di ognuna delle prime crisi di smarrimento, come faceva a conciliarsi con i sintomi dell’Alzheimer? Era forse il sintomo di un diverso caso di degenerazione mentale o rammollimento del cervello del Patricelli? E quel tic, un riso non isterico, come accade nella sindrome di Tourette o in turbe di carattere isterico, ma un vero e proprio ghigno del diavolo, a sigillo della demenza temporanea, inquietava l’alienista. Poi che cosa accadde?
Avevo letto l’avviso di vendita della casa, e telefonai al numero indicato: “L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile, si prega di richiamare più tardi.” Ho chiamato più volte, nel corso della mattinata, ma l’utenza non era raggiungibile. Nel pomeriggio, abitavo in zona, mi recai all’indirizzo indicato nell’annuncio di vendita, per vedere la casa quanto meno dall’esterno. Trovai accanto alla porta d’ingresso del caseggiato il cartello con lo stesso annuncio di vendita, l’appartamento era al quarto piano. Citofonai a uno dei quattro nominativi di quel piano, nessuno rispose, soltanto lo scatto di apertura del portone. Entrai, e con l’ascensore, salii al quarto piano.
Mi diressi verso una porta socchiusa, mi avvicinai, la porta si aprì a metà e un uomo mi invitò ad entrare, bisbigliando: “Prego, signore.” Stavo per parlare a voce alta: “Sono venuto…” L’uomo m’invitò con un gesto al silenzio, mentre m’introduceva in casa, in una sala in penombra. Quindi, mi guidò verso una scala interna, e salimmo al piano superiore, in ambienti bui, un chiarore proveniente da una stanza, dove si avvertiva la presenza di persone. L’uomo mi fece cenno di entrare, una luce schermata lasciava appena intravvedere la scena: attorno a un letto addobbato a catafalco, su cui giaceva il defunto in una bara, vegliavano suoi familiari e conoscenti, tra cui occasionalmente mi trovai anch’io. Entrando, una donna china accanto al capezzale, si era voltata verso di noi, aveva dato un’occhiata, poi era tornata alla sua posa di raccoglimento. L’uomo accanto a me si era spostato, per farmi posto tra gli altri, ed io mi affacciai a guardare l’estinto: un uomo anziano, il viso di cera. Io non so che cosa accadde, ma non appena lo guardai in volto, il morto aprì gli occhi e mi lanciò uno sguardo gelido. Forse era stata soltanto una mia impressione, perché nessuno fece cenno di essersene accorto o quanto meno, semmai se n’erano accorti, non lo diedero a vedere, neppure la donna vicino a lui, rimasta immobile. O erano una cerchia di iniziati o il suggestionabile ero io, che avevo avuto un’allucinazione. Questo dubbio, però, me lo posi soltanto in seguito, al momento rimasi abbastanza raggelato, e indugiai paralizzato a vegliare il morto. Dopo un po', qualcuno dei presenti non riuscì a trattenere un breve colpo di tosse, ed io ne approfittai per ritrarmi, accennando verso l’uomo che prima, in maniera così inopinata, mi aveva accompagnato a quella imprevista veglia funebre. Egli fu subito sollecito nell’accondiscendere, scambiò uno sguardo d’intesa con la donna accanto al capezzale, verosimilmente la vedova del defunto, e con premura mi accompagnò fuori. Scendemmo la scala, attraversammo la sala in penombra e fummo alla porta. Stavo per parlare, quando l’uomo, che poi seppi era un domestico, come peraltro il suo comportamento mi aveva già lasciato intuire, disse: “Le esequie del signore della casa si terranno domani mattina.” Non sapevo come congedarmi, quando il domestico disse: “La signora l’aspetta, nel pomeriggio, per la stipula del contratto.” Ero sconcertato: “Verrò” dissi. Feci un leggero inchino, date le circostanze, e mi mossi verso l’ascensore, aspettò per chiudere la porta che io fossi sparito dalla sua vista. In quella casa, non era necessario parlare, tutto era tacito o almeno taciuto.
IL SOGNO EGIZIO
Ero solo in casa, la casa che avevo acquistato nel pomeriggio del giorno prima di quello delle esequie del signore della casa, a cui ebbi l’onore di partecipare. In verità, si trattò di un’incombenza, dovuta al mio impegno d’acquisto, e già mi sembrava strano aver dovuto consentire a quella partecipazione. E strana era poi stata la stipula del contratto d’acquisto. Nella penombra del salone, c’era il notaio, un uomo vestito con abbigliamento medievale, doveva essere uscito dalla stanza dove si teneva la veglia funebre, il domestico, pardon! il maggiore della casa, la vedova, io. Firmai un contratto già pronto, la consegna era prevista per il giorno dopo, il ritiro della mobilia entro una settimana, con una clausola alternativa: uno sconto del venti per cento, se avessi consentito a tenermi i mobili, tutti. Scelsi di firmare per la clausola alternativa, anche se avevo il sospetto di un evidente artifizio: non solo mi regalavano i mobili, tutti, ma invece di ottenere un sovrapprezzo, mi facevano un notevole sconto. In verità, doversi tenere i mobili non è proprio un vantaggio, se uno vuole arredare la casa a suo gusto, e magari dover pagare per un trasloco e deposito dei mobili, in attesa di un’eventuale loro vendita. Ecco, allora, che lo sconto può apparire giustificato, ma nel caso era abbastanza alto, e se uno avesse tenuto conto dell’operazione, il guadagno ci sarebbe già stato. Allora, perché lo sconto? Perché offrirmi un ulteriore vantaggio economico? Avevo accettato, per riuscire a capire dove andava a finire questa mia linea di condotta di abbandono agli eventi, una linea che sembrava fosse già stata tracciata. Passai in rassegna gli ambienti vuoti di quella casa, che avevo comperato ad occhi chiusi, e che fino al giorno prima era gremita di gente.
In quel periodo, io ero un po' spaesato, venivo da un mio soggiorno negli Stati Uniti, Georgia, avevo pagato in dollari – ecco dov’era il vantaggio dell’alienante – era stato tutto così improvviso, una vertigine. Che accadeva? Chiusi la casa e andai in albergo, dove avevo trovato alloggio al mio rientro in patria.
Giorni dopo, mentre andavo verso la mia nuova casa, incontrai Gianna, una donna bionda, che avevo conosciuto di recente e incontrato la prima volta non ricordo dove. Io sono tornato dall’America circa un mese fa, quindi devo averla conosciuta da poco, mi sorrideva, le cedetti il passo. E quasi sotto casa incontrai il signor Lorenzo, anche questa una conoscenza recente, si presentò come Renzo. Ebbi modo di conoscere anche la moglie, mi parlò di una sua malattia agli occhi, mi guardò con apprensione, disse che un intervento chirurgico non era doloroso. Commentai che in anestesia non avrebbe sentito dolore, ma in verità parlavo più da paziente che da esperto sanitario. Lorenzo mi salutò e passò oltre, avrei voluto fermarmi per conversare un po', sapere qualche notizia del quartiere, di cui ero nuovo. Prima di partire per l’America, abitavo in un villino a nord di Roma, oltre il raccordo anulare, qui, nella zona dell’Appia Antica, era come se venissi da un’altra città. Entrai nella mia casa e feci un nuovo giro per le stanze, questa volta aprii tutti gli armadi, le due cassapanche e i cassetti dei mobili e dei comodini, erano tutti vuoti, tranne la libreria, intatta, quattro colonne di sei scaffali, piena di libri, a occhio e croce un migliaio. Al centro della libreria, c’era uno spazio per la televisione, e in un angolo del salone un tavolinetto con il computer.
Che cosa cercavo? Niente. Pensavo di dover prendere una decisione. Quale? Trasferirmi subito dall’hotel ed accamparmi in casa? Ma avevo guardato bene dappertutto? No. Nella camera da letto, al piano di sopra, trasformata in camera ardente, in occasione della morte del signore della casa, da quella prima volta, non ero più entrato. Perché? Così, per scaramanzia? O perché odorava di morte? I ceri accesi, l’aria chiusa. Ecco. Decisi che era soltanto una questione di tatto, nel senso di buon gusto estetico, non quindi di olfatto, ed entrai. La stanza era esposta a sud ovest, ed era piena di sole, erano rimasti i materassi sul letto e i cuscini, guardai nel comò, c’erano lenzuola e federe ripiegate e pulite, odoravano di lavanda. Mi posi il seguente interrogativo, abbastanza sciocco: è meglio stendersi su un letto dove ha dormito un vivo oppure su quello dove è giaciuto un morto? Ormai da quasi un mese, vivevo in albergo, dove passano tutti, tutti i vivi e tutti i morti, dico così in maniera generica, e in quella casa mi sentivo ancora the guest, in questo senso a mio agio. Abbassai la serranda della finestra, filtrava il sole, e la stanza era ancora illuminata, mi tolsi le scarpe e mi stesi sul letto, vestito, chiusi gli occhi.
La donna entrò in camera, adesso in penombra, si avvicinò al letto dove ero steso, si chinò vicinissima al mio volto, volevo sollevare la testa per baciarla sulle labbra, ma non ci riuscii, “Asmodeo”, sussurrò lei e si allontanò da me. Ero nel sito archeologico dell’antico Egitto, e mi trovavo all’interno della piramide di Cheope, vidi una figura femminile venirmi incontro. Era strano, ma quella donna nell’ombra era come se indossasse un poncho, quello dei gaucho argentini, che le scivolava lentamente, quasi a rivelare un seno enorme. Mi voltai, ed ebbi la sensazione di stare in un recinto per pecore. Aprii gli occhi, nella stanza filtrava ancora la luce del sole. Avevo sognato, ma che cosa avevo sognato? Chi erano quelle figure del mio sogno?
Ecco, nella stanza era entrata la signora della casa, almeno ebbi questa sensazione, certo, Asmodeo, il suo letto, giaciglio di morte. La vedova veniva a dare l’ultimo saluto di congedo all’amato o odiato defunto. Ed io? Ma non sono le figure dei sogni gli archetipi, i numi, tradotti da Anima nel nostro vissuto? Non era l’immagine della vedova del defunto Asmodeo che era venuta a visitarmi, ma allora quale archetipo? La morte che abita nella nostra vita e come immagine primordiale si mascherava nelle sembianze di Esmeralda Pérez de Araciel? Eppure, non si era lasciata baciare. Perché? Nella sua potenzialità era quella figura un frammento della totalità della vita e della morte dell’uomo come assieme multiplo. In tal senso non era un simulacro della signora della casa in sé vivente, ma un’immagine ombra, che non apparteneva neppure ad una parte di me.
Anche le altre figure oniriche evocate dal mondo infero giocavano questo loro ruolo nel sogno. E si riallacciavano ai recenti ricordi di qualche giorno e sera prima, come la mia visione di quel documentario televisivo sui siti archeologici, presentati da una guida, un’amabile figura femminile che si fondeva nello scenario della sfinge e delle piramidi egizie. E così il poncho, lo scialletto dei gaucho, riconducibile alla lettura e immaginazione di storie argentine. Nei miei giri del quartiere, avevo percorso alcuni tratturi della tenuta amaranto inglobata nel parco dell’Appia Antica, e avevo visto un gregge di pecore pascolare, e un’altra volta il recinto con un manufatto per la mungitura. Era un po' il paesaggio da me immaginato di certi racconti di Borges, ambientati in zone rurali della provincia di Buenos Aires. Forse, l’enorme seno della figura femminile, che si rivelava nell’ombra della piramide di Cheope era il simbolo dell’immagine primordiale, quella del seno materno, che nutre e dà la vita, ed ecco il recinto della mungitura degli ovini dell’agro romano.
Ma questa interpretazione mi inquietava, perché l’immagine si traduceva in un sentimento di malinconia egizia, nel senso della fine di un viaggio d’avventura tra i segni di una civiltà millenaria, il congedo da una donna cara che si allontanava da me nell’ombra funeraria della piramide. Ma come si coniugava quel sentimento di malinconia con le mie fantasie sui monumenti dell’antico Egitto, solo sognato?
Dovevo cercare una migliore spiegazione, decifrare i simboli. L’ombra dell’antica tomba dei Faraoni rimandava a un passato mitico, sul cui sfondo si distingue il momento dell’inizio, la festa primordiale. E come?
Nell’analisi del linguaggio, se andiamo alle origini della parola festa, come spiega il filosofo Emanuele Severino, scopriamo un insieme di parole di diverso significato, ma accomunate da una stessa struttura linguistica che risale a un paio di radici indo-europee: DHE o anche DHES. E non è difficile accorgersi che in Festa, risuona la radice FE, riconducibile a DHE o DHES; ma FE è anche la radice di Felix, Felice. E felice è colui che è vicino alla fonte della felicità, il seno materno; nella lingua greca, Thele, radice THE, è il seno, la mammella, che dà il latte e la vita, l’alimento essenziale, la gioia che esso procura. Il senso iniziale della felicità diventa poi evento festivo, la festa arcaica.
Il popolo greco per indicare Festa usa un termine che ci risuona stranissimo Theoria, contemplazione festiva. Se andiamo a leggere nei primi libri della Bibbia, nell’Esodo, Dio primi sei giorni lavora, poi si riposa. E così Mosè invita il popolo radunatosi ai piedi del monte Sinai a considerare un giorno consacrato esclusivamente al divino, e non compiere attività lavorative. Infine, conclude Severino, il tema della festa arcaica, diventa il centro da cui si irradiano tutte le forme di vita.
Ma quale significato avevano per me quei simboli del sogno, il seno materno e il latte come fonte di vita, bene essenziale, che rimandavano alla festa primordiale, la festa della vita? E quel mancato bacio di Esmeralda? Ero confuso. Mi alzai, andai alla finestra e riaprii la serranda, il sole tramontava. Scesi al piano di sotto e lasciai la casa.
LA SCADENZA DEL CONTRATTO
Qualche tempo dopo, ricevetti uno strano messaggio sul telefonino: “Il contratto scade il prossimo ottobre.” Chi aveva mandato il messaggio? E perché? E soprattutto di quale contratto si trattava? Subito pensai a Esmeralda e al contratto di vendita della casa, l’acquisto da me compiuto, in circostanze così particolari. Eravamo agli inizi di aprile, come dice il poeta: “Primavera d'intorno, brilla nell'aria e per li campi esulta”. Mi sentivo rinascere a nuova vita, dopo il mio rientro in patria, ma forte avvertivo un senso di spaesamento, come quello di chi ha dovuto interpretare a lungo il ruolo di “guest”, l’ospite, lo straniero. Ora, ero tornato a casa, ma non mi ci ritrovavo più, forse dovevo riabituarmi, l’acquisto di quella strana abitazione non aveva risolto la mia situazione psicologica. E adesso questa telefonata, ma non poteva essere stato un errore? Decisi di andare a fare una passeggiata al centro, alloggiavo in un hotel, all’inizio della Laurentina, presi la metro B, cambiai a Termini, e con la linea A scesi a Spagna; quindi, imboccai il corridoio d’uscita sulla piazza. In quel momento, ricevetti un secondo messaggio: “Il contratto scade il 30 ottobre.” Non era un errore. O forse l’errore non era stato voluto, nel senso che il mittente aveva il mio numero di telefono, ma era quello sbagliato. Errare humanum est, perseverare aut diabolicum. Sull’onda di questo pensiero, telefonai al numero di Esmeralda, che avevo registrato sul mio telefonino, prima di uscire dall’hotel. Mi rispose la segreteria telefonica, la voce di un uomo: “Lo studio è temporaneamente chiuso, si prega di lasciare un messaggio dopo il segnale”. Sentii il bip, rimasi in silenzio, esitavo, chiusi la comunicazione. Che dovevo dire? E se avesse risposto la signora Pérez de Araciel, che cosa avrei detto? Avevo pensato Esmeralda e ora già dicevo signora, ma non mi stava baciando in sogno? No, era un bacio mancato. Freud sostiene che il sogno è la realizzazione di un desiderio, Michel Foucault lo critica e parla di natura allucinatoria della soddisfazione del desiderio. Ma io neppure in sogno, quello strano sogno egizio, avevo soddisfatto il desiderio, peraltro un’allucinazione. Ma dei due, lo psicologo e l’antropologo, chi ha ragione? Avevo raggiunto la Fontana della Barcaccia, svoltai a destra ed imboccai la via Condotti, guardavo le vetrine dei negozi, mi soffermai davanti a una gioielleria, ma pensavo al bacio mancato, ah! ecco perché.
