1. Un’impossibile salvezza “Si trovano ottocento porte per ottocento giusti, un giusto vale tutti i giusti.” Questa affermazione, l’autore sugli “Studi sull’Aldilà”, riferiva di averla ricavata dal “Libro di Attanasio”, un testo apocrifo di data incerta, probabilmente tra il I e il II secolo d.C. Mi sono sempre chiesto il perché di quel numero, ma andiamo per ordine, e spiego dove e come ho letto questa frase, e perché mi è tornata recentemente alla memoria. Anni fa, viaggiavo per l’Italia e l’estero, quella volta ero andato con Maria Giulia, la mia compagna degli ultimi anni della mia vita, allora eravamo all’inizio della nostra relazione, dicevo ero andato, o meglio eravamo andati a Firenze da Roma, dove siamo diventati stanziali. Lei proveniva dalla Tunisia, dove era nata da genitori italiani, io da Napoli, ci siamo incontrati ad Ischia, in vacanza, ci ritrovammo l’anno dopo a Paestum, in visita ai templi, da allora stiamo insieme, viaggiamo, e facciamo base nella capitale. Nella biblioteca nazionale di Firenze, trovai un libro, credo di uno scrittore tedesco, non ricordo bene il titolo, soltanto il sottotitolo: “Studi sull’Aldilà”. Parlava dei vari miti d’oltretomba degli Egizi, dei greci, dei latini, di testi ebraici e testi dei primi secoli cristiani e dell’alto Medio Evo, e di antichi apocrifi, tra cui quello abbastanza sconosciuto forse di un monaco cristiano d’Oriente, tradotto dal greco, a cui era stato dato il titolo, è presumibile, dal nome dell’autore: “Il libro di Attanasio”. Il riferimento era alla Bibbia ebraica: dopo la morte, le anime andavano nello sheol e di lì o precipitavano nella geenna, un luogo di eterno castigo, oppure erano destinate ai giardini dell’Eden, come ricompensa per la loro buona condotta di vita. Nei cieli era situata la dimora di Dio, e si trovavano anche ottocento porte per ottocento giusti: un giusto vale tutti i giusti, era il commento. Perché ottocento? Indubbiamente, si trattava di un numero simbolico, ma qual era il simbolo? E il commento non aiutava a chiarire: “Un giusto vale tutti i giusti.” Poi, gli interrogativi si dissolsero, non appena io e Maria Giulia ci ritrovammo al Ponte Vecchio, nel pomeriggio lei aveva fatto shopping, passeggiammo ancora un po', quindi andammo a fare uno spuntino serale, e in attesa del treno per Roma, ci intrattenemmo in Piazza della Repubblica. Non so perché, ma al mio sguardo il grigio crepuscolare del giorno alla fine rischiarò la piazza di una luce irreale, come confusa con le ombre imminenti della sera impallidite dall’illuminazione pubblica. Volsi lo sguardo al cielo, ancora chiaro nell’azzurro imbrunito, ed ebbi come il senso dell’eskaton, l’attesa del compimento del mio destino ultimo. Era la suggestione delle mie letture o il momento esistenziale? Così quella sera, le sue luci irreali, non vicina ad altre ombre e luci irreali di altre sere.
Un giusto vale tutto i giusti, la scelta dei principi nell’azione, la legge morale di Kant, l’associazione di idee, devo dirlo, mi venne in mente leggendo “Le parole” di Sartre, le ultime pagine dell’autobiografia del filosofo francese, dove conclude, individuando nella scrittura il fine della sua vita: “Una mattina , nel 1917, a La Rochelle, aspettavo i mie compagni con cui andare insieme al liceo; erano in ritardo e presto non seppi più che cosa inventare per distrarmi, decisi di pensare all’Onnipotente. Immediatamente scivolò nel cielo e sparì senza dare spiegazioni: non esiste, mi dissi con stupore di cortesia, e credetti risolto il problema. E in certo modo era risolto, dato che mai, in seguito, ho avuto la minima intenzione di riaprirlo. Ma l’Altro rimaneva, l’Invisibile, lo Spirito Santo, colui che era garante del mio mandato e che signoreggiava la mia vita, per mezzo di grandi forze anonime e sacre. Di quello feci tanto più fatica a liberarmi, in quanto si era installato nella parte posteriore della mia testa, nelle trafficate nozioni di cui mi servivo per capirmi, situarmi e giustificarmi. Scrivere fu per molto tempo un chiedere alla Morte, alla Religione, in forma mascherata, di strappare la mia vita al caso. Fui sacerdote, militante, volli salvarmi per mezzo delle opere; mistico, tentai di svelare il silenzio dell’essere, per mezzo di un rumorio irritato di parole, e soprattutto confusi le cose con i loro nomi: è avere fede. Avevo le traveggole, finché le ebbi, mi ritenni fuori pericolo. Mi riuscì a trent’anni questo bel colpo di scrivere in “La Nausea” – davvero sinceramente, credetemi – l’esistenza ingiustificata, salmastra dei miei congeneri e di mettere la mia fuori causa. […] L’illusione retrospettiva è in briciole; martirio, salvezza, immortalità, tutto si deteriora, l’edificio cade in rovina, ho acchiappato lo Spirito Santo nelle cantine e l’ho discacciato; l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro: io credo di averla condotta in porto. […] Ho smesso di investire, ma mi sono spretato: scrivo sempre. Che c’è da fare di diverso. Nulla dies sine linea. È la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n’è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo a offrirgli la sua immagine. […] Il mio unico problema era di salvarmi, a mani vuote e a tasche vuote, per mezzo del lavoro e della fede. Di colpo, la mia pura opinione non mi sollevava sopra a nessuno, senza equipaggiamento, senza attrezzatura, mi sono messo per intero all’opera per salvarmi tutto per intero. Se ripongo l’impossibile Salvezza nel ripostiglio degli attrezzi, che cosa resta? Tutto un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque li vale.” Chi legge con attenzione quest’ultima riga, il sigillo dell’autobiografia del filosofo francese, vi legge la sua massima morale, per una “impossibile Salvezza”. L’ateo pone a fronte del credente la sua etica: l’umanismo. Il senso ingiustificato della vita non è nella Salvezza e nella giustizia di un Dio che non esiste – coerentemente, in “L’Essere e il Nulla”, Sartre definisce quella di Cristo una passione inutile – ma nell’essere uomo, come tutti gli altri uomini: ogni azione di un uomo vale tutte le azioni degli uomini. Questa estensione del comportamento morale di ognuno nella regola più generale del comportamento umano è di chiara derivazione kantiana.
“In verità, è preferibile, nel giudizio etico, procedere sempre secondo il metodo rigoroso, e porre a base la formula generale dell’imperativo categorico: agisci secondo una massima che possa farsi al tempo stesso legge universale.” (“Fondazione della metafisica dei costumi”) Quello che di kantiano si può leggere in Sartre è quel ricorso del filosofo illuminista al principio dell’universalità: “I tre modi di rappresentare il principio della moralità non sono, in fondo, se non altrettante formule di una medesima legge, ognuna della quale racchiude in sé le altre due.” Kant esplicita quindi il tratto comune alle tre massime, le “formule”, consistente in tre aspetti: forma, materia, determinazione. Ai nostri fini, interessa, il primo: “Una forma che consiste nell’universalità; e allora la formula dell’imperativo etico si esprime così: doversi scegliere le massime come se avessero da valere come leggi di natura.” Questa dialettica tra libertà individuale e totalità degli altri esseri umani, che per Kant sono gli esseri razionali, è stata discussa da Sartre nell’ultima sua opera: “Critica della ragion dialettica”. Egli parte dal confronto dialettico tra esistenzialismo e marxismo, filosofia dominante, avente carattere storico, quindi unico strumento per interpretare la realtà del tempo e spiegare la dimensione essenziale della storia. Al contrario del pensiero borghese, che considera l’individuo un modello astratto, Sartre definisce l’individuo un soggetto reale condizionato dai rapporti di produzione, in relazione con altri individui nella sua condizione. Pertanto, parlare dell’individuo significa parlare di tutti gli altri individui, salvando però la specificità del singolo, il suo modo particolare di vivere la totalità. Non sono gli individui ad essere condizionati dai rapporti di produzione, ma è la loro azione a condizionare storicamente tali rapporti, ed in tal modo si fa salva la libertà dell’azione, contro un certo economicismo marxista, che riduce l’attività umana ai rapporti materiali di produzione, negando quella forma di umanismo in cui consiste l’esistenzialismo. (“L’esistenzialismo è un umanismo”, Conferenza, 1945). Sartre è un filosofo del ‘900, condizionato dal pensiero marxista, Kant è un filosofo illuminista del Settecento, il secolo della Ragione e dei Lumi, noi ora torniamo nei secoli bui del Medio Evo.
“… nell’egizia Tebe per le cento sue porte” (Iliade, IX, 495-6)
Le cento porte di Tebe egizia erano davvero cento? Maria Giulia sta facendo le parole crociate: “La città delle cento porte può essere Tebe? “Sono quattro caselle, le manca qualche incrocio. “Sì”, confermo. “Certo, te l’ho detto io.” E chi altri se no? La logica femminile è ferrea, inoppugnabile. Non replico, vado a controllare sul web, ricordavo la storia della Grecia antica: Atene, Sparta, Tebe. E a proposito del web, una mia conoscente che non si fidava di quello che dicevo andava a controllare continuamente sul suo iPhone le mie affermazioni. E io mi ricordavo altre verità sul tempo, quello meteorologico: “Che tempo fa oggi?” Fuori è nuvoloso, molto nuvoloso, il vento è cessato, sta per piovere. Risposta: “Non piove, c’è il sole.” Chi ha risposto, forse Maria Giulia, dice che ha appena controllato su internet. “Fuori c’è un sole splendente” dico, ma non attendo la replica. Mi ricordo di quel sergente che faceva lezione ai soldati: “Se io dico che fuori piove, ma fuori c’è il sole, e vi domando se fuori piove o c’è il sole, voi che rispondete? Qualcuno si volta a guardare fuori dalla finestra, gli altri rimangono in silenzio, aspettano da lui la risposta, hanno ragione. Non è il sergente a fare la lezione e a spiegare ai soldati quello che devono dire? Il sergente dubita se qualcuno ha capito che sta usando una metafora per spiegare il regolamento militare, ossia che i soldati devono eseguire gli ordini impartiti, anche se irragionevoli o apparentemente tali. Ma questo i soldati lo sanno bene, chissà se la pensano come quel generale di Hitler, che appena arrivava un ordine da Berlino, subito pensava a come fare per non eseguirlo. Non credo però se questa situazione possa paragonarsi all’interpretazione delle condizioni atmosferiche. Comunque, sono andato a controllare sul web, per capire se Tebe fosse la città delle cento porte, e ho trovato la citazione del Libro IX dell’Iliade. “Anche se mi offrisse dieci o venti volte di quello che possiede ora e di quello che possiederà o tutte le merci che affluiscono in Orcomeno o a Tebe d’Egitto, dove ci sono moltissime ricchezze nelle case, lì ci sono cento porte e da ognuna escono in campo duecento guerrieri con carri e cavalli; anche se mi desse tanti tesori quanti sono i granelli di sabbia e di polvere neppure così Agamennone placherebbe il mio cuore!” Achille non cede alle offerte riparatorie di Agamennone, che gli ha sottratto la schiava Briseide, la sua ira funesta aveva addotto infiniti mali agli Achei. Nel passo, l’uso dell’aggettivo, ἑκατομπυλόι hekatómpyloí “dalle cento porte” segue quella che possiamo definire la logica del numero tondo. Nel discorso non matematico, e quindi impreciso, le cifre si arrotondano, e forse il numero cento è quello più usato per arrotondare una cifra indefinita. Omero cita anche altre cifre arrotondate allo zero, nel crescendo dieci, venti, cento, duecento e all’infinito dei numeri di granelli di sabbia e di polvere. Nulla può placare l’ira di Achille.
