venerdì 10 ottobre 2025

Fragmenta

 

          Il libro di Attanasio


5 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

[N. d. B.]
Con FRAGMENTA s’inaugura una rubrica, che occupa lo spazio del Post del giorno, in cui vengono pubblicati miei scritti di vario genere, la maggior parte racconti o brevi studi filosofici, risalenti agli anni scorsi, comunque abbastanza recenti, almeno per la mia memoria, avendo io raggiunto il traguardo di15 lustri e 3 anni. Siamo comunque ben lontani dall’83-8, di cui al “buffone” di ieri, per cui mi attende ancora un lungo percorso per i giorni venturi, salvo incidenti, come dire fatte salve le beffe del destino. E non vi sembra beffardo il volto di Gonella? No, direi più un tipo “perso”. Come? Come te? Ah! Ma dove è andata a finire quell’immagine? Tornerà, vedrai, tornerà.

Silvio Minieri ha detto...

IL LIBRO DI ATTANASIO

1. Un’impossibile salvezza
“Si trovano ottocento porte per ottocento giusti, un giusto vale tutti i giusti.” Questa affermazione, l’autore sugli “Studi sull’Aldilà”, riferiva di averla ricavata dal “Libro di Attanasio”, un testo apocrifo di data incerta, probabilmente tra il I e il II secolo d.C. Mi sono sempre chiesto il perché di quel numero, ma andiamo per ordine, e spiego dove e come ho letto questa frase, e perché mi è tornata recentemente alla memoria. Anni fa, viaggiavo per l’Italia e l’estero, quella volta ero andato con Maria Giulia, la mia compagna degli ultimi anni della mia vita, allora eravamo all’inizio della nostra relazione, dicevo ero andato, o meglio eravamo andati a Firenze da Roma, dove siamo diventati stanziali. Lei proveniva dalla Tunisia, dove era nata da genitori italiani, io da Napoli, ci siamo incontrati ad Ischia, in vacanza, ci ritrovammo l’anno dopo a Paestum, in visita ai templi, da allora stiamo insieme, viaggiamo, e facciamo base nella capitale. Nella biblioteca nazionale di Firenze, trovai un libro, credo di uno scrittore tedesco, non ricordo bene il titolo, soltanto il sottotitolo: “Studi sull’Aldilà”. Parlava dei vari miti d’oltretomba dei greci, con riferimento anche agli Egizi, dei latini, di testi ebraici e testi dei primi secoli cristiani e dell’alto Medio Evo, e di antichi apocrifi, tra cui quello abbastanza sconosciuto forse di un monaco cristiano d’Oriente, tradotto dal greco, a cui era stato dato il titolo, è presumibile, dal nome dell’autore: “Il libro di Attanasio”.
Il riferimento era alla Bibbia ebraica: dopo la morte, le anime andavano nello sheol e di lì o precipitavano nella geenna, un luogo di eterno castigo, oppure erano destinate ai giardini dell’Eden, come ricompensa per la loro buona condotta di vita. Nei cieli era situata la dimora di Dio, e si trovavano anche ottocento porte per ottocento giusti: un giusto vale tutti i giusti, era il commento. Perché ottocento? Indubbiamente, si trattava di un numero simbolico, ma qual era il simbolo? E il commento non aiutava a chiarire: “Un giusto vale tutti i giusti.” Poi, gli interrogativi si dissolsero, non appena io e Maria Giulia ci ritrovammo al Ponte Vecchio, nel pomeriggio lei aveva fatto shopping, passeggiammo ancora un po', quindi andammo a fare uno spuntino serale, e in attesa del treno per Roma, ci intrattenemmo in Piazza della Repubblica. Non so perché, ma al mio sguardo il grigio crepuscolare del giorno alla fine rischiarò la piazza di una luce irreale, come confusa con le ombre imminenti della sera impallidite dall’illuminazione pubblica. Volsi lo sguardo al cielo, ancora chiaro nell’azzurro imbrunito, ed ebbi come il senso dell’eskaton, l’attesa del compimento del mio destino ultimo. Era la suggestione delle mie letture o il momento esistenziale? Così quella sera, le sue luci irreali, non vicina ad altre ombre e luci irreali di altre sere.

