mercoledì 20 agosto 2025

Critica

 

          Sofferenza e colpa



7 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

SOFFERENZA E COLPA
Commento al racconto: “L’omicidio delle sorelle Hoverlock”

1. Illustrazione della trama narrativa
Una domanda sorge alla fine della lettura della vicenda criminale: qual è il senso del destino atroce delle due anziane donne nella notte fosca e lugubre di un cimitero? È un interrogativo questo che lasciando la risposta in una nebbia caliginosa, dove non è discernibile la distinzione tra bene e male, sofferenza e colpa, crimine e punizione, rivela un profilo di domanda che investe il più generale senso enigmatico della vita dell’universo e in particolare dell’esistenza umana.
Prima, però, di approfondire questo discorso, esaminiamo alcuni risvolti del racconto, illuminandone determinati dettagli, e prestiamo una maggiore attenzione allo stile del narratore, che commenta con una passione carica di ridondante disprezzo i gesti delittuosi dei criminali. Il linguaggio si carica nei toni di un’atroce enfasi celebrativa, per poi assumere un aspetto granguignolesco, in un’atmosfera di cupo e sinistro umorismo. Infine, tutto lo scenario farsesco di quel saltellare a canguro dell’ombra fuggente nella pioggia notturna e del disarticolato accorrere dei soccorsi, nello sfondo dei bagliori del macabro incendio, viene a dissolversi con le ombre della notte. E nella nuova luce del giorno sbiadiscono le immagini di quella recita irreale nelle tenebre, mentre l’azione riprende il suo ritmo ordinato e il suo razionale svolgimento.
Ma aveva un suo specifico significato quella narrazione di neri colori notturni e di sinistri bagliori? Voleva indicare un senso ulteriore oltre quello della semplice scena rappresentata? E quale questo senso ulteriore?
“Dopo aver consumato, in pochi attimi di inaudita ferocia, il duplice bestiale delitto, le belve si dileguarono in fretta, eclissandosi nell’ombra profonda della notte, in fuga verso il muro di cinta del cimitero, dal lato della via Tiburtina, nelle mani un incongruo bottino, che rivelava nei loro animi empi e malvagi la preponderanza della voluttà del coltello e del sangue sull’animalesco istinto di preda e rapina, mentre lo spirito del Male aleggiava d’intorno, nelle impalpabili forme e sembianze dello sciacallo di morte.” Ecco, era questo il senso ulteriore della narrazione, peraltro non occultato, ma chiaramente svelato? La nera caligine del male, in cui si disegna il profilo impalpabile dello sciacallo di morte? Così sembra. Diciamo così sembra e non così è, perché quello che sembra svelato, la nera figura del Male, finisce poi per nascondersi nella essenza ultima delle sue tenebre.
Forse è ora, però, di uscire da questo linguaggio di nero barocco, che nella critica finisce per fondersi negli eguali colori notturni della narrazione, e avviare il discorso su un percorso razionale, meno immaginifico, quello degli interrogativi che suscita il problema del male e la sfida che esso ha da sempre lanciato a filosofie e religioni, intese a scioglierne i nodi. Ed è questo il senso che sembra proporsi l’autore, quando scinde in due componenti narrative la vicenda, per affrontare in coda alla seconda parte il problema enunciato nella prima, dove il dramma viene messo in scena.

Silvio Minieri ha detto...