Oltre al passo dell’Iliade, che la menziona, ho appreso di questa Tebe egizia, l’odierna Luxor, e delle sue cento porte, che mi riportavano al mio enigma delle ottocento porte dei cieli per gli ottocento giusti, tratte dall’apocrifo, il “Libro di Attanasio”. Il numero cento potevo considerarlo, secondo la logica dell’arrotondamento, come la metà della soluzione del problema. E il numero otto? Per associazione di idee, ho pensato all’ottavo cielo. L’Universo del Medio Evo è quello tolemaico, con le sfere dei cieli, sette, che ruotano attorno alla terra: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. L’ottava sfera è quella delle stelle fisse, che ruota insieme a tutte le altre, per effetto del moto loro impresso dalla sfera del Primo Mobile. Capivo che quella era la strada, per risolvere il mio dubbio, ma non sapevo come fare. E mi venne in mente Claudio Sciscio, un nostro amico, un mio vecchio compagno di scuola, a Napoli; ero distratto quando qualche tempo fa Maria Giulia mi aveva parlato di lui, mi sembra che avesse parlato con la moglie. Alla fine, decisi di chiamarlo, Claudio era professore di lettere classiche, studioso del Medio Evo. Stavo per accennargli del mio problema, quando mi ha parlato della sua malattia, era stato contagiato, lui e tutta la sua famiglia, ero preoccupato, mi rassicurò, nessuno era grave, presto sarebbero risultati tutti negativi. Nessuno era stato ospedalizzato? No, nessuno. Parlammo, parlò in prevalenza lui, degli aspetti sanitari del contagio, le cure. Alla fine, conclusi, dicendogli di farmi sapere della guarigione sua e di tutti i suoi, stavo per chiudere, quando disse: “Ettorino, che mi volevi dire?” “Una sciocchezza” dissi e in breve gli rappresentai il problema, ma non ricordavo il nome dell’autore del saggio, forse un tedesco, e neppure il titolo del volume, soltanto il sottotitolo, tradotto in italiano: “Studi sull’Aldilà”. “Va bene, ti farò sapere.” “Quando starai meglio, cioè presto.” “Ciao, Ettorino.” “Ciao, Claudio.”
3. Le luci del congedo Era sera tardi ed era buio, quando uscii di casa, per portare fuori Mike, un labrador, che un’amica di Maria Giulia ci ha affidato, sono alcuni mesi che sta con noi e ha familiarizzato presto. Abbiamo attraversato il cancello d’ingresso del parco e siamo scesi nel viale a sinistra, du côté de Meséglise, come l’ho nominato nella mia memoria. Andando avanti, lasciavamo la zona illuminata dalle luci di strada e dei condomini prospicienti al parco, procedendo nell’ombra. Poi, a metà discesa, Mike si è fermato ed ha voltato la testa all’indietro, guardando in alto verso la zona luminosa, dove splendevano le luci delle nostre abitazioni, in contrasto con l’oscurità della notte. Stava contemplando la dimora del tempo recente della sua vita, l’incanto di quelle luci illuminavano il suo sogno, nel momento del congedo verso le ombre nel fondo del viale. E quella scena di sogno mi ha rimandato ad altre luci non molto lontane, contemplate nel silenzio della notte, nella distanza del nostro sguardo contemplativo. Quanto tempo siamo rimasti così? Il tempo del cuore, che registra i ricordi della nostra vita, per custodirli per sempre. Siamo scesi in fondo al viale, sostando nel buio vicino ai cespugli e al fogliame, dove i rumori della notte mandavano segni di vita di piccoli animali, fruscii. Dopo una breve attesa abbiamo ripreso la via del ritorno.
Quella sera, Maria Giulia mi aveva detto della morte di Sciscio, la moglie aveva riportato la notizia su WhatsApp, sono stato colto di sorpresa. Claudio si è congedato dalle luci della vita e si è avviato nelle ombre della sua ultima notte. All’improvviso, era peggiorato ed era finito all’ospedale in terapia intensiva, non ce l’ha fatta ed è morto. “La morte dell’altro, non soltanto ma soprattutto se lo si ama, non annuncia un’assenza, una scomparsa, la fine di questa o quella vita. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di ogni mondo possibile, e ogni volta la fine del mondo come totalità unica, dunque non rimpiazzabile, dunque infinita.” Come inscalfibili cristalli sono le parole che Jacques Derrida ha premesso alla raccolta di suoi testi di orazioni funebri, memorie, testimonianze, in ricordo degli amici scomparsi. Sono passate alcune settimane dal lutto, un giorno nella posta elettronica ho trovato una e-mail di Francesca, la vedova di Sciscio, conteneva la risposta al mio quesito, che il mio amico scomparso non aveva dimenticato di studiare, trovando una soluzione. “Ho fatto delle ricerche, per rintracciare il libro che mi hai segnalato, e ho trovato due autori, uno forse può corrispondere a quello da te indicato. Sono un tedesco e un francese: Marcus Fischer, Historisch jüdisch-christliche Vorstellungen vom Schicksal der Verstorbenen, “Concezioni storiche giudaico-cristiane del destino del defunto”; Jacques Tedika, “La doctrine chrétienne de l’au-delà”, La dottrina cristiana dell’aldilà. In nessuno dei due autori ho trovato la citazione del “Libro di Attanasio”, ma il primo riporta un riferimento di testi rabbinici dei primi secoli dell’era cristiana, in cui si parla del momento del giudizio con la divisione tra i totalmente giusti e i totalmente empi, e si accenna a sette firmamenti, e le anime dei totalmente giusti sono destinate al settimo cielo, quello più alto. Nel secondo, ho come raccolto degli echi danteschi: nella “Commedia” gli spiriti dei giusti sono collocati al sesto cielo, quello di Giove; al settimo, quello di Saturno, troviamo gli spiriti contemplanti. Una volta asceso all’ottavo cielo, quello delle stelle fisse, governato dai Cherubini, Dante vede i sette pianeti ruotanti nelle loro orbite intorno alla Terra, assiste al trionfo di tutti i beati e nella luce abbagliante riesce a distinguere la figura umana di Cristo. In seguito, assiste al trionfo di Maria, circondata dalla luce dell'arcangelo Gabriele che le ruota intorno, e segue Cristo verso l'Empireo, mentre le anime dei beati si protendono verso l'alto con tutto il loro ardore di carità. L’ottavo cielo ha una valenza superiore rispetto agli altri sette ruotanti al di sotto, e forse questa è stata la considerazione che ha spinto l’autore a parlare di un’ascesa all’ottava porta del cielo di tutti i beati, gli spiriti giusti.” Sciscio poi si dischiarava d’accordo con me su cento come numero tondo, e per associazione l’ottava di otto porte conduceva ad ottocento, un numero simbolico. E la figura umana di Cristo, secondo la collocazione dantesca, garantiva l’affermazione di un giusto che vale tutti i giusti. È il modello della condotta di una vita giusta, che riflette nella sua persona la giustizia divina. Così concludeva Sciscio, poi il congedo.
1. Nelle acque gelide della corrente È la visione del sublime, l’oltre la linea di confine di ogni orizzonte, a rivelare il senso dell’impaurito vuoto dell’esistenza, la sospensione nel nulla del nostro essere, che la ragione rincorrendo il quotidiano continuamente tiene celata. Ricordo molto bene, quando la situazione emotiva, vissuta una decina d’anni fa circa, mi si ripropose davanti, nitida, pura, vuota di quel suo carico di angoscia di allora. Rividi le lastre di ghiaccio scivolare nella corrente della Neva, un aprile di San Pietroburgo. Erano le stesse lastre di ghiaccio che Borges vide a Cambridge, a nord di Boston: “Saranno state le dieci del mattino. Io ero seduto su una panchina, davanti al fiume Charles… L’acqua grigia trasportava lunghi pezzi di ghiaccio. Inevitabilmente il fiume mi fece pensare al tempo.” È una visione che spinge l’autore ad un colloquio con sé stesso, “L’altro” di “Il libro di sabbia”. L’immagine delle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente dell’acqua parlano di un tempo trascorso e del suo continuo andare, ed io nel risalire all’indietro allo scorrere del grigio gelido del fiume, rividi Elena Zurlo.
“Dove hai parcheggiato il bolide?” ha domandato la donna con il vestito rosso e la giacca in pelle nera. “Tra quelle due macchine, a metà sul marciapiede,” ha risposto l’amico. “Alla barbara!” ha commentato lei, prendendo il compagno allegramente sotto braccio e avviandosi con lui a rilevare il bolide, una Punto color rosso “Ferrari”. “Ti ho vista che mangiavi il pinzimonio Assieme a quel tuo amico in osteria È stato il giorno dopo il matrimonio Mentre tornavo dalla ferrovia.” Mi ripetevo i versi della poesia, scoperti sulla rivista letteraria on-line. Il poeta si firmava con uno pseudonimo vagamento greco “Leopis”, Leonardo Pisicchio, come lo avevo facilmente decrittato, avendone riconosciuto lo stile, lo stesso incipit di un’altra poesia: “Ti ho vista che dormivi in ascensore”. La musa era Astrid, se ben ricordavo. Stavo aspettando che Elena uscisse dalla banca, dove era entrata per un’operazione allo sportello. Ero in piedi, a lato dell’edicola dei giornali, da dove avevo seguito la scenetta del bolide rosso, parcheggiato alla barbara, in via Baldovinetti. E di quale matrimonio si trattava? Non certo di quello tra Astrid e Leopis. Vi pare possibile che il poeta veda la moglie assieme ad un amico in osteria, mentre mangia o meglio assaggia il pinzimonio, proprio il giorno dopo il matrimonio? Tutto è possibile, certo! Magari avevano dovuto rinviare il viaggio di nozze, per motivi legati alle loro attività professionali. Quindi, dopo il rito e la festa, il giorno seguente, erano ritornati ognuno per proprio conto ai rispettivi posti di lavoro. Per la pausa pranzo, lei era andata con un collega in qualche tavola calda, che il poeta forse per esigenza di rima aveva trasformato in osteria. O no, con quel termine, appositamente scelto, forse Leopis intendeva manifestare tutta la sua indignazione per il comportamento di Astrid, sorpresa con quel suo amico in una bettola, accanto alla stazione ferroviaria, indipendentemente dal matrimonio, non si sa bene da chi contratto. È gelosia quella del poeta o collera? O forse è innamoramento? “In quegli anni, ti ricordi, Astrid?” recitava più avanti, con accento di nostalgia. Sorridevo fra me e ho sentito un viso che sfiorava il mio. Mi sono voltato e ho visto Elena che ritraeva il suo viso con espressione divertita. “Mi sembrava che stessi ridendo” ha detto.
Siamo andati a sederci a un tavolino del caffè lì accanto. Lei era come presa dai suoi pensieri, ogni tanto si toccava l’anello, una fedina, che io le avevo regalato. “Allora dobbiamo decidere?” Ho detto. “Che cosa?” mi ha domandato vivamente interessata a quello che stavo per dire. “La data delle nozze,” ho detto. È saltata su dalla sedia, di slancio mi ha abbracciato e baciato e subito dopo si è ricomposta, ritornando a sedersi dalla parte sua. Ero un po’ in imbarazzo e ho continuato a guardare in avanti sulla strada, per vedere se i passanti che passavano ci avessero segnato a dito, anche se quel bacio improvviso non era avvenuto contro le porte della notte (“contre le portes de la nuit”) essendo mattina avanzata, quasi l’ora dell’aperitivo. “I ragazzi che si amano” … io sono più vicino ai quaranta che ai trenta, Elena ha cinque anni e mezzo meno di me… “ma i ragazzi che si amano non ci sono per nessuno… sono altrove… nell'abbagliante splendore del loro primo amore.” Era il caso mio e di Elena? Quando ci siamo alzati e siamo andati via, lei mi ha preso felice sotto il braccio, con la stessa gioiosa mossa della donna che aveva l’amico con la “Ferrari”. A casa, dopo pranzo, sono sceso nel parco, nel silenzio dell’ora pomeridiana, il sole filtrava attraverso il fogliame dei rami, sono rimasto così a guardare quelle schegge abbaglianti di luce. “Ci vediamo domani,” mi aveva detto Elena, scendendo dalla macchina, quando l’avevo accompagnata sotto casa sua. Aspettavo il giorno dopo nell’immobilità e nella quiete luminosa di quel pomeriggio. All’indomani ero lì, seduto al caffè di via Baldovinetti del giorno prima, in attesa di una sua chiamata. Avevo telefonato tre volte, ma non aveva risposto, probabilmente aveva da fare. O forse era offesa, perché non l’avevo richiamata nel pomeriggio o in serata? Ma no! In verità, ci avevo pensato, ma ero stato trattenuto dal desiderio cosciente di volerla immediatamente vedere, invece di parlare. Non avevamo molto altro da dirci, era tempo di agire. Sorrisi tra me. Fissavo il cartellone pubblicitario di fronte, ma non mettevo a fuoco l’immagine. Infine, mi riscossi, avrei provato a chiamare di nuovo, presi il telefonino, che in quel momento cominciò a squillare, quasi aspettasse solo quel mio gesto di contatto. “Sono Elena Zurlo,” disse la voce di Elena. “Com’è? Ti riconosco, sai?” dissi d’istinto, in tono scherzoso; ma il silenzio che seguì al mio interrogativo mi confermò un sottile senso subconscio d’incertezza suggerito dal suo accento serio. “Elena!” dissi. Non rispose. Io insistetti, pronunciando il suo nome. “È stata una disgrazia!” disse con tono grave, profondo, una voce che non riconoscevo. “Dove sei?” domandai inquieto. Non rispose. “Elena!” Seguì un silenzio e dopo un po’ di tempo il segnale della comunicazione interrotta. Tutto intorno a me divenne improvvisamente grigio e scuro.
ella comunicazione interrotta. Tutto intorno a me divenne improvvisamente grigio e scuro.