Qualcuno mi aveva dato un colpetto sulla spalla, mi voltai sorpreso. Un uomo alto, con gli occhiali, i capelli corti, brizzolati, come la barba, il pizzetto, un aspetto austero, ma l’espressione sorridente. “Pier”, disse. Chi era? Notò il mio sconcerto: “Ti presento mia moglie” disse. Aveva leggermente balbettato, nel parlare, e io, nel rivolgermi alla donna di mezza età al suo fianco, per quel particolare, mi ricordai d’un tratto di lui: “Pietrangelo Lo Turco.” Eravamo stati militari insieme, io amante della poesia, lui del teatro, io non amante dalla rigida forma della disciplina, lui marziale, io mi congedai presto, lui rimase in servizio. Calcolai rapidamente, eravamo entrambi quarantenni: “Colonnello Lo Turco” dissi con l’aria di chi si complimenta, accentuando l’espressione del viso. “Tenente Colonnello” precisò. Ecco il militare. “In promozione,” aggiunsi subito. La moglie si illuminò in viso. Mi prese sottobraccio: “Andiamo a prendere un caffè”. Cominciò a parlare del teatro di Ugo Betti, e mentre parlava, io pensavo ad altro, eravamo entrati in un caffè riccamente arredato. Avrei dovuto pagare io, non sapevo se avessi portato con me i documenti di credito o il contante, mi toccai macchinalmente le tasche, mentre assentivo a quello che diceva sul teatro, e notai che Lo Turco aveva notato il mio gesto. “Da certe battute del copione si capisce che l’autore è un magistrato” dissi per distogliere l’attenzione dalla nostra realtà presente e riportarla a quella immaginaria della scena teatrale. “Corruzione a palazzo di giustizia” disse Lo Turco. In verità, pensavo ad un altro dramma, che avevo visto di recente, dove l’interprete sentendosi chiamato in causa, rispondeva sorpreso: “Io?” Lo Turco subito indovinò il titolo, quando un attimo dopo riferii della scenetta, e disse: “Il vento notturno”. Poi iniziò un discorso sulla verità della scena e la finzione della vita, dicendo che la realtà contiene elementi di finzione e che la finzione contiene elementi di verità. “E di fronte a questo dilemma un giudice si trova a confrontarsi ogni volta, come nella commedia del padre.” Pensai a Pirandello, mi distraevo dalla mia realtà ed entravo nella realtà comune, quel nostro attuale discorso sulle scene e sul teatro. Antonio, il commendatore di “Il vento notturno”, alla fine si rivela il padre di Elena, aveva sognato di ritrovarla in un luogo molto più bello, dove saranno vere tutte le cose desiderate: la trascendenza di Betti. Il “padre” di Pirandello, la figura principale di “Sei personaggi in cerca d’autore”, è lui l’autore invisibile del copione, il capocomico è soltanto il regista.
Cominciavo a seguire con più attenzione Pietrangelo, disse che la commedia era in cartellone al teatro Argentina. “Argentina” rimarcai. “T’interessa?” disse. Non risposi, mi ricordai del poncho argentino del mio sogno egizio. “Pier?” Mi riscossi, mi ripresi: “L’ho già visto più di una volta, l’ho studiato, più o meno.” S’illuminò alla mia risposta: “Il personaggio del “padre”, come la “figliastra”, più degli altri sei, sanno di essere personaggi, che soffrono il dramma di una loro storia da voler rappresentare in modo da concedere loro la possibilità di esistere. Eppure, non possono sospettare che è proprio questa impossibilità, questa ingiustizia, la vera funzione della loro esistenza. Se qualcuno glielo dicesse, non gli crederebbero, dice Pirandello, perché non è possibile credere che l’unica ragione della nostra vita sia tutta in un tormento che ci appare ingiusto e inesplicabile.” Pietrangelo conosceva bene Pirandello, era un colonnello dell’esercito, ma anche un critico teatrale. “Non si dà storia, se la storia non viene raccontata” dissi. Marito e moglie mi guardarono, ne approfittai, per aggiungere: “Se questa nostra storia, che qui noi stiamo vivendo, non viene raccontata, non esiste come storia.” Sapevamo noi se qualcuno la stava raccontando? Non posi quest’interrogativo, ma dissi: “Ci troviamo una sera e andiamo a teatro, magari all’Argentina, quando va in scena la commedia di Pirandello.” Scossero entrambi la testa, la programmazione era per maggio, e Pietrangelo sarebbe partito in missione a giorni. Ecco la caducità dell’interrogativo. “Ti mando un commento dal campo” disse. Eravamo fuori del caffè, mi accompagnarono all’incrocio con piazza di Spagna, ci congedammo, io pensavo sempre a quello che stava scrivendo questa mia storia, ed ero un po' io, così come la figura del padre è un po' quella del capocomico. Ma qual era questa storia del padre? Quella di Pirandello, nella mente allucinata della consorte, padre incestuoso, tanto che la figlia Lina tenta il suicidio con un colpo di pistola, c’è un colpo di pistola nella commedia. Il fantasma di quest’allucinazione lo perseguitava e l’ha messo in scena e ha messo in scena sé stesso in una condizione di logica impossibilità di raccontare questo suo dramma, il travaglio del suo spirito, come dice il drammaturgo infelice. Ed io? Non sono un drammaturgo, o forse lo sono, e sto raccontando, mettendo in scena, il travaglio del mio spirito. Quale?
Ero arrivato alla stazione della metro, percorsi il corridoio, scesi con la scala mobile ed ero sulla banchina, in attesa del convoglio per Anagnina. Tra un po’ avrei cambiato a Termini, avrei preso la linea B e sarei sceso a Laurentina, poi sarei entrato in albergo.
In quel presente di un passato appena trascorso, il congedo dai Lo Turco e l’entrata nella stazione della metro, mi trovavo teso verso un immediato futuro di rientro a casa. Non si dà tempo se il tempo non viene raccontato: dovevo ancora raccontare il tempo di questo rientro. Nella mia casa oppure nel mio hotel? Ero ancora the guest.
MONUMENTO DEL TEMPO
Mi svegliai di colpo. Dov’ero? Non riconoscevo il letto e la stanza al buio. Chi cantava? By the rivers of Babylon, there we sat down
ye-eah we wept, when we remembered Zion.
Nessuno cantava, io cantavo, il ritornello mi rimbalzava di continuo nella mente.
By the rivers of Babylon, there we sat down
ye-eah we wept, when we remembered Zion.
Prima di andare ad aprire la serranda della finestra in alto, la stanza era ad un livello di qualche scalino più in basso della porta, mi resi conto di dove stavo: un hotel di Notting Hill. Aprii la finestra, entrò una luce fioca, quella del cielo grigio di Londra. Salii due scalini ed entrai nella stanza da bagno a lavarmi. All’arrivo, mi avevano dirottato in quell’albergo, per mancanza di posti in quello prenotato, la gestione era indiana o pakistana, subito la stanza mi era sembrata soffocante. Ero uscito ed ero andato a cena in un ristorante italiano, osservai un mio vicino che aveva versato il vino bianco nel risotto allo zafferano. Non persi l’occasione per mangiare penne all’arrabbiata e l’ossobuco con piselli, serviti dal gestore, un romano molto simpatico., poi sotto la pioggia ero ritornato in hotel. Mentre finivo di prepararmi, sentii alla televisione che i reali d’Inghilterra erano in partenza per l’Italia. Che ci facevo a Londra? Andai al check-out, nel vedermi, la ragazza si mise a ridere, ero abituato a quei sorrisi maliziosi, e non mi dispiacevano, ma questa volta lei non aveva potuto trattenere il riso, il classico riso della donna tracia, ero scettico. Perché? Chiesi informazioni per sapere dov’era l’Hilton, si poteva raggiungere a piedi. Avrei preso alloggio in un albergo più decente, anche se più caro. Dovevo incontrare qualcuno?
Sono rimasto altri due giorni, ho rivisitato tutti i posti più turistici della capitale inglese, che ricordavo tutti dalla mia prima volta, quando avevo vent’anni, e sono andato anche a Portobello, ecco, la musica di Bob Marley, e la musica reggae.
By the rivers of Babylon, there we sat down
ye-eah we wept, when we remembered Zion.
Il complesso Boney M., i cantanti britannici di origine giamaicana, base in Germania, la canzone, uno "spiritual" rastafariano, gli ebrei esiliati a Babilonia, e come loro la nostalgia della patria lontana.
When the wicked
Carried us away in captivity
Required from us a song
Now how shall we sing
the lord's song in a strange land.
Ero venuto a Londra per visitare il British Museum, un’anglo-egiziana guidava i visitatori alla stele di Rosetta, più che ai reperti dei faraoni, ero attento alle spiegazioni della guida, la sua lunga e fluente chioma di capelli neri ricci. Ma non c’era solo l’Egitto nel mio sogno, c’era anche lei, la donna che ero venuto a cercare a Londra, e che all’Hilton non avevo trovato. Ora potevo ricostruire questa mia situazione di guest, non tanto guest, se ormai questo mio ruolo mi era diventato familiare.
Quando avevo lasciato i coniugi Lo Turco a piazza di Spagna, alla stazione della metro, sulla banchina in attesa, nell’istante tra il passato appena trascorso e il futuro subito immediato, avevo come rimosso quello strano messaggio ricevuto sul telefonino, e la conferma della scadenza del contratto. Avevo come dimenticato la spiegazione del bacio mancato del mio sogno, intorno a cui cercavo la soluzione, e che invece avevo colto proprio nell’attimo in cui avevo udito pronunciare il mio nome: “Pier”.
Qualche giorno dopo, forse il giorno dopo stesso, ero andato nello studio del notaio, a cui corrispondeva il numero di telefono lasciatomi da Esmeralda Pérez de Araciel. Si trovava vicino alla piazza San Lorenzo in Lucina, mi aprì il notaio Notarangelo, come si presentò. Aveva capelli bianchi, i baffi bianchi spioventi, ora si era seduto dietro la scrivania, prese una penna stilografica e cominciò a scrivere. Ma che cosa scriveva? Dissi del messaggio anonimo, del mio contratto d’acquisto della casa Patricelli. Il notaio, non era quello della stipula in abiti medievali, alzò la testa, mi guardò, poi si alzò, prese un faldone dallo scaffale di archivio alle sue spalle, estrasse un fascicolo, l’aprì, e mise il contratto di acquisto davanti ai miei occhi, indicando le firme. “È questo?” disse. Accennai di sì con la testa e domandai: “Quando scade?” Il notaio mi guardò, aveva gli occhiali, l’espressione neutra: “Mai” disse. E allora perché il messaggio sul telefonino? Non rispose, ritirò il contratto, lo rimise nel fascicolo, lo ripose nel faldone. Perché? Insistetti. Mi tese un biglietto, su cui c’era scritto: “Hilton, Mrs. Esmeralda Dalloway, Londra.” Si alzò e ripose il faldone nello scaffale d’archivio alle sue spalle, poi si voltò verso di me. Indicai l’altro foglio sulla scrivania, su cui prima aveva vergato alcune righe. Il notaio abbassò lo sguardo sul foglio, poi guardò me, come a chiedersi quale relazione intercorresse tra me e quello che lui aveva scritto poco prima. Prese il foglio, lesse il contenuto, quindi me lo diede, lessi: “Perché vivendo a Westminster – da quanti anni ormai? più di venti – anche in mezzo al traffico, o svegliandosi di notte, si percepisce, Clarissa ne era certa, un silenzio particolare, o solennità; una tregua indescrivibile; una sospensione (ma quello poteva essere il suo cuore, debilitato, dicevano, dall’influenza) prima dei rintocchi del Big Ben. Ecco! Eccolo che risuonava! Prima un avvertimento, musicale; poi l’ora, irrevocabile.” Che significava? L’uomo si riprese il foglio e lo ripose sulla scrivania, quindi alzò le spalle: “Virginia Woolf, Mrs. Dalloway.” E allora? L’uomo si mosse da dietro la scrivania e mi si avvicinò: “Menardi, venga!” disse forte, mi toccò il braccio e in silenzio mi accompagnò alla porta, quindi mi invitò ad uscire. Oltre la soglia, mi voltai a guardarlo. Chiuse la porta, lessi l’incisione sulla targhetta in ottone: “Andrea Notarangeli – Notaio in Roma.” Poi l’immagine si sfuocò.
Guardai in alto il Big Ben, l’orologio della torre di palazzo Westminster, imbruniva, ero seduto su una panchina del prato di fronte al Parlamento, in cielo volava un aereo. Londra, il Big Ben, il monumento del tempo, dovevo rientrare a Roma.
"By the rivers of Babylon"
Il testo della canzone è un frammento del Salmo 137, un canto di lamento degli Israeliti in cattività a Babilonia. Esso riflette il dolore e la nostalgia per la loro patria, Sion, mentre si trovano in terra straniera.
By the rivers of Babylon, there we sat down
Presso i fiumi di Babilonia là ci sedemmo
Yeah, we wept when we remembered Zion
Già, abbiamo pianto ricordandoci di Sion
By the rivers of Babylon, there we sat down
Presso i fiumi di Babilonia là ci sedemmo
Yeah, we wept when we remembered Zion
Già, abbiamo pianto ricordandoci di Sion
There the wicked
Là i malvagi
Carried us away in captivity
Ci ha portato via in cattività
Required from us a song
Ci è stata richiesta una canzone
Now, how shall we sing the Lord's song
Ora, come canteremo la canzone del Signore?
In a strange land?
In una terra straniera?
There the wicked
Là i malvagi
Carried us away in captivity
Ci ha portato via in cattività
Requiring of us a song
Ci è stata richiesta una canzone
Now, how shall we sing the Lord's song
Ora, come canteremo la canzone del Signore?
In a strange land?
In una terra straniera?