Comunque, soffermiamoci ancora un momento sulla prima parte: “Nel segno infame della violenza”. Subito notiamo che già questo sottotitolo proietta un’ombra di scelleratezza sulla trama della storia, stendendovi sopra un velo appunto d’infamia. La narrazione poi si svolge investendo i profili di due strati non incongrui tra loro nella superficie piana della storia, quello dei segni naturali, che richiamano il gotico thrilling della notte e l’altro della trama delittuosa dei due assassini nascosti nell’ombra. E la scena si compenetra di entrambe le parti: “Nella notturna umidità della terra avvolta nelle tenebre… le due ombre acquattate sull’erba… un agguato, nell’ora notturna della civetta e del gufo… nel silenzio profondo della notte, i due tristi e tenebrosi figuri tramavano il loro delitto… Aleggiava nell’aria buia, aggirandosi tra sepolcri e sculture funebri, lo spirito funesto e tenebroso del Male, sostanziato nei due animali da preda, che fiutavano attraverso nari di brace l’odore del sangue.”
Il quadro è disegnato: la scena e i personaggi della notte, gli scellerati sicari e la nera forma del Male, e nel silenzio il rumore di passi che si avvicinano e il sommesso mormorio che li accompagna. Quindi, nell’incerta luce dei lumini tombali, si profilano sulla scena le due figure che avanzano nella loro misteriosa passeggiata notturna.
“Chi erano queste due anziane donne, così distintamente abbigliate, l’una l’aspetto altero e nobiliare, l’altra più lievemente composta, che sembrava aggrapparsi alla prima? Perché si aggiravano in quell’ora di notte profonda in luoghi funebri, destinati alla pietà dei defunti?” L’interrogativo è d’obbligo, e ad esso sarà data risposta nella seconda parte, quella che completa la narrazione dei fatti e li commenta.
Però, a ben leggere il testo, una risposta c’è già nel prosieguo immediato, ed è una risposta che cerca luce nel mistero: “Comunque non si può non osservare come quella passeggiata notturna così inconsueta di due anziane donne fosse tanto carica di mistero, un mistero che quasi sembra implicare la conseguenza di un assalto da parte di tenebrosi assassini, che sotto questo profilo maggiormente si attagliano alla notte, l’oscurità, il male, la morte.”
Il passaggio è chiaro: l’insolita situazione di due anziane donne sole che camminano tra i viali del cimitero di notte “sembra implicare” l’assalto dei tenebrosi assassini, come dire è la trama del destino, un destino di oscurità, di male, di morte. Ora, se è vero che l’autore ha predisposto questa sorte sciagurata per i suoi due personaggi, ne ha combinato il destino, nondimeno non si può dire che egli sia stato completamente libero in questa scelta, essendo anche lui soggetto alla legge della Necessità, a cui non sfuggono neppure gli dèi. Gli dèi? Ma che c’entrano gli dèi in questo discorso?
L’interrogativo non è peregrino, ha invece un suo sentiero di ragione da seguire. Orbene, il riferimento alle divinità pagane è certo del tutto estemporaneo o almeno così pare. E allora sembra opportuno riportare qui un pensiero di Franz Werfel, un autore di lingua tedesca, che evoca un’immagine d’ispirazione classica.
“Gli eroi omerici combattono alle porte Scee e credono che la vittoria o la sconfitta dipenda dalle loro armi. Ma la battaglia degli eroi non è che un riflesso della battaglia che sopra le loro teste combattono gli dèi per decidere la sorte umana. Gli dèi stessi però non sanno che anche la loro lotta non fa che rispecchiare quella che da tempo è decisa nel petto dell’Altissimo, da cui sgorgano la pace e la guerra.” [1]

[1] Franz Wefel, “I quaranta giorni del Mussa-Dagh”. (1933)

Silvio Minieri ha detto...

Se paragoniamo i personaggi del racconto agli eroi omerici e l’autore agli dèi che sovrintendono alle loro sorti, e osserviamo che anche questi ultimi sono sottoposti a una volontà superiore, dobbiamo riconoscere che similmente l’autore nel mettere in scena i suoi personaggi non può sfuggire a questa legge.
Diciamo che dal subconscio dell’artista, dove si erano andati accumulando i più diversi strati di immagini psichiche, fondendosi e ricomponendosi tra loro in un magma prima confuso, sono poi risalite un po' alla volta fino al teatro della coscienza le nuove figure, riproposte quindi in forma letteraria.
In particolare, io posso dire di “avere visto” la scena dell’incedere delle due donne in quella loro solitudine della notte e di avere quindi descritto l’agguato, certo derivante dalla mia immaginazione creativa, che però guardava e traeva dalla realtà delle cronache del crimine la sostanza dei fatti, vale a dire l’assassinio feroce di due donne inermi. In questo senso la mia immaginazione era mossa dalla visione ineludibile e necessaria delle storie accadute nella verità del reale, da me rifigurato in verità di finzione. In tal modo si è venuto a formare un supplemento di realtà, dato dalla rappresentazione, in cui tornano a rivivere, venendo citati di nuovo ossia “recitati”, i fatti e le emozioni violente che da essi scaturiscono. E come spettatori possiamo immedesimarci in quelle passioni ossia provarne compassione, intesa quest’ultima però senza nessuna coloritura morale. In tal guisa, possiamo anche non sorprenderci nel riconoscere in noi certi istinti in conflitto con la ragione, perché come diceva Freud noi portiamo nel sangue i segni di un’antica stirpe di assassini.
Ed ora possiamo avvicinarci di nuovo al nostro interrogativo iniziale: “Una domanda sorge alla fine della lettura della vicenda criminale: qual è il senso del destino atroce delle due anziane donne nella notte fosca e lugubre di un cimitero?” E parlando di destino, non posso sottrarmi al ruolo di svelarmi ossia di spiegare il perché del senso del racconto, che ovviamente poteva rimanere oscuro anche a me, se non l’avessi sottoposto alla mia riflessione. E qui devo ammettere che se nella prima parte ho narrato con immagini, peraltro illuminate di luce fosca e sinistra, nella seconda ho completato il racconto, tentando una spiegazione razionale, rimasta irrisolta. Quindi, ho parodiato un po' il lamento con l’ironica metafora delle dune di sabbia del deserto e del susseguirsi delle onde nella vastità dell’oceano, e poi ho concluso in maniera molto incerta, ponendo a sigillo dell’intera vicenda il silenzio e la pietà.
In tal modo, anche in sede di un ultimo commento, ero rimasto sulla superficie della narrazione, senza scendere in profondità a scrutare negli oscuri fondali della storia, che manifestava l’enigmatica presenza del male. È quindi ora il momento di arrivare alla radice, interrogandosi sulla sofferenza e la colpa, il crimine e la punizione, che riproducono i due aspetti contrastanti del male.