2.Una combinazione del pensiero Rivedo le lastre di ghiaccio alla deriva nelle gelide acque della Neva e mi raggiunge il ricordo di Elena Zurlo, divenuta oggi una combinazione del pensiero. È come se tutta la vita con lei non vissuta formasse un vuoto ideale attorno alla sua figura, dando risalto alla solitudine della sua immagine. In quel tempo feci un sogno in bianco e nero, nella desolazione di una vallata spoglia, tra cumuli di cenere, soltanto un’anatra si spostava con lenti passi palmipedi ai bordi di una pozzanghera. “Aspettami là che presto ti raggiungerò in quella valle vuota”. Mi sono svegliato suggestionato da queste parole, che ricalcavano quelle simili, poste come epigrafe a un racconto funerario di Edgar Allan Poe, tratte da una lirica di Henry King, vescovo di Chichester, scritta per le esequie della moglie defunta. “Dormi amor mio nel tuo freddo letto e nessuno ti disturbi! La mia ultima buonanotte! Non ti sveglierai finché la tua stessa sorte non avrò anch’io raggiunta, finché l’età, la malattia o il dolore non avranno congiunto il mio corpo a quella polvere da lui tanto amata; e avranno colmato la stanza che il mio cuore conserva nella vuota tua tomba. Aspettami là; io non mancherò di raggiungerti in quella valle vuota. E non preoccuparti del mio ritardo; sono già sulla strada, e ti seguo con tutta la rapidità che desiderio e dolore suscitano in me.” Era il vuoto lasciato da Elena Zurlo, la sua scomparsa repentina dalla mia vita suscitava quel lutto improprio nella mia anima. Avevo lasciato alle mie spalle tutte le scene del mondo, perdendo la vita del giorno. Camminavo su quale strada? In quale “sublime” (sub-limen) nulla del grande infinito spazio? Nel gelo del nord, il freddo dello spirito.
Poi cominciai a ritrovarmi e fu come un risveglio. Accadde un giorno, nella sala da pranzo dell’aeroporto di una città del Veneto, non ricordo bene se Venezia o Treviso. Un uomo grasso sulla cinquantina, stempiato, con gli occhiali, l’espressione ridente, stava seduto al tavolino ad ascoltare un giovane filosofo seduto sulla sedia accanto a lui, che con leggero ghigno gli domandò: “Lo sapevi che era morto di colera?” L’altro si scostò e lo guardò: “Chi?” interrogò, l’espressione seria, anche se caratterialmente atteggiata al riso. “Hegel, nella sua Berlino, correva l’anno 1831, era il 14 novembre.” L’uomo grasso dall’espressione ridente scoppiò a ridere, una risata sincera. Rise anche il giovane filosofo, seppure in maniera più composta, soddisfatto della sua battuta, che comunque non era stata buttata lì a caso. Anche a me venne da sorridere, era come un risveglio. Il giovane filosofo continuò: “Nel 1967, accadde oggi anche un altro evento di rilievo, che ti riguarda da vicino, ingegnere, voglio dirti può interessarti.” L’ingegnere assunse un’aria attenta, l’espressione tipica di apparente riso: “Quale?” domandò. “In California, uno sconosciuto ingegnere fisico californiano, Theodore Harold Maiman, brevettò il primo LASER, a conclusione dei suoi esperimenti sull’amplificazione della luce mediante emissione stimolata di radiazioni, seguendo la teoria sviluppata cinquant’anni prima da Einstein.” L’ingegnere sorrise ironico.
Mi sono alzato dal tavolino accanto, e attraversata la sala, sono andato alla tavola calda. Alla cassa c’era sempre la stessa ragazza grassottella, a cui avevo fatto la prima ordinazione. Chiesi un altro trancio di pizza e un’altra birra, avevo l’aria distesa. A differenza della prima volta, invece di rispondere in perfetto italiano, cominciò a parlare tra sé in dialetto, credo calabrese, servendomi la seconda porzione. Avevo un po’ capito quello che lei aveva detto, traducendolo a modo mio: “Se mi avessi ascoltato la prima volta, quando avevo proposto un menù maggiorato, adesso avresti risparmiato.” Sorrisi con gratitudine, mi rispose con un sorriso professionale, pieno di tutti gli enigmi, che hanno tutti i sorrisi femminili rivolti ad un uomo. Mentre riattraversavo la sala, diretto allo stesso tavolino, quello vicino al filosofo e all’ingegnere, si accostarono due giovani che camminavano nella mia stessa direzione. Per evitare l’impaccio di una collisione rallentai, andavano proprio dove andavo io. Vidi che si erano fermati in piedi davanti ai commensali miei vicini d’occasione. Approfittai, per riprendere il mio posto e continuare a mangiare, sempre prestando attenzione a loro, m’interessava di nuovo il mondo, il prossimo ossia coloro che ci sono vicini, quelli che io avevo ignorato nel mio lungo viaggio verso un luogo indistinto e lontano, dove si smarriva e sbiadiva una figura di sogno. La ragazza stringeva l’involto con la pizza sbocconcellata nella mano sinistra, il giovane stava più indietro a mani vuote. “Papà, io sto con Franco,” disse la figlia e accennò all’amico. L’uomo s’irrigidì e lanciò un’occhiata al giovane, poi si voltò a destra dall’altra parte, quindi guardò la figlia, appoggiando le mani ai braccioli della sedia. “Va bene, noi andiamo, ciao, papà.” Il giovane gli indirizzò un timido cenno di saluto col capo, poi i due ragazzi si allontanarono insieme. Il padre si alzò, si guardò intorno, poi tornò a sedersi e fissò un punto indistinto davanti a sé. L’ufficializzazione dei rapporti tra i due ragazzi lo aveva colto impreparato, si sentiva responsabilizzato a fare qualcosa, programmare spese impreviste, forse. Il giovane filosofo lo guardava con aria di attesa, aveva alzato una mano, un gesto rimasto a mezz’aria, quasi a registrare un accaduto per lui banale. Ho definito il giovane un filosofo, perché era un volto televisivo conosciuto, un professore che aveva pubblicato diverse monografie e studi. Si definiva un hegeliano di sinistra e spiegava che la sua corrente, quella di Feurbach, Marx e Stirner, tanto per intenderci, si era disfatta dell’intrusione teologica nella metafisica hegeliana, attenendosi soltanto all’errare infinito del pensiero finito, un pensiero che si dà nel tempo come produzione di realtà sociale, economica, tecnica, come dire il materialismo storico. Guardavo l’ingegnere, l’aria smarrita, quando i due al tavolino si alzarono, sostarono un attimo in piedi, poi andarono via.
Il giorno successivo alla telefonata di Elena Zurlo, quella del 14 novembre, mi recai automaticamente sotto casa sua e le citofonai. Ero leggermente stordito, perché non avevo dormito tutta la notte, stavo lì imbambolato, aspettando non so che cosa. Un uomo uscì dal portone, mi trattenni a stento dal chiedere se conoscesse Elena. Sapevo dove lavorava, una società privata, che riceveva commissioni dall’Istituto di Statistica, decisi però di non andarvi quella mattina stessa. Una settimana dopo, ero all’ingresso della porta a vetri. Suonai il campanello, vedevo l’impiegata che premette il bottone e il vetro si mosse aprendomi il passaggio. Chiesi di Elena Zurlo. “Aspetti” disse lei, indicandomi un divanetto rosso. Rimasi in piedi ad aspettare, mentre la ragazza s’inoltrò nel corridoio. Poco dopo apparve un uomo sulla quarantina, alto, i capelli ricci biondastri, la pancia del sedentario. Mi squadrò. “Sono un amico di Elena,” dissi. “Ah!” Rimasi in silenzio. “La signora Zurlo si è assentata una settimana fa, non abbiamo avuto notizie da lei, ma sappiamo della disgrazia.” Ecco, la disgrazia! L’uomo, il direttore di quella società, poteva illuminarmi. Continuava ad osservarmi, non era possibile che io, l’amico di Elena, non sapessi. Ero sulle spine. “La notizia era in cronaca su tutti i giornali” disse. Non risposi. “Per legge, ha diritto a un congedo di trenta giorni, lutto familiare.” Non sapevo che cosa dire, quindi non insistetti. “Mi scusi, non volevo disturbarvi.” L’uomo mi guardò, sottovalutavo il suo grado di comprensione umana: “Vogliamo esprimere ad Elena il nostro cordoglio, a nome mio e di tutti i colleghi.” Dissi: “Sì, senz’altro.” Mi diede una forte stretta di mano, ringraziai e uscii. Sapevo che a Roma, lei viveva da sola, una sorella in Svizzera, alcuni cugini sparsi in Italia e altrove, i genitori defunti. Andai a scorrere le cronache on-line dei giornali con la data successiva alla scomparsa di Elena. Trovai un incidente stradale con la morte di due anziani coniugi, alcuni casi giudiziari datati in precedenza e il ritrovamento di un giovane morto per un colpo d’arma da fuoco, apparentemente un suicidio, in una stanza d’albergo di una località turistica del litorale laziale, Sabaudia. Si chiamava Stefano Principe, un diciottenne. Si vedeva la fotografia del viso di un adolescente con gli occhiali, una foto tessera. Sul posto era sopraggiunta la madre, a fatica erano riusciti a staccarla dalla salma del figlio. “Elena Zurlo”, il dolore della sua voce, mi aveva rivelato l’altra sua identità, la penombra della sua vita, divenuta tragico incubo. Non l’ho più vista né saputo più nulla di lei. Mi è rimasta soltanto un’immagine e un nome, un’ ultima combinazione del pensiero.
“O God, I could bounded in a nutshell and count myself a King of infinite space, were it not that I have bad dreams.” “Signore! potrei vivere nel guscio di una noce e credermi Re di uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni.”
“Lo sfuggente Mercurio, che sempre si sottrae alla presa, è un vero truffatore e spinge l’alchimista alla disperazione.” Jung, “La simbolica dello spirito”.
1. Nel viale poco illuminato L’altra sera, dopo cena, ho preso i sacchetti dell’immondizia, quelli verdi forniti dal Comune per la differenziata, con i rifiuti regolarmente divisi tra organico, plastica, non riciclabile, carta e vetro, e sono sceso sotto casa, per depositarli negli appositi contenitori dell’isola ecologica condominiale e fare due passi nel parco. Dopo avere svuotato i rifiuti, ho lasciato i sacchetti vuoti lì accanto e mi sono mosso verso il parco vicino, ho attraversato il cancello aperto e sono sceso lungo il vialetto di destra. Il parco è semibuio, perché scarsamente illuminato dalle luci dei condominii che si affacciano intorno, tranne quelle zone d’ombra situate a ridosso del più ampio Parco dell’Appia Antica con cui confina. Sul piccolo piazzale dove ci sono le altalene e gli scivoli per i bambini, la zona è illuminata da alcuni lampioncini. Sono arrivato lì e poi ho proseguito un po’ nell’ombra, dove avevo convocato due miei fantasmi, che sarebbe meglio definire due personaggi dei miei racconti, due figure della mia fantasia letteraria. I miei lettori (che bello avere dei lettori!) sanno già di chi sto parlando. Si tratta di Traseo Nera e Decio Livio, due personaggi cangianti, come cangiante è lo scorrere della vita nella realtà, ma costanti nei loro caratteri, come è costante nei suoi caratteri la vita. Ma la vita, noi ci domandiamo, è costante o non è invece incostante? Rimando la soluzione di questo quesito ad un altro racconto sull’irregolarità del tempo, ora voglio concentrarmi sul racconto di quel convegno nel buio della sera avanzata con le due parvenze di realtà, create dalla mia fantasia. Ero fermo nel piazzaletto illuminato delle altalene, e allora, per favorire l’apparizione delle mie ombre, che nella luce si dissolvono, sono avanzato nell’ombra un po’ più avanti, una penombra, perché il riflesso vicino della luce rendeva ancora possibile distinguere le sagome degli alberi, del prato d’intorno e del vialetto di ghiaia su cui sostavo. “Eccoci, padrone!” ha detto Ladislavo. Era Decio Livio, alla sua sinistra un Traseo Nera che non era Traseo Nera. E allora se non era Traseo, quello lì chi era? Poi mi sono riavuto subito e ho detto: “Come?”, guardando Decio Ladislavo, ma tenendo d’occhio lo pseudo Traseo Nera, la cui figura un po’ più mi preoccupava, non avendone ancora stabilito bene l’identità. Ero abbastanza sconcertato, avevo evocato i miei due fantasmi letterari ed ora quelle due apparizioni, nell’ombra a mala pena illuminata del parco buio, non rispondevano alle mie aspettative. Ma quali erano le mie aspettative? Volevo confidare loro, ai miei due vecchi amici, anche se fra me e loro c’è un rapporto naturale di sudditanza, per cui tra noi non c’è una vera e propria parità, appartenendo noi a due diversi piani della realtà, io a quella che noi esseri normali consideriamo la realtà vera, loro a quella fantastica, sempre secondo il pensiero di noi normali, volevo confidare loro, dicevo, della sparizione di un post dal mio Blog. Ladislavo mi guardava, ed io riflettevo sulla sua strana battuta: “Eccoci, padrone!”. Ero sconcertato. Che cosa significava quel vocativo: “padrone!” Non sono mica Aladino, che sfrega la lampada e vengono fuori due geni, non uno! In verità il genio era Ladislavo, l’altro appariva come un suo sodale, un subordinato, ma anche un estraneo.