Silvio Minieri ha detto...

Un giusto vale tutto i giusti, la scelta dei principi nell’azione, la legge morale di Kant, l’associazione di idee, devo dirlo, mi venne in mente leggendo “Le parole” di Sartre, le ultime pagine dell’autobiografia del filosofo francese, dove conclude, individuando nella scrittura il fine della sua vita: “Una mattina , nel 1917, a La Rochelle, aspettavo i mie compagni con cui andare insieme al liceo; erano in ritardo e presto non seppi più che cosa inventare per distrarmi, decisi di pensare all’Onnipotente. Immediatamente scivolò nel cielo e sparì senza dare spiegazioni: non esiste, mi dissi con stupore di cortesia, e credetti risolto il problema. E in certo modo era risolto, dato che mai, in seguito, ho avuto la minima intenzione di riaprirlo. Ma l’Altro rimaneva, l’Invisibile, lo Spirito Santo, colui che era garante del mio mandato e che signoreggiava la mia vita, per mezzo di grandi forze anonime e sacre. Di quello feci tanto più fatica a liberarmi, in quanto si era installato nella parte posteriore della mia testa, nelle trafficate nozioni di cui mi servivo per capirmi, situarmi e giustificarmi. Scrivere fu per molto tempo un chiedere alla Morte, alla Religione, in forma mascherata, di strappare la mia vita al caso. Fui sacerdote, militante, volli salvarmi per mezzo delle opere; mistico, tentai di svelare il silenzio dell’essere, per mezzo di un rumorio irritato di parole, e soprattutto confusi le cose con i loro nomi: è avere fede. Avevo le traveggole, finché le ebbi, mi ritenni fuori pericolo. Mi riuscì a trent’anni questo bel colpo di scrivere in “La Nausea” – davvero sinceramente, credetemi – l’esistenza ingiustificata, salmastra dei miei congeneri e di mettere la mia fuori causa. […] L’illusione retrospettiva è in briciole; martirio, salvezza, immortalità, tutto si deteriora, l’edificio cade in rovina, ho acchiappato lo Spirito Santo nelle cantine e l’ho discacciato; l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro: io credo di averla condotta in porto. […] Ho smesso di investire, ma mi sono spretato: scrivo sempre. Che c’è da fare di diverso. Nulla dies sine linea. È la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n’è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo a offrirgli la sua immagine. […] Il mio unico problema era di salvarmi, a mani vuote e a tasche vuote, per mezzo del lavoro e della fede. Di colpo, la mia pura opinione non mi sollevava sopra a nessuno, senza equipaggiamento, senza attrezzatura, mi sono messo per intero all’opera per salvarmi tutto per intero. Se ripongo l’impossibile Salvezza nel ripostiglio degli attrezzi, che cosa resta? Tutto un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque li vale.”
Chi legge con attenzione quest’ultima riga, il sigillo dell’autobiografia del filosofo francese, vi legge la sua massima morale, per una “impossibile Salvezza”. L’ateo pone a fronte del credente la sua etica: l’umanismo. Il senso ingiustificato della vita non è nella Salvezza e nella giustizia di un Dio che non esiste – coerentemente, in “L’Essere e il Nulla”, Sartre definisce quella di Cristo una passione inutile – ma nell’essere uomo, come tutti gli altri uomini: ogni azione di un uomo vale tutte le azioni degli uomini.
Questa estensione del comportamento morale di ognuno nella regola più generale del comportamento umano è di chiara derivazione kantiana.

Silvio Minieri ha detto...