LA PORTA GRIGIA
“Gli attori recitano e non possono uscire dal loro ruolo di attori, non possono sfondare la quarta parete, quella invisibile tra loro e il pubblico. Se lo fanno, sospingono davanti a sé questa parete trasparente, fino a quando non scompaiono dall’orizzonte dello sguardo degli spettatori.” Avevo ricevuto questo messaggio da Lo Turco, e per il colonnello in missione nel Medio Oriente, quel messaggio era importante non per i suoi contenuti, ma per la forma ovvero la direzione della traiettoria verso Occidente. Era una risposta alla mia osservazione sulla Figliastra dei “Sei Personaggi”, che alla fine della Commedia, scende dalla scena in platea sghignazzando, e abbandona il teatro. Ponevo il quesito se fosse la rappresentazione della follia, che lascia la scena della finzione, ed entrando nella realtà, diventa una folle risata liberatoria dalla follia. Il mio quesito non era peregrino, perché voleva riflettere quel “travaglio dello spirito” dell’autore, che soffriva della pazzia della moglie e mandava in scena quei suoi deliri, al fine di una sua catarsi interiore, lo spirito purificatore della tragedia come indica Aristotele. E l’umorismo pirandelliano è un po' una rivincita dell’evidenza drammatica del reale in contesa con l’illusione di una verità irreale, la finzione, l’arte. Ma, dicevo, Lo Turco inviava il suo messaggio in ragione della sua traiettoria da una lontana zona di operazioni militari verso la sua terra patria non soggetta a tali inquietudini.
Avevo, ormai, preso pieno possesso della mia casa, per la quale il mio contratto di acquisto era definitivo, non era soggetto a scadenza. Ma chi l’aveva messo in dubbio? Io? No, non sono l’autore dei messaggi indirizzati al mio telefonino, anche se erano sintomi di una stranezza della situazione. Chi scriveva quelle cose?
Un giorno, mentre tornavo a casa, ho incontrato Lorenzo, e l’ho invitato a salire con me nella mia abitazione, per la quale aveva mostrato curiosità, ma non era il solo, anche Gianna. Era stata lei, quella sera, in sella a una motocicletta, che mi aveva salutato, sfrecciandomi davanti sulla strada, che stavo per attraversare? Penso di sì.
Siamo passati dall’ingresso alla sala interna e abbiamo visitato insieme tutte le stanze del piano superiore, siamo scesi e stavamo andando in cucina, dove l’avevo invitato a prendere un caffè, quando lui ha indicato in un angolo una porta grigia, semicoperta da una tenda. Allora, ci siamo avvicinati e lui ha aperto la porta, un attimo solo, e l’ha richiusa di botto. Mi ha guardato esterrefatto, era paralizzato, io non ho mostrato segni di stupore, sono rimasto impassibile a guardarlo. Ha mormorato qualcosa, era divenuto pallidissimo, poi in fretta si è diretto deciso all’ingresso, ha aperto l’uscio ed è sgusciato via. Che cosa era successo?
Quando ha aperto la porta grigia, io ho visto il cadavere del defunto signore della casa, ritto nella rigidità della morte, che ha aperto gli occhi e ha lanciato uno sguardo gelido. E lui? Io credo che abbia avuto una visione terrorizzante, d’altronde come altri della zona conosceva Asmodeo da vivo, era una conoscenza del dottor Franceschetti, l’alienista, che lo stesso Lorenzo una volta aveva nominato, non so a che proposito. Intendiamoci, io sapevo che cosa c’era dietro la porta grigia, l’avevo aperta diverse volte, fin dalla prima volta ch’ero entrato in casa, e non vi avevo trovato mai nulla di strano. Quella volta che Lorenzo l’aveva aperta forse abbastanza imprudentemente ed era rimasto di sasso, io ero rimasto impassibile di fronte a quel suo turbamento forse eccessivo, quasi presentivo che non sapesse. Che cosa? Quello che sapevo io, e siccome sono un tipo scrupoloso, sono poi subito andato a controllare. E infatti, era come pensavo: quando ho aperto la porta grigia, ho visto lo specchio a muro, che è stato sempre là. E allora? Io ero dietro di lui ed ho immaginato il signore della casa defunto, di cui avevo avuto visione la prima volta quando era in posizione orizzontale. È naturale che io posso immaginarlo, ovvero immaginare la sua figura che si aggira per quella che era stata la sua casa, non vedo nulla di straordinario in questo, e quindi immaginarlo anche dietro la porta grigia. E l’immagine che io ho del mio predecessore, ecco, l’ho detto, il mio predecessore, era quella di un viso di cera, rigido nella rigidità della morte. Aveva aperto gli occhi e lanciato uno sguardo gelido? È una stranezza poco credibile, infatti ricordo che ero rimasto abbastanza incredulo quella volta, ma è l’unica visione e ricordo che io conservo di Asmodeo, il defunto signore della casa. Ma Lorenzo? Non credo che abbia avuto la mia stessa visione. E allora quel terrore negli occhi e il precipitoso allontanamento? Si possono trasmettere sensazioni, ma non credo oggettivare, diciamo così, le immagini della mente e renderle visibili agli altri accanto a noi, al massimo si possono raccontare. Aveva visto riflesso sé stesso o la mia figura, non saprei dire se la mia immagine era coperta dalla sua. E quindi?
Solo un nuovo confronto poteva sciogliere l’enigma della porta grigia, come magari si può definire l’insolito episodio. E l’occasione si presentò una sera, era ormai estate, giugno, mi sembra. Dopo una certa ora su quel viale di periferia, illuminato da una fila di lampioni, rimaneva accesa solo la vetrina della notte del bar ormai chiuso, e nelle ombre buie, illuminati di riflesso, scorsi Lorenzo assieme a un altro, uno stradino che conoscevo di vista. Mi unii ai due, dopo aver salutato l’amico, che mi guardò, un sorriso malizioso all’angolo della bocca. Era passata la paura, ma rimaneva vigile l’attenzione nei miei confronti, perché ai suoi occhi la mia impassibilità di quella volta doveva averlo impressionato più della visione da lui avuta. Io non so, ma era come se fosse stato investito da una folata di aria gelida, quando io avevo visto il morto aprire gli occhi, e la successione di queste due emozioni lo aveva sconvolto, allora. Dopo un banale scambio di battute sul tempo mite e la quiete serale, Franco, così si chiamava lo stradino, che identificavo come tale, perché l’avevo visto con la pettorina gialla, mentre spazzava il viale, fece alcune battute sul proprietario del bar. Entrambi si intendevano su alcune conoscenze del quartiere, e allora io dissi della donna bionda, Gianna, che avevo visto in moto. Ah, una vampata di capelli rossi! commentò Lorenzo, forse parlavamo di donne diverse. Franco non disse nulla, dopo un po' mi congedai da loro, e tornai a casa. Ero il forestiero divenuto di casa, una casa dove avvenivano, in verità, strane sconcertanti situazioni, come quelle della porta grigia.
TRA LE SUE BRACCIA
Alla fine, mi decisi, e telefonai per chiedere un incontro con il dottor Franceschetti, mi rispose una voce femminile, dicendo che il dottore era in partenza per la villeggiatura al Circeo; quindi, poteva fissare una data alla fine di settembre o ai primi di ottobre. Colsi la palla al balzo: “Prima del 30 ottobre, se possibile.” L’altra sembrò sollevata: “Ah! Vediamo, Il 30 ottobre è un giovedì, lei ha detto prima?” Confermai: “Sì.” Consultò il calendario: “Ci sarebbero martedì 28 oppure giovedì 23.” Il tempo di riflettere, poi dissi: “Il 23 andrebbe bene, comunque se crede anche il 28 va bene.” Controllò, poi disse: “Giovedì 23, alle dieci o alle dodici.” Scelsi tra me, quindi dissi: “Mezzogiorno, signora.” Confermò: “Giovedì 23, alle dodici, mi dice il suo nome?” “Pierfrancesco Menardi.” La donna mi chiese se fosse il primo appuntamento, dissi di sì, e poi mi chiese anche la data di nascita: “Il 30 ottobre 1982.” Sentii che sorrideva: “Ah, ecco, il giorno del suo compleanno!” Disse che mi avrebbe registrato sul loro database, quindi concluse: “La prego di confermare una settimana prima.” Tacevo. “Signore?” Sentii che mi chiamava. “Sì?” risposi. “Dicevo di una sua conferma, almeno una settimana prima dell’incontro.” “Oh, certo!” “D’accordo, signor Menardi, giovedì 23 ottobre, alle dodici. Mi raccomando.” Quindi, arrivederci e grazie, come da saluti di prammatica. La comunicazione era finita. Il 30 ottobre era il mio compleanno, non ci avevo mica pensato, o meglio questo pensiero era rimasto sullo sfondo, quando mi era arrivato il messaggio della fine del contratto. E ora mi chiedevo che significato avesse quel termine di scadenza. Uno scherzo di cattivo gusto di chi conosceva la mia data di nascita, e chissà perché pensai ad Asmodeo, il defunto signore della casa. Ma se era morto? Quindi, rimaneva la vedova, non il notaio che mi aveva messo alla porta.
Si preparava un acquazzone estivo, il cielo si era scurito, mi affrettai verso casa, e feci appena in tempo, quando arrivarono i primi goccioloni, un lampo, il tuono vicinissimo, entrai nel portone e salii al quarto piano. Nella penombra, davanti all’ingresso, in attesa c’era lei: Esmeralda Pérez de Araciel. Non distinguevo bene l’espressione del suo viso, aprii la porta, e sulla soglia, le presi un braccio e la trascinai dentro, o meglio lei entrò senza fare resistenza, mentre allentavo la presa.
Qualche tempo dopo, avevo ormai deciso e stavo per telefonare alla segreteria del dottor Franceschetti, per disdire il mio appuntamento, quando fui raggiunto prima da una telefonata: “Pronto, il signor Menardi?” “Sì?” “Sono Franceschetti, mia moglie l’ha invitato nella nostra villa al Circeo.” “Non so.” “L’invito è stato recapitato a casa sua, dovrebbe essere già nella sua cassetta postale.” “Controllo subito.” “Sono convinto che verrà a trovarci, signor Pierfrancesco.” “Pier” dissi. “Io, Leo, a presto, Pier.” “Arrivederci.” “Di nuovo.” Aveva chiuso la comunicazione, rimasi a guardare il telefonino. Io sono uno che si lascia subito convincere, mi abbandono alla corrente, che mi trascina via. Dove? Da Esmeralda, una nuova amicizia? No, la scoperta di un amore. L’ultimo? Forse. Chi mi aveva mandato il messaggio di scadenza del contratto? Quale contratto? Un patto matrimoniale? Esmeralda cadde dalle nuvole: non mi aveva mandato nessun messaggio del genere, mai. “Ma tu conosci i Franceschetti?” “Sì, per Asmodeo.” “Ci hanno invitati al Circeo, la prossima settimana, tu vieni?” Mi sembrò contrariata, ragionavo ancora come se fossi solo. “Dicevo, ti fa piacere?” Non rispose. E che doveva dire? Mi aveva già detto tutto. Il cerchio si era chiuso, l’anello mancante era Asmodeo, ed io l’avevo sostituito, in breve tempo. Ma dove era stata Esmeralda in quel breve tempo, dalla scomparsa del suo defunto consorte al mio subentro. Gelosia? Sì, un po', lo riconosco, con la vedova era stato un colpo di fulmine al primo sguardo, nella camera ardente. Ecco la spiegazione del lampo gelido dello sguardo del morto, ed ecco perché nessuno l’aveva visto, tranne me. Ma non l’avevo immaginato, non era un fatto inverosimile? Sì. Allora, era una mia invenzione. È una contraddizione? Certo, ma nella nostra esistenza non ci sono tante contraddizioni?
“Asmodeo era geloso?” Avevo posto la domanda, appena rientrato in casa, subito dopo aver ripercorso mentalmente, durante il tragitto di ritorno, il breve scambio di battute avuto con lei il giorno prima, sull’invito ricevuto da Margherita Franceschetti. Non avevo però domandato della sua assenza, ecco era stata lei ad assentarsi dalla casa. E adesso volevo sapere, per quel vuoto di tempo, che non avevo passato con lei, una leggera malinconia per quello che non era stato o gelosia? Un misto di entrambe. “Come sto?” Non aveva risposto alla mia domanda, si stava guardando nello specchio a muro, quello della porta grigia, che avevamo rimosso, e ora si era voltata verso di me. “Bene” dissi. “Bene?” rispose con aria di finto rimprovero, avanzando verso di me. “Benissimo” feci in tempo a correggermi, prima di finire tra le sue braccia. Una scia blu attraversò la stanza come un lampo alle mie spalle, non la vidi, né avvertii l’odore sulfureo che l’accompagnava, non potevo, lei mi stringeva tra le braccia. “Asmodeo è morto” mi sussurrò all’orecchio. Io sono vivo, non lo dissi, lei lo sapeva già. La scadenza era il 30 ottobre, avevamo tutta l’estate davanti, avevo firmato un patto con il diavolo. Quando e come? Ma non ho finito di raccontarlo e spiegarlo adesso?
LA SCRITTURA DEL SOGNO
Quando Esmeralda salutò Ludovica Morelli, una giovane donna dai capelli biondi, che avevamo incrociato sotto il portone di casa, io le domandai chi fosse, lei rispose: “Ludo, la figlia di Daniel Morelli, un coinquilino del nostro condominio.” Era andata in crociera nel Mediterraneo con lei ed altri conoscenti. “C’era anche il padre?” “No, c’era un suo amico, Sergio, ed altri. Io ero sola.” Disse che aveva progettato il viaggio con Asmodeo, una crociera in Spagna, Nordafrica, Sicilia, poi il marito si era ammalato ed era morto. Quando aveva saputo da Ludo della crociera si era aggregata. “Avevo dei piccoli risparmi.” Tacque mi guardò, poi disse: “I soldi della casa sono per Joaquin” “Sono contento” dissi. Mi baciò, e mi fece vedere la foto sull’iPhone di un giovane riccioluto, leggermente grassottello. “È alto un metro e novanta ed è molto robusto.” “Come il padre?” Interrogai. “Sì, il padre era alto come lui, ma più magro, biondiccio.”
Mi spiegò, Esmeralda, che erano molto giovani, lei aveva diciassette anni, lui era un sergente ventenne, era poi partito per l’Africa, in Mauritania, e non si era più visto. Il nonno, un britannico, si era arruolato nella Brigata Internazionale, durante la Guerra Civile, ed era morto. Joaquin viveva a Londra, faceva parte del personale di servizio all’Hilton di Paddington e studiava Economia all’Università. I soldi della casa, che mi aveva venduto, servivano a sostenerlo negli studi e nella sua vita futura. Ottimo!
Io ero diventato il signore della casa, lei era tornata ad essere la signora della casa, e per ristabilire il quadro, mancava solo il maggiore dei domestici, il maggiordomo, ma io non ne sentivo la mancanza, per ora, per un domani non so.
Avevamo rimosso la porta grigia, che copriva lo specchio a muro, e che era stata voluta da Asmodeo, non perché fosse geloso o irritato dalla moglie che perdeva troppo tempo a specchiarsi: infatti, per farlo, non bastava aprire la porta? Certo, e allora? Aprendo la porta d’ingresso, si rifletteva di giorno la luce del sole, di notte l’illuminazione del pianerottolo e il riflesso feriva lo sguardo, distorcendo le immagini. Così diceva Asmodeo, ed era vero, anche se Esmeralda non sembrava dello stesso parere. Infatti, quando la porta fu rimossa, lei si mise davanti allo specchio e mi domandò: “Ti sembra un’immagine storta?” “Sei meglio dal vivo.” Si voltò ridendo, in quel momento la porta d’ingresso alle nostre spalle era chiusa, mancava l’abbaglio, e devo dire che quella penombra favoriva meglio una certa complicità.
Ora, stavamo preparandoci per il week-end dai Franceschetti. “Ma io non ho bisogno di un incontro con l’alienista.” Dissi d’un tratto. Lei mi guardò interrogativa: “Sono amici.” Perché Franceschetti mi voleva nella sua cerchia di amicizie? Pensai, ma non lo dissi. Trascuravo Esmeralda, che peraltro lui conosceva. Veramente, no. Conosceva il defunto marito come suo paziente, lei forse l’aveva solamente accompagnato.