Ma chiariamo l’identità di Ladislavo. Avevo detto prima che i miei due personaggi erano cangianti, come cangiante è lo scorrere della vita nella realtà, ed in questo senso Decio Livio, pur rimanendo Decio, diventava Ladislavo. Ma per coloro che non ricordano questo mio personaggio, richiamo un mio racconto di qualche anno fa, che pure avevo riproposto recentemente: “Vestito di grigio flanella”. Sono andato a ripescarlo nell’archivio del computer, ma purtroppo il file era danneggiato in alcuni simboli matematici e nelle parole con alfabeto greco. Ho cercato di restaurare quelle parti, che poi non incidono sul racconto, la narrazione scorre egualmente, per chi vuole ripercorrerne il corso. Al nuotatore che voglia avventurarsi in quella corrente, consiglio di aggirare gli scogli appena vede simboli matematici, è quello che faccio anch’io quando m’imbatto in disquisizioni matematiche ricche di formule, simboli e calcoli. Comunque, onore al nuotatore o nuotatrice, a cui conferisco una medaglia d’oro virtuale al coraggio e su questo argomento basta quanto detto. È quest’ultima una formula usata da Aristotele, quando è stufo di ragionare ancora su un argomento su cui ha detto fin troppo. In definitiva, il Decio Livio da me convocato era Ladislavo non però nei panni di Ladislavo, comunque una letta di “Vestito di grigio flanella” va fatta, per comprendere meglio codesto personaggio, di cui qui riporto il ritratto: “Quando mio cugino aprì la porta, si rivelò l’inaspettata scena dell’apparizione, la chiamo così, di un vero ospite improbabile. Era questi un uomo sulla quarantina d’anni d’età, i capelli biondi pettinati con la scriminatura a destra ed il ciuffo rialzato sulla sinistra della fronte, vestito con un abito di flanella grigio chiaro, camicia bianca, cravatta grigio perla, scarpe di camoscio chiare, almeno così mi parve di notare quest’ultimo particolare.” Ma i geni usciti dalla lampada di Aladino non erano due, perché mentre tacevo di fronte a quella situazione inaspettata, Decio Livio che è Ladislavo, e Traseo Nera che non è Traseo Nera, sentii una voce alle mie spalle: “Uno, due e tre, il quarto dov’è?” Mi voltai sorpreso al tono familiare di quella voce e lo riconobbi immediatamente: era l’Incurvato. Non si tratta di una figura dei tarocchi, era uno dei fantasmi, che assieme ad una massa di altre ombre, mi assediò davanti all’Église Notre-Dame du Sablon sulla Rue de la Régence di Bruxelles, tempo fa, ai tempi di Giano Prodigo. Riporto qui l’episodio, come lo raccontai allora: “Ed io restai abbandonato nelle ombre della sera, nel silenzio solitario della Karmelienstraat. Quindi, mi ritrovai a scendere la scalinata, dopo essere passato al buio sotto l’arco, raggiungendo i giardini della Kleine Zavel (le petit Sablon), il cuore angosciato e sgomento. A sorpresa, nel silenzio della sera, risuonò un tocco di campana: era l’invito al ritiro e alla preghiera dell’Église Notre Dame du Sablon. Cedetti ad un sentimento di pietà, il senso di commozione suscitato dalla collerica implorazione della grande fraternità, e divenni così preda dell’assalto da parte di un’onda mormorante di fantasmi. A stento distinguevo sbiadite figure, dai tratti perversi, come il veterano o l’occhialuto ambiguo, l’incurvato e il compare, la donna della collegiata, il beffardo iettatore e il buffone grottesco, la dama soluta e le rosine e i santi d’oro, ed assieme a questa piccola folla dalle sembianze cangianti e che rivelavano a tratti profili inquietanti e sconosciuti, schiere e file di ombre che si serravano, ammassandosi e stringendomi davanti alla facciata dell’Église Notre Dame du Sablon, sulla rue de la Régence, l’assedio di fantasmi, di soffocati sussurri di defunti, che si rinnovava nell’umidità della sera, come in un delirio. Non so come, forse il tocco di campana riecheggiante nel silenzio della realtà, che ricomprese e dissolse in una parentesi illusoria l’evanescente massa mormorante delle parvenze, m’incamminai sulla Régence lucida di pioggia, in direzione della Place Poelaert, sovrastata dalla sagoma scura del Palais de Justice.”
In verità, questo delirante assedio di fantasmi fu vissuto da Aristarco, il principe degli ottimi, stante il racconto che ne fa Traseo Nera a Decio Livio nel mimo scritto da me tempo fa, il tempo di Giano Prodigo. Ma chiunque capisce che tutti questi personaggi sono creature della mia fantasia, maschere che celano il mio volto. Mi pare ovvio, no? E invece no, no e no! E ripeto, battendo istericamente il piede destro a terra ogni volta con la negazione: no, no e no! Capito? No, no, e no! Beh, adesso basta! Come no? Io, nei miei personaggi, sono il dio straziato, quello che sopporta tutti i dolori, e pertanto il dolore del grande Aristarco di quella sera davanti all’Église Notre Dame du Sablon è il mio dolore, ma nella situazione concreta chi sopporta il dolore è Aristarco. Infatti, Traseo Nera, che riferisce dell’episodio, dice all’amico: “- A questo punto, Livio, il grande Aristarco ebbe un sussulto, come se qualcosa fosse di colpo traboccato dal suo cuore. Che accadeva?” E quel buffone di Decio Livio, insensibile al dolore altrui: “- Io resto silenzioso, Nera, ad ascoltarti, immobile, come un felino sorpreso nel buio della notte dalla bianca luce della luna.” Si diverte. E Nera: “Di nuovo le tue poetiche immagini, Livio, ispirate a menti sognatrici. Che accadeva, dunque, al sapiente Aristarco? Rialzò il capo, che aveva chinato e guardando davanti a sé, l’espressione incrinata come dall’ombra di un dolore, egli riprese il suo racconto: “E poi li ho visti, fermi, in piedi, sotto la pioggerellina fine, ed avvertii una stretta al cuore. Ho riconosciuto, io, ormai, adulto, gli affetti più cari della mia infanzia, quelli che mi avevano più di tutti al mondo teneramente amato ed il cui amore mi aveva sempre sorretto negli anni e nei giorni. Come dice il poeta, di cui riportano le suggestive immagini i sapienti professori? “Mi si apre un abisso nell’anima e un soffio freddo dell’ora di Dio mi sfiora il volto livido. Il tempo! Il passato! Ciò che sono stato e non sarò mai più! Ciò che ho avuto, e non riavrò! I Morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li evoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante il silenzio sbarrato di tutte le porte.” Che dire? “- Chi, dunque, il poeta, Nera? - Fernando Pessoa. - Ah!” Quindi il dolore è mio, di Pessoa e di chi altro s’immedesima nella situazione, ma soprattutto è di Aristarco. Se non vi fosse il dolore di Aristarco, come potrebbe giungere l’insensibilità di Decio Livio di fronte al dolore altrui? Spiegheremo meglio in seguito questo concetto, che riguarda la psicologia del profondo, di cui peraltro stiamo trattando, ora, in questa mia narrazione, come presto emergerà.
L’Incurvato, così detto, perché dopo le sue battute abbassa la testa di lato e curva le spalle, per non farsi sorprendere dalla reazione di quelli a cui le ha indirizzate, essendo spesso velenose le sue battute, adesso rideva. Che cosa aveva detto di male? Nulla. Infatti, continuò a fissarmi, ridendo, senza curvarsi né fare l’atto di curvarsi. Io mi rabbuiai improvvisamente, come colsi nell’espressione leggermente smarrita dell’Incurvato, che non capiva il motivo della mia contrarietà. Allargai a metà le braccia, come a trattenere una reazione delle mie tre ombre e mi spostai di alcuni passi nel prato, dov’era più scuro, seguito da loro. Restai un attimo in attesa e poi sentii lo scalpiccio sempre più distinto. Quindi si profilò l’ombra di un uomo, un vecchio, sicuramente oltre i sessanta, di circa settant’anni direi e forse più. Il vecchio si fermò dov’ero poco prima, diede uno sguardo distratto nell’oscurità dalla nostra parte, dalla mia parte, dico, se non vogliamo dare consistenza di figura visibile ai miei fantasmi, poi il vecchio guardò in alto verso le finestre illuminate dell’ultimo piano dell’edificio condominiale dove abito. Restò ancora a guardare, quindi distolse lo sguardo, si voltò dalla mia parte e mi sembrò che ghignasse, ma forse fu una mia impressione, quindi se ne andò. Un po’ dopo uscimmo dall’oscurità e ci spostammo di nuovo nella zona un po’ più illuminata. L’Incurvato guardava con evidente tensione nella direzione dove il vecchio inopportuno si era allontanato, Decio Ladislavo mi diede un’occhiata, anche lui con l’aria tesa, quindi anche lui guardò nella direzione in cui guardava l’Incurvato. Lo pseudo Traseo Nera invece mi fissava con aria irridente, forse era un complice del vecchio inopportuno. Allora dissi: “Beh, ragazzi, adesso andiamocene.” Ora anche Decio Ladislavo mi guardava, come ridendo a denti stretti, e così anche l’Incurvato. Era come se avessi perso il mio potere sui miei tre fantasmi, per quella visita, inopportuna e molesta, quasi fosse la figura del vecchio una potenza che mi soverchiava, per cui perdevo carisma e autorità nei loro confronti. Mi avviai su per il viale verso l’uscita del parco, lasciando i fantasmi alle mie spalle. Capivo di stare ripercorrendo le tracce di quel molesto visitatore, che aveva interrotto la nostra piacevole riunione, mi sentivo vecchio come lui, io, io che avevo… quanti anni? Tanti. Tanti quanti? Quanti il vecchio.
2. In casa, davanti al computer Poco dopo, ero di nuovo seduto davanti allo schermo del mio computer e fissavo il mio blog. Il post era ricomparso, ma prima di specificare i particolari di questa sparizione e successiva riapparizione, abbastanza inspiegabile, vorrei riferire del dubbio che in quell’occasione mi colse. Mi ricordai dei sacchetti verdi della raccolta differenziata che avevo lasciato davanti all’isola ecologica condominiale e mi rialzai, per scendere di nuovo giù a riprenderli. Prima di andare alla porta, passai però in cucina a dare un’occhiata: i sacchetti verdi erano là, indubitabilmente, con le loro scritte bianche in stampatello: carta, vetro, plastica, organico, non riciclabile. Mi concentrai sul fatto che i rifiuti in plastica vanno assieme al metallo, ma capii che scantonavo. Chi aveva riportato su i sacchetti? Io. E quando? Poco fa. Ero incantato nei pensieri sull’occorso nel viale poco illuminato del parco, risalendo verso casa, e automaticamente, in maniera irriflessa, avevo ripreso i sacchetti verdi, deponendoli quindi al loro posto, e poi ero ritornato al computer. E il post? Idem con patate, forma colloquiale che sta per: “Lo stesso come già detto poc'anzi”. Ma era necessario specificarlo? Che cosa? Che idem con patate significa etc. Sì, anzi no, non lo so. Ecco, penso di avere guadagnato le tre alternative, che possono opporsi all’affacciarsi di un dubbio. Allora, ero veramente sceso poco fa a convocare i fantasmi ed era veramente accaduto quello che ho raccontato? La risposta “non so” non esclude né la prima né la seconda alternativa. Quindi, eliminiamola, manifesta solo reticenza di fronte ai legittimi dubbi della ragione. Se era vero, era tutto abbastanza fantastico e inverosimile, almeno come raccontato. Se era falso, o avevo immaginato il tutto stando seduto davanti al computer o effettivamente ero sceso giù nel parco, per controllare se il filo dell’antenna parabolica sul terrazzo, sopra le finestre illuminate della mia abitazione, non fosse fuori posto, a causa del vento. Ogni tanto, durante un programma televisivo, l’immagine scompare e appare l’avviso: “Nessun segnale dalla parabola”. E poi mi ero inventato la storiella dei fantasmi, il gusto di affabulare. Diciamo che questa è l’ipotesi più plausibile, ma ad essa io vorrei opporre lo stesso interrogativo angoscioso di Guglielmino e della storia degli “ottanta cavalli”. È il figlio adolescente del defunto giardiniere del condominio, che abita con la madre in una delle vicine villette a schiera attorno al parco. Una sera, mentre tornavo verso casa, l’ho incrociato sulla strada, affannato veniva di corsa dal parco. Nel vedermi si è fermato e notando il mio sguardo interrogativo, ha detto, indicando il buio dietro di lui: “C’erano ottanta cavalli, poco fa, che correvano all’impazzata nel parco”. “Ma come è possibile?” ho risposto, bonario, nella quiete dell’ora tarda di sera. “Eppure io li ho sentiti!” “Guglielmino, non ci sono ottanta cavalli nel parco!” “Sì, è vero,” ha ammesso il ragazzo. Quindi, dopo un attimo di riflessione, ha posto il dubbio: “Ma, allora, chi faceva tutto quello strepito nel parco?” Ho accompagnato Guglielmino fino alla sua villetta: “Ciao, buona notte.” Io, poco fa, dopo cena, sono sceso giù a fare due passi: “Post prandium aut stare aut lento pede deambulare”. Nell’occasione, ho portato i rifiuti nell’isola ecologica condominiale, mi sono avventurato per un tratto nel parco, per controllare l’antenna in alto sul terrazzo, poi sono risalito fuori, ho ripreso i sacchetti vuoti, e venuto su a casa, mi sono seduto davanti al computer. Ma, allora, quei quattro fantasmi, che confabulavano tra loro nell’ombra del parco, vicino allo spiazzetto illuminato con gli scivoli e l’altalena, chi erano?