“In verità, è preferibile, nel giudizio etico, procedere sempre secondo il metodo rigoroso, e porre a base la formula generale dell’imperativo categorico: agisci secondo una massima che possa farsi al tempo stesso legge universale.” (“Fondazione della metafisica dei costumi”) Quello che di kantiano si può leggere in Sartre è quel ricorso del filosofo illuminista al principio dell’universalità: “I tre modi di rappresentare il principio della moralità non sono, in fondo, se non altrettante formule di una medesima legge, ognuna della quale racchiude in sé le altre due.” Kant esplicita quindi il tratto comune alle tre massime, le “formule”, consistente in tre aspetti: forma, materia, determinazione. Ai nostri fini, interessa, il primo: “Una forma che consiste nell’universalità; e allora la formula dell’imperativo etico si esprime così: doversi scegliere le massime come se avessero da valere come leggi di natura.”
Questa dialettica tra libertà individuale e totalità degli altri esseri umani, che per Kant sono gli esseri razionali, è stata discussa da Sartre nell’ultima sua opera: “Critica della ragion dialettica”. Egli parte dal confronto dialettico tra esistenzialismo e marxismo, filosofia dominante, avente carattere storico, quindi unico strumento per interpretare la realtà del tempo e spiegare la dimensione essenziale della storia. Al contrario del pensiero borghese, che considera l’individuo un modello astratto, Sartre definisce l’individuo un soggetto reale condizionato dai rapporti di produzione, in relazione con altri individui nella sua condizione. Pertanto, parlare dell’individuo significa parlare di tutti gli altri individui, salvando però la specificità del singolo, il suo modo particolare di vivere la totalità. Non sono gli individui ad essere condizionati dai rapporti di produzione, ma è la loro azione a condizionare storicamente tali rapporti, ed in tal modo si fa salva la libertà dell’azione, contro un certo economicismo marxista, che riduce l’attività umana ai rapporti materiali di produzione, negando quella forma di umanismo in cui consiste l’esistenzialismo. (“L’esistenzialismo è un umanismo”, Conferenza, 1945). Sartre è un filosofo del ‘900, condizionato dal pensiero marxista,
Kant è un filosofo illuminista del Settecento, il secolo della Ragione e dei Lumi, noi ora torniamo nei secoli bui del Medio Evo.

Silvio Minieri ha detto...

2. La logica del numero tondo

“… nell’egizia Tebe
per le cento sue porte”
(Iliade, IX, 495-6)

Le cento porte di Tebe egizia erano davvero cento? Maria Giulia sta facendo le parole crociate: “La città delle cento porte può essere Tebe? “Sono quattro caselle, le manca qualche incrocio. “Sì”, confermo. “Certo, te l’ho detto io.” E chi altri se no? La logica femminile è ferrea, inoppugnabile. Non replico, vado a controllare sul web, ricordavo la storia della Grecia antica: Atene, Sparta, Tebe. E a proposito del web, una mia conoscente che non si fidava di quello che dicevo andava a controllare continuamente sul suo iPhone le mie affermazioni. E io mi ricordavo altre verità sul tempo, quello meteorologico: “Che tempo fa oggi?” Fuori è nuvoloso, molto nuvoloso, il vento è cessato, sta per piovere. Risposta: “Non piove, c’è il sole.” Chi ha risposto, forse Maria Giulia, dice che ha appena controllato su internet. “Fuori c’è un sole splendente” dico, ma non attendo la replica. Mi ricordo di quel sergente che faceva lezione ai soldati: “Se io dico che fuori piove, ma fuori c’è il sole, e vi domando se fuori piove o c’è il sole, voi che rispondete? Qualcuno si volta a guardare fuori dalla finestra, gli altri rimangono in silenzio, aspettano da lui la risposta, hanno ragione. Non è il sergente a fare la lezione e a spiegare ai soldati quello che devono dire? Il sergente dubita se qualcuno ha capito che sta usando una metafora per spiegare il regolamento militare, ossia che i soldati devono eseguire gli ordini impartiti, anche se irragionevoli o apparentemente tali. Ma questo i soldati lo sanno bene, chissà se la pensano come quel generale di Hitler, che appena arrivava un ordine da Berlino, subito pensava a come fare per non eseguirlo. Non credo però se questa situazione possa paragonarsi all’interpretazione delle condizioni atmosferiche.
(Segue)