Ad ogni buon fine, trascrissi il mio sogno egizio sull’iPhone, e lo mostrai a Esmeralda, che lo guardò appena senza leggere, l’avrei mostrato a Franceschetti, l’amico Leo.
“La donna entrò in camera, adesso in penombra, si avvicinò al letto dove ero steso, si chinò vicinissima al mio volto, volevo sollevare la testa per baciarla sulle labbra, ma non ci riuscii, “Asmodeo”, sussurrò lei e si allontanò da me. Ero nel sito archeologico dell’antico Egitto, e mi trovavo all’interno della piramide di Cheope, vidi una figura femminile venirmi incontro. Era strano, ma quella donna nell’ombra era come se indossasse un poncho, quello dei gaucho argentini, che le scivolava lentamente, quasi a rivelare un seno enorme. [Mi voltai, ed ebbi la sensazione di stare in un recinto per pecore.] Aprii gli occhi, nella stanza filtrava ancora la luce del sole. Avevo sognato, ma che cosa avevo sognato? Chi erano quelle figure del mio sogno?”
Adesso sapevo chi erano, la scrittura del sogno mi aveva rivelato il suo significato e indicato chi fossero quelle figure. Ma era proprio così? O vi era un qualche segno non ancora decifrato da questa mia scrittura? Come sciogliere questo dubbio? Era questo il motivo, per cui tornavo a pensarci, a spiegarmi particolari. Se le figure che nel sogno vengono a visitarci sono la condensazione in un’unica persona sconosciuta di più persone o personaggi da noi conosciuti, una tale immagine psichica può rivestire diversi significati, come nel mio caso. Io ero sicuro che la figura femminile chinatasi vicinissima al mio viso, suscitando il mio desiderio di baciarla sulle labbra, fosse quella che allora conoscevo come la signora della casa, come dire Esmeralda. Ma poi mi resi conto che quella rappresentazione che da regista avevo messo in scena nel mio teatro onirico personale aveva una diversa valenza. E avevo fatto questa scoperta un attimo prima dell’incontro con l’amico Pietrangelo Lo Turco. Ma perché tornavo a pensarci, visto che avevo poi realizzato il desiderio, peraltro irrealizzato nel sogno? Perché quel bacio mancato non era da attribuire a Esmeralda, ma ad una sconosciuta ragazza moscovita di tanti anni prima, una ventina. In una delle gallerie dei grandi magazzini GUM, un imponente palazzo dall’architettura barocca, che occupa un lato della Piazza Rossa e sta di fronte al Cremlino, mi ero seduto al tavolino di un caffè, e venne una giovane a richiedere l’ordinazione. Si piegò con il viso su di me, fin quasi a sfiorarmi le labbra, l’espressione gioiosa, bastava sollevarmi di un soffio e l’avrei baciata. Se l’aspettava? Non lo so. Mi provocava? Certo. Sapevo di questa usanza dei russi di baciarsi sulla bocca, ma era un segno di pace tra i Capi di Stato, come appariva in certe gigantografie storiche esposte in pubblico, e come si poteva vedere in televisione, ricordo Kruscev sbarcato dall’aereo in Jugoslavia che baciava Tito. Ma avevo visto questa stessa scena del bacio sulla bocca tra due anziani barboni sulla pubblica via, lui si era avvicinato e l’aveva baciata, lei era rimasta estasiata. Io non ero un anziano barbone né un Capo di Stato, in effetti temevo di essere notato, perché eravamo in pubblico, ed era proprio per questo che la giovane servente se la rideva. Ma nel mio sogno egizio, questa scena l’avevo sognata o ricordata al risveglio? Ora ho un dubbio, comunque, apparteneva alla descrizione del mio sogno, e nel mio sogno, meglio nella sua descrizione da parte mia, c’era anche quel bisbiglio: “Asmodeo”.
I MARULLI DELL'ANTICA ROMA
“Il mondo è pieno di oscuri derelitti. Al meglio – i Marulli dell’antica Roma lo sapevano – viene il momento del ritiro dignitoso e onorevole, non drammatico, non il castigo per sé o per la famiglia – solo un addio, un bagno caldo e una vena aperta.” John Steinbeck, “L’inverno del nostro scontento.”
Aveva piovuto durante la notte, al mattino aveva smesso, ma il cielo era nuvoloso, l’aria grigia, ci stavamo preparando per andare al mare, non era la giornata adatta, e poi era venerdì. È un giorno poco raccomandabile, perché secondo la Cabala è quello in cui sono stati creati gli spiriti maligni. D’altra parte, però, il venerdì è il giorno di Venere, la dea dell’amore, e quindi favorevole a lieti eventi, come le nozze. Noi non stavamo partendo per il viaggio di nozze, anche se in un certo senso lo era, era il primo nostro viaggio insieme, quindi: “sposa bagnata, sposa fortunata”. Infatti, mentre stavamo salendo in macchina già pioveva, ed Esmeralda stentava a non bagnarsi, coprendosi i capelli con la borsetta. E gli spiriti maligni? Ma è solo superstizione, mentre per la sposa bagnata non è così, è soltanto un segno di buon auspicio. Ah, ecco! Partimmo, la pioggia aumentò, divenne un acquazzone, come può accadere nei primi giorni di luglio. Accendemmo la radio, musica classica.
Arrivati a San Felice, seguimmo le istruzioni, per giungere al villino dei Franceschetti. Esmeralda telefonò un paio di volte, con il viva voce, per chiedere migliori indicazioni, affinché sentissi anch’io. Rispose una voce femminile, riconobbi l’accento, e lo dissi, Esmeralda mi chiese se avessi capito quello che lei aveva detto. Certo, la prima a sinistra, e dopo la curva, a destra, lasciando il lungomare. Osservavo la linea delle spiagge: sulla riva, la schiuma delle onde assecondava l’impeto del vento, il cielo era grigio, piovigginava, in breve arrivammo all’indirizzo indicato.
Non era una giornata di mare, rimanemmo sul terrazzino, sotto la tenda da sole, che riparava anche dalla pioggia, per un aperitivo poco alcolico. Non volevo iniziare un discorso sulle attività psichiche e spingere l’amico Leo a parlare dei suoi argomenti professionali, mi sembrava indelicato. Margherita ed Esmeralda erano andate in cucina, ed io ero un po' imbarazzato nella mia veste di nuovo compagno di una vedova, visto che entrambi i coniugi di casa conoscevano Asmodeo, scomparso da poco. Le occasioni mondane servono forse proprio a superare gli imbarazzi su certi assortimenti di coppie, come esse vogliono apparire in pubblico. In effetti, non era chiaro quale fosse il vero intendimento di Franceschetti nel volermi conoscere da vicino, visto che la nuova coppia formatasi poteva certo interessarlo sotto il profilo psicologico e sociale, ma il suo obiettivo era un altro, e questa era la mia sensazione.
Al pranzo sarebbero intervenuti anche una giovane cugina della moglie con l’amico, Margherita l’aveva annunciato al telefono, mentre io guardavo il mare. Noi avevamo portato una cassetta di vini in dono, pensando che il regalo si rivelasse opportuno, e così fu. “Vini italiani” precisai, quando l’ospite accolse l’omaggio.
Ed ora, all’aperitivo, Franceschetti ebbe l’occasione di ascoltare, su mio input, un discorso sul mio soggiorno americano e il conseguente business. “Un long drink,” dissi, commentando i cocktail che Margherita aveva servito. “La versione americana di una buona abitudine europea,” commentò Leo. Allora, mi decisi e iniziai il mio racconto, spiegando che avevo ricevuto in eredità, alla morte di mia madre, una buona parte delle quote sociali di un’azienda di produzione del rayon, una fibra per tessuti artificiali, con la fabbrica principale a Rome, nella Stato della Georgia, USA. E non mancai di dare qualche notizia sulla storia della città. L’area in principio era occupata dalla tribù indiana dei Creek e poi dei Cherokee. Costruita nel 1834 da coloni europei e americani su sette colline, alla confluenza dei fiumi Etowah e Oostanaula, che formano il fiume Coosa, per questa sua caratteristica, i fondatori decisero di chiamarla come la capitale dell'Italia. “Come i Marulli dell’antica Roma” aggiunsi, in maniera non del tutto asintattica. Franceschetti mi guardava attento, pronto a cogliere ogni mia parola, ed ora tacevo per dargli occasione d’intervenire, ma non intervenne. Allora parlai ancora: “Per Marullo, il denaro non ha cuore.” L’alienista s’illuminò in volto: “È l’inverno del nostro scontento,” disse. Poi, voltandosi verso l’esterno del terrazzo, dove ora pioveva forte, aggiunse sorridente: “fatto estate radiosa da questo sole del Circeo.” Non si poteva negare, il mio attento e colto interlocutore, aveva ricostruito la logica del discorso, ricostituendo la sintassi violata nella sua ironica parafrasi della citazione di Shakespeare, da cui Steinbeck aveva tratto il titolo del suo romanzo. Marullo, il contraltare di Ethan, il protagonista negativo della storia, è un emigrato italiano, la cui vita è lo specchio della legge americana della sopravvivenza, come recitano i versi Emma Lazarus: “Give me your tired, your poor, your huddled masses yearning to breathe free, the wretched refuse of your teeming shore. Send these, the homeless, tempest-tossed to me, I lift my lamp beside the golden door!” "Datemi le vostre stanche, povere masse infreddolite, desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre sponde brulicanti. Inviatemi costoro, i senza patria, sbattuti dai marosi, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata."
“Prima di emigrare, imparò le parole che stanno sul piedistallo della Statua della Libertà. Aveva imparato a memoria la dichiarazione di Indipendenza, nel suo dialetto. La Carta dei Diritti, parole di fuoco. E poi non poté entrare. E allora è venuto lo stesso, un brav’uomo gli diede una mano, gli prese tutto quello che aveva e lo lasciò sulla risacca. Raggiunse la riva a piedi. Gli ci volle del tempo per imparare come vanno le cose in America, ma lo imparò, lo imparò eccome. Bisogna fare la grana. Questo è il punto primo! Lo imparò, non è scemo. Stette attento al primo punto.”
Stavo per commentare il passo del romanzo, che avevo citato, quando si svela l’inganno tramato da Ethan, il commesso del negozio, nei confronti del proprietario, l’emigrato siciliano Marullo, e poi quello finale del tentato suicidio del protagonista: “Il mondo è pieno di oscuri derelitti. Al meglio – i Marulli dell’antica Roma lo sapevano – viene il momento del ritiro dignitoso e onorevole, non drammatico, non il castigo per sé o per la famiglia – solo un addio, un bagno caldo e una vena aperta.” – e proprio allora suonarono al campanello di casa. Era l’arrivo degli ospiti attesi, Franceschetti si alzò per andare in salotto incontro ai nuovi venuti, ed io lo seguii. Il discorso era stato interrotto, non ero riuscito a concludere di essere rientrato a Roma, solo quando avevo regolato i miei affari in America. E forse era stato meglio così.
UN LADRO INVISIBILE
La cugina di Margherita era una ragazzetta minuta con i capelli neri, accompagnata da un giovane più alto di lei, un napoletano dall’aria disinvolta e dall’eloquio facile. Lei andò a salutare la cugina in cucina, noi restammo a parlottare in piedi sulle condizioni del tempo. I due giovani venivano dalla loro casa estiva di Terracina, e come disse lui, si chiamava Tommaso, avevano portato il sole. Infatti, aveva finito di piovere, il cielo si era schiarito ed era spuntato un raggio di sole, timido, tra le nubi.
La tavola fu imbandita dentro casa, anche se l’ampio terrazzo, dove avevamo preso l’aperitivo, era il luogo programmato, ma il tempo era incerto. Stavo per prendere la parola, mi premeva di parlare dell’America, degli affari e dei dollari, volendo dare assicurazione all’alienista, che mi aveva preso in cura, di essere un buon pagatore per le sue parcelle. Come avevo già detto, io sono un tronco d’albero che si lascia portare via dalla corrente. Non avevo fatto in tempo a disdire il mio appuntamento con il medico, ma quello mi aveva già preso in carico. Ed ora? Parlava Tommaso, lui era medico, avevano finito da poco il viaggio di nozze in America con Claudia, eccolo là, diede uno sguardo tenero alla mogliettina, ed ora continuavano le vacanze al mare per il mese di luglio, poi ad agosto al lavoro. Continuò a parlare del viaggio: New York, Chicago, la California, il Messico, Acapulco, Montezuma, ed avrebbe continuato con la storia degli Aztechi, la civiltà Maya, l’occupazione spagnola, fino ad arrivare alla storia recente, se non fosse stato interrotto da uno squillo del telefonino della moglie. Tutti ascoltammo in silenzio: “Un cadavere?” La ragazza aveva chiesto dov’era. A Sezze, va bene adesso veniamo, chiuse. Si alzarono, stavamo ancora alle pietanze, Tommaso finì di bere il calice di vino: “Torniamo appena finito,” disse. La moglie prese la borsetta, frugò un attimo dentro, poi entrambi si allontanarono.
“È un medico legale?” domandai. “No, è specializzato in cardiologia,” precisò Franceschetti. “Claudia è il vicecapo della squadra mobile di Latina” disse Margherita. Ah, ecco! La ragazza era un commissario di polizia. Ma non erano in ferie? “Viene chiamata anche quando è in ferie” disse lei. Anche in America? Domandai, ridendo. “Ci hanno provato” disse lei. Non so perché, pensai al messaggio anonimo ricevuto sulla mia scadenza del 30 ottobre. Almeno, non vivevo nell’incertezza, avendo in questo senso un termine, ma l’imprevisto è dietro l’angolo, da un momento all’altro.
“Momento to moment” dissi, e iniziai a parlare della mia America, quella dei Marulli, non quella dei turisti, quella che si regge sullo spirito del capitalismo, fondato su un’etica protestante d’impronta luterana e calvinista, come teorizzato da Max Weber sul suo saggio, che connette i due temi. “Considera che il tempo è denaro… Considera che il credito è denaro… Considera che il denaro ha una sua natura feconda e fruttuosa… Considera che secondo il proverbio, chi paga puntualmente è il padrone della borsa di tutti… Un uomo deve tenere conto delle azioni più irrilevanti che pure influenzano il suo credito… Chi spreca tempo per il valore di cinque scellini, perde cinque scellini, e tanto varrebbe che gettasse cinque scellini nel mare. Chi perde cinque scellini, perde non solo tale somma, ma tutto ciò che avrebbe potuto guadagnare, impiegandola nella sua attività, il che ammonta a una cifra veramente rilevante, se si tratta di un giovane che giunge a tarda età.” Chi è che ci fa questa predica? La mia domanda, che era quella desunta dal testo di Weber, la posi in modo retorico. È Beniamin Franklin, rispose a sorpresa Franceschetti. Ecco! L’alienista non poteva non conoscere il saggio di Weber: “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.” Quindi aggiunse: “È la predica che Ferdinand Kürnberger, lo scrittore austriaco, un rivoluzionario del 1848, schernisce come la pretesa della professione di fede degli Yankees, in quella sua immagine della civiltà americana che sprizza intelligenza e veleno. Ma Weber va oltre nella sua disanima.”