Il post sparito dal mio Blog era quello posto accanto all’immagine della Lupa, una scultura della Grote Markt di Bruxelles: “La palla d'oro. All'indomani della mia morte. Dialogo su uno strano gioco e sul congedo di un indefinibile alchimista.” Ero riuscito a recuperare il file e l’avevo rimesso a posto. Nel rileggerlo, mi sono soffermato sul secondo paragrafo: “L’alchimista”. Nel commentare il brano della “palla d’oro” di Nietzsche, Jung dice: “Vedete, l’idea più alta insegnata da Zarathustra è che il superuomo è identico a una palla, e la palla è il globo, la rotondità perfetta che esprime l’uomo primordiale, l’uomo che era prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate… l’idea del superuomo è un’idea mistica estremamente antica che ricompare sempre di nuovo nel corso dei secoli… - Che cos’è Nietzsche, dopo tutto? Non è che il ripresentarsi di uno di quei vecchi alchimisti: Nietzsche è un prosecutore della filosofia alchimistica del Medioevo.” A suo tempo, avevo chiuso là il discorso e concluso il mimo con un po’ di autoironia. Non mi sembrava la sede opportuna, per commentare e spiegare Jung, anche perché allora non avevo ancora approfondito il suo pensiero sull’alchimia. Ora, colgo l’occasione per parlarne, vista che l’occasione è per me ancora possibile, in quanto non siamo ancora all’indomani della mia morte, ovviamente mentre scrivo, “non certo” quando queste righe verranno lette, nel senso che l’incertezza riguarda le eventuali future letture di queste righe. Bon! Spiegherò dopo il titolo: “All’indomani della mia morte”, ora parliamo di Jung, anzi lasciamolo parlare. “Il dio dai mille mutamenti e raggiri non è morto, né col tramonto dell’età antica né in seguito, ma è sopravvissuto travestito in strane fogge, per molti secoli fino all’età moderna, e con le sue arti ingannevoli e i suoi doni salutari non ha dato tregua allo spirito dell’uomo.” È l’incipit di “Der Geist Mercurius”, Conferenza di Ascona del 1942. Quindi, Jung riporta il sunto di una favola dei fratelli Grimm: “Lo spirito nella bottiglia”, che io qui riduco ancora al minimo: “Un contadino non può più mantenere agli studi il figlio, allora per fare un po’ di soldi, va a tagliare legna nel bosco, accompagnato dal giovane. Mentre lavorano, vicino alle radici di un albero sentono una vocina, il giovane scava e sotto terra scopre una bottiglia, l’alza e contro luce vede un ranuncolo, che si agita nella bottiglia e implora: “Liberami! Liberami!” Solleva il tappo e fuoriesce uno spirito che s’ingigantisce e diventa un mostro orrendo alto come l’albero, che grida: “Ti devo rompere l’osso del collo.” Al giovane spaventato, per questa sorte, urla: “Credi forse che io sia stato rinchiuso tanto tempo per grazia? No, era per punizione. Io sono il potentissimo Mercurio; a chi mi libera, devo rompergli il collo.” Il giovane chiede una prova per sapere se è vero. Lo spirito rientra nella bottiglia e il giovane subito la chiude con il tappo. Lo spirito implora di essere nuovamente liberato e promette che in compenso lo farà diventare ricco. Il giovane prova, lo spirito esce e gli dà uno pezzo di stoffa, che da una parte cura le ferite e dall’altro muta il metallo in argento. Il giovane diventa ricco e può tornare agli studi, s’iscrive all’università, diventa dottore e guarisce tutti con il pezzetto di stoffa.”
Jung interpreta la favola in chiave alchemica. L’essenza mercuriale, ossia il principium individuationis, tende a svilupparsi liberamente in circostanze naturali. Il principio viene ripreso dalla filosofia di Schopenhauer, per il quale Il mondo non è altro che la rappresentazione differenziata di una stessa unica Volontà di vivere (Wille zum leben). Oggetto di rappresentazione, la Volontà si manifesta illusoriamente (Velo di Maya) attraverso gli individui, apparentemente differenziati e irrimediabilmente separati l'uno dall'altro. Il principio d’individuazione, per Jung, è il processo, in base a cui la persona diventa sé stessa, un essere unico e differenziato dalla psiche collettiva e inconscia. Questo sviluppo viene privato della sua libertà da una violenza esterna intenzionale, che lo imprigiona con un artificio, confinandolo come spirito maligno. Infatti, commenta Jung, soltanto gli spiriti maligni vengono confinati! Il proposito omicida rivela la malvagità dello spirito. Risulta quindi meritoria l’opera compiuta dal maestro alchimista d’imprigionare il principium individuationis, seppellendo il male naturale alle “radici” dell’albero, cioè sotto terra, come dire nel corpo, nella materia. In quest’opera l’alchimista imita il Creatore. La semplice istintualità e l’ingenua inconsapevolezza dell’essere naturale, non turbata dalla coscienza, quando viene interrotta nel suo libero sviluppo, rivela la distinzione del bene e del male e quindi la scienza morale e la colpa. Per gli alchimisti, la bottiglia, il vas hermeticum, chiusa “ermeticamente” con il sigillo di Ermete, doveva essere un vitrum, possibilmente rotondo, simbolo dell’universo, in cui la terra venne creata. Storicamente, lo spirito cattivo imprigionato era il dio pagano, confinato con l’avvento del Cristianesimo. Queste spiegazioni di Jung vanno interpretate alla luce del suo pensiero che riteneva la persona come l’insieme sia del bene che del male, la sua parte oscura quest’ultima, l’Ombra. E nei suoi studi su psicologia e religione, discute il simbolo della quaternità, che nell’inconscio dell’uomo areligioso moderno si sovrappone allo schema trinitario. Che cosa aveva detto ridendo l’Incurvato, riproponendo la battuta di Jung, che parafrasa l’incipit del “Timeo” di Platone: “Uno, due, tre, il quarto dov’è?” La palla d’oro, il globo di vetro alchimistico, indica la completezza dell’uomo, prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate. Ecco perché Jung dice che l’idea di Nietzsche non è altro che il nuovo riproporsi della figura medievale dell’alchimista. Il servus fugitivus è il fluido mercuriale volatile, con le ali ai piedi, come dice Jung, lo sfuggente Mercurio, che sempre si sottrae alla presa, un vero truffatore che spinge l’alchimista alla disperazione. Se, però, si riesce a trattenerlo nel “vas hermeticum”, allora il selvaggio Mercurio diventa uno spirito servizievole, obbediente, familiaris. Ed ora illustriamo il titolo: “All’indomani della mia morte.” Io mi presento come un indefinibile alchimista, che prima di lasciare il suolo di questa terra, lancia ai suoi amici la “palla d’oro”, il lascito spirituale di tutto quel materiale psichico disordinato, che costituisce la sua “letteratura” sotterranea. In tale veste, mi raffiguro come un autore postumo, di cui rimane, all’indomani della mia morte, una beffarda eredità. Resta un ultimo interrogativo, vago e sfuggente, che aleggia nell’aria. Ma la figura di questo alchimista, a ragione definitosi “indefinibile”, non è forse la maschera dietro cui si nasconde il demone dei misteri di tutti i tenebriones?
“Finché il sole risplenderà sulle sciagure umane.” I Sepolcri, Ugo Foscolo
L’interrogativo retorico e allusivo con cui si chiude il testo del servo fuggitivo fa riferimento al demone dei misteri di tutti i tenebriones. L’espressione è di Jung, e di chi altri poteva essere se non di questo medico psichiatra, che stando a contatto ogni giorno con le anime oscure (quest’ultima espressione è mia) cercava di sondarne il buio profondo del loro inconscio? Appropriandomi del tocco misterico del nome, per farne maschera del mio personaggio di alchimista indefinibile, ponevo l’interrogativo su questa figura tenebrosa e sulle trame oscure ch’egli va tessendo come protagonista occulto. Ed allora seguiamo il filo della trama del racconto, attraverso cui si giunge fino a quest’ultimo interrogativo. Il “servo fuggitivo” si compone di due parti, la prima come narrazione, la seconda come riflessione. L’inizio descrive un’azione banale della realtà quotidiana, che subito scivola nel fantastico, secondo lo schema stilistico del genere, un fondere la realtà con l’immaginario, una tecnica poetica insuperata nell’arte visionaria di Borges, ma anche di Pessoa ed altri virtuosi della letteratura. Se nello stile del narrare della prima parte imitavo, o cercavo di farlo, i due poeti e gli altri, nell’andamento discorsivo della seconda parte, il mio intendimento era non solo d’illustrare certi contenuti di “La palla d’oro”, il post del mio Blog, che per errore avevo cancellato e poi ripristinato, ma anche la psicologia dell’inconscio di Jung, in relazione ai suoi studi sull’alchimia. Pretenziosamente, infatti, dicevo: “Spiegheremo meglio in seguito questo concetto, che riguarda la psicologia del profondo, di cui peraltro stiamo trattando, ora, in questa mia narrazione, come presto emergerà.” Era l’aspetto relativo al giudizio morale, che discende dall’ambiguità propria della natura umana, secondo la visione di Jung, alla luce della dottrina alchemica. Dovendo commentare la scissione che il dolore provoca nel cuore degli uomini, in cui si riversa con sentimenti contraddittori, nell’artificio narrativo scindevo la mia natura unica di creatore artistico (chiedo scusa della definizione che mi attribuisco) in due personaggi differenti, in cui si rivela la contraddizione tra bene e male: “Se non vi fosse il dolore di Aristarco, come potrebbe giungere l’insensibilità di Decio Livio di fronte al dolore altrui?” Come vuole Jung, seguendo certe dottrine gnostiche, l’indistinzione del bene e del male ha la sua radice nell’unitarietà del principio. Ed ecco allora la scissione dell’uomo primordiale, “l’uomo che era prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate… l’idea del superuomo è un’idea mistica estremamente antica che ricompare sempre di nuovo nel corso dei secoli… - Che cos’è Nietzsche, dopo tutto? Non è che il ripresentarsi di uno di quei vecchi alchimisti: Nietzsche è un prosecutore della filosofia alchimistica del Medioevo.” Senza discutere sulle verità dottrinarie dell’alchimia, consideriamo le conseguenze delle due entità separate dell’uomo, riferendoci alla sua ombra, quella notturna e passionale della notte e cerchiamo di addentrarci nelle buie profondità dell’Inconscio, dove si agita il demone dei misteri di tutti i tenebriones. È lui che muove questa massa oscura, gli “ottanta cavalli” impazziti nella notte del parco di Guglielmino?