Silvio Minieri ha detto...

LA QUESTIONE DEL MALE
“Per rendere per intero l’enigma del male, noi siamo soliti mettere insieme sotto uno stesso termine, quantomeno nella tradizione dell’Occidente cristiano, fenomeni assai diversi, approssimativamente, il peccato, la sofferenza, la morte.” Così si esprime Paul Ricoeur, nella “Conferenza” del 1985 alla facoltà di teologia dell’Università di Losanna: “Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia.”. Quindi, nell’approfondire il problema, evidenzia come “nella misura in cui la sofferenza è costantemente presa come termine di riferimento per la questione del male, essa si distingue dal peccato e dalla colpa.” Ma se vi è una differenza tra il male commesso e quello subito, nondimeno se si va in profondità si può scoprire come le due realtà differenti e contrastanti della sofferenza e della colpa affondano le loro radici in un fondamento comune. Ossia il male costituisce in profondità un principio unico che nel suo affiorare va mostrando i due diversi profili di chi lo subisce e di chi lo compie.
Il nesso inestricabile che lega tra loro vittima e assassino, sofferenza e colpa, torto e ragione può anche essere rintracciato nel verso poetico del Manzoni: “Al mondo non resta che far torto o patirlo.” Sono i due estremi in cui si polarizza la medesima realtà, che muove dalla sua unicità, costituente la sostanza del male, se del male si può dire sostanza, avendo sempre la filosofia e la religione dell’Occidente cristiano considerato il male come una realtà negata, ovvero l’assenza del bene.
Se però saltiamo all’indietro, agli inizi della storia della civiltà occidentale, ossia nel terreno del Mito, abbiamo la ventura d’incontrare i primi grandiosi e fantastici scenari rappresentati su scala cosmica, che descrivono le origini dell’Universo. Narrazioni fantastiche si trovano alla base di molte culture e religioni orientali, da cui all’alba del cristianesimo, furono introdotti nell’Occidente molti elementi, che si fusero nel II sec. d.C. in una forma di sincretismo religioso. In tale realtà si possono ripercorrere le tracce della gnosi, che affondano le loro radici fino nel lontano Oriente.
È quindi bene tracciare un quadro seppure sommario delle dottrine gnostiche, nelle quali si può individuare un tratto generale comune soteriologico: l’anima straniera, smarrita sulla terra, raggiunge la salvezza, la sua vera patria, il cielo, attraverso la vera conoscenza ossia la gnosi. All’origine di questa condizione s’incontrano le immagini straordinarie dell’immenso e gigantesco conflitto cosmico, generatore dell’Universo, che confluisce nella contesa individuale dell’anima tra le forze del Bene e quelle del Male. È il conflitto più generale instauratosi tra il regno della luce e quello delle tenebre, la cortina d’ombra della materia, venuta a formarsi al di sotto dell’onda luminosa fluita dal “pleroma”, la sfera della “pienezza” di luce divina. Da quest’onda di luce spirituale sono cadute delle scintille, rimaste intrappolate nelle tenebre della materia. Da allora l’anima esiliata sulla terra, ma custode della scintilla divina dello spirito, aspira a ritornare nella sua vera patria, il cielo.

Silvio Minieri ha detto...

Nello schema delineato della visione gnostica, si ritrova anche un’altra figura che ne caratterizza la dottrina, quella dell’inviato divino, il messaggero del regno della luce, che scende sulla terra per aiutare l’anima smarrita a ritrovare la via del ritorno verso il cielo. Questo aiuto si realizza attraverso il risveglio, quando l’anima non riconosce più i luoghi abitualmente frequentati e diventati familiari, e non riconoscendoli li trova strani, riscoprendosi in quella condizione di esilio propria dello straniero, che suscita la nostalgia e il desiderio della patria perduta. In questa condizione, diventa allora riconoscibile quell’esperienza di smarrimento dell’anima, perduta tra l’irraggiungibile perfezione divina e la condizione d’indigenza spirituale del suo aggirarsi disorientata sulla terra, un desiderio di ascesi, che rispecchia il conflitto di ciò che è bene, lo spirito, e ciò che è male, la materia. La questione si trasferisce allora dal piano etico della vita del singolo a quello metafisico più generale, e la domanda diventa questa: unde malum, da dove ha origine il male?
E se la gnosi dà una risposta dualistica al problema, riconoscendo l’esistenza del regno delle tenebre opposto al regno della luce, la spiegazione della religione monoteistica, quella cristiana, che predica la fede in un Dio unico, creatore e signore del cielo e della terra, non può che essere negativa: il male non ha una sua sostanza, non esiste, rivela soltanto l’assenza del bene. Essendo Dio trascendente rispetto alla creazione, in quanto Sommo Bene, esclude qualsiasi sostanzialità del male.
Il problema si rende trasparente in Agostino, il Padre della Chiesa, che per l’ispirazione neoplatonica della sua filosofia e la sua prima aderenza al manicheismo, poi respinto e condannato, può rendere meglio con il suo pensiero e le sue riflessioni la soluzione cristiana del male come assenza del bene.
Il manicheismo è la religione fondata dal persiano Mani (216-277), che introduceva elementi della filosofia greca, della gnosi e del cristianesimo nello zoroastrismo. Avversato dai sacerdoti della religione tradizionale, ispiratori del potere imperiale, fu perseguitato e alla fine ucciso in carcere. Il manicheismo si fonda sull’esistenza di due principi contrastanti increati ed eterni: il Bene-Luce e il Male-Tenebre. Il loro conflitto si svolge nell’anima dell’uomo e ha dato origine alla formazione dell’Universo. L’approfondimento del problema del male, dal lato metafisico, e la conseguente morale ascetica contribuirono al diffondersi del manicheismo nell’Oriente romano, raggiungendo anche componenti della comunità cristiana, tra cui Agostino, ma venne alla fine respinto e condannato come eresia.

Silvio Minieri ha detto...

Eliminato ogni dualismo, il pensiero di Agostino si mosse nel solco del monoteismo ebraico, configurato nell’immagine trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spirito, pur seguendo la lettera dell’Antico Testamento. Andiamo a leggere come nel XII libro delle “Confessioni” illustra i primi versetti della “Genesi”, in atteggiamento di preghiera e di supplica: “Quante cose vorrebbe sapere il mio cuore colpito, Signore, nella grande povertà della mia vita, dalle parole della tua santa Scrittura!” E poi la domanda, che muovendo da una citazione del salmista, rivela una parentela con il pensiero platonico, in Agostino non una coincidenza: “– Il cielo del cielo al Signore, la terra invece fu da lui data ai figli degli uomini –. Dov’è il cielo che non vediamo, rispetto al quale tutto ciò che vediamo è terra?” Per il Santo Vescovo d’Ippona, oltre il cielo, il cielo del cielo è Dio. È quel cielo invisibile regno dell’eterno intellegibile, rispetto al quale il visibile è il mondo diveniente dei sensi. “La nostra terra era invisibile e confusa, un profondo e impenetrabile abisso – scrive Agostino – su cui non vi era luce, poiché non aveva nessun aspetto. Perciò hai fatto scrivere: – Le tenebre regnavano sull’abisso – cioè null’altro che assenza di luce.” Ecco risolto il dualismo luce tenebre, dove le tenebre non sono altro che assenza di luce. E poi, più avanti, inizia il discorso teso a formulare, nell’ambito della ragione cristiana, il tema della creazione ex nihilo, impensabile per la ragione greca. In Aristotele l’Atto puro del Movente Immobile è inscindibile dall’eternità del Cosmo, mentre in Platone, quello del Demiurgo artefice dell’Universo è soltanto un racconto verosimile, come afferma nel “Timeo”.
“Il corollario più importante di questa negazione della sostanzialità del male è che l’ammissione del male fonda una visione esclusivamente morale del male. Se la questione: unde malum? perde ogni senso ontologico, la questione che la sostituisce: unde malum faciamus? (“Da dov’è che viene questo nostro fare il male?”) fa oscillare il problema intero del male nella sfera dell’atto, della volontà, del libero arbitrio. Il peccato introduce un niente di un genere distinto, un nihil privativum, di cui la caduta è interamente responsabile, che sia quella dell’uomo o delle creature più elevate tali quali gli angeli.” Questa è la conseguenza ricavata da Ricoeur (“Conferenza” cit.) dalla negazione del male come realtà ontologica. L’autore osserva come la conclusione ultima del discorso agostiniano è quella di ritenere che ogni male è sia peccato sia pena. “Il prezzo da pagare per la dottrina è enorme – osserva – … Per rendere credibile l’idea che ogni sofferenza, tanto quella giustamente ripartita tanto quella eccessiva, è una pena retributiva del peccato, bisogna darle una dimensione super-individuale” ossia quella del “peccato originale” o “peccato di natura”. [2] Conferendo al peccato originale lo statuto di dogma di fede, come dire verità indimostrabile, una tale proposizione lascia l’uomo disarmato di fronte a una potenza demoniaca di un male già presente prima di ogni azione malvagia imputabile a una qualche intenzione deliberata. “Ma questo enigma della potenza del male è già così posto sotto la falsa luce di una spiegazione apparentemente razionale: congiungendo, nel concetto di peccato di natura, due nozioni eterogenee, quella di una trasmissione biologica per mezzo della generazione e quella di un’imputazione individuale di colpevolezza, la nozione di peccato originale appare come un falso concetto che si può assegnare a una gnosi anti-gnostica. Il contenuto della gnosi è negato, ma la forma di discorso della gnosi è ricostituito, cioè quello di un mito razionalizzato.”

Silvio Minieri ha detto...

Sia il pensiero mitico che quello razionale, dunque, non sembra riescano a decifrare quel fondo demoniaco della libertà, che rende possibile compiere azioni malvagie e lascia intravedere una possibile oscura sorgente del male.
Sul piano ontoteologico, quello che investe la filosofia come ontologia ossia discorso sull’essere e la teologia come scienza dell’Essere supremo, Dio, la questione del male suscita determinati interrogativi in tema di libertà e di giustizia. [3]
Se Dio è onnipotente, perché permette il male? A quest’interrogativo ha dato risposta Leibnitz nella sua “Teodicea”, giustizia divina, con la teoria del migliore dei mondi possibili, incontrando subito l’aspra critica di Voltaire, che ne ha fatto una satira spietata nella sua opera “Candido o dell’Ottimismo”. [4]
Sul tema della giustizia e della compensazione dopo la morte, rispetto alla condotta tenuta da vivi, nella storia del pensiero filosofico, i grandi miti escatologici di Platone narrati nei suoi dialoghi, il “Gorgia”, Il “Fedone” e la “Repubblica”, ci raccontano dell’anima e del suo destino. In particolare, il mito del “Gorgia”, che Socrate considera in realtà un discorso veritiero, sembra rafforzare la tesi filosofica del comportamento virtuoso da tenere in vita, in contrasto peraltro con i discorsi dei Sofisti. Gli errori compiuti nei giudizi umani, come ad esempio l’ingiusta condanna a morte di Socrate, verranno corretti nell’aldilà. Rispetto ai miti del “Fedone” e della “Repubblica”, il giudizio delle anime del “Gorgia” è quello che più si avvicina al Giudizio Universale della dottrina cattolica, perché i premi e i castighi, previsti dopo la morte, sono ultimi (non si parla di reincarnazione delle anime), costituendo una sorta di ammonimento sulla condotta virtuosa da tenere in vita.
Eppure, non ostante i nobili modelli di vita, che ci propongono la filosofia e la religione, l’etica retributiva della futura punizione dei malvagi e la premiazione dei buoni non sembra soddisfare quel senso di giustizia, che prepotente avvertiamo di fronte al dolore e alla morte. In questa prospettiva, la risposta all’interrogativo d’inizio sull’atroce destino delle sorelle Hoverlock, che rispecchia le morti tragiche e il lutto della vita reale, non sembra possa andare oltre al lamento e alla pietas che ispirano. Ma, ora, vogliamo concludere, citando Carlo Emilio Gadda, “La cognizione del dolore”:
“Il problema del male, la strana favola della malattia, propalata dai Conquistadores, cui fu dato raccogliere le moribonde parole dello Incas, secondo cui la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una tacita, ultima combinazione del pensiero.”

[2] Cfr. “Un grido di tracotanza”
[3] Cfr. “Il nodo alla gola”
[4] Cfr. “Il mondo migliore”