Avevamo appena finito di pranzare, quando a sorpresa si ripresentarono gli sposini. C’era stato un equivoco: si trattava di un morto nel giardino di casa, un anziano cardiopatico colpito da infarto. I giovani coniugi si erano seduti nuovamente a tavola, per concludere il loro pranzo, così inopinatamente interrotto. Noi facevamo loro compagnia sorseggiando il caffè. La morte può arrivare di nascosto come un ladro, disse il medico, facendomi venire in mente un romanzo che avevo letto di recente: “Morte di un professore di zoologia”. “Sì, è vero” dissi “un ladro invisibile.” E raccontai in sintesi il passo del libro, che poi andai a rileggere. Sono le battute di un dialogo tra due protagonisti di un mimo, che vivono il loro racconto, ambientato nell’occasione a Parigi.
“Secondo il decreto della Prefettura di polizia i cadaveri di persone non identificate vengono ricoverati qui. Ed invero, se risaliamo all’origine del termine morgue, troviamo il verbo “morguer”, che significa dévisager, guardare in faccia, secondo la procedura eseguita dai guardiani della prigione di Châtelet incaricati di identificare all’arrivo i detenuti, onde riconoscerli in caso di tentativo d’evasione. Nel Settecento, i cadaveri rinvenuti in strada venivano raccolti ed ammucchiati nei sotterranei, sempre della prigione di Châtelet. Lì si presentavano familiari ed amici per il riconoscimento, alla luce di una lanterna portata all’altezza del viso dei cadaveri. Nell’Ottocento, la morgue viene trasferita alla île de la Cité, e i cadaveri, dopo essere stati composti e rivestiti, venivano messi in esposizione dietro un vetro, alla vista della popolazione, che veniva a sfilare lì davanti, onde tentarne una identificazione o anche per semplice svago. Hai capito, Decio Livio? Mi senti? Decio! – Eh? – Hai finito? – Sì, ora esco. - Ah, eccoti! Allora, apri bene le orecchie, Decio Livio: la tecnica di esporre i cadaveri in pubblico rendeva sovente possibile alle autorità l’arresto dei criminali, che discretamente venivano ad osservare i loro “trofei”. – Traseo Nera, ma chi ti ha raccontato tutte queste cose? – Sono notizie facilmente reperibili su internet. – Ah! – Entriamo, dunque, nella camera mortuaria ad osservare il nostro “trofeo” di caccia: Palleschi. – Sei sicuro, Nera, che oltre alla salma, dentro, non vi sia qualcun altro ad attenderci? – Sicurissimo. – Ed allora sicuramente ci sarà qualcun altro. – Sì, un’entità impalpabile, che non si vede. – Come? – Decio, quando hai compiuto la traversata della città addormentata, volando tra anime di tenebra vestite, come tu stesso ti sei espresso, nel nostro incontro ai Campi Elisi, anticipando il tuo itinerario nella notte profonda, chi era con te? –Nessuno mi seguiva, Nera. – Sei sicuro, Livio? – Sicurissimo. – Ed allora qualcuno certamente ti seguiva, quello stesso che ora ci attende, oltre la porta della camera mortuaria. – Chi, dunque? – Entriamo. – Oh! – Hai visto? – Sì, ma avviciniamoci al tavolo di marmo, Nera, per potere meglio osservare la salma ivi distesa, illuminata dalla bianca luce della luna, che attraverso il vetro della finestra, schiarisce il buio. – Riconosci il suo volto, ora, Decio Livio? – Sì, è lui, Palleschi, il professore di zoologia del liceo Darwin: la corporatura robusta, il volto un tempo pieno, le gote arrossate ora pallide, il bianco striato di grigio cenere della capigliatura crespa, la barba canuta intorno al mento, i folti baffi argentei. – Qui giunto cadavere. – Chi l’assassino, Nera? – Il medico legale, che ha compiuto l’autopsia del cadavere, ne ha osservato a lungo il cuore, estratto dal petto, rigirandolo perplesso tra le sue professionali mani di esperto chirurgo. – Ed il cuore ha parlato? – Sì, ha rivelato il nome del suo assassino.” Ero arrivato alla fine del mio racconto, mancava il sigillo finale. E il verdetto non lo emise il medico legale del racconto, ma Tommaso, il cardiologo, che a tavola era comunque rimasto ad ascoltarmi attentamente assieme alla moglie: “Il killer silenzioso” disse. Un’istantanea, lo scatto di una fotografia: “Un click” disse Claudia, il commissario di polizia. Nessuno di noi commentò.
IL SANGUE E LA FIAMMA
Il giorno dopo, finalmente una vera giornata di sole estivo, caldo, andammo in spiaggia, ancora umida. Presto ci raggiunsero i giovani Tommaso e Claudia, che erano ritornati la sera a Terracina, mentre noi eravamo stati alloggiati al piano superiore della villetta, una stanza con servizi autonomi. Io avevo sognato, la notte. Avevo ricordi confusi, avvertivo come l’eco di uno scatto, un click, che associavo alla data del 30 ottobre, come un oscuro presagio. Poi mi resi conto che d’un tratto, nel buio, mi ero svegliato e avevo acceso la luce della lampada sul comodino, un click, e poi l’avevo spenta. La lampada accesa e la lampada spenta coesistono. Dove? Nelle immagini della mente di chi le pensa entrambe come eterni: la vita e la morte.
“Il fulmine governa ogni cosa”, il frammento di Eraclito, fatto scolpire da Heidegger all’ingresso della sua baita, nella Foresta Nera, viene commentato così da Gadamer: "Der Blitz steuert alles!" “Pensiamo all’esperienza del fulmine, là dove essa appare in tutta la sua potenza, nella notte. Nel giro di un istante tutto si fa visibile nella luce più abbagliante, per inabissarsi, un attimo dopo, in una notte ancora più profonda.”
È il lampo improvviso (fulmineo) che squarcia le tenebre e per un istante lascia vedere tutte le cose come se fosse giorno, il repentino risveglio della coscienza.
“Perché hai acceso la luce, stanotte?” mi aveva chiesto Esmeralda, un po' dopo che c’eravamo svegliati. Non avevo risposto, cercavo di cancellare dai miei pensieri il tema semantico della filosofia: la verità come disvelamento, uscendo dall’oscuramento. “Ma stai ancora dormendo? Svegliati.” Ho afferrato il braccio nudo di Esmeralda, cercando di attirarla dalla mia parte. “Stai fermo! E sbrigati, che dobbiamo andare in spiaggia.” Certo, i modi scontrosi della mia compagna, che si era liberata dalla stretta, colpendo con un pugno la mia mano. “Tu, la sera non devi mangiare e bere troppo.” È vero, ma non avevamo quasi cenato, prima di andare a dormire, non erano dovuti a cattiva digestione i miei notturni incubi, o forse no. “Hai fatto brutti sogni,” concluse. Ma come faceva a saperlo? Ti dormiva accanto! Io, allora, quando avevo acceso con un click la lampada sul comodino, l’avevo svegliata nel cuore della notte? È ovvio.
Andai in bagno, mi guardai allo specchio, per radermi la barba, e rividi la scena di qualche tempo prima in un museo di Milano. Avevo infilato gli occhiali, per leggere la dicitura sotto la targhetta di una scultura di Emile Claudel, e nel richiuderli dopo essermeli tolti, si avvertì in sala un secco rumore metallico: un click. Una giovane sorvegliante coni i capelli biondi lunghi arricciati si voltò verso di me, “buia” in volto, e con aria brusca mi disse che era vietato scattare fotografie. Subito, senza scompormi, le mostrai l’origine di quel suono singolare, procurato dalle stanghette metalliche degli occhiali. La giovane, allora, “s’illuminò” e con il più dolce dei suoi sorrisi cercò di rimediare in mio favore, che dopotutto ero un visitatore pagante.
Ma perché racconto questo fatterello di un semplice click, che fulmineo può produrre il buio e la luce, la vita e la morte. Non alludevo al museo in quest’ultima enunciazione dei contrari, ma al commento del giorno precedente di Claudia, il commissario di polizia. Il click di un grilletto è assimilabile a un clic dei leoni di tastiera? Sì, certo, cambia solo l’effetto reale rispetto a quello virtuale, come dire, in maniera analoga, la stessa differenza tra la realtà della vita e l’illusione del sogno. Ecco, il sogno, dovevo prepararmi a parlarne in spiaggia con Franceschetti, l’amico Leo.
Eravamo seduti, io e l’alienista, su sedie a sdraio con lo schienale rialzato, sulla riva Esmeralda e Margherita in piedi parlottavano tra loro, le gambe nell’acqua, più avanti scherzavano tra le onde leggere Tommaso e Claudio. Era il momento atteso, allungai l’IPhone all’amico su cui avevo trascritto il mio sogno egizio, Franceschetti lo prese e fissò lo schermo, sembrava che non leggesse, perché rimase immobile. Poi così disse, mentre me lo restituiva: “Alla domanda del suo intervistatore, Oscar Ferrari, che aveva ricordato a Borges la sua osservazione sui sogni – avere identificato l’atto di scrivere con quello del sognare – lo scrittore argentino aveva replicato: “Sì, e anche l’atto di vivere con quello del sognare.”
Avevo ripreso l’iPhone da Franceschetti, che nel riconsegnarmelo, aveva dato il suo responso. Ma aveva letto il mio breve testo, quelle righe che io ora fissavo e rileggevo? “La donna entrò in camera, adesso in penombra, si avvicinò al letto dove ero steso, si chinò vicinissima al mio volto, volevo sollevare la testa per baciarla sulle labbra, ma non ci riuscii, “Asmodeo”, sussurrò lei e si allontanò da me. Ero nel sito archeologico dell’antico Egitto, e mi trovavo all’interno della piramide di Cheope, vidi una figura femminile venirmi incontro. Era strano, ma quella donna nell’ombra era come se indossasse un poncho, quello dei gaucho argentini, che le scivolava lentamente, quasi a rivelare un seno enorme. [Mi voltai, ed ebbi la sensazione di stare in un recinto per pecore.] Aprii gli occhi, nella stanza filtrava ancora la luce del sole. Avevo sognato, ma che cosa avevo sognato? Chi erano quelle figure del mio sogno?”
Sì, l’aveva letto, e per associazione di idee – l’Argentina, i gaucho – aveva citato Borges, non solo, ma subito aggiunse: “Michel Foucault, sulla scia dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger, dà del sogno un’interpretazione antropologica, in opposizione a quella psicologica di Freud, un’interpretazione esistenziale, non memoriale.”
Qual era il senso concreto del mio sogno? “Il tuo sogno, caro Pier, è bifido, vi sono due presenze femminili nelle tue immagini notturne, che indicano due percorsi differenti, la necessità di una scelta.” Franceschetti aveva espresso il suo giudizio e anche indicato una traccia, un modello astratto: “Il sogno è la realizzazione del desiderio (Freud), ma come sogno è appunto desiderio non realizzato, soltanto un’allucinazione (Foucault).” In seguito, avrei approfondito il tema, consultando il saggio scritto in proposito dall’amico alienista: “Il sangue la fiamma”. Ci alzammo, per andare a raggiungere sul bagnasciuga le nostre consorti. Io ne approfittai, per tuffarmi in acqua e cominciare a nuotare in direzione della linea d’orizzonte del mare.
POSTILLE
“Il sangue è lo spirito liquido della vita”, Jung, “Seminari Zarathustra”, Terza Conferenza, maggio ‘35. “Il fuoco onirico rappresenta la bruciante soddisfazione del desiderio dei sensi”, Michel Foucault, “Introduction in L. Binswanger, Le rêve et l’existence”, 1994.
1. Il diavolo
I due termini del titolo “Il sangue e la fiamma” sono rispecchiati nei due sostantivi citati in epigrafe: “esistenza” (sangue) e “sogno” (“fiamma”), e per essi si rimanda ad un apposito commento ai testi sull’argomento, rispettivamente di Foucault e Binswanger, integrati dal pensiero di altri autori: Freud, Jung, Hillman, con riferimenti ai classici antichi, principalmente Platone e Aristotele, nonché ad altre fonti.
Intanto, possiamo dire che la narrazione della storia di finzione è attraversata da due temi principali: il diavolo e il sogno, con la preponderanza di quest’ultimo. Lungo lo svolgimento del racconto, s’incontrano però anche altri argomenti secondari, in ragione della scala di importanza che ad essi viene assegnata nella narrazione. Si tratta comunque di una limitazione soggettiva, imputabile a me come autore, non corrispondente però al loro oggettivo gradiente di rilevanza nelle attività discorsive dei linguaggi della letteratura, della filosofia, della scienza e di altre dottrine.
Scansionando il testo, s’incontra in primis il diavolo: di che diavolo si tratta? “Le diable dans l'âme”. Eh? Diamo spazio per la risposta all’IA: “Un synonyme de "le diable dans l'âme" pourrait être "une part d'ombre dans l'esprit" ou "une influence maléfique intérieure". On peut aussi utiliser des expressions comme "un démon en soi" ou "un penchant pour le mal" pour traduire l'idée d'une présence malveillante dans la conscience d'une personne.” E perché siamo scivolati nella lingua francese? Perché Ketty, la protagonista che inaugura il racconto, è francofona. Infatti, apprendiamo che Catherine De Backer, cinquantaquattro anni, una donna di età adulta, è originaria di Liegi, la prima area urbana della Vallonia, terza del Belgio, dopo gli agglomerati di Bruxelles e Anversa. Ah, ecco! Comunque traduciamo in italiano la definizione dell’IA, riconoscendo in questo strumento dell’era digitale un carattere interlinguistico.
“Un sinonimo di “le diable dans l'âme"– letteralmente, il diavolo nell’anima – potrebbe essere “una zona d’ombra dello spirito” o “un’influenza malefica interiore”. Si possono usare anche espressioni come “un demone dentro di noi” – “Demon en soi" e "demonio in sé" sono espressioni che, nel contesto filosofico e religioso, si riferiscono all'idea di un demone come entità intrinseca o essenza, piuttosto che come un'entità esterna o un'influenza. In altre parole, si tratta della concezione di un demone come parte integrante della natura di una persona o di una cosa, piuttosto che come un'entità separata che agisce su di essa.” IA. – o un’inclinazione al male, per indicare l’idea di una presenza maligna nella coscienza di una persona. Et voilà! E su “le diable dans l'âme”, abbiamo detto quanto basta. Ma non su Ketty, perché?
Nello sgomitolare il filo del racconto abbiamo smarrito il personaggio, ed è un peccato, ma abbiamo dovuto seguire, meglio inseguire, la traccia di Asmodeo, diavolo biblico, e ci siamo distratti dalla storia di Catherine De Backer, di cui comunque avevamo tracciato uno schizzo con i tratti essenziali del suo profilo. C’era da inventare una seconda storia, per la seconda parte della sua vita, che non abbiamo ancora inventato. E non so se mai la inventeremo. Chissà! Forse la ritroveremo sotto altre spoglie in altri svolgimenti narrativi, in una diversa configurazione della realtà. E nel dire così, rivelo di essermi ispirato in quella sua figura, guardando a un modello reale, anch’esso però variabile, anche se in un certo senso sempre uguale a sé stesso, come le eterne Idee dell’oltre-cielo di Platone. E il mio modello si può dire sempre uguale a sé stesso, perché colto sub specie aetenitatis, in istanti presenti fuori dal tempo. Bon!