Se vogliamo dare espressione alle tenebre del desiderio che possiedono l’uomo, possiamo rifarci a un’immagine da me evocata altrove, quella dell’onda nera della materia, che improvvisa si solleva ad afferrare per il collo, in una stretta mortale senza scampo, lo Spirito della luce disceso nei suoi oscuri fondali, dove rimane avvinto per sempre. È una figurazione che può riproporsi qui, dove la lotta non si svolge più sullo sfondo di scenari in grandezze su scala cosmica, la gigantesca allegoria gnostica che ci racconta l’alba del generarsi dei mondi, ma viene riferita all’individualità spirituale dell’uomo, la sua coscienza lacerata dalla contesa tra il bene e il male. È un conflitto interiore alimentato dalla sorgente di vitalità naturale, che trova espressione nella pienezza della libertà. Succede poi che la libertà, sull’orlo del precipizio, rivolgendo lo sguardo dalla sua altezza infinita al fondo dell’abisso, venga colta da vertigine e finisca per precipitarvi, realizzando la caduta nella materia finita, di cui rimane prigioniera. Ma la vertigine appartiene alla luce del giorno, che sola rende possibile lo sguardo nell’abisso, altrimenti insondabile. Ed è l’apertura solare del giorno che rende visibile il muoversi e l’agire dell’uomo, secondo le sue abitudini e i suoi costumi (mores) di vita, rendendo in tal modo possibile la pronuncia di un giudizio morale sulle sue azioni. Al contrario, il buio della notte nasconde nello spessore delle sue tenebre ogni nero desiderio, in tal guisa indistinto allo sguardo e quindi impossibile da giudicare. È la notte dei sensi priva della luce dell’intelletto a dissolvere tutte le differenze, fondendole nel magma di una massa oscura, l’onda nera impenetrabile della materia. Nella favola dei fratelli Grimm, lo spirito del genio maligno è sepolto sottoterra, dove si ramificano le radici dell’albero che rappresenta la vita. È solo quando viene liberato, che lo spirito può rivelare, grazie alla impietosa luce del giorno, il suo genio maligno, seppellito fino ad allora nell’oscurità della terra. La luce impietosa, in cui si rivela la malignità del genio, corrisponde alla grande ora mistica, l’ora del mezzogiorno, in cui secondo la mitologia greca, nel sogno meridiano di Pan, “come un improvviso scoppio di tuono nell’aria incandescente”, ha luogo l’apparizione degli spettri, le Sirene e le Ninfe. È l’ora della febbre che colpisce in pieno giorno, menzionata nel versetto biblico del Salmo 91/6, quella a cui si riferisce Giovanni Cassiano, monaco vissuto a cavallo del IV e V secolo: “I nostri antichi padri la chiamano del “demone meridiano”, del quale parla il salmo nonagesimo”. Accade allora che i delitti meditati nelle tenebre, “la peste che colpisce a mezzanotte”, secondo l’altro verso del distico biblico, Salmo 91, vengano compiuti “sotto il sole di Satana”. Se la notte cela il mistero, le tenebre del desiderio prendono forma alla luce del giorno. E in verità, i mostri generati dal sonno della ragione possono fare la loro apparizione soltanto di giorno, quando la luce li rende visibili. Ecco perché il più grande cantore delle epiche gesta dell’antichità è Omero, "colui che non vede" (ho mè horôn). Soltanto come visioni poetiche fantastiche, infatti, possiamo prestare lo sguardo agli spettacoli delittuosi della Storia, lo scorrere del sangue, gli assassinii, le guerre. Sono i sepolcri, i monumenti dei giardini di pietra, i viali di palme e cipressi a custodire la memoria poetica: “Un dì vedrete / mendico un cieco errar sotto le vostre / antichissime ombre, e brancolando / penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne / e interrogarle. Gemeranno gli antri / secreti, e tutta [la storia d’Ilio] narrerà la tomba.” Nella suggestiva successione romantica delle immagini poetiche del Foscolo è alla fine il trionfo di luce ad illuminare la tragica vicenda umana ordita nella sua notte psichica: “Finché il sole risplenderà sulle sciagure umane.”
L’INCONSCIO NELL’ARTE Non abbiamo potuto proseguire il nostro percorso nell’officina infernale della notte dei misteri custodita dal demone principe di tutti i tenebriones, perché siamo andati ad immergerci e quindi a fonderci nella massa oscura, l’onda nera della materia (la “selva oscura”), in cui fondendosi la nostra anima (psiche) si è smarrita. Qui il nostro inconscio individuale, immerso nelle acque buie dell’inconscio collettivo, avrebbe dovuto inviarci in forma simbolica il contenuto profondo delle immagini primordiali, gli archetipi junghiani, figurandoli nei nostri sogni. Soltanto così avremmo potuto vedere sfilare in immagini le forme tenebrose dei nostri desideri notturni. Ora, questo viaggio precluso alla mia fantasia psichica ha avuto la possibilità magari (eccome non l’ha avuta!) di essere compiuto da anime più profonde e geniali, grandi artisti che hanno saputo esprimere in pittura o in poesia le immagini dei sogni, i loro incubi e deliri, che appartengono a tutti noi, e ce ne hanno fatto partecipi. E allora come non potremmo riconoscere in “Caron dimonio, con occhi di bragia” il volto di un principe dei tenebrosi? E così per le tante altre infernali immagini dantesche che descrivono i patimenti dei dannati, il giusto contrappasso, che compone insieme il bene e il male. E che dire della “Chevauchée de Faust et de Méphistophélès devant le gibet de Montfaucon”, dipinto ad olio dell’artista Joseph Thierry, custodito nella Biblioteca del Museo dell’Opera di Parigi? Un quadro ispirato ai versi immortali di Goethe: “Nella campagna di notte Faust e Mefistofele al galoppo su cavalli neri”. Il dipinto è conservato nel tempio della musica, perché sogni, incubi e deliri trovano espressione in quell’elemento, il dionisiaco, che muove le passioni sotterranee, risplendenti nella luce apollinea del giorno. Bene lo sapeva Nietzsche autore della sua prima opera giovanile: “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”. In musica, il poema di Goethe è stato adattato da Hector Berlioz: “La dannazione di Faust”, composizione per coro e orchestra, “una leggenda drammatica”. "Pianure, montagne e valli, la corsa verso l’abisso di Faust e Mefistofele, al galoppo su due cavalli neri". Le battute scambiate tra i due personaggi durante la cavalcata notturna, evocanti le stregonerie, nella musica di Berlioz diventano il momento principale, inventato dal compositore, alla fine del quale l'eroe, dannato, sarà trascinato nell'inferno. Non vengono risparmiati gli effetti: un ritmo sconvolgente delle corde evoca la cavalcata infernale, mescolata a un coro di contadini, i cui inni vengono disturbati dal galoppo dei cavalli. I "mostri orribili", i “grandi uccelli notturni", gli "scheletri danzanti" sono illustrati dalle basse note dei tromboni accompagnate da fagotti, clarinetti, oficleidi e tube. La caduta nell'abisso è seguita da un silenzio ancora più suggestivo, perché preparato da una progressione di tutte le forze dell'orchestra verso il “tutti fortissimo”. Nella sua “Storia della letteratura italiana”, Francesco De Sanctis ha scritto: “La lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtù. Questa è la base della leggenda del Dottor Faust che vendé l'anima al diavolo, leggenda così popolare al Medio Evo, e resa immortale da Goethe.”
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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IL LIBRO DI ATTANASIO
1. Un’impossibile salvezza
“Si trovano ottocento porte per ottocento giusti, un giusto vale tutti i giusti.” Questa affermazione, l’autore sugli “Studi sull’Aldilà”, riferiva di averla ricavata dal “Libro di Attanasio”, un testo apocrifo di data incerta, probabilmente tra il I e il II secolo d.C. Mi sono sempre chiesto il perché di quel numero, ma andiamo per ordine, e spiego dove e come ho letto questa frase, e perché mi è tornata recentemente alla memoria. Anni fa, viaggiavo per l’Italia e l’estero, quella volta ero andato con Maria Giulia, la mia compagna degli ultimi anni della mia vita, allora eravamo all’inizio della nostra relazione, dicevo ero andato, o meglio eravamo andati a Firenze da Roma, dove siamo diventati stanziali. Lei proveniva dalla Tunisia, dove era nata da genitori italiani, io da Napoli, ci siamo incontrati ad Ischia, in vacanza, ci ritrovammo l’anno dopo a Paestum, in visita ai templi, da allora stiamo insieme, viaggiamo, e facciamo base nella capitale. Nella biblioteca nazionale di Firenze, trovai un libro, credo di uno scrittore tedesco, non ricordo bene il titolo, soltanto il sottotitolo: “Studi sull’Aldilà”. Parlava dei vari miti d’oltretomba degli Egizi, dei greci, dei latini, di testi ebraici e testi dei primi secoli cristiani e dell’alto Medio Evo, e di antichi apocrifi, tra cui quello abbastanza sconosciuto forse di un monaco cristiano d’Oriente, tradotto dal greco, a cui era stato dato il titolo, è presumibile, dal nome dell’autore: “Il libro di Attanasio”.
Il riferimento era alla Bibbia ebraica: dopo la morte, le anime andavano nello sheol e di lì o precipitavano nella geenna, un luogo di eterno castigo, oppure erano destinate ai giardini dell’Eden, come ricompensa per la loro buona condotta di vita. Nei cieli era situata la dimora di Dio, e si trovavano anche ottocento porte per ottocento giusti: un giusto vale tutti i giusti, era il commento. Perché ottocento? Indubbiamente, si trattava di un numero simbolico, ma qual era il simbolo? E il commento non aiutava a chiarire: “Un giusto vale tutti i giusti.” Poi, gli interrogativi si dissolsero, non appena io e Maria Giulia ci ritrovammo al Ponte Vecchio, nel pomeriggio lei aveva fatto shopping, passeggiammo ancora un po', quindi andammo a fare uno spuntino serale, e in attesa del treno per Roma, ci intrattenemmo in Piazza della Repubblica. Non so perché, ma al mio sguardo il grigio crepuscolare del giorno alla fine rischiarò la piazza di una luce irreale, come confusa con le ombre imminenti della sera impallidite dall’illuminazione pubblica. Volsi lo sguardo al cielo, ancora chiaro nell’azzurro imbrunito, ed ebbi come il senso dell’eskaton, l’attesa del compimento del mio destino ultimo. Era la suggestione delle mie letture o il momento esistenziale? Così quella sera, le sue luci irreali, non vicina ad altre ombre e luci irreali di altre sere.
Un giusto vale tutto i giusti, la scelta dei principi nell’azione, la legge morale di Kant, l’associazione di idee, devo dirlo, mi venne in mente leggendo “Le parole” di Sartre, le ultime pagine dell’autobiografia del filosofo francese, dove conclude, individuando nella scrittura il fine della sua vita: “Una mattina , nel 1917, a La Rochelle, aspettavo i mie compagni con cui andare insieme al liceo; erano in ritardo e presto non seppi più che cosa inventare per distrarmi, decisi di pensare all’Onnipotente. Immediatamente scivolò nel cielo e sparì senza dare spiegazioni: non esiste, mi dissi con stupore di cortesia, e credetti risolto il problema. E in certo modo era risolto, dato che mai, in seguito, ho avuto la minima intenzione di riaprirlo. Ma l’Altro rimaneva, l’Invisibile, lo Spirito Santo, colui che era garante del mio mandato e che signoreggiava la mia vita, per mezzo di grandi forze anonime e sacre. Di quello feci tanto più fatica a liberarmi, in quanto si era installato nella parte posteriore della mia testa, nelle trafficate nozioni di cui mi servivo per capirmi, situarmi e giustificarmi. Scrivere fu per molto tempo un chiedere alla Morte, alla Religione, in forma mascherata, di strappare la mia vita al caso. Fui sacerdote, militante, volli salvarmi per mezzo delle opere; mistico, tentai di svelare il silenzio dell’essere, per mezzo di un rumorio irritato di parole, e soprattutto confusi le cose con i loro nomi: è avere fede. Avevo le traveggole, finché le ebbi, mi ritenni fuori pericolo. Mi riuscì a trent’anni questo bel colpo di scrivere in “La Nausea” – davvero sinceramente, credetemi – l’esistenza ingiustificata, salmastra dei miei congeneri e di mettere la mia fuori causa. […] L’illusione retrospettiva è in briciole; martirio, salvezza, immortalità, tutto si deteriora, l’edificio cade in rovina, ho acchiappato lo Spirito Santo nelle cantine e l’ho discacciato; l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro: io credo di averla condotta in porto. […] Ho smesso di investire, ma mi sono spretato: scrivo sempre. Che c’è da fare di diverso. Nulla dies sine linea. È la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n’è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo a offrirgli la sua immagine. […] Il mio unico problema era di salvarmi, a mani vuote e a tasche vuote, per mezzo del lavoro e della fede. Di colpo, la mia pura opinione non mi sollevava sopra a nessuno, senza equipaggiamento, senza attrezzatura, mi sono messo per intero all’opera per salvarmi tutto per intero. Se ripongo l’impossibile Salvezza nel ripostiglio degli attrezzi, che cosa resta? Tutto un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque li vale.”
Chi legge con attenzione quest’ultima riga, il sigillo dell’autobiografia del filosofo francese, vi legge la sua massima morale, per una “impossibile Salvezza”. L’ateo pone a fronte del credente la sua etica: l’umanismo. Il senso ingiustificato della vita non è nella Salvezza e nella giustizia di un Dio che non esiste – coerentemente, in “L’Essere e il Nulla”, Sartre definisce quella di Cristo una passione inutile – ma nell’essere uomo, come tutti gli altri uomini: ogni azione di un uomo vale tutte le azioni degli uomini.
Questa estensione del comportamento morale di ognuno nella regola più generale del comportamento umano è di chiara derivazione kantiana.
“In verità, è preferibile, nel giudizio etico, procedere sempre secondo il metodo rigoroso, e porre a base la formula generale dell’imperativo categorico: agisci secondo una massima che possa farsi al tempo stesso legge universale.” (“Fondazione della metafisica dei costumi”) Quello che di kantiano si può leggere in Sartre è quel ricorso del filosofo illuminista al principio dell’universalità: “I tre modi di rappresentare il principio della moralità non sono, in fondo, se non altrettante formule di una medesima legge, ognuna della quale racchiude in sé le altre due.” Kant esplicita quindi il tratto comune alle tre massime, le “formule”, consistente in tre aspetti: forma, materia, determinazione. Ai nostri fini, interessa, il primo: “Una forma che consiste nell’universalità; e allora la formula dell’imperativo etico si esprime così: doversi scegliere le massime come se avessero da valere come leggi di natura.”
Questa dialettica tra libertà individuale e totalità degli altri esseri umani, che per Kant sono gli esseri razionali, è stata discussa da Sartre nell’ultima sua opera: “Critica della ragion dialettica”. Egli parte dal confronto dialettico tra esistenzialismo e marxismo, filosofia dominante, avente carattere storico, quindi unico strumento per interpretare la realtà del tempo e spiegare la dimensione essenziale della storia. Al contrario del pensiero borghese, che considera l’individuo un modello astratto, Sartre definisce l’individuo un soggetto reale condizionato dai rapporti di produzione, in relazione con altri individui nella sua condizione. Pertanto, parlare dell’individuo significa parlare di tutti gli altri individui, salvando però la specificità del singolo, il suo modo particolare di vivere la totalità. Non sono gli individui ad essere condizionati dai rapporti di produzione, ma è la loro azione a condizionare storicamente tali rapporti, ed in tal modo si fa salva la libertà dell’azione, contro un certo economicismo marxista, che riduce l’attività umana ai rapporti materiali di produzione, negando quella forma di umanismo in cui consiste l’esistenzialismo. (“L’esistenzialismo è un umanismo”, Conferenza, 1945). Sartre è un filosofo del ‘900, condizionato dal pensiero marxista,
Kant è un filosofo illuminista del Settecento, il secolo della Ragione e dei Lumi, noi ora torniamo nei secoli bui del Medio Evo.
2. La logica del numero tondo
“… nell’egizia Tebe
per le cento sue porte”
(Iliade, IX, 495-6)
Le cento porte di Tebe egizia erano davvero cento? Maria Giulia sta facendo le parole crociate: “La città delle cento porte può essere Tebe? “Sono quattro caselle, le manca qualche incrocio. “Sì”, confermo. “Certo, te l’ho detto io.” E chi altri se no? La logica femminile è ferrea, inoppugnabile. Non replico, vado a controllare sul web, ricordavo la storia della Grecia antica: Atene, Sparta, Tebe. E a proposito del web, una mia conoscente che non si fidava di quello che dicevo andava a controllare continuamente sul suo iPhone le mie affermazioni. E io mi ricordavo altre verità sul tempo, quello meteorologico: “Che tempo fa oggi?” Fuori è nuvoloso, molto nuvoloso, il vento è cessato, sta per piovere. Risposta: “Non piove, c’è il sole.” Chi ha risposto, forse Maria Giulia, dice che ha appena controllato su internet. “Fuori c’è un sole splendente” dico, ma non attendo la replica. Mi ricordo di quel sergente che faceva lezione ai soldati: “Se io dico che fuori piove, ma fuori c’è il sole, e vi domando se fuori piove o c’è il sole, voi che rispondete? Qualcuno si volta a guardare fuori dalla finestra, gli altri rimangono in silenzio, aspettano da lui la risposta, hanno ragione. Non è il sergente a fare la lezione e a spiegare ai soldati quello che devono dire? Il sergente dubita se qualcuno ha capito che sta usando una metafora per spiegare il regolamento militare, ossia che i soldati devono eseguire gli ordini impartiti, anche se irragionevoli o apparentemente tali. Ma questo i soldati lo sanno bene, chissà se la pensano come quel generale di Hitler, che appena arrivava un ordine da Berlino, subito pensava a come fare per non eseguirlo. Non credo però se questa situazione possa paragonarsi all’interpretazione delle condizioni atmosferiche.
Comunque, sono andato a controllare sul web, per capire se Tebe fosse la città delle cento porte, e ho trovato la citazione del Libro IX dell’Iliade.
“Anche se mi offrisse dieci o venti volte
di quello che possiede ora e di quello che possiederà
o tutte le merci che affluiscono in Orcomeno o a Tebe d’Egitto,
dove ci sono moltissime ricchezze nelle case,
lì ci sono cento porte e da ognuna escono in campo
duecento guerrieri con carri e cavalli; anche se mi desse
tanti tesori quanti sono i granelli di sabbia e di polvere
neppure così Agamennone placherebbe il mio cuore!”
Achille non cede alle offerte riparatorie di Agamennone, che gli ha sottratto la schiava Briseide, la sua ira funesta aveva addotto infiniti mali agli Achei. Nel passo, l’uso dell’aggettivo, ἑκατομπυλόι hekatómpyloí “dalle cento porte” segue quella che possiamo definire la logica del numero tondo. Nel discorso non matematico, e quindi impreciso, le cifre si arrotondano, e forse il numero cento è quello più usato per arrotondare una cifra indefinita. Omero cita anche altre cifre arrotondate allo zero, nel crescendo dieci, venti, cento, duecento e all’infinito dei numeri di granelli di sabbia e di polvere. Nulla può placare l’ira di Achille.
Oltre al passo dell’Iliade, che la menziona, ho appreso di questa Tebe egizia, l’odierna Luxor, e delle sue cento porte, che mi riportavano al mio enigma delle ottocento porte dei cieli per gli ottocento giusti, tratte dall’apocrifo, il “Libro di Attanasio”. Il numero cento potevo considerarlo, secondo la logica dell’arrotondamento, come la metà della soluzione del problema. E il numero otto? Per associazione di idee, ho pensato all’ottavo cielo. L’Universo del Medio Evo è quello tolemaico, con le sfere dei cieli, sette, che ruotano attorno alla terra: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. L’ottava sfera è quella delle stelle fisse, che ruota insieme a tutte le altre, per effetto del moto loro impresso dalla sfera del Primo Mobile.
Capivo che quella era la strada, per risolvere il mio dubbio, ma non sapevo come fare. E mi venne in mente Claudio Sciscio, un nostro amico, un mio vecchio compagno di scuola, a Napoli; ero distratto quando qualche tempo fa Maria Giulia mi aveva parlato di lui, mi sembra che avesse parlato con la moglie. Alla fine, decisi di chiamarlo, Claudio era professore di lettere classiche, studioso del Medio Evo. Stavo per accennargli del mio problema, quando mi ha parlato della sua malattia, era stato contagiato, lui e tutta la sua famiglia, ero preoccupato, mi rassicurò, nessuno era grave, presto sarebbero risultati tutti negativi. Nessuno era stato ospedalizzato? No, nessuno. Parlammo, parlò in prevalenza lui, degli aspetti sanitari del contagio, le cure. Alla fine, conclusi, dicendogli di farmi sapere della guarigione sua e di tutti i suoi, stavo per chiudere, quando disse: “Ettorino, che mi volevi dire?” “Una sciocchezza” dissi e in breve gli rappresentai il problema, ma non ricordavo il nome dell’autore del saggio, forse un tedesco, e neppure il titolo del volume, soltanto il sottotitolo, tradotto in italiano: “Studi sull’Aldilà”. “Va bene, ti farò sapere.” “Quando starai meglio, cioè presto.” “Ciao, Ettorino.” “Ciao, Claudio.”
3. Le luci del congedo
Era sera tardi ed era buio, quando uscii di casa, per portare fuori Mike, un labrador, che un’amica di Maria Giulia ci ha affidato, sono alcuni mesi che sta con noi e ha familiarizzato presto. Abbiamo attraversato il cancello d’ingresso del parco e siamo scesi nel viale a sinistra, du côté de Meséglise, come l’ho nominato nella mia memoria. Andando avanti, lasciavamo la zona illuminata dalle luci di strada e dei condomini prospicienti al parco, procedendo nell’ombra. Poi, a metà discesa, Mike si è fermato ed ha voltato la testa all’indietro, guardando in alto verso la zona luminosa, dove splendevano le luci delle nostre abitazioni, in contrasto con l’oscurità della notte. Stava contemplando la dimora del tempo recente della sua vita, l’incanto di quelle luci illuminavano il suo sogno, nel momento del congedo verso le ombre nel fondo del viale. E quella scena di sogno mi ha rimandato ad altre luci non molto lontane, contemplate nel silenzio della notte, nella distanza del nostro sguardo contemplativo. Quanto tempo siamo rimasti così? Il tempo del cuore, che registra i ricordi della nostra vita, per custodirli per sempre. Siamo scesi in fondo al viale, sostando nel buio vicino ai cespugli e al fogliame, dove i rumori della notte mandavano segni di vita di piccoli animali, fruscii. Dopo una breve attesa abbiamo ripreso la via del ritorno.
Quella sera, Maria Giulia mi aveva detto della morte di Sciscio, la moglie aveva riportato la notizia su WhatsApp, sono stato colto di sorpresa. Claudio si è congedato dalle luci della vita e si è avviato nelle ombre della sua ultima notte. All’improvviso, era peggiorato ed era finito all’ospedale in terapia intensiva, non ce l’ha fatta ed è morto. “La morte dell’altro, non soltanto ma soprattutto se lo si ama, non annuncia un’assenza, una scomparsa, la fine di questa o quella vita. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di ogni mondo possibile, e ogni volta la fine del mondo come totalità unica, dunque non rimpiazzabile, dunque infinita.” Come inscalfibili cristalli sono le parole che Jacques Derrida ha premesso alla raccolta di suoi testi di orazioni funebri, memorie, testimonianze, in ricordo degli amici scomparsi.
Sono passate alcune settimane dal lutto, un giorno nella posta elettronica ho trovato una e-mail di Francesca, la vedova di Sciscio, conteneva la risposta al mio quesito, che il mio amico scomparso non aveva dimenticato di studiare, trovando una soluzione.
“Ho fatto delle ricerche, per rintracciare il libro che mi hai segnalato, e ho trovato due autori, uno forse può corrispondere a quello da te indicato. Sono un tedesco e un francese: Marcus Fischer, Historisch jüdisch-christliche Vorstellungen vom Schicksal der Verstorbenen, “Concezioni storiche giudaico-cristiane del destino del defunto”; Jacques Tedika, “La doctrine chrétienne de l’au-delà”, La dottrina cristiana dell’aldilà. In nessuno dei due autori ho trovato la citazione del “Libro di Attanasio”, ma il primo riporta un riferimento di testi rabbinici dei primi secoli dell’era cristiana, in cui si parla del momento del giudizio con la divisione tra i totalmente giusti e i totalmente empi, e si accenna a sette firmamenti, e le anime dei totalmente giusti sono destinate al settimo cielo, quello più alto. Nel secondo, ho come raccolto degli echi danteschi: nella “Commedia” gli spiriti dei giusti sono collocati al sesto cielo, quello di Giove; al settimo, quello di Saturno, troviamo gli spiriti contemplanti. Una volta asceso all’ottavo cielo, quello delle stelle fisse, governato dai Cherubini, Dante vede i sette pianeti ruotanti nelle loro orbite intorno alla Terra, assiste al trionfo di tutti i beati e nella luce abbagliante riesce a distinguere la figura umana di Cristo. In seguito, assiste al trionfo di Maria, circondata dalla luce dell'arcangelo Gabriele che le ruota intorno, e segue Cristo verso l'Empireo, mentre le anime dei beati si protendono verso l'alto con tutto il loro ardore di carità. L’ottavo cielo ha una valenza superiore rispetto agli altri sette ruotanti al di sotto, e forse questa è stata la considerazione che ha spinto l’autore a parlare di un’ascesa all’ottava porta del cielo di tutti i beati, gli spiriti giusti.”
Sciscio poi si dischiarava d’accordo con me su cento come numero tondo, e per associazione l’ottava di otto porte conduceva ad ottocento, un numero simbolico. E la figura umana di Cristo, secondo la collocazione dantesca, garantiva l’affermazione di un giusto che vale tutti i giusti. È il modello della condotta di una vita giusta, che riflette nella sua persona la giustizia divina. Così concludeva Sciscio, poi il congedo.
ELENA ZURLO
1. Nelle acque gelide della corrente
È la visione del sublime, l’oltre la linea di confine di ogni orizzonte, a rivelare il senso dell’impaurito vuoto dell’esistenza, la sospensione nel nulla del nostro essere, che la ragione rincorrendo il quotidiano continuamente tiene celata. Ricordo molto bene, quando la situazione emotiva, vissuta una decina d’anni fa circa, mi si ripropose davanti, nitida, pura, vuota di quel suo carico di angoscia di allora. Rividi le lastre di ghiaccio scivolare nella corrente della Neva, un aprile di San Pietroburgo. Erano le stesse lastre di ghiaccio che Borges vide a Cambridge, a nord di Boston: “Saranno state le dieci del mattino. Io ero seduto su una panchina, davanti al fiume Charles… L’acqua grigia trasportava lunghi pezzi di ghiaccio. Inevitabilmente il fiume mi fece pensare al tempo.” È una visione che spinge l’autore ad un colloquio con sé stesso, “L’altro” di “Il libro di sabbia”. L’immagine delle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente dell’acqua parlano di un tempo trascorso e del suo continuo andare, ed io nel risalire all’indietro allo scorrere del grigio gelido del fiume, rividi Elena Zurlo.
“Dove hai parcheggiato il bolide?” ha domandato la donna con il vestito rosso e la giacca in pelle nera. “Tra quelle due macchine, a metà sul marciapiede,” ha risposto l’amico. “Alla barbara!” ha commentato lei, prendendo il compagno allegramente sotto braccio e avviandosi con lui a rilevare il bolide, una Punto color rosso “Ferrari”.
“Ti ho vista che mangiavi il pinzimonio
Assieme a quel tuo amico in osteria
È stato il giorno dopo il matrimonio
Mentre tornavo dalla ferrovia.”
Mi ripetevo i versi della poesia, scoperti sulla rivista letteraria on-line. Il poeta si firmava con uno pseudonimo vagamento greco “Leopis”, Leonardo Pisicchio, come lo avevo facilmente decrittato, avendone riconosciuto lo stile, lo stesso incipit di un’altra poesia: “Ti ho vista che dormivi in ascensore”. La musa era Astrid, se ben ricordavo. Stavo aspettando che Elena uscisse dalla banca, dove era entrata per un’operazione allo sportello. Ero in piedi, a lato dell’edicola dei giornali, da dove avevo seguito la scenetta del bolide rosso, parcheggiato alla barbara, in via Baldovinetti.
E di quale matrimonio si trattava? Non certo di quello tra Astrid e Leopis. Vi pare possibile che il poeta veda la moglie assieme ad un amico in osteria, mentre mangia o meglio assaggia il pinzimonio, proprio il giorno dopo il matrimonio? Tutto è possibile, certo! Magari avevano dovuto rinviare il viaggio di nozze, per motivi legati alle loro attività professionali. Quindi, dopo il rito e la festa, il giorno seguente, erano ritornati ognuno per proprio conto ai rispettivi posti di lavoro. Per la pausa pranzo, lei era andata con un collega in qualche tavola calda, che il poeta forse per esigenza di rima aveva trasformato in osteria. O no, con quel termine, appositamente scelto, forse Leopis intendeva manifestare tutta la sua indignazione per il comportamento di Astrid, sorpresa con quel suo amico in una bettola, accanto alla stazione ferroviaria, indipendentemente dal matrimonio, non si sa bene da chi contratto. È gelosia quella del poeta o collera? O forse è innamoramento? “In quegli anni, ti ricordi, Astrid?” recitava più avanti, con accento di nostalgia. Sorridevo fra me e ho sentito un viso che sfiorava il mio. Mi sono voltato e ho visto Elena che ritraeva il suo viso con espressione divertita. “Mi sembrava che stessi ridendo” ha detto.
Siamo andati a sederci a un tavolino del caffè lì accanto. Lei era come presa dai suoi pensieri, ogni tanto si toccava l’anello, una fedina, che io le avevo regalato. “Allora dobbiamo decidere?” Ho detto. “Che cosa?” mi ha domandato vivamente interessata a quello che stavo per dire. “La data delle nozze,” ho detto. È saltata su dalla sedia, di slancio mi ha abbracciato e baciato e subito dopo si è ricomposta, ritornando a sedersi dalla parte sua. Ero un po’ in imbarazzo e ho continuato a guardare in avanti sulla strada, per vedere se i passanti che passavano ci avessero segnato a dito, anche se quel bacio improvviso non era avvenuto contro le porte della notte (“contre le portes de la nuit”) essendo mattina avanzata, quasi l’ora dell’aperitivo. “I ragazzi che si amano” … io sono più vicino ai quaranta che ai trenta, Elena ha cinque anni e mezzo meno di me… “ma i ragazzi che si amano non ci sono per nessuno… sono altrove… nell'abbagliante splendore del loro primo amore.” Era il caso mio e di Elena?
Quando ci siamo alzati e siamo andati via, lei mi ha preso felice sotto il braccio, con la stessa gioiosa mossa della donna che aveva l’amico con la “Ferrari”.
A casa, dopo pranzo, sono sceso nel parco, nel silenzio dell’ora pomeridiana, il sole filtrava attraverso il fogliame dei rami, sono rimasto così a guardare quelle schegge abbaglianti di luce. “Ci vediamo domani,” mi aveva detto Elena, scendendo dalla macchina, quando l’avevo accompagnata sotto casa sua. Aspettavo il giorno dopo nell’immobilità e nella quiete luminosa di quel pomeriggio.
All’indomani ero lì, seduto al caffè di via Baldovinetti del giorno prima, in attesa di una sua chiamata. Avevo telefonato tre volte, ma non aveva risposto, probabilmente aveva da fare. O forse era offesa, perché non l’avevo richiamata nel pomeriggio o in serata? Ma no! In verità, ci avevo pensato, ma ero stato trattenuto dal desiderio cosciente di volerla immediatamente vedere, invece di parlare. Non avevamo molto altro da dirci, era tempo di agire. Sorrisi tra me. Fissavo il cartellone pubblicitario di fronte, ma non mettevo a fuoco l’immagine. Infine, mi riscossi, avrei provato a chiamare di nuovo, presi il telefonino, che in quel momento cominciò a squillare, quasi aspettasse solo quel mio gesto di contatto. “Sono Elena Zurlo,” disse la voce di Elena. “Com’è? Ti riconosco, sai?” dissi d’istinto, in tono scherzoso; ma il silenzio che seguì al mio interrogativo mi confermò un sottile senso subconscio d’incertezza suggerito dal suo accento serio. “Elena!” dissi. Non rispose. Io insistetti, pronunciando il suo nome. “È stata una disgrazia!” disse con tono grave, profondo, una voce che non riconoscevo. “Dove sei?” domandai inquieto. Non rispose. “Elena!” Seguì un silenzio e dopo un po’ di tempo il segnale della comunicazione interrotta. Tutto intorno a me divenne improvvisamente grigio e scuro.
ella comunicazione interrotta. Tutto intorno a me divenne improvvisamente grigio e scuro.
2.Una combinazione del pensiero
Rivedo le lastre di ghiaccio alla deriva nelle gelide acque della Neva e mi raggiunge il ricordo di Elena Zurlo, divenuta oggi una combinazione del pensiero. È come se tutta la vita con lei non vissuta formasse un vuoto ideale attorno alla sua figura, dando risalto alla solitudine della sua immagine.
In quel tempo feci un sogno in bianco e nero, nella desolazione di una vallata spoglia, tra cumuli di cenere, soltanto un’anatra si spostava con lenti passi palmipedi ai bordi di una pozzanghera. “Aspettami là che presto ti raggiungerò in quella valle vuota”. Mi sono svegliato suggestionato da queste parole, che ricalcavano quelle simili, poste come epigrafe a un racconto funerario di Edgar Allan Poe, tratte da una lirica di Henry King, vescovo di Chichester, scritta per le esequie della moglie defunta.
“Dormi amor mio nel tuo freddo letto
e nessuno ti disturbi!
La mia ultima buonanotte! Non ti sveglierai
finché la tua stessa sorte non avrò anch’io raggiunta,
finché l’età, la malattia o il dolore
non avranno congiunto il mio corpo a quella polvere
da lui tanto amata; e avranno colmato la stanza
che il mio cuore conserva nella vuota tua tomba.
Aspettami là; io non mancherò
di raggiungerti in quella valle vuota.
E non preoccuparti del mio ritardo;
sono già sulla strada,
e ti seguo con tutta la rapidità
che desiderio e dolore suscitano in me.”
Era il vuoto lasciato da Elena Zurlo, la sua scomparsa repentina dalla mia vita suscitava quel lutto improprio nella mia anima. Avevo lasciato alle mie spalle tutte le scene del mondo, perdendo la vita del giorno. Camminavo su quale strada? In quale “sublime” (sub-limen) nulla del grande infinito spazio? Nel gelo del nord, il freddo dello spirito.
Poi cominciai a ritrovarmi e fu come un risveglio. Accadde un giorno, nella sala da pranzo dell’aeroporto di una città del Veneto, non ricordo bene se Venezia o Treviso. Un uomo grasso sulla cinquantina, stempiato, con gli occhiali, l’espressione ridente, stava seduto al tavolino ad ascoltare un giovane filosofo seduto sulla sedia accanto a lui, che con leggero ghigno gli domandò: “Lo sapevi che era morto di colera?” L’altro si scostò e lo guardò: “Chi?” interrogò, l’espressione seria, anche se caratterialmente atteggiata al riso. “Hegel, nella sua Berlino, correva l’anno 1831, era il 14 novembre.” L’uomo grasso dall’espressione ridente scoppiò a ridere, una risata sincera. Rise anche il giovane filosofo, seppure in maniera più composta, soddisfatto della sua battuta, che comunque non era stata buttata lì a caso. Anche a me venne da sorridere, era come un risveglio. Il giovane filosofo continuò: “Nel 1967, accadde oggi anche un altro evento di rilievo, che ti riguarda da vicino, ingegnere, voglio dirti può interessarti.” L’ingegnere assunse un’aria attenta, l’espressione tipica di apparente riso: “Quale?” domandò. “In California, uno sconosciuto ingegnere fisico californiano, Theodore Harold Maiman, brevettò il primo LASER, a conclusione dei suoi esperimenti sull’amplificazione della luce mediante emissione stimolata di radiazioni, seguendo la teoria sviluppata cinquant’anni prima da Einstein.” L’ingegnere sorrise ironico.
Mi sono alzato dal tavolino accanto, e attraversata la sala, sono andato alla tavola calda. Alla cassa c’era sempre la stessa ragazza grassottella, a cui avevo fatto la prima ordinazione. Chiesi un altro trancio di pizza e un’altra birra, avevo l’aria distesa. A differenza della prima volta, invece di rispondere in perfetto italiano, cominciò a parlare tra sé in dialetto, credo calabrese, servendomi la seconda porzione. Avevo un po’ capito quello che lei aveva detto, traducendolo a modo mio: “Se mi avessi ascoltato la prima volta, quando avevo proposto un menù maggiorato, adesso avresti risparmiato.” Sorrisi con gratitudine, mi rispose con un sorriso professionale, pieno di tutti gli enigmi, che hanno tutti i sorrisi femminili rivolti ad un uomo. Mentre riattraversavo la sala, diretto allo stesso tavolino, quello vicino al filosofo e all’ingegnere, si accostarono due giovani che camminavano nella mia stessa direzione. Per evitare l’impaccio di una collisione rallentai, andavano proprio dove andavo io. Vidi che si erano fermati in piedi davanti ai commensali miei vicini d’occasione. Approfittai, per riprendere il mio posto e continuare a mangiare, sempre prestando attenzione a loro, m’interessava di nuovo il mondo, il prossimo ossia coloro che ci sono vicini, quelli che io avevo ignorato nel mio lungo viaggio verso un luogo indistinto e lontano, dove si smarriva e sbiadiva una figura di sogno. La ragazza stringeva l’involto con la pizza sbocconcellata nella mano sinistra, il giovane stava più indietro a mani vuote. “Papà, io sto con Franco,” disse la figlia e accennò all’amico. L’uomo s’irