mercoledì 2 luglio 2025

Narrativa

 

         Il sangue e la fiamma



20 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

IL SANGUE E LA FIAMMA

1. “Le diable dans l'âme”
Quando Ketty tirò la cordicella ed aprì le tendine della sua finestra, vide che fuori, nell’aria ingrigita, una fine pioggerellina aveva inumidito il giardino e la strada e le altre case di fronte. Rimase a contemplare il paesaggio invernale del mattino e voltò leggermente il capo verso il letto matrimoniale, dove giaceva un uomo addormentato. “Martedì, viene a piovere” aveva detto Asmodeo, un loro vicino di casa, quando si erano incontrati la settimana prima, scambiando qualche parola sul tempo, che in quei giorni di fine gennaio erano tersi, il sole splendente, l’aria fredda. “Perché martedì” aveva chiesto lei. “Così dicono le previsioni” si limitò ad osservare Asmodeo,
ripensando che la notizia gliel’aveva data la moglie Esmeralda. Ketty l’aveva guardato, sapeva che quella risposta era incompleta, più che saperlo, lo intuiva. Non poteva vedere quell’immagine che aveva accompagnato il pensiero di Asmodeo. Nella penombra del salotto di casa, la figura della sua consorte, bellissima e conturbante, l’espressione del viso che sembrava guardarlo, veniva a sovrapporsi all’immagine del dipinto alla parete: “L’indovina”. Era quasi un’associazione di idee per quel nome zingaresco della sua donna, come la protagonista di “Notre-Dame” di Victor Hugo.
La previsione si era avverata, sono i progressi del meteo, ti dicono l’ora in cui piove, smette ed esce il sole. Certo, pensava Ketty, sono le previsioni di una giornata, quelle a breve, e non è come indovinare a distanza di giorni nel corso di una settimana. Chi era l’indovina? La moglie del vicino, sicuramente. Avrebbe indovinato anche di quel giovane uomo, la chioma bionda, che ora dormiva tranquillo nel letto matrimoniale?
Catherine De Backer, originaria di Liegi, cinquantaquattro anni, li avrebbe compiuti tra poco più di una settimana, il 12 febbraio, due giorni prima di San Valentino, si era trasferita a Roma da tre anni, ora parlava bene la lingua italiana. Aveva divorziato dal marito, un medico tedesco, frequenti viaggi in Africa, dove curava i malati, una devota infermiera sua connazionale che lo seguiva dovunque. Il titolo di studio, laurea in Scienze Agronomiche, conseguito presso la sua città, aveva permesso a Ketty di essere assunta come esperta presso gli uffici della FAO a Roma. Il primo anno aveva fatto la spola tra l’Italia e Belgio, e in uno di quei suoi viaggi a casa aveva conosciuto Amedeo, un giovane italiano alto e biondo, vent’anni meno di lei, che andava a specializzarsi all’Università di Liegi, in Medicina veterinaria. Non fu una rivalsa contro l’ex-marito, ma fu proprio sedotta dal giovane, ebbe questa percezione, e non si sbagliava.

Silvio Minieri ha detto...

Aveva iniziato lei, non voleva rimanere sola, in quel primo periodo, una breve storia con un giovane italiano, che si trasformò in passione. Quasi impaurita, e non capiva perché, decise di troncare, e scoprì che per lei fu un dolore. Che cosa le accadeva? Non riusciva più a padroneggiare i suoi sentimenti? O ripensava che forse una sua certa durezza di carattere aveva rovinato il suo primo rapporto coniugale e questa sua seconda storia. Una notte Amadeo ritornò in sogno, quando si svegliò, avvertì la sua presenza nella stanza, era lì, lei era paralizzata dalla paura, non riusciva a muoversi, urlava, ma l’ombra nella stanza non sembrava ascoltare le sue urla. Rimase così per un po', poi scosse il capo più volte, e la violenta agitazione la svegliò, nella stanza non c’era più nessuno. Amedeo era andato via. Riprese sonno, all’indomani fu risvegliata dalla luce del giorno, aveva avuto un incubo. Tempo dopo, si trovò a parlarne con un medico alienista, il dottor Franceschetti, che aveva uno studio nel quartiere. “Niente timori, signora, si tratta semplicemente di brevi paralisi notturne, in cui siamo coscienti di stare dormendo nel nostro letto, nel buio della stanza, ma siccome il sonno ci impedisce di muovere, ci rimane come una coscienza vigile. Quindi, non si tratta di presenze reali, ma solo di figure immaginarie, quelle che percepiamo ferme o aggirarsi nel buio della stanza.” Franceschetti aveva citato Schopenhauer: “Questi spettri li si percepisce, durante il dormiveglia, come quando, sebbene sognando, si scorge esattamente l’ambiente circostante. E poiché tutto quello che si vede è reale, gli spettri che si manifestano godono in un primo momento di una presunzione di realtà.” “C’est une représentation imaginaire traduisant des désirs plus ou moins conscients?” disse Ketty, e proseguì: “Le scénario de l'accomplissement du désir inconscient?” L’alienista fece segno di sì e proseguì: “Nella fase REM del sonno, i neurotrasmettitori hanno lo scopo di inibire il movimento dei muscoli per prevenire reazioni fisiche durante i sogni. Quando entrano in funzione, portano gli individui a rimanere paralizzati, pur essendo coscienti. Le allucinazioni durante la paralisi del sonno, spesso influenzate dallo stato emotivo dell’individuo, come la paura o il panico, sono una forma di sogno, derivanti dalla dissociazione tra stato REM e veglia, e possono portare le persone a percepire nell’ambiente presenze soprannaturali o minacciose.” “Le diable dans l'âme” commentò Ketty. “Un desiderio inconscio” concluse Franceschetti.

Silvio Minieri ha detto...

2. Una fiammata blu
Ketty si mosse dalla finestra, e nel guardare l’uomo che dormiva nel suo letto, si riaggiustò la vestaglia scivolata alla cintola, lasciando il seno scoperto, un gesto istintivo di riservatezza. Poi, invece di andarsi ad allungare accanto a lui, andò in bagno per farsi la doccia. Quando uscì, mezz’ora dopo, l’uomo non c’era più. Andò a cercarlo in cucina, poi in salotto, nel corridoio, nel tinello: non c’era. Rientrò in camera da letto, si sciolse l’asciugamani legato a mo’ di turbante sulla testa, e ritornò in bagno, per asciugarsi i capelli con il phon. Prima di vestirsi e truccarsi, andò in cucina a fare colazione: “Il a mis le café / dans la tasse / il a mis le lait / dans la tasse de café / il a mis le sucre / dans le café au lait / avec la petite cuiller / il a tourné/ il a bu le café au lait / et il a reposé la tasse / sans me parler / sans me regarder.” Wilfried, i primi anni del matrimonio, due bambini, le sue partenze e i ritorni, i risvegli del mattino, i gesti divenuti abituali, i versi di Prévert: “Il s’est levé / il a mis / son chapeau sur sa tête /
il a mis son manteau de pluie / parce qu’il pleuvait / et il est parti / sous la pluie / sans une parole / sans me regarder.” Guardò verso la porta di casa e lo vide: il cappello in testa, l’impermeabile, la pioggia, una figura d’uomo che svaniva.
Rientrò in camera da letto, si vestì, si truccò, era pronta per uscire, guardò verso il comodino, un foglio e una breve scritta in evidenza. Prima non c’era, almeno non l’aveva visto. Prese il foglio: “Ciao Ketty, ti devo lasciare. Amedeo.” Lesse meglio la firma: “Asmodeo”. Continuò a fissare il foglio e si rivide nella sera precedente. Era scesa in strada e Amedeo le era venuto incontro, dopo tre anni, lo stesso Amedeo, poi fu un’improvvisa sulfurea fiammata blu, alchemica e diabolica a un tempo.
I sogni ci rivelano che siamo plurimi e che ciascuna delle forme che compaiono in essi sono “l’uomo stesso nella sua totalità”, complete potenzialità di comportamento, frammentate in figure multiple. In questa prospettiva, i sogni non sceneggiano la situazione esistenziale, non derivano da essa, sono strumenti per tradurre l’Anima, alias i “numi” (archetipi), nel vissuto. “Le persone con le quali nei sogni mi trovo in comunicazione non sono rappresentazioni (simulacra) dei loro sé viventi, e neppure sono parti di me stesso. Sono immagini di ombra che svolgono ruoli archetipici: sono personae, maschere nella cui cavità è presente un numen. (…) Durante i sogni vengono a farci visita dàimones, ninfe, eroi e dèi, nelle sembianze dei nostri amici della sera avanti.” Così Hillman in “ Il sogno e il mondo infero”, ripreso in “Fuochi blu”. “Nel libro di stregoneria, dal quale Asmodeo trasse gli insegnamenti che comunicò a re Salomone, è scritto che colui il quale desidera rimuovere da sé lo spirito di impurità e soggiogarlo, deve essere pronto a pagare, in contraccambio dell’adempimento dei suoi desideri, tutto ciò che si chiede. Poiché lo spirito di impurità tenta il cuore dell’uomo con molti allettamenti, per prendere dimora in lui.” In questo riferimento del Sefer ha-Zoar, il testo fondamentale della qabbalah del tardo Medioevo, troviamo l’indicazione di Asmodeo come spirito demoniaco dell’impurità, libidine sfrenata causa di ogni tipo di perversione. Ma che c’entra il diavolo lussurioso con il nome di Amedeo, cioè Asmodeo? Ketty rilesse il biglietto firmato dal diavolo. Che stupido!

Silvio Minieri ha detto...

IL SIGNORE DELLA CASA
“Scusi lei chi è?” Così Asmodeo apostrofò lo sconosciuto che gli veniva incontro in quella casa, nel salotto in penombra. “Sono Emanuel, signore, il maggiore” rispose sorpreso lo sconosciuto, in verità Emanuel, il maggiore della casa, il maggiordomo. Asmodeo aveva l’aria stralunata, vedendo giungere una donna, l’aspetto zingaresco: “Zingara, chi sei?” domandò cantando. Esmeralda, sua moglie, si avvicinò al marito, e senza parlare, gli diede uno strattone, cercando di allontanarlo da Emanuel, che osservava in silenzio, da parte, l’aria compita. “Dimmi tu perché sei venuta qui?” cantava ghignando il marito, lasciandosi trascinare via. Esmeralda lanciò un’occhiata a Emanuel che abbassò il capo. Un baleno, come una scia blu, attraversò la penombra.
Dopo quella prima volta, che sconcertò non poco il maggiordomo e la signora della casa, vi un secondo e un terzo episodio di smarrimento e demenza di Asmodeo, ogni volta seguito però da un perfido ghigno. Fu allertato il dottor Franceschetti, il medico alienista del quartiere, che diagnosticò: “Alzheimer”. Ma subito rassicurò Esmeralda Pérez de Araciel, coniugata Patricelli: “Solo un principio, signora.” La malattia, invece, era a uno stadio più avanzato. Non era questo però che preoccupava Franceschetti. Quello strano ghigno di Asmodeo, alla fine di ognuna delle prime crisi di smarrimento, come faceva a conciliarsi con i sintomi dell’Alzheimer? Era forse il sintomo di un diverso caso di degenerazione mentale o rammollimento del cervello del Patricelli? E quel tic, un riso non isterico, come accade nella sindrome di Tourette o in turbe di carattere isterico, ma un vero e proprio ghigno del diavolo, a sigillo della demenza temporanea, inquietava l’alienista. Poi che cosa accadde?
Avevo letto l’avviso di vendita della casa, e telefonai al numero indicato: “L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile, si prega di richiamare più tardi.” Ho chiamato più volte, nel corso della mattinata, ma l’utenza non era raggiungibile. Nel pomeriggio, abitavo in zona, mi recai all’indirizzo indicato nell’annuncio di vendita, per vedere la casa quanto meno dall’esterno. Trovai accanto alla porta d’ingresso del caseggiato il cartello con lo stesso annuncio di vendita, l’appartamento era al quarto piano. Citofonai a uno dei quattro nominativi di quel piano, nessuno rispose, soltanto lo scatto di apertura del portone. Entrai, e con l’ascensore, salii al quarto piano.

Silvio Minieri ha detto...

Mi diressi verso una porta socchiusa, mi avvicinai, la porta si aprì a metà e un uomo mi invitò ad entrare, bisbigliando: “Prego, signore.” Stavo per parlare a voce alta: “Sono venuto…” L’uomo m’invitò con un gesto al silenzio, mentre m’introduceva in casa, in una sala in penombra. Quindi, mi guidò verso una scala interna, e salimmo al piano superiore, in ambienti bui, un chiarore proveniente da una stanza, dove si avvertiva la presenza di persone. L’uomo mi fece cenno di entrare, una luce schermata lasciava appena intravvedere la scena: attorno a un letto addobbato a catafalco, su cui giaceva il defunto in una bara, vegliavano suoi familiari e conoscenti, tra cui occasionalmente mi trovai anch’io. Entrando, una donna china accanto al capezzale, si era voltata verso di noi, aveva dato un’occhiata, poi era tornata alla sua posa di raccoglimento. L’uomo accanto a me si era spostato, per farmi posto tra gli altri, ed io mi affacciai a guardare l’estinto: un uomo anziano, il viso di cera. Io non so che cosa accadde, ma non appena lo guardai in volto, il morto aprì gli occhi e mi lanciò uno sguardo gelido. Forse era stata soltanto una mia impressione, perché nessuno fece cenno di essersene accorto o quanto meno, semmai se n’erano accorti, non lo diedero a vedere, neppure la donna vicino a lui, rimasta immobile. O erano una cerchia di iniziati o il suggestionabile ero io, che avevo avuto un’allucinazione. Questo dubbio, però, me lo posi soltanto in seguito, al momento rimasi abbastanza raggelato, e indugiai paralizzato a vegliare il morto. Dopo un po', qualcuno dei presenti non riuscì a trattenere un breve colpo di tosse, ed io ne approfittai per ritrarmi, accennando verso l’uomo che prima, in maniera così inopinata, mi aveva accompagnato a quella imprevista veglia funebre. Egli fu subito sollecito nell’accondiscendere, scambiò uno sguardo d’intesa con la donna accanto al capezzale, verosimilmente la vedova del defunto, e con premura mi accompagnò fuori. Scendemmo la scala, attraversammo la sala in penombra e fummo alla porta. Stavo per parlare, quando l’uomo, che poi seppi era un domestico, come peraltro il suo comportamento mi aveva già lasciato intuire, disse: “Le esequie del signore della casa si terranno domani mattina.” Non sapevo come congedarmi, quando il domestico disse: “La signora l’aspetta, nel pomeriggio, per la stipula del contratto.” Ero sconcertato: “Verrò” dissi. Feci un leggero inchino, date le circostanze, e mi mossi verso l’ascensore, aspettò per chiudere la porta che io fossi sparito dalla sua vista. In quella casa, non era necessario parlare, tutto era tacito o almeno taciuto.

Silvio Minieri ha detto...

IL SOGNO EGIZIO
Ero solo in casa, la casa che avevo acquistato nel pomeriggio del giorno prima di quello delle esequie del signore della casa, a cui ebbi l’onore di partecipare. In verità, si trattò di un’incombenza, dovuta al mio impegno d’acquisto, e già mi sembrava strano aver dovuto consentire a quella partecipazione. E strana era poi stata la stipula del contratto d’acquisto. Nella penombra del salone, c’era il notaio, un uomo vestito con abbigliamento medievale, doveva essere uscito dalla stanza dove si teneva la veglia funebre, il domestico, pardon! il maggiore della casa, la vedova, io. Firmai un contratto già pronto, la consegna era prevista per il giorno dopo, il ritiro della mobilia entro una settimana, con una clausola alternativa: uno sconto del venti per cento, se avessi consentito a tenermi i mobili, tutti. Scelsi di firmare per la clausola alternativa, anche se avevo il sospetto di un evidente artifizio: non solo mi regalavano i mobili, tutti, ma invece di ottenere un sovrapprezzo, mi facevano un notevole sconto. In verità, doversi tenere i mobili non è proprio un vantaggio, se uno vuole arredare la casa a suo gusto, e magari dover pagare per un trasloco e deposito dei mobili, in attesa di un’eventuale loro vendita. Ecco, allora, che lo sconto può apparire giustificato, ma nel caso era abbastanza alto, e se uno avesse tenuto conto dell’operazione, il guadagno ci sarebbe già stato. Allora, perché lo sconto? Perché offrirmi un ulteriore vantaggio economico? Avevo accettato, per riuscire a capire dove andava a finire questa mia linea di condotta di abbandono agli eventi, una linea che sembrava fosse già stata tracciata. Passai in rassegna gli ambienti vuoti di quella casa, che avevo comperato ad occhi chiusi, e che fino al giorno prima era gremita di gente.
In quel periodo, io ero un po' spaesato, venivo da un mio soggiorno negli Stati Uniti, Georgia, avevo pagato in dollari – ecco dov’era il vantaggio dell’alienante – era stato tutto così improvviso, una vertigine. Che accadeva? Chiusi la casa e andai in albergo, dove avevo trovato alloggio al mio rientro in patria.
Giorni dopo, mentre andavo verso la mia nuova casa, incontrai Gianna, una donna bionda, che avevo conosciuto di recente e incontrato la prima volta non ricordo dove. Io sono tornato dall’America circa un mese fa, quindi devo averla conosciuta da poco, mi sorrideva, le cedetti il passo. E quasi sotto casa incontrai il signor Lorenzo, anche questa una conoscenza recente, si presentò come Renzo. Ebbi modo di conoscere anche la moglie, mi parlò di una sua malattia agli occhi, mi guardò con apprensione, disse che un intervento chirurgico non era doloroso. Commentai che in anestesia non avrebbe sentito dolore, ma in verità parlavo più da paziente che da esperto sanitario. Lorenzo mi salutò e passò oltre, avrei voluto fermarmi per conversare un po', sapere qualche notizia del quartiere, di cui ero nuovo. Prima di partire per l’America, abitavo in un villino a nord di Roma, oltre il raccordo anulare, qui, nella zona dell’Appia Antica, era come se venissi da un’altra città. Entrai nella mia casa e feci un nuovo giro per le stanze, questa volta aprii tutti gli armadi, le due cassapanche e i cassetti dei mobili e dei comodini, erano tutti vuoti, tranne la libreria, intatta, quattro colonne di sei scaffali, piena di libri, a occhio e croce un migliaio. Al centro della libreria, c’era uno spazio per la televisione, e in un angolo del salone un tavolinetto con il computer.

Silvio Minieri ha detto...

Che cosa cercavo? Niente. Pensavo di dover prendere una decisione. Quale? Trasferirmi subito dall’hotel ed accamparmi in casa? Ma avevo guardato bene dappertutto? No. Nella camera da letto, al piano di sopra, trasformata in camera ardente, in occasione della morte del signore della casa, da quella prima volta, non ero più entrato. Perché? Così, per scaramanzia? O perché odorava di morte? I ceri accesi, l’aria chiusa. Ecco. Decisi che era soltanto una questione di tatto, nel senso di buon gusto estetico, non quindi di olfatto, ed entrai. La stanza era esposta a sud ovest, ed era piena di sole, erano rimasti i materassi sul letto e i cuscini, guardai nel comò, c’erano lenzuola e federe ripiegate e pulite, odoravano di lavanda. Mi posi il seguente interrogativo, abbastanza sciocco: è meglio stendersi su un letto dove ha dormito un vivo oppure su quello dove è giaciuto un morto? Ormai da quasi un mese, vivevo in albergo, dove passano tutti, tutti i vivi e tutti i morti, dico così in maniera generica, e in quella casa mi sentivo ancora the guest, in questo senso a mio agio. Abbassai la serranda della finestra, filtrava il sole, e la stanza era ancora illuminata, mi tolsi le scarpe e mi stesi sul letto, vestito, chiusi gli occhi.
La donna entrò in camera, adesso in penombra, si avvicinò al letto dove ero steso, si chinò vicinissima al mio volto, volevo sollevare la testa per baciarla sulle labbra, ma non ci riuscii, “Asmodeo”, sussurrò lei e si allontanò da me. Ero nel sito archeologico dell’antico Egitto, e mi trovavo all’interno della piramide di Cheope, vidi una figura femminile venirmi incontro. Era strano, ma quella donna nell’ombra era come se indossasse un poncho, quello dei gaucho argentini, che le scivolava lentamente, quasi a rivelare un seno enorme. Mi voltai, ed ebbi la sensazione di stare in un recinto per pecore. Aprii gli occhi, nella stanza filtrava ancora la luce del sole. Avevo sognato, ma che cosa avevo sognato? Chi erano quelle figure del mio sogno?
Ecco, nella stanza era entrata la signora della casa, almeno ebbi questa sensazione, certo, Asmodeo, il suo letto, giaciglio di morte. La vedova veniva a dare l’ultimo saluto di congedo all’amato o odiato defunto. Ed io? Ma non sono le figure dei sogni gli archetipi, i numi, tradotti da Anima nel nostro vissuto? Non era l’immagine della vedova del defunto Asmodeo che era venuta a visitarmi, ma allora quale archetipo? La morte che abita nella nostra vita e come immagine primordiale si mascherava nelle sembianze di Esmeralda Pérez de Araciel? Eppure, non si era lasciata baciare. Perché? Nella sua potenzialità era quella figura un frammento della totalità della vita e della morte dell’uomo come assieme multiplo. In tal senso non era un simulacro della signora della casa in sé vivente, ma un’immagine ombra, che non apparteneva neppure ad una parte di me.

Silvio Minieri ha detto...

Anche le altre figure oniriche evocate dal mondo infero giocavano questo loro ruolo nel sogno. E si riallacciavano ai recenti ricordi di qualche giorno e sera prima, come la mia visione di quel documentario televisivo sui siti archeologici, presentati da una guida, un’amabile figura femminile che si fondeva nello scenario della sfinge e delle piramidi egizie. E così il poncho, lo scialletto dei gaucho, riconducibile alla lettura e immaginazione di storie argentine. Nei miei giri del quartiere, avevo percorso alcuni tratturi della tenuta amaranto inglobata nel parco dell’Appia Antica, e avevo visto un gregge di pecore pascolare, e un’altra volta il recinto con un manufatto per la mungitura. Era un po' il paesaggio da me immaginato di certi racconti di Borges, ambientati in zone rurali della provincia di Buenos Aires. Forse, l’enorme seno della figura femminile, che si rivelava nell’ombra della piramide di Cheope era il simbolo dell’immagine primordiale, quella del seno materno, che nutre e dà la vita, ed ecco il recinto della mungitura degli ovini dell’agro romano.
Ma questa interpretazione mi inquietava, perché l’immagine si traduceva in un sentimento di malinconia egizia, nel senso della fine di un viaggio d’avventura tra i segni di una civiltà millenaria, il congedo da una donna cara che si allontanava da me nell’ombra funeraria della piramide. Ma come si coniugava quel sentimento di malinconia con le mie fantasie sui monumenti dell’antico Egitto, solo sognato?
Dovevo cercare una migliore spiegazione, decifrare i simboli. L’ombra dell’antica tomba dei Faraoni rimandava a un passato mitico, sul cui sfondo si distingue il momento dell’inizio, la festa primordiale. E come?
Nell’analisi del linguaggio, se andiamo alle origini della parola festa, come spiega il filosofo Emanuele Severino, scopriamo un insieme di parole di diverso significato, ma accomunate da una stessa struttura linguistica che risale a un paio di radici indo-europee: DHE o anche DHES. E non è difficile accorgersi che in Festa, risuona la radice FE, riconducibile a DHE o DHES; ma FE è anche la radice di Felix, Felice. E felice è colui che è vicino alla fonte della felicità, il seno materno; nella lingua greca, Thele, radice THE, è il seno, la mammella, che dà il latte e la vita, l’alimento essenziale, la gioia che esso procura. Il senso iniziale della felicità diventa poi evento festivo, la festa arcaica.
Il popolo greco per indicare Festa usa un termine che ci risuona stranissimo Theoria, contemplazione festiva. Se andiamo a leggere nei primi libri della Bibbia, nell’Esodo, Dio primi sei giorni lavora, poi si riposa. E così Mosè invita il popolo radunatosi ai piedi del monte Sinai a considerare un giorno consacrato esclusivamente al divino, e non compiere attività lavorative. Infine, conclude Severino, il tema della festa arcaica, diventa il centro da cui si irradiano tutte le forme di vita.
Ma quale significato avevano per me quei simboli del sogno, il seno materno e il latte come fonte di vita, bene essenziale, che rimandavano alla festa primordiale, la festa della vita? E quel mancato bacio di Esmeralda? Ero confuso. Mi alzai, andai alla finestra e riaprii la serranda, il sole tramontava. Scesi al piano di sotto e lasciai la casa.

Silvio Minieri ha detto...

LA SCADENZA DEL CONTRATTO
Qualche tempo dopo, ricevetti uno strano messaggio sul telefonino: “Il contratto scade il prossimo ottobre.” Chi aveva mandato il messaggio? E perché? E soprattutto di quale contratto si trattava? Subito pensai a Esmeralda e al contratto di vendita della casa, l’acquisto da me compiuto, in circostanze così particolari. Eravamo agli inizi di aprile, come dice il poeta: “Primavera d'intorno, brilla nell'aria e per li campi esulta”. Mi sentivo rinascere a nuova vita, dopo il mio rientro in patria, ma forte avvertivo un senso di spaesamento, come quello di chi ha dovuto interpretare a lungo il ruolo di “guest”, l’ospite, lo straniero. Ora, ero tornato a casa, ma non mi ci ritrovavo più, forse dovevo riabituarmi, l’acquisto di quella strana abitazione non aveva risolto la mia situazione psicologica. E adesso questa telefonata, ma non poteva essere stato un errore? Decisi di andare a fare una passeggiata al centro, alloggiavo in un hotel, all’inizio della Laurentina, presi la metro B, cambiai a Termini, e con la linea A scesi a Spagna; quindi, imboccai il corridoio d’uscita sulla piazza. In quel momento, ricevetti un secondo messaggio: “Il contratto scade il 30 ottobre.” Non era un errore. O forse l’errore non era stato voluto, nel senso che il mittente aveva il mio numero di telefono, ma era quello sbagliato. Errare humanum est, perseverare aut diabolicum. Sull’onda di questo pensiero, telefonai al numero di Esmeralda, che avevo registrato sul mio telefonino, prima di uscire dall’hotel. Mi rispose la segreteria telefonica, la voce di un uomo: “Lo studio è temporaneamente chiuso, si prega di lasciare un messaggio dopo il segnale”. Sentii il bip, rimasi in silenzio, esitavo, chiusi la comunicazione. Che dovevo dire? E se avesse risposto la signora Pérez de Araciel, che cosa avrei detto? Avevo pensato Esmeralda e ora già dicevo signora, ma non mi stava baciando in sogno? No, era un bacio mancato. Freud sostiene che il sogno è la realizzazione di un desiderio, Michel Foucault lo critica e parla di natura allucinatoria della soddisfazione del desiderio. Ma io neppure in sogno, quello strano sogno egizio, avevo soddisfatto il desiderio, peraltro un’allucinazione. Ma dei due, lo psicologo e l’antropologo, chi ha ragione? Avevo raggiunto la Fontana della Barcaccia, svoltai a destra ed imboccai la via Condotti, guardavo le vetrine dei negozi, mi soffermai davanti a una gioielleria, ma pensavo al bacio mancato, ah! ecco perché.

Silvio Minieri ha detto...

Qualcuno mi aveva dato un colpetto sulla spalla, mi voltai sorpreso. Un uomo alto, con gli occhiali, i capelli corti, brizzolati, come la barba, il pizzetto, un aspetto austero, ma l’espressione sorridente. “Pier”, disse. Chi era? Notò il mio sconcerto: “Ti presento mia moglie” disse. Aveva leggermente balbettato, nel parlare, e io, nel rivolgermi alla donna di mezza età al suo fianco, per quel particolare, mi ricordai d’un tratto di lui: “Pietrangelo Lo Turco.” Eravamo stati militari insieme, io amante della poesia, lui del teatro, io non amante dalla rigida forma della disciplina, lui marziale, io mi congedai presto, lui rimase in servizio. Calcolai rapidamente, eravamo entrambi quarantenni: “Colonnello Lo Turco” dissi con l’aria di chi si complimenta, accentuando l’espressione del viso. “Tenente Colonnello” precisò. Ecco il militare. “In promozione,” aggiunsi subito. La moglie si illuminò in viso. Mi prese sottobraccio: “Andiamo a prendere un caffè”. Cominciò a parlare del teatro di Ugo Betti, e mentre parlava, io pensavo ad altro, eravamo entrati in un caffè riccamente arredato. Avrei dovuto pagare io, non sapevo se avessi portato con me i documenti di credito o il contante, mi toccai macchinalmente le tasche, mentre assentivo a quello che diceva sul teatro, e notai che Lo Turco aveva notato il mio gesto. “Da certe battute del copione si capisce che l’autore è un magistrato” dissi per distogliere l’attenzione dalla nostra realtà presente e riportarla a quella immaginaria della scena teatrale. “Corruzione a palazzo di giustizia” disse Lo Turco. In verità, pensavo ad un altro dramma, che avevo visto di recente, dove l’interprete sentendosi chiamato in causa, rispondeva sorpreso: “Io?” Lo Turco subito indovinò il titolo, quando un attimo dopo riferii della scenetta, e disse: “Il vento notturno”. Poi iniziò un discorso sulla verità della scena e la finzione della vita, dicendo che la realtà contiene elementi di finzione e che la finzione contiene elementi di verità. “E di fronte a questo dilemma un giudice si trova a confrontarsi ogni volta, come nella commedia del padre.” Pensai a Pirandello, mi distraevo dalla mia realtà ed entravo nella realtà comune, quel nostro attuale discorso sulle scene e sul teatro. Antonio, il commendatore di “Il vento notturno”, alla fine si rivela il padre di Elena, aveva sognato di ritrovarla in un luogo molto più bello, dove saranno vere tutte le cose desiderate: la trascendenza di Betti. Il “padre” di Pirandello, la figura principale di “Sei personaggi in cerca d’autore”, è lui l’autore invisibile del copione, il capocomico è soltanto il regista.

Silvio Minieri ha detto...

Cominciavo a seguire con più attenzione Pietrangelo, disse che la commedia era in cartellone al teatro Argentina. “Argentina” rimarcai. “T’interessa?” disse. Non risposi, mi ricordai del poncho argentino del mio sogno egizio. “Pier?” Mi riscossi, mi ripresi: “L’ho già visto più di una volta, l’ho studiato, più o meno.” S’illuminò alla mia risposta: “Il personaggio del “padre”, come la “figliastra”, più degli altri sei, sanno di essere personaggi, che soffrono il dramma di una loro storia da voler rappresentare in modo da concedere loro la possibilità di esistere. Eppure, non possono sospettare che è proprio questa impossibilità, questa ingiustizia, la vera funzione della loro esistenza. Se qualcuno glielo dicesse, non gli crederebbero, dice Pirandello, perché non è possibile credere che l’unica ragione della nostra vita sia tutta in un tormento che ci appare ingiusto e inesplicabile.” Pietrangelo conosceva bene Pirandello, era un colonnello dell’esercito, ma anche un critico teatrale. “Non si dà storia, se la storia non viene raccontata” dissi. Marito e moglie mi guardarono, ne approfittai, per aggiungere: “Se questa nostra storia, che qui noi stiamo vivendo, non viene raccontata, non esiste come storia.” Sapevamo noi se qualcuno la stava raccontando? Non posi quest’interrogativo, ma dissi: “Ci troviamo una sera e andiamo a teatro, magari all’Argentina, quando va in scena la commedia di Pirandello.” Scossero entrambi la testa, la programmazione era per maggio, e Pietrangelo sarebbe partito in missione a giorni. Ecco la caducità dell’interrogativo. “Ti mando un commento dal campo” disse. Eravamo fuori del caffè, mi accompagnarono all’incrocio con piazza di Spagna, ci congedammo, io pensavo sempre a quello che stava scrivendo questa mia storia, ed ero un po' io, così come la figura del padre è un po' quella del capocomico. Ma qual era questa storia del padre? Quella di Pirandello, nella mente allucinata della consorte, padre incestuoso, tanto che la figlia Lina tenta il suicidio con un colpo di pistola, c’è un colpo di pistola nella commedia. Il fantasma di quest’allucinazione lo perseguitava e l’ha messo in scena e ha messo in scena sé stesso in una condizione di logica impossibilità di raccontare questo suo dramma, il travaglio del suo spirito, come dice il drammaturgo infelice. Ed io? Non sono un drammaturgo, o forse lo sono, e sto raccontando, mettendo in scena, il travaglio del mio spirito. Quale?
Ero arrivato alla stazione della metro, percorsi il corridoio, scesi con la scala mobile ed ero sulla banchina, in attesa del convoglio per Anagnina. Tra un po’ avrei cambiato a Termini, avrei preso la linea B e sarei sceso a Laurentina, poi sarei entrato in albergo.
In quel presente di un passato appena trascorso, il congedo dai Lo Turco e l’entrata nella stazione della metro, mi trovavo teso verso un immediato futuro di rientro a casa. Non si dà tempo se il tempo non viene raccontato: dovevo ancora raccontare il tempo di questo rientro. Nella mia casa oppure nel mio hotel? Ero ancora the guest.

Silvio Minieri ha detto...

MONUMENTO DEL TEMPO
Mi svegliai di colpo. Dov’ero? Non riconoscevo il letto e la stanza al buio. Chi cantava? By the rivers of Babylon, there we sat down
ye-eah we wept, when we remembered Zion.
Nessuno cantava, io cantavo, il ritornello mi rimbalzava di continuo nella mente.
By the rivers of Babylon, there we sat down
ye-eah we wept, when we remembered Zion.
Prima di andare ad aprire la serranda della finestra in alto, la stanza era ad un livello di qualche scalino più in basso della porta, mi resi conto di dove stavo: un hotel di Notting Hill. Aprii la finestra, entrò una luce fioca, quella del cielo grigio di Londra. Salii due scalini ed entrai nella stanza da bagno a lavarmi. All’arrivo, mi avevano dirottato in quell’albergo, per mancanza di posti in quello prenotato, la gestione era indiana o pakistana, subito la stanza mi era sembrata soffocante. Ero uscito ed ero andato a cena in un ristorante italiano, osservai un mio vicino che aveva versato il vino bianco nel risotto allo zafferano. Non persi l’occasione per mangiare penne all’arrabbiata e l’ossobuco con piselli, serviti dal gestore, un romano molto simpatico., poi sotto la pioggia ero ritornato in hotel. Mentre finivo di prepararmi, sentii alla televisione che i reali d’Inghilterra erano in partenza per l’Italia. Che ci facevo a Londra? Andai al check-out, nel vedermi, la ragazza si mise a ridere, ero abituato a quei sorrisi maliziosi, e non mi dispiacevano, ma questa volta lei non aveva potuto trattenere il riso, il classico riso della donna tracia, ero scettico. Perché? Chiesi informazioni per sapere dov’era l’Hilton, si poteva raggiungere a piedi. Avrei preso alloggio in un albergo più decente, anche se più caro. Dovevo incontrare qualcuno?
Sono rimasto altri due giorni, ho rivisitato tutti i posti più turistici della capitale inglese, che ricordavo tutti dalla mia prima volta, quando avevo vent’anni, e sono andato anche a Portobello, ecco, la musica di Bob Marley, e la musica reggae.
By the rivers of Babylon, there we sat down
ye-eah we wept, when we remembered Zion.
Il complesso Boney M., i cantanti britannici di origine giamaicana, base in Germania, la canzone, uno "spiritual" rastafariano, gli ebrei esiliati a Babilonia, e come loro la nostalgia della patria lontana.
When the wicked
Carried us away in captivity
Required from us a song
Now how shall we sing
the lord's song in a strange land.
Ero venuto a Londra per visitare il British Museum, un’anglo-egiziana guidava i visitatori alla stele di Rosetta, più che ai reperti dei faraoni, ero attento alle spiegazioni della guida, la sua lunga e fluente chioma di capelli neri ricci. Ma non c’era solo l’Egitto nel mio sogno, c’era anche lei, la donna che ero venuto a cercare a Londra, e che all’Hilton non avevo trovato. Ora potevo ricostruire questa mia situazione di guest, non tanto guest, se ormai questo mio ruolo mi era diventato familiare.
Quando avevo lasciato i coniugi Lo Turco a piazza di Spagna, alla stazione della metro, sulla banchina in attesa, nell’istante tra il passato appena trascorso e il futuro subito immediato, avevo come rimosso quello strano messaggio ricevuto sul telefonino, e la conferma della scadenza del contratto. Avevo come dimenticato la spiegazione del bacio mancato del mio sogno, intorno a cui cercavo la soluzione, e che invece avevo colto proprio nell’attimo in cui avevo udito pronunciare il mio nome: “Pier”.

Silvio Minieri ha detto...

Qualche giorno dopo, forse il giorno dopo stesso, ero andato nello studio del notaio, a cui corrispondeva il numero di telefono lasciatomi da Esmeralda Pérez de Araciel. Si trovava vicino alla piazza San Lorenzo in Lucina, mi aprì il notaio Notarangelo, come si presentò. Aveva capelli bianchi, i baffi bianchi spioventi, ora si era seduto dietro la scrivania, prese una penna stilografica e cominciò a scrivere. Ma che cosa scriveva? Dissi del messaggio anonimo, del mio contratto d’acquisto della casa Patricelli. Il notaio, non era quello della stipula in abiti medievali, alzò la testa, mi guardò, poi si alzò, prese un faldone dallo scaffale di archivio alle sue spalle, estrasse un fascicolo, l’aprì, e mise il contratto di acquisto davanti ai miei occhi, indicando le firme. “È questo?” disse. Accennai di sì con la testa e domandai: “Quando scade?” Il notaio mi guardò, aveva gli occhiali, l’espressione neutra: “Mai” disse. E allora perché il messaggio sul telefonino? Non rispose, ritirò il contratto, lo rimise nel fascicolo, lo ripose nel faldone. Perché? Insistetti. Mi tese un biglietto, su cui c’era scritto: “Hilton, Mrs. Esmeralda Dalloway, Londra.” Si alzò e ripose il faldone nello scaffale d’archivio alle sue spalle, poi si voltò verso di me. Indicai l’altro foglio sulla scrivania, su cui prima aveva vergato alcune righe. Il notaio abbassò lo sguardo sul foglio, poi guardò me, come a chiedersi quale relazione intercorresse tra me e quello che lui aveva scritto poco prima. Prese il foglio, lesse il contenuto, quindi me lo diede, lessi: “Perché vivendo a Westminster – da quanti anni ormai? più di venti – anche in mezzo al traffico, o svegliandosi di notte, si percepisce, Clarissa ne era certa, un silenzio particolare, o solennità; una tregua indescrivibile; una sospensione (ma quello poteva essere il suo cuore, debilitato, dicevano, dall’influenza) prima dei rintocchi del Big Ben. Ecco! Eccolo che risuonava! Prima un avvertimento, musicale; poi l’ora, irrevocabile.” Che significava? L’uomo si riprese il foglio e lo ripose sulla scrivania, quindi alzò le spalle: “Virginia Woolf, Mrs. Dalloway.” E allora? L’uomo si mosse da dietro la scrivania e mi si avvicinò: “Menardi, venga!” disse forte, mi toccò il braccio e in silenzio mi accompagnò alla porta, quindi mi invitò ad uscire. Oltre la soglia, mi voltai a guardarlo. Chiuse la porta, lessi l’incisione sulla targhetta in ottone: “Andrea Notarangeli – Notaio in Roma.” Poi l’immagine si sfuocò.
Guardai in alto il Big Ben, l’orologio della torre di palazzo Westminster, imbruniva, ero seduto su una panchina del prato di fronte al Parlamento, in cielo volava un aereo. Londra, il Big Ben, il monumento del tempo, dovevo rientrare a Roma.

Silvio Minieri ha detto...

"By the rivers of Babylon"

Il testo della canzone è un frammento del Salmo 137, un canto di lamento degli Israeliti in cattività a Babilonia. Esso riflette il dolore e la nostalgia per la loro patria, Sion, mentre si trovano in terra straniera.

By the rivers of Babylon, there we sat down
Presso i fiumi di Babilonia là ci sedemmo
Yeah, we wept when we remembered Zion
Già, abbiamo pianto ricordandoci di Sion
By the rivers of Babylon, there we sat down
Presso i fiumi di Babilonia là ci sedemmo
Yeah, we wept when we remembered Zion
Già, abbiamo pianto ricordandoci di Sion
There the wicked
Là i malvagi
Carried us away in captivity
Ci ha portato via in cattività
Required from us a song
Ci è stata richiesta una canzone
Now, how shall we sing the Lord's song
Ora, come canteremo la canzone del Signore?
In a strange land?
In una terra straniera?
There the wicked
Là i malvagi
Carried us away in captivity
Ci ha portato via in cattività
Requiring of us a song
Ci è stata richiesta una canzone
Now, how shall we sing the Lord's song
Ora, come canteremo la canzone del Signore?
In a strange land?
In una terra straniera?

Silvio Minieri ha detto...

LA PORTA GRIGIA
“Gli attori recitano e non possono uscire dal loro ruolo di attori, non possono sfondare la quarta parete, quella invisibile tra loro e il pubblico. Se lo fanno, sospingono davanti a sé questa parete trasparente, fino a quando non scompaiono dall’orizzonte dello sguardo degli spettatori.” Avevo ricevuto questo messaggio da Lo Turco, e per il colonnello in missione nel Medio Oriente, quel messaggio era importante non per i suoi contenuti, ma per la forma ovvero la direzione della traiettoria verso Occidente. Era una risposta alla mia osservazione sulla Figliastra dei “Sei Personaggi”, che alla fine della Commedia, scende dalla scena in platea sghignazzando, e abbandona il teatro. Ponevo il quesito se fosse la rappresentazione della follia, che lascia la scena della finzione, ed entrando nella realtà, diventa una folle risata liberatoria dalla follia. Il mio quesito non era peregrino, perché voleva riflettere quel “travaglio dello spirito” dell’autore, che soffriva della pazzia della moglie e mandava in scena quei suoi deliri, al fine di una sua catarsi interiore, lo spirito purificatore della tragedia come indica Aristotele. E l’umorismo pirandelliano è un po' una rivincita dell’evidenza drammatica del reale in contesa con l’illusione di una verità irreale, la finzione, l’arte. Ma, dicevo, Lo Turco inviava il suo messaggio in ragione della sua traiettoria da una lontana zona di operazioni militari verso la sua terra patria non soggetta a tali inquietudini.
Avevo, ormai, preso pieno possesso della mia casa, per la quale il mio contratto di acquisto era definitivo, non era soggetto a scadenza. Ma chi l’aveva messo in dubbio? Io? No, non sono l’autore dei messaggi indirizzati al mio telefonino, anche se erano sintomi di una stranezza della situazione. Chi scriveva quelle cose?
Un giorno, mentre tornavo a casa, ho incontrato Lorenzo, e l’ho invitato a salire con me nella mia abitazione, per la quale aveva mostrato curiosità, ma non era il solo, anche Gianna. Era stata lei, quella sera, in sella a una motocicletta, che mi aveva salutato, sfrecciandomi davanti sulla strada, che stavo per attraversare? Penso di sì.
Siamo passati dall’ingresso alla sala interna e abbiamo visitato insieme tutte le stanze del piano superiore, siamo scesi e stavamo andando in cucina, dove l’avevo invitato a prendere un caffè, quando lui ha indicato in un angolo una porta grigia, semicoperta da una tenda. Allora, ci siamo avvicinati e lui ha aperto la porta, un attimo solo, e l’ha richiusa di botto. Mi ha guardato esterrefatto, era paralizzato, io non ho mostrato segni di stupore, sono rimasto impassibile a guardarlo. Ha mormorato qualcosa, era divenuto pallidissimo, poi in fretta si è diretto deciso all’ingresso, ha aperto l’uscio ed è sgusciato via. Che cosa era successo?

Silvio Minieri ha detto...

Quando ha aperto la porta grigia, io ho visto il cadavere del defunto signore della casa, ritto nella rigidità della morte, che ha aperto gli occhi e ha lanciato uno sguardo gelido. E lui? Io credo che abbia avuto una visione terrorizzante, d’altronde come altri della zona conosceva Asmodeo da vivo, era una conoscenza del dottor Franceschetti, l’alienista, che lo stesso Lorenzo una volta aveva nominato, non so a che proposito. Intendiamoci, io sapevo che cosa c’era dietro la porta grigia, l’avevo aperta diverse volte, fin dalla prima volta ch’ero entrato in casa, e non vi avevo trovato mai nulla di strano. Quella volta che Lorenzo l’aveva aperta forse abbastanza imprudentemente ed era rimasto di sasso, io ero rimasto impassibile di fronte a quel suo turbamento forse eccessivo, quasi presentivo che non sapesse. Che cosa? Quello che sapevo io, e siccome sono un tipo scrupoloso, sono poi subito andato a controllare. E infatti, era come pensavo: quando ho aperto la porta grigia, ho visto lo specchio a muro, che è stato sempre là. E allora? Io ero dietro di lui ed ho immaginato il signore della casa defunto, di cui avevo avuto visione la prima volta quando era in posizione orizzontale. È naturale che io posso immaginarlo, ovvero immaginare la sua figura che si aggira per quella che era stata la sua casa, non vedo nulla di straordinario in questo, e quindi immaginarlo anche dietro la porta grigia. E l’immagine che io ho del mio predecessore, ecco, l’ho detto, il mio predecessore, era quella di un viso di cera, rigido nella rigidità della morte. Aveva aperto gli occhi e lanciato uno sguardo gelido? È una stranezza poco credibile, infatti ricordo che ero rimasto abbastanza incredulo quella volta, ma è l’unica visione e ricordo che io conservo di Asmodeo, il defunto signore della casa. Ma Lorenzo? Non credo che abbia avuto la mia stessa visione. E allora quel terrore negli occhi e il precipitoso allontanamento? Si possono trasmettere sensazioni, ma non credo oggettivare, diciamo così, le immagini della mente e renderle visibili agli altri accanto a noi, al massimo si possono raccontare. Aveva visto riflesso sé stesso o la mia figura, non saprei dire se la mia immagine era coperta dalla sua. E quindi?
Solo un nuovo confronto poteva sciogliere l’enigma della porta grigia, come magari si può definire l’insolito episodio. E l’occasione si presentò una sera, era ormai estate, giugno, mi sembra. Dopo una certa ora su quel viale di periferia, illuminato da una fila di lampioni, rimaneva accesa solo la vetrina della notte del bar ormai chiuso, e nelle ombre buie, illuminati di riflesso, scorsi Lorenzo assieme a un altro, uno stradino che conoscevo di vista. Mi unii ai due, dopo aver salutato l’amico, che mi guardò, un sorriso malizioso all’angolo della bocca. Era passata la paura, ma rimaneva vigile l’attenzione nei miei confronti, perché ai suoi occhi la mia impassibilità di quella volta doveva averlo impressionato più della visione da lui avuta. Io non so, ma era come se fosse stato investito da una folata di aria gelida, quando io avevo visto il morto aprire gli occhi, e la successione di queste due emozioni lo aveva sconvolto, allora. Dopo un banale scambio di battute sul tempo mite e la quiete serale, Franco, così si chiamava lo stradino, che identificavo come tale, perché l’avevo visto con la pettorina gialla, mentre spazzava il viale, fece alcune battute sul proprietario del bar. Entrambi si intendevano su alcune conoscenze del quartiere, e allora io dissi della donna bionda, Gianna, che avevo visto in moto. Ah, una vampata di capelli rossi! commentò Lorenzo, forse parlavamo di donne diverse. Franco non disse nulla, dopo un po' mi congedai da loro, e tornai a casa. Ero il forestiero divenuto di casa, una casa dove avvenivano, in verità, strane sconcertanti situazioni, come quelle della porta grigia.

Silvio Minieri ha detto...

TRA LE SUE BRACCIA
Alla fine, mi decisi, e telefonai per chiedere un incontro con il dottor Franceschetti, mi rispose una voce femminile, dicendo che il dottore era in partenza per la villeggiatura al Circeo; quindi, poteva fissare una data alla fine di settembre o ai primi di ottobre. Colsi la palla al balzo: “Prima del 30 ottobre, se possibile.” L’altra sembrò sollevata: “Ah! Vediamo, Il 30 ottobre è un giovedì, lei ha detto prima?” Confermai: “Sì.” Consultò il calendario: “Ci sarebbero martedì 28 oppure giovedì 23.” Il tempo di riflettere, poi dissi: “Il 23 andrebbe bene, comunque se crede anche il 28 va bene.” Controllò, poi disse: “Giovedì 23, alle dieci o alle dodici.” Scelsi tra me, quindi dissi: “Mezzogiorno, signora.” Confermò: “Giovedì 23, alle dodici, mi dice il suo nome?” “Pierfrancesco Menardi.” La donna mi chiese se fosse il primo appuntamento, dissi di sì, e poi mi chiese anche la data di nascita: “Il 30 ottobre 1982.” Sentii che sorrideva: “Ah, ecco, il giorno del suo compleanno!” Disse che mi avrebbe registrato sul loro database, quindi concluse: “La prego di confermare una settimana prima.” Tacevo. “Signore?” Sentii che mi chiamava. “Sì?” risposi. “Dicevo di una sua conferma, almeno una settimana prima dell’incontro.” “Oh, certo!” “D’accordo, signor Menardi, giovedì 23 ottobre, alle dodici. Mi raccomando.” Quindi, arrivederci e grazie, come da saluti di prammatica. La comunicazione era finita. Il 30 ottobre era il mio compleanno, non ci avevo mica pensato, o meglio questo pensiero era rimasto sullo sfondo, quando mi era arrivato il messaggio della fine del contratto. E ora mi chiedevo che significato avesse quel termine di scadenza. Uno scherzo di cattivo gusto di chi conosceva la mia data di nascita, e chissà perché pensai ad Asmodeo, il defunto signore della casa. Ma se era morto? Quindi, rimaneva la vedova, non il notaio che mi aveva messo alla porta.
Si preparava un acquazzone estivo, il cielo si era scurito, mi affrettai verso casa, e feci appena in tempo, quando arrivarono i primi goccioloni, un lampo, il tuono vicinissimo, entrai nel portone e salii al quarto piano. Nella penombra, davanti all’ingresso, in attesa c’era lei: Esmeralda Pérez de Araciel. Non distinguevo bene l’espressione del suo viso, aprii la porta, e sulla soglia, le presi un braccio e la trascinai dentro, o meglio lei entrò senza fare resistenza, mentre allentavo la presa.

Silvio Minieri ha detto...

Qualche tempo dopo, avevo ormai deciso e stavo per telefonare alla segreteria del dottor Franceschetti, per disdire il mio appuntamento, quando fui raggiunto prima da una telefonata: “Pronto, il signor Menardi?” “Sì?” “Sono Franceschetti, mia moglie l’ha invitato nella nostra villa al Circeo.” “Non so.” “L’invito è stato recapitato a casa sua, dovrebbe essere già nella sua cassetta postale.” “Controllo subito.” “Sono convinto che verrà a trovarci, signor Pierfrancesco.” “Pier” dissi. “Io, Leo, a presto, Pier.” “Arrivederci.” “Di nuovo.” Aveva chiuso la comunicazione, rimasi a guardare il telefonino. Io sono uno che si lascia subito convincere, mi abbandono alla corrente, che mi trascina via. Dove? Da Esmeralda, una nuova amicizia? No, la scoperta di un amore. L’ultimo? Forse. Chi mi aveva mandato il messaggio di scadenza del contratto? Quale contratto? Un patto matrimoniale? Esmeralda cadde dalle nuvole: non mi aveva mandato nessun messaggio del genere, mai. “Ma tu conosci i Franceschetti?” “Sì, per Asmodeo.” “Ci hanno invitati al Circeo, la prossima settimana, tu vieni?” Mi sembrò contrariata, ragionavo ancora come se fossi solo. “Dicevo, ti fa piacere?” Non rispose. E che doveva dire? Mi aveva già detto tutto. Il cerchio si era chiuso, l’anello mancante era Asmodeo, ed io l’avevo sostituito, in breve tempo. Ma dove era stata Esmeralda in quel breve tempo, dalla scomparsa del suo defunto consorte al mio subentro. Gelosia? Sì, un po', lo riconosco, con la vedova era stato un colpo di fulmine al primo sguardo, nella camera ardente. Ecco la spiegazione del lampo gelido dello sguardo del morto, ed ecco perché nessuno l’aveva visto, tranne me. Ma non l’avevo immaginato, non era un fatto inverosimile? Sì. Allora, era una mia invenzione. È una contraddizione? Certo, ma nella nostra esistenza non ci sono tante contraddizioni?
“Asmodeo era geloso?” Avevo posto la domanda, appena rientrato in casa, subito dopo aver ripercorso mentalmente, durante il tragitto di ritorno, il breve scambio di battute avuto con lei il giorno prima, sull’invito ricevuto da Margherita Franceschetti. Non avevo però domandato della sua assenza, ecco era stata lei ad assentarsi dalla casa. E adesso volevo sapere, per quel vuoto di tempo, che non avevo passato con lei, una leggera malinconia per quello che non era stato o gelosia? Un misto di entrambe. “Come sto?” Non aveva risposto alla mia domanda, si stava guardando nello specchio a muro, quello della porta grigia, che avevamo rimosso, e ora si era voltata verso di me. “Bene” dissi. “Bene?” rispose con aria di finto rimprovero, avanzando verso di me. “Benissimo” feci in tempo a correggermi, prima di finire tra le sue braccia. Una scia blu attraversò la stanza come un lampo alle mie spalle, non la vidi, né avvertii l’odore sulfureo che l’accompagnava, non potevo, lei mi stringeva tra le braccia. “Asmodeo è morto” mi sussurrò all’orecchio. Io sono vivo, non lo dissi, lei lo sapeva già. La scadenza era il 30 ottobre, avevamo tutta l’estate davanti, avevo firmato un patto con il diavolo. Quando e come? Ma non ho finito di raccontarlo e spiegarlo adesso?

Silvio Minieri ha detto...

LA SCRITTURA DEL SOGNO
Quando Esmeralda salutò Ludovica Morelli, una giovane donna dai capelli biondi, che avevamo incrociato sotto il portone di casa, io le domandai chi fosse, lei rispose: “Ludo, la figlia di Daniel Morelli, un coinquilino del nostro condominio.” Era andata in crociera nel Mediterraneo con lei ed altri conoscenti. “C’era anche il padre?” “No, c’era un suo amico, Sergio, ed altri. Io ero sola.” Disse che aveva progettato il viaggio con Asmodeo, una crociera in Spagna, Nordafrica, Sicilia, poi il marito si era ammalato ed era morto. Quando aveva saputo da Ludo della crociera si era aggregata. “Avevo dei piccoli risparmi.” Tacque mi guardò, poi disse: “I soldi della casa sono per Joaquin” “Sono contento” dissi. Mi baciò, e mi fece vedere la foto sull’iPhone di un giovane riccioluto, leggermente grassottello. “È alto un metro e novanta ed è molto robusto.” “Come il padre?” Interrogai. “Sì, il padre era alto come lui, ma più magro, biondiccio.”
Mi spiegò, Esmeralda, che erano molto giovani, lei aveva diciassette anni, lui era un sergente ventenne, era poi partito per l’Africa, in Mauritania, e non si era più visto. Il nonno, un britannico, si era arruolato nella Brigata Internazionale, durante la Guerra Civile, ed era morto. Joaquin viveva a Londra, faceva parte del personale di servizio all’Hilton di Paddington e studiava Economia all’Università. I soldi della casa, che mi aveva venduto, servivano a sostenerlo negli studi e nella sua vita futura. Ottimo!
Io ero diventato il signore della casa, lei era tornata ad essere la signora della casa, e per ristabilire il quadro, mancava solo il maggiore dei domestici, il maggiordomo, ma io non ne sentivo la mancanza, per ora, per un domani non so.
Avevamo rimosso la porta grigia, che copriva lo specchio a muro, e che era stata voluta da Asmodeo, non perché fosse geloso o irritato dalla moglie che perdeva troppo tempo a specchiarsi: infatti, per farlo, non bastava aprire la porta? Certo, e allora? Aprendo la porta d’ingresso, si rifletteva di giorno la luce del sole, di notte l’illuminazione del pianerottolo e il riflesso feriva lo sguardo, distorcendo le immagini. Così diceva Asmodeo, ed era vero, anche se Esmeralda non sembrava dello stesso parere. Infatti, quando la porta fu rimossa, lei si mise davanti allo specchio e mi domandò: “Ti sembra un’immagine storta?” “Sei meglio dal vivo.” Si voltò ridendo, in quel momento la porta d’ingresso alle nostre spalle era chiusa, mancava l’abbaglio, e devo dire che quella penombra favoriva meglio una certa complicità.
Ora, stavamo preparandoci per il week-end dai Franceschetti. “Ma io non ho bisogno di un incontro con l’alienista.” Dissi d’un tratto. Lei mi guardò interrogativa: “Sono amici.” Perché Franceschetti mi voleva nella sua cerchia di amicizie? Pensai, ma non lo dissi. Trascuravo Esmeralda, che peraltro lui conosceva. Veramente, no. Conosceva il defunto marito come suo paziente, lei forse l’aveva solamente accompagnato.

Silvio Minieri ha detto...

Ad ogni buon fine, trascrissi il mio sogno egizio sull’iPhone, e lo mostrai a Esmeralda, che lo guardò appena senza leggere, l’avrei mostrato a Franceschetti, l’amico Leo.
“La donna entrò in camera, adesso in penombra, si avvicinò al letto dove ero steso, si chinò vicinissima al mio volto, volevo sollevare la testa per baciarla sulle labbra, ma non ci riuscii, “Asmodeo”, sussurrò lei e si allontanò da me. Ero nel sito archeologico dell’antico Egitto, e mi trovavo all’interno della piramide di Cheope, vidi una figura femminile venirmi incontro. Era strano, ma quella donna nell’ombra era come se indossasse un poncho, quello dei gaucho argentini, che le scivolava lentamente, quasi a rivelare un seno enorme. [Mi voltai, ed ebbi la sensazione di stare in un recinto per pecore.] Aprii gli occhi, nella stanza filtrava ancora la luce del sole. Avevo sognato, ma che cosa avevo sognato? Chi erano quelle figure del mio sogno?”
Adesso sapevo chi erano, la scrittura del sogno mi aveva rivelato il suo significato e indicato chi fossero quelle figure. Ma era proprio così? O vi era un qualche segno non ancora decifrato da questa mia scrittura? Come sciogliere questo dubbio? Era questo il motivo, per cui tornavo a pensarci, a spiegarmi particolari. Se le figure che nel sogno vengono a visitarci sono la condensazione in un’unica persona sconosciuta di più persone o personaggi da noi conosciuti, una tale immagine psichica può rivestire diversi significati, come nel mio caso. Io ero sicuro che la figura femminile chinatasi vicinissima al mio viso, suscitando il mio desiderio di baciarla sulle labbra, fosse quella che allora conoscevo come la signora della casa, come dire Esmeralda. Ma poi mi resi conto che quella rappresentazione che da regista avevo messo in scena nel mio teatro onirico personale aveva una diversa valenza. E avevo fatto questa scoperta un attimo prima dell’incontro con l’amico Pietrangelo Lo Turco. Ma perché tornavo a pensarci, visto che avevo poi realizzato il desiderio, peraltro irrealizzato nel sogno? Perché quel bacio mancato non era da attribuire a Esmeralda, ma ad una sconosciuta ragazza moscovita di tanti anni prima, una ventina. In una delle gallerie dei grandi magazzini GUM, un imponente palazzo dall’architettura barocca, che occupa un lato della Piazza Rossa e sta di fronte al Cremlino, mi ero seduto al tavolino di un caffè, e venne una giovane a richiedere l’ordinazione. Si piegò con il viso su di me, fin quasi a sfiorarmi le labbra, l’espressione gioiosa, bastava sollevarmi di un soffio e l’avrei baciata. Se l’aspettava? Non lo so. Mi provocava? Certo. Sapevo di questa usanza dei russi di baciarsi sulla bocca, ma era un segno di pace tra i Capi di Stato, come appariva in certe gigantografie storiche esposte in pubblico, e come si poteva vedere in televisione, ricordo Kruscev sbarcato dall’aereo in Jugoslavia che baciava Tito. Ma avevo visto questa stessa scena del bacio sulla bocca tra due anziani barboni sulla pubblica via, lui si era avvicinato e l’aveva baciata, lei era rimasta estasiata. Io non ero un anziano barbone né un Capo di Stato, in effetti temevo di essere notato, perché eravamo in pubblico, ed era proprio per questo che la giovane servente se la rideva. Ma nel mio sogno egizio, questa scena l’avevo sognata o ricordata al risveglio? Ora ho un dubbio, comunque, apparteneva alla descrizione del mio sogno, e nel mio sogno, meglio nella sua descrizione da parte mia, c’era anche quel bisbiglio: “Asmodeo”.