Il diavolo, dunque, parliamo del diavolo, peraltro un demonio ben individuato con il suo proprio nome: Asmodeo. Subito, però, il mio diavolo perde il suo sembiante, quando si dissolve in un incubo dell’inconscio, e quindi gioca il suo ruolo tra la psicologia del profondo e la demonologia e il mito. Ed ora, mi sembra opportuno spiegare l’antefatto, che mi ha portato ad introdurre nel racconto il personaggio di Asmodeo, che non so se abbia – probabilmente no – un goethiano tratto mefistofelico. Nella continuità della mia attività di narratore, mi ritrovo sempre in flussi di ispirazione dovuti alle mie letture e studi, che poi risolvo in creazioni letterarie, più o meno riuscite per i miei gusti, o traduco in brevi commenti discorsivi su temi di dottrine prevalentemente filosofiche, e anche in argomenti di critica letteraria. In tale contesto, sono quindi influenzato dai relativi interessi del momento o da quelli immediatamente precedenti, coniugati con il magma culturale accumulato nel corso della mia vita.
Prima di iniziare la stesura del testo narrativo in commento, avevo scritto un breve racconto: “Gusci d’uova”, in cui già comparivano il personaggio dell’alienista, il dottor Leonardo Franceschetti, e una ragazza, Ludovica, diminutivo Ludo, che fa una breve indiretta apparizione in “Il sangue e la fiamma”, all’inizio del paragrafo: “La scrittura del sogno”. “Quando Esmeralda salutò Ludovica Morelli, una giovane donna dai capelli biondi, che avevamo incrociato sotto il portone di casa, io le domandai chi fosse, lei rispose: “Ludo, la figlia di Daniel Morelli, un coinquilino del nostro condominio.” Era andata in crociera nel Mediterraneo con lei ed altri conoscenti. “C’era anche il padre?” “No, c’era un suo amico, Sergio, ed altri. Io ero sola.” Disse che aveva progettato il viaggio con Asmodeo, una crociera in Spagna, Nordafrica, Sicilia, poi il marito si era ammalato ed era morto. Quando aveva saputo da Ludo della crociera, lei si era aggregata.”
Nell’incipit di “Il sangue e la fiamma” Asmodeo viene presentato come un vicino di casa di Ketty, che da un loro incontro e da un commento sulle previsioni del tempo di quest’ultimo, suscita in lei una tipica reazione femminile, nel suo domandarsi chi fosse la consorte dell’uomo, e se tra i due era lei quella brava a indovinare (avere la capacità di conoscere il passato, il presente e il futuro): “Chi era l’indovina? La moglie del vicino, sicuramente. Avrebbe indovinato anche di quel giovane uomo, la chioma bionda, che ora dormiva tranquillo nel letto matrimoniale?” Ecco il diavolo, che per le loro consorti però è soltanto un uomo, con tutti i limiti che le donne attribuiscono ai loro uomini, almeno così Ketty, e in verità anche Esmeralda. Ma noi usciamo dalle banalità del quotidiano dei rapporti (scontati) tra uomini e donne, e ci addentriamo con spirito allegro verso i sentieri più occulti di strane diavolerie, tipo “La porta grigia”. E qui mi tocca fare un inciso, nel senso che mi è balenata una storia non raccontata su questa porta grigia, che avrebbe dovuto trovare un quadro narrativo di più ampio respiro, per essere raccontata, una storia rivelatrice di uno squarcio di pazzia, che forse aggiungerò a queste “Postille”, come una sorta di anomalo corollario. E devo dire che si tratta di un’anomalia bifida, abbiamo imparato il termine.
Non è un corollario perché la storia non è un teorema, e comunque se lo fosse, sarebbe dissonante rispetto alla tesi del teorema: la figura di Esmeralda. E l’ipotesi? Gianna. Chi? Giovanna Finero. Ah! La dimostrazione è “Il sangue e la fiamma”? Sì. E le “Postille” il corollario? Certo. Anomalo, però. Indubbiamente, infatti in questa nostra narrazione tutto è anomalo, a cominciare da Asmodeo, diavolo terrorizzante e buffone. Questo Asmodeo, però, affonda le sue radici in sfuggenti personaggi, nominati Amedeo. Sono le contro figure di Asmodeo. No, sono personaggi anodini, come dire insignificanti, in verità no, sono personaggi che recano in sé significati di significanti. Come? Un’altra volta. Adesso parliamo del Thénardier dei “Miserabili” di Victor Hugo, come avevamo lasciato detto in scritti pregressi, scomparsi dal cerchio dell’apparire dei post del Blog, ma che noi richiamiamo sempre nello stesso cerchio dell’apparire: “Quando scrivo un mio racconto e lo rileggo, lo trovo abbastanza anodino, come dire insignificante, poi rileggendolo, comincio ad apprezzarlo. Perché? La riflessione critica sulla mia arte letteraria mi porta a riconoscere le immagini prodotte dalle mie fonti di ispirazione, a cui io avevo cangiato sembianze, quando esse riemergono dall’oblio. E allora acquisto consapevolezza delle influenze degli altri autori sulle mie produzioni artistiche, artefatti un po' troppo artigianali, ma siamo sempre nel campo dell’arte, non è così? Sì, più o meno, ma più meno, che più. Come? È come l’addizione di un numero di segno positivo con un altro di segno negativo più grande, la somma è negativa, per esempio cinque più apertura parentesi meno sei chiusura parentesi uguale meno uno. Meno uno? Sì, uno in meno, uno come te, un uno di cui si può fare a meno. Eccolo là! Chi? Il buffone, colui che ci deve fare sempre ridere, non ne può fare a meno. E perché? Perché, quando la faccenda diventa seria, è meglio ridere. Come? Come il Thénardier dei “Miserabili” di Victor Hugo. Chi? Poi ti spiego. Va bene.” – “Un uomo onesto avrebbe avuto paura: costui si mise a ridere.”
Questo il commento dell’autore all’azione scellerata del suo losco personaggio, che ora riportiamo. Siamo sul campo di battaglia di Waterloo, la notte che segue. *
* Cfr. "Thénardier" in "Addendum"
(Segue)
LA FIGURA DEL DIAVOLO
Nel mio racconto il diavolo è Asmodeo, una figura di diavolo che ha un nome proprio rispetto all’appellativo generico di angelo infernale. Ed ecco che nel definire il diavolo un angelo infernale, si coglie questa figura come delineata nel racconto biblico: il diavolo è la definizione generica di creature spirituali, incorporee, costituenti nell’insieme quelle schiere angeliche, precipitate nell’Inferno, con in testa Lucifero, per essersi ribellate a Dio. Consultiamo, in proposito, un testo non proprio canonico di teologia: Vito Mancuso, “Il principio di passione”, Garzanti, 2013.
“Il termine greco diàbolos viene usato dalla Bibbia dei Settanta (la versione greca della Bibbia ebraica risalente al II secolo a. C., talora abbreviata con il numero romano LXX e detta anche Septuaginta), per tradurre l’ebraico satan. I due termini sono quindi perfettamente sinonimi e infatti i Vangeli parlano ora di Satana ora di Diavolo senza nessuna specifica distinzione.” (p. 283)
Subito dopo, l’autore approfondisce l’etimologia del termine: “Il sostantivo diàbolos viene dal verbo diaballo, infinito diaballein, che ha il senso complessivo di “separare”, in diretta contrapposizione a sumballo, infinito sumballein, che significa invece “unire” e da cui deriva il termine “simbolo” (da intendersi anzitutto nel significato arcaico di mezzo di riconoscimento costituito da una delle parti ottenute spezzando in due un oggetto, e poi nel significato traslato di oggetto o persona in grado di unire la mente a un’idea più ampia, come quando diciamo che la bandiera è il simbolo della patria o Ulisse il simbolo dell’astuzia).”
Queste stesse osservazioni terminologiche sono state tenute come introduzione ad un discorso tematico di psicologia, relativo ad una più complessa dottrina del simbolo, condotto su un binario completamente differente da quello che porta, mediante il significato del diaballein, il disunire, alla figura del diavolo in demonologia. Intanto, restiamo in quest’ultimo ambito, seguendo l’esposizione che ne fa Mancuso nel suo trattato di teologia sistematica, il cui obiettivo è di riproporre nel contesto contemporaneo il tema teologico del “de Deo creante” (“Sul Dio creatore”).
Per inciso, vogliamo qui precisare che questo discorso teologico, fondato su premesse di fede, che affondano le loro radici nell’esperienza religiosa cristiana, in un’ottica laica viene considerato, relativamente alla figura del diavolo, come riguardante racconti mitologici, suscettibile di analisi antropologiche e sociologiche, che poi esamineremo. Egualmente, rimandiamo a più avanti anche gli argomenti relativi al diaballein e sumballein, come elementi propri di un’analisi psicologica.
Ritornando alla demonologia, le fonti a cui attinge Mancuso sono principalmente le Sacre Scritture, in base alle quali egli si pone il seguente interrogativo: “Che cos’è quella materia primordiale, informe, caotica, testimoniata dalla Bibbia e da molte altre cosmogonie dell’antichità, modellando la quale Dio configura il mondo attuale?” La risposta è quella canonica della Chiesa cattolica: materia creata dal nulla da Dio creatore. Si costituisce così il modello di creazione ex nihilo, una costruzione logica aspramente criticata dal filosofo Emanuele Severino, per il quale ammettere il nulla significa affermare che l’essere è il nulla. Sull’aporia dell’essere del nulla, rimandiamo la discussione ad altra sede, rinviando per ora a un mio scritto pregresso: “Il teorema del non-Essere”, un commento al tema trattato nel “Sofista” da Platone. Quindi, il teologo Mancuso continua il suo discorso, prendendo le distanze dalla dottrina ufficiale della Chiesa, sul problema della radice del male.
“Per il cristiano, che pensa il mondo come buono originariamente, ma non divino e non perfetto, come bene ma non come il bene, il problema del male si pone in tutta la sua intensità. Io penso che ai nostri giorni tale problema imponga una revisione radicale della teologia del rapporto Dio-mondo; quindi, credo sia essenziale verificare se vi sia traccia nella Bibbia di strade alternative, che possano contribuire a formare una più matura visione del mondo, riconducibile alla Bibbia e insieme in grado di sostenere la verità dell’esperienza vitale.” (pag. 250)
Segue una sua diversa interpretazione dei testi biblici rispetto alla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, per il quale il caos primordiale, può essere spiegato in due modi: “o assegnandone la responsabilità a entità alquanto misteriose distinte da Dio, oppure assegnandone la responsabilità a Dio stesso.”
Questa seconda prospettiva è quella seguita dal filosofo cattolico Luigi Pareyson, nel suo “discorso temerario” sul male in Dio, testo compreso nella raccolta dal titolo: “Ontologia della libertà.” (Cfr. “Il nodo alla gola”)
Alla prima prospettiva, dice Mancuso, appartengono soggetti abbastanza indecifrabili classificabili in tre gruppi: Mostri, Signorie cosmiche, Potenze sataniche. I primi gruppi risultano soprattutto dalle Scritture ebraiche, gli altri due dal Nuovo Testamento.
Il diavolo, quindi, è una potenza satanica, e nello stesso senso può definirsi il demonio.
L'ESISTENZA DEL DIAVOLO
Il diavolo, quindi, è una potenza satanica, e in questo stesso senso di potenza satanica, può definirsi come demonio, nonché Satana. Ma il diavolo esiste? Sull’esistenza del diavolo come persona il teologo Mancuso è scettico.
“I dati essenziali della dottrina cattolica sul Diavolo si possono così riassumere:
– esiste un essere dotato di volontà di seduzione, chiamato Satana o Diavolo, di cui Paolo VI in un celebre discorso parlò come di “un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore […] il nemico numero uno, il tentatore per eccellenza. Sappiamo che questo essere oscuro e conturbante esiste davvero.”
– esso è un Angelo creato buono, ma divenuto malvagio per una libera scelta, che lo condusse a peccare;
– altri Angeli lo seguirono;
– tale peccato angelico è imperdonabile;
– l’Angelo divenuto Diavolo benne cacciato sulla terra;
– il Figlio di Dio è venuto per distruggere le sue opere;
– l’azione attuale del Diavolo sulla terra è permessa dalla Divina Provvidenza;
– la ragione di questa permissione è ignota, rimane “un grande mistero”.
Secondo Jeffrey Burton Russell, studioso americano che ha dedicato buona parte dell’esistenza alla demonologia, il nucleo concetto Diavolo è il seguente: “Esiste un altro potere cosmico, oltre a quello del Signore buono, un potere che vuole il male e lo alimenta per amore del male, che odia il bene in quanto bene, un potere attivo in tutto il cosmo, anche nelle cose umane.” Se questo è il nucleo della demonologia, io lo nego in radice, perché non credo che esista un potere cosmico alternativo a Dio, non credo, cioè, che esista il Diavolo come “essere vivo, spirituale”. (pag.274-5)
L’autore prosegue affermando che questa sua convinzione deriva da due ragioni: una di carattere filosofico, legata al concetto di persona, l’altra di carattere teologico legata alla natura di Dio come purissimo bene. Se la persona è frutto dell’armonia delle relazioni, il Diavolo, come essere personale di disunione, non può esistere. Inoltre, se Dio è puro bene, non può mantenere l’esistenza reale del male, il Diavolo, riconducibile a lui. Sarebbe un discorso temerario (Pareyson), cfr. “Il nodo alla gola”. Non esiste una figura reale del Diavolo, dice Mancuso, soltanto una spersonalizzata diabolicità, rappresentabile in maschera, come quella di cui il filosofo polacco Leszek Kolakowski si serve per un’intervista al diavolo, di cui viene riportato un brano.
“Esaminate da vicino la vostra coscienza, voi che siete cristiani e voi che siete atei, scavate al di sotto del terreno vergine del vostro linguaggio fiorito, della vostra metafisica e della vostra psicologia. Togliete le incrostazioni, tornate in voi stessi […]. Riuscirete a vedermi senza alcuna meraviglia e avrete l’impressione, contrariamente a quanto vi insegnano le vostre teorie, di avermi sempre conosciuto. Scoprirete un volto familiare, abituale, ma visto veramente per la prima volta. Sentirete un alito fresco e sconosciuto anche nei recessi del vostro cervello […]. Una forza devastatrice che non desidera altro che la distruzione. Voi la incontrate ovunque e sperimentate la sua presenza nelle vostre delusioni e nei vostri errori, nella crudeltà e nella morte, nella solitudine e nelle frustrazioni. Ogni giorno vi trovate faccia a faccia con essa, che è sempre presente, non dove la distruzione è palese, dove la crudeltà e il male sono semplici strumenti, ma ovunque essi siano, sono fini a sé stessi […] Satana appare soltanto là dove la distruzione non ha alcun senso, dove la crudeltà e l’umiliazione vengono perpetrate per sé stesse, la morte per la morte, dove la sofferenza non ha scopo o dove questi fini sono solo una maschera e un pretesto per razionalizzare la ste di distruzione […]. Il Diavolo non si può spiegare, riempie la vostra esistenza, è un dato di fatto, è quello che è.” (“Appunti della conferenza stampa metafisica tenuta dal Demonio a Varsavia il 20 dicembre 1963”)
I NOMI DEL DIAVOLO
Restando in campo demonologico, nel suo testo di teologia sistematica, l’autore Vito Mancuso si sofferma sull’aspetto terminologico, passando in rassegna la tassonomia evangelica delle potenze sataniche, che sistema in ordine alfabetico in tre colonne, secondo l’originale greco, e la rispettiva traduzione in latino e italiano.
Riportiamo qui i nomi in lingua italiana, venti: Sterminatore, Anticristo, Principe della potenza dell’aria, Principe di questo mondo, Principe dei Demoni, Belzebù, Beliar, Demonio, Dèmone, Diavolo, Drago, Nemico, Mammona, Serpente amico, Tentatore, Spirito impuro, Spirito del male, Maligno, Satana, Dio di questo mondo.
Passando poi in rassegna l’elenco, l’autore nota come i nomi propri rintracciabili, tra i venti, siano soltanto tre: Belzebù, Beliar e Mammona. Vanno inoltre aggiunti i nomi di altre entità malefiche, presenti nell’Antico Testamento: Azazel, Lilit, Asmodeo, Baal-Peor. Infine, può ricomprendersi nell’elenco anche Lucifero del NT, dove non è considerato però come uno spirito maligno.
Ora, quando si parla di diavolo, nel linguaggio comune, in genere i nomi più usati sono, oltre al diavolo stesso, il demonio, Satana. Spiegata l’etimologia del termine Diavolo, l’autore si sofferma quindi sugli altri due.
“Satana viene dall’ebraico satan, che ha il significato di “accusatore” o “avversario militare”. In Occidente è il termine più usato per indicare la personificazione della forza del male e viene inteso comunemente come un nome proprio.” Dopo una rassegna delle fonti bibliche, l’autore così riassume il suo pensiero, indicando vari punti: il ruolo negativo come di un essere umano in veste di accusatore o nemico, angelo della corte divina in veste di accusatore o istigatore di azione sgradire a Dio. Esclude comunque il ruolo di Satana come nemico giurato di Dio.
Più avanti nel testo, Mancuso spiega come si sia passati da questa figura originaria delle Scritture ebraiche a quella negativa neotestamentaria. L’evoluzione è dovuta, spiega l’autore, ad un processo di spiritualizzazione, per cui dalla designazione di un ruolo (satan) si è passati ad una identità ipostatica autonoma rispetto a Dio (Satana). Se prima il controllo del mondo era riferito unicamente alla divinità, nel bene e nel male, nel NT è avvenuta una dolorosa scissione tra Dio totalmente buono e “questo mondo” perlopiù cattivo. E la frattura ha investito pure la dimensione trascendente, in quanto anche in “cielo” vi sono forze ostili a Dio. In tale prospettiva è difficile trovare una soluzione al problema del male, che rivela la grande aporia al centro della dogmatica cattolica. Questa discende dal mito della perfezione del creato turbato dal peccato originale, ricollegato a un precedente peccato degli angeli, costituendosi come una “vera e propria archeologia del negativo”. L’autore affronta il problema in un capitolo successivo, noi ci limitiamo a citare alcuni nostri studi, compresi nella raccolta: “Sofferenza e colpa”, in pubblicazione nei prossimi giorni.
IL DEMONIO
Dopo i nomi di Satana e del Diavolo, l’autore illustra quello del Demonio. Sono i tre appellativi, equivalenti per nominare la figura del Male, un’alterità, rispetto a Dio, sommo Bene, e vengono comunemente usati nella comunità religiosa cristiana, quando si evoca questa entità spirituale esistente. Sull’esistenza e coscienza degli spiriti, ci riserviamo di riprendere un discorso lasciato in sospeso tempo addietro.
Noi abbiamo chiara coscienza della distinzione tra demone e demonio, ma seguiamo l’attento esame che fa il teologo Mancuso del termine.
“Occorre distinguere il termine “demonio” (più frequente) dal termine demone (più raro). Demonio viene dal greco daimonion, di genere neutro, in latino daemonium. Demone invece viene dal greco daimon, di genere maschile, in latino daemon. I due termini, nel mondo classico, spesso si sovrappongono, anche se in linea di massima si può dire che daimon indica l’essere divino o la divinità in tutte le sue molteplici gradazioni, comprese quelle negative, mentre daimonion indica l’influsso, positivo o negativo, sulla vita degli uomini della dimensione divina.”
Come da tradizione, anche Mancuso, riguardo al daimonion, cita il Socrate della “Apologia” (40a): “La voce profetica che mi è abituale”, quella della coscienza, che lo distoglieva dal male. Inoltre, l’autore cita Epitteto, che usava però il termine daimon: “Quando chiudete le porte e fate buio dentro, ricordate di non dire mai che siete soli, infatti non lo siete: dentro di voi c’è Dio, e il vostro demone.” (“Diatribe”, I, 14, 13-14) Comunque, osserva l’autore, in genere si usa il temine demone nella sua accezione negativa, per esprimere un vizio, come ad es. “il demone del gioco” [1], della gelosia, dell’invidia e così via. Si tratta di una passione oscura, stabilizzatasi nell’interiorità umana, che avvince e imprigiona la mente: “Ed è precisamente in questo senso che il termine venne usato da Fëdor Dostoevskij per il romanzo “I dèmoni” del 1872”.
Osserviamo in proposito che il titolo originale in lingua russa dell’opera è Бесы (Bsy) ossia “dèmoni”, anche se alcune edizioni hanno tradotto il titolo con “indemoniati”. L’autore osserva che “ancora più univoco e privo di sfumature è diventato il termine demonio, che contrassegna lo spirito del male, e il plurale demoni che rimanda alle forze maligne direttamente collegate alla sua azione.”
L’osservazione è pertinente, perché la pluralità dei demoni, rispetto al demonio, rende possibile quel suo moltiplicarsi penetrando come potenze malefiche gli esseri umani, che diventano degli indemoniati, come testimonia il passo evangelico sulla “mandria dei porci”, peraltro citato dal teologo. [2]
[1] Ricordo un insospettabile professionista napoletano del secolo scorso, che per esorcizzare il demone del gioco, da cui si presume dovesse essere stato affetto lui stesso, recitava la formula di rito: “Diavule ncopp e’ fuosse”, ripetendola più volte e accompagnandola con un gesto delle mani, che si aprivano entrambe ritmicamente, come a spargere un fluido invisibile sulle carte da gioco allineate su un tavolo verde. Dalla Intelligenza Artificiale apprendiamo che – "Ncopp e fuosse" in napoletano significa "sul marciapiede" o "sul bordo della strada". "Ncopp" è una contrazione di "ncoppa", che significa "sopra" o "su" in italiano, mentre "fuosse" è la forma dialettale per "marciapiede" o "bordo della strada". Quello che però la IA non sa dire, ma che l’esperienza della lingua (dialetto) ci racconta è che “fuosse” sono i fossi; quindi, i “diavoli sopra i fossi” sono… che cosa sono? Quelli che sull’orlo dell’abisso (i fossi) venivano appunto ricacciati in fondo ai fossi, l’inferno, dagli scongiuri dell’antico mago partenopeo, e questi diavoli erano simboleggiati dalle carte da gioco. Bon!
[2] Sulla “mandria dei porci” non posso fare a meno di citare alcuni brani, decisamente pittoreschi ed esilaranti tratti dal mio “L’uomo differito”, III, V, “I barbieri invisibili”, che verranno riportati in seguito.
FIGURE DEMONIACHE
Oltre al demonio, nella Bibbia ebraica, vengono citate altre potenze demoniache: Azazel, Lilit, Asmodeo, Baal-Peor. Avremo modo di ritornare su queste figure diaboliche del negativo, da un punto di vista non più teologico demonologico, ma da una più laica prospettiva antropologica e sociologica.
Chi è Azazel? Nelle scritture viene citato in “Levitico” (16:5-22).
“Una volta all'anno, nel giorno dell'espiazione, il sommo sacerdote prendeva due capri. Un capro (scelto a sorte) era sacrificato nel santuario come espiazione dei peccati d'Israele. Il sommo sacerdote poi metteva le mani sull'altro capro, confessando le iniquità degli Israeliti e così riversandoli sul capro. Il capro era poi mandato nel deserto "ad Azazel". Così in realtà era il primo capro ad essere il vero capro espiatorio, anche se nel linguaggio comune moderno chi porta gli errori degli altri, somigliando così al secondo capro, viene chiamato il capro espiatorio. I due capri rappresentano due aspetti della salvezza dal peccato, la punizione per il peccato e la rimozione del peccato, che sono stati realizzati in modo perfetto nel sacrifico unico di Gesù Cristo (Isaia 53:5-6). Ci sono due interpretazioni principali della parola "Azazel", che è usata quattro volte in questo capitolo e mai altrove nella Bibbia. Il Libro di Enoch (un testo apocrifo giudaico del prima secolo a.C.) dice che Azazel era un demonio. Non è chiaro se il termine fosse usato al tempo del libro di Levitico. In ogni caso il capro non era un sacrificio al demonio: pochi versetti dopo, in Lev 17:7, quella pratica era proibita, e la Bibbia non insegna mai che serve dare qualcosa ai demoni affinché i peccati siano perdonati. Invece i peccati sarebbero stati mandati via al deserto, un luogo impuro, al dominio del male, dove appartenevano. Un'alternativa è di accettare le consonanti del testo ebraico, ma mettere vocali diverse, visto che le vocali sono un'aggiunta posteriore al testo originale (800 d.C. circa), anche se in conformità alla tradizione orale che era più vecchia di quella data. Infatti, anche la traduzione greca dell'Antico Testamento (la Septuaginta) fa così, traducendo invece "capro che va via" o "capro da mandare via". https://www.laparola.net
“Lilit (anche Lilith), figura femminile della tradizione ebraica, in cui rappresenta la prima moglie di Abramo, divenuta poi una specie di demone notturno, ricorre una sola volta nella Bibbia, in “Isaia” 34, 14, dove a proposito del territorio di Edom devastato dal castigo divino si dice: “Là si poserà anche Lilit e vi troverà dimora”.
Asmodeo ricorre in “Tobia”, 3, 8 e 3,17, dove viene qualificato come cattivo demonio.
“Nello stesso giorno capitò a Sara figlia di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media, di sentire insulti da parte di una serva di suo padre. Bisogna sapere che essa era stata data in moglie a sette uomini e che Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli. A lei appunto disse la serva: «Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti. Ecco, sei già stata data a sette mariti e neppure di uno hai potuto godere. Perché vuoi battere noi, se i tuoi mariti sono morti? Vattene con loro e che da te non abbiamo mai a vedere né figlio né figlia».
https://www.laparola.net/testo.php?riferimento=Tobia3&versioni[]=C.E.I.
Baal-Peor, come già Beelzebul, è di per sé il nome di una divinità, che significa “dio di Peor”, formato da Baal, “dio, signore”, e dal nome del luogo Peor. Esso ricorre in “Numeri”, 25, dove si dice che “Israele aderì a Baal-Peor”, riportando poco dopo l’intransigente ordine di Mosè ai giudici israeliti: “Ognuno di voi uccida dei suoi uomini coloro che hanno aderito a Baal-Peor.” [3] La connotazione negativa di questo “dio”, un demonio quindi, richiedeva la condanna di coloro che lo veneravano.
L’autore, infine, conclude: “Questo nome, nella traduzione greca dei Settanta e nella tradizione latina Volgata, divenne Beelphegor, da cui si originò in italiano Belfagor.”
Un ultimo paragrafo viene dedicato a Lucifero, in cui viene evidenziato come al nome non viene associato, all’inizio, nulla di negativo. L’originale greco phosphoros significa “portatore di luce”: “phos”, luce, e “phero”, portare, e indicava il pianeta Venere, “la stella del mattino”. In latino, Lucifero è composto da “lux”, luce, e fero, portare. Il nome sottolinea l’autore non aveva nulla di “luciferino”, “tant’è vero il NT non esita a riferirlo a Cristo, visto che è del tutto evidente che la “stella del mattino”, che deve sorgere nei cuori dei credenti è Cristo. Allo stesso modo i cristiani dei primi secoli usavano il termine anche come nome proprio, e nel IV secolo si ebbe anche un santo con tale nome, san Lucifero, vescovo di Cagliari.” E qui l’autore si pone l’interrogativo: “Come mai allora Lucifero portatore di luce è diventato Satana portatore di tenebre?”
[3] Di Baal “dio di Peor” ne parla Sigmund Freud nel saggio, che fu l’ultima sua opera: “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, (1938).
LA LUCE E LE TENEBRE
All’interrogativo del teologo cristiano – “Come mai allora Lucifero portatore di luce è diventato Satana portatore di tenebre?” – diamo risposta con la riflessione del filosofo dell’antichità. “Socrate, intanto, che s'era seduto sul letto, piegando una gamba, cominciò a grattarsela a lungo: «Che strana cosa, amici, sembra quella che gli uomini chiamano piacere. E che straordinario rapporto tra questo e il suo contrario, cioè il dolore. E pensare che essi convivono nell'uomo e pur si respingono sempre e chi cerca e riesce a cogliere l'uno, si vede costretto, sempre, a sobbarcarsi anche l'altro come se, pur essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo.» «Credo,» soggiunse, «che se Esopo ci avesse pensato su ne avrebbe fatto una favola presso a poco così: ‹Dio, volendo riconciliare questi due, sempre in guerra tra loro e non riuscendovi, li legò insieme per la testa così che dove va l'uno va anche l'altro.› È quello che è capitato a me: per la catena, qui, alla gamba, poco fa, io sentivo dolore; ed ecco che ora sento piacere.» (Platone, “Fedone”, 60b)
La ragione greca di Socrate risponde seguendo lo schema logico dei contrari, riferito a una situazione semplice della vita: alleviare un dolore alla gamba con un massaggio. E siccome è un filosofo, subito aggiunge la sua riflessione sulla coppia dolore e piacere in generale, riscontrabile nell’uomo, come voluta dal dio. È come dire che ogni realtà si determina nel suo contrario, secondo quella linea di pensiero eraclitea del divenire, da cui Hegel trasse la sua dialettica triadica: tesi, antitesi e sintesi.
Ai due poli opposti della sfera del pensiero teologico di Mancuso troviamo la luce e le tenebre, indubbiamente tra loro irriducibili, come ogni altra coppia di contrari, ma tra loro indissolubilmente legati, secondo l’osservazione del Socrate prigioniero liberato. E come la Luce evoca le Tenebre, così l’Essere evoca il Nulla, lo Spirito la Materia, il Bene il Male, Dio il Diavolo. Quest’ultima opposizione non trova corrispondenza nelle religioni monoteistiche, che escludono dalla sfera del divino qualsiasi altra realtà. La trascendenza dell’Assoluto genera allora il problema di quella frattura tra il divino e l’umano, che la religione cattolica concilia con i suoi dogmi, in buona parte contestati dal nostro teologo, come riassunti nella sintesi di cui alla Nota riportata di seguito.
Qui però vogliamo accennare a una particolare dottrina, quella del gesuita Pierre Teilhard de Chardin, i cui scritti non sempre sono stati bene accolti in Vaticano.
NOTA – Sulla dottrina del teologo Mancuso abbiamo interrogato la IA, che in sintesi ha dato la risposta seguente.
VITO MANCUSO
È un teologo e filosofo italiano che ha espresso posizioni dottrinali non conformi alla dottrina cattolica tradizionale su alcuni punti chiave. In particolare, le sue riflessioni criticano il concetto di peccato originale, la creazione dell'anima da parte di Dio, la risurrezione dei corpi e la dannazione eterna. Inoltre, Mancuso interpreta la salvezza come il risultato di una vita giusta e buona, includendo anche non credenti, in contrasto con la visione cattolica che la lega alla fede in Cristo e ai sacramenti.
Ecco alcuni punti chiave del pensiero di Mancuso e il suo rapporto con la dottrina cattolica. Punti di discordanza con la dottrina cattolica.
Peccato originale: Mancuso non accetta la dottrina del peccato originale come stato di inimicizia con Dio in cui nascono tutti gli esseri umani.
Creazione dell'anima: rifiuta l'idea che l'anima sia creata direttamente da Dio al momento del concepimento, senza il coinvolgimento dei genitori.
Risurrezione dei corpi e dannazione eterna: Mancuso mette in dubbio la risurrezione dei corpi e la dannazione eterna, collegando la morte non al peccato, ma alla natura dell'essere creato.
Salvezza e redenzione: non lega la salvezza a un evento storico come la morte e risurrezione di Cristo, ma piuttosto alla pratica di una vita buona e giusta, aperta anche a non credenti.
Etica: in ambito etico, si è espresso a favore di temi come la contraccezione, la fecondazione assistita, l'autodeterminazione per il fine vita e la donazione di cellule staminali embrionali, posizioni in contrasto con la dottrina cattolica.
Interpretazione della fede e della comunità: Mancuso vede la fede anche come fiducia nella vita e nella sua natura, non solo come accettazione di una rivelazione.
La sua visione della salvezza come frutto di una vita giusta lo porta a includere nel cammino di fede anche gli atei e gli agnostici. Alcuni critici sostengono che tale visione è più individualistica e meno legata alla dimensione comunitaria della fede, presente invece nell'insegnamento cattolico.
In sintesi, Vito Mancuso propone una riflessione teologica e filosofica, che pur ispirandosi a concetti cristiani, si discosta in modo significativo dalla dottrina tradizionale della Chiesa cattolica su alcuni punti fondamentali. Il suo pensiero è caratterizzato da una forte attenzione alla dimensione etica e alla ricerca della verità, ma anche da una visione della salvezza più aperta e inclusiva.
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Se prima il controllo del mondo era riferito unicamente alla divinità, nel bene e nel male, nel NT è avvenuta una dolorosa scissione tra Dio totalmente buono e “questo mondo” perlopiù cattivo. E la frattura ha investito pure la dimensione trascendente, in quanto anche in “cielo” vi sono forze ostili a Dio. In tale prospettiva è difficile trovare una soluzione al problema del male, che rivela la grande aporia al centro della dogmatica cattolica. Questa discende dal mito della perfezione del creato turbato dal peccato originale, ricollegato a un precedente peccato degli angeli, costituendosi come una “vera e propria archeologia del negativo”. L’autore affronta il problema in un capitolo successivo, noi ci limitiamo a citare alcuni nostri studi, compresi nella raccolta: “Sofferenza e colpa”.
UN GRIDO DI TRACOTANZA
La quiete olimpica degli dèi immortali non smossa dallo scorrere del tempo rende quindi immaginabile una loro potenza superiore a quella dell’uomo mortale, ma anche essi sono soggetti ad Ananke, una forza invincibile. Così, infatti, viene definita la Necessità da Eschilo nel “Prometeo incatenato”. Prometeo, il figlio di Giapeto, si trova incatenato ad una rupe, avendo suscitato la collera di suo cugino Zeus, perché ha rubato il fuoco agli dèi e ne ha fatto dono agli uomini, donando loro la techné, l’arte del fare, la tecnica. Questa è impotente di fronte al Fato, dichiara Prometeo. “Ma chi del Fato (Ananke) tiene il governo?” domanda il Coro. “Le tre Moire e le memori Erinni.” “E meno di loro è potente Zeus?” “Tenterebbe invano di sottrarsi ad Ananke.” Il limite non oltrepassabile segnato dalle Moire e dalle Erinni, di cui parla Eschilo, trova rispondenza in Eraclito (fr.94): “Neppure il sole andrà oltre misura [l’ordine del Cosmo], a cui guardia si trovano le Erinni, ministre di Dike.” Queste, infatti, interpretano lo spirito di vendetta contro ogni violazione della giustizia.
Il Fato a cui neppure Zeus può sfuggire non è allora il suo perpetuo regnare? Interroga il Coro. “Questo non domandare, non far di ciò preghiera.” È quindi un mistero sacro quello celato. Anche il sovrano degli dèi non sfugge al suo destino. [1]
“Riuscirà l’uomo, e se non l’uomo quantomeno un dio, a distruggere tutte le pietre che volano nello spazio…?” Questo era il mio interrogativo. Era più che altro un grido di tracotanza (hybris), per introdurre il discorso sulla volontà di potenza e sul tempo monumentale, un discorso che riprenderemo. Può allora spezzare l’ordine dei mondi, il cosmo, un dio? “Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli dèi, né uno degli uomini, ma è sempre stato ed è e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne.” Così recita la sentenza di Eraclito (fr.30). Sulla scia di tale concezione dell’Universo, che in eterno come fuoco vivo si accende e spegne, si costituì la dottrina stoica, l’ecpirosi o conflagrazione universale, che porta alla fine del mondo e alla sua palingenesi, un’apocatastasi per il ristabilimento dello stato originario.
Deve dirsi che la scienza moderna è giunta alla formulazione della teoria della nascita dell’Universo, il Bing Bang, la grande esplosione iniziale, quando tutta l’energia e la materia presente nell’Universo era concentrata in una sola singolarità. Attraverso l’osservazione del fenomeno così detto del “redshift”, spostamento verso il rosso della luce emessa dalle galassie, che indicava il loro progressivo allontanamento nello spazio, si formulò l’ipotesi dell’universo in espansione. In maniera simmetrica, rispetto al Big Bang, poi, si sostenne che, se la forza di gravità di tutta la materia ed energia dell’orizzonte osservabile diventa abbastanza grande, allora essa può fermare l'espansione dell'Universo. Avrebbe allora inizio un processo di contrazione, con un progressivo riavvicinamento delle galassie, che al culmine porterebbe l’universo a collassare su sé stesso, Bing Crunch, fino a ridursi in una singolarità gravitazionale. A quest’ultima ipotesi, in fisica si oppone però il secondo principio della termodinamica, che prevede l’intrinseca irreversibilità di molti fenomeni naturali, per cui appare impossibile ristabilire l’ordine dello stato iniziale. Per esempio, nel passaggio di calore di un corpo a temperatura più alta a quello a temperatura più bassa non è possibile il processo inverso. Il secondo principio della termodinamica, in tale prospettiva, si lega all’irreversibilità della freccia del tempo. In campo scientifico, comunque non si può ignorare il principio di falsificabilità di Popper, in base al quale ogni teoria è valida finché non viene confutata da osservazioni empiriche successive.
In filosofia, il mito dell’Universo che gira prima in un senso e poi in quello contrario è narrato da Platone nel “Politico” e come le teorie scientifiche illustrate rispecchia l’attitudine mentale a considerare la possibilità dell’inversione di un ciclo. Così, ad esempio, una sfera che ruota in una certa direzione implica nel suo stesso movimento la possibilità di ruotare in senso inverso. Appare evidente che tutte queste possibilità cosmiche non possano essere governate dall’uomo né tanto meno da un dio, anche se nel mito platonico è proprio uno dei due cicli cosmici ad essere governato dal dio, Crono, al contrario dell’altro, il ciclo di Zeus, dove mancando l’ordine divino, tutto si svolge in maniera caotica e disordinata, per cui si rende necessaria un’arte politica, che disciplini le attività umane.
Nell’onnipotenza dell’unico Dio delle religioni monoteistiche non appare invece possibile, essendo peraltro logicamente contraddittorio, porre limiti alla sua libertà. È un’assoluta libertà creativa, che implica ovviamente anche la fine del mondo creato, come è rivelabile dal testo biblico dell’Apocalisse, letteralmente "Rivelazione degli eventi della fine dei tempi". [2]
Anche nel racconto biblico, analogamente al mito greco, viene narrata la storia di una ribellione, e come nel mito, anche qui alla ribellione contro l’ordine divino segue il castigo tremendo, commisurato alla gravità della colpa:
Come mai sei caduto dal cielo,
Lucifero, figlio dell'aurora?
Come mai sei stato steso a terra,
signore di popoli?
Eppure, tu pensavi:
Salirò in cielo,
sulle stelle di Dio
innalzerò il trono,
dimorerò sul monte dell'assemblea,
nelle parti più remote del settentrione.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi,
mi farò uguale all'Altissimo.
E invece sei stato precipitato negli inferi,
nelle profondità dell'abisso!
L’atto di superbia di Lucifero, la stella del mattino, viene punita con la caduta dall’altezza del Cielo nell’abisso dell’Inferno (Isaia 14:3-20).
IL MIGLIORE DEI MONDI
“C'est, comme la déesse l’expliqua, parce qu’entre une infinité de mondes possibles, il y a le meilleur de tous, autrement Dieu ne serait point déterminé à en créer aucun.” [1] (a) Così Leibnitz, a conclusione del suo saggio, la Teodicea, spiega la ragione del male nel mondo, giustificando (facendo giusta) la volontà divina che questo mondo ha così creato. Si deve notare che l’autore scriveva direttamente in francese, lingua che aveva appreso alla perfezione durante il suo soggiorno a Parigi (1672-1676), per una migliore diffusione dei suoi scritti in Europa.
Il catastrofico terremoto di Lisbona (1755), con i suoi ottantamila morti, scatenò un’ondata di ribellione in tutto il continente contro l’ottimismo teologico e filosofico propagandato soprattutto dalla dottrina di Leibnitz. Nel suo romanzo “Candide”, Voltaire ne svolge una satira ironica e irriverente: “Il y avait en Vestphalie, dans le château de M. le baron de Thunder-ten-tronckh, un jeune garçon... Candide... Le precepteur Pangloss était l’oracle de la maison... enseignait... que, dans ce meilleur des mondes possibiles, le château de Mgr le baron était le plus beau des châteaux et Madame la meilleure des baronesses possibles.” (b) Questo è l’inizio di una serie di disavventure e sciagure per Candido e Pangloss tali da mostrare l’infondatezza della convinzione illuminista e leibniziana del migliore dei mondi possibili. Morale: “Il faut cultiver notre jardin”.
Deve dirsi, comunque, che la satira era indirizzata anche contro Rousseau, il quale, nella sua “Lettre sur la Providence”, aveva criticato la tesi dell’esistenza di un nascosto principio del male sulla Terra espressa da Voltaire nel “Poème sur le désastre de Lisbonne”, sostenendo che molto di quello che accade dipende dalla volontà degli uomini: “La natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani... e se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto.”
Ma come era arrivato Leibnitz a formulare la sua dottrina del migliore dei mondi possibili? “Eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate.” “Sono le stesse quelle cose, di cui l’una può sostituire l’altra mantenendone integra la verità.” Questo principio matematico degli indiscernibili è una logica conseguenza del principio di ragion sufficiente: “Nihil est sine ratione, cur potius sit quam non sit.” “Nulla esiste senza ragione, perché c’è dell’essere invece del nulla.” Esiste una ragione perché vi sia qualcosa invece di niente.
A tale proposito, va notato che proprio in base a questo schema di pensiero (0≠1), l’essere “qualcosa” (esistenza) distinto dall’essere puro (concettualmente non distinguibile dal nulla), Aristotele criticava la teoria del “Nulla è” di Gorgia di Lentini: “L’essere qualcosa e l’essere non sono lo stesso, perché non è vero che se il non essere è qualcosa, esso è anche semplicemente.” (“Confutazioni sofistiche” 25, 180a, 36-38) La distinzione si basa su due diversi significati di essere, copulativo ed esistenziale, che nell’affermazione di Gorgia vengono messi sullo stesso piano.
Se, quindi, in base al principio degli indiscernibili, esistessero due enti identici, l’uno sarebbe “senza ragione” rispetto all’altro. E così, argomenta Leibnitz, Dio non poteva creare un mondo perfetto, in quanto il creato sarebbe stato del tutto identico a Lui stesso; pertanto nella scelta dei mondi imperfetti da creare, Egli ha dovuto optare per il migliore dei mondi possibili. Nella Teodicea, il criterio logico-matematico, di cui abbiamo fatto cenno, viene presentato sotto la forma di una favola finale. A questo proposito, dobbiamo notare che nel Timeo 29d, quando si tratta di dover spiegare la genesi del mondo, come dire l’attuale universo, Platone pone la premessa che si tratta di un racconto verosimile. E sempre sul tema va detto che anche il cristianesimo si rimette ad un racconto, quello del primo libro della Bibbia, considerandolo allegorico, ma predicandolo come dogma, assoluta verità di fede.
La forma narrativa prevale pertanto anche su quella dialogica, che contiene nella sua forma del dire e contraddire la pretesa della verità. Nella Teodicea, Leibnitz parte dall’interrogativo di Boezio, sintetizzandolo: “Si Deus est unde malum? Et si non est, unde bonum?” “Se Dio esiste, da dove viene il male? E se non esiste, da dove viene il bene?” (De consolatione philosophiae, I, prosa IV). Prendendo poi spunto dal dialogo dell’umanista italiano Lorenzo Valla (1407-1457), Dialogus de libero arbitrio, scritto in opposizione al V Libro del De Consolatione, ne riporta passi in una libera traduzione dal latino in francese, e proseguendone la "finzione", trasforma il dialogo in racconto, introducendo la figura di Teodoro, sacerdote sacrificatore, che da Giove viene invitato a recarsi ad Atene da Pallade, simbolo della sapienza divina. Addormentatosi, viene accompagnato in sogno dalla dea, attraverso un labirinto, nel palazzo dei destini, dove è rappresentato nella forma dei vari piani di una piramide, non soltanto quello che è, ma anche quello che è possibile. E quando finalmente accede all’appartamento supremo, il mondo esistente ovvero quello migliore possibile, Teodoro viene rapito in estasi e risvegliato con una goccia di divino liquore: “Il ne pouvait manquer de choisir ce monde qui surpasse en perfection tous les autres, qui fait la pointe de la pyramide: autrement Jupiter aurait renoncé à sa sagesse, il m'aurait bannie, moi qui suis sa fille.”(c) Alla fine Teodoro si sveglia e rendendo grazie alla dea e giustizia a Giove, continuerà a svolgere la sua funzione sacerdotale di offrire sacrifici alla divinità, con tutta la gioia possibile per un mortale.
Quale conclusione trarre? Il mondo migliore (o peggiore) di quello reale è soltanto quello che possiamo immaginare e descrivere o recitare.
[1] Riporto la traduzione in lingua italiana dei passi in francese del testo, non perché ritengo che i miei lettori non conoscano la lingua francese, un pensiero che non mi sfiora, ma perché possano mentalmente confrontare la mia traduzione con la loro e stabilire se la mia sia stata la migliore delle traduzioni possibili, quella cioè che mi fu data apprendere in sogno dallo ierofante Teodoro.
(a) “È, come spiegò la dea, perché tra un’infinità di mondi possibili, c’è il migliore di tutti, altrimenti Dio non si sarebbe deciso a crearne alcuno.”
(b) “C’era in Vestfalia, nel castello del Signor barone de Thunder-ten-troncckh, un giovane garzone… Candido… Il precettore Pangloss era l’oracolo della casa… insegnava… che, in quel migliore dei mondi possibili, il castello di Monsignore il barone era il più bello dei castelli e la Signora la migliore delle baronesse possibili.”
(c) “Egli non poteva mancare di scegliere questo mondo che supera in perfezione tutti gli altri, che costituisce il vertice della piramide: altrimenti Giove avrebbe rinunciato alla sua saggezza e avrebbe bandito me, che sono sua figlia.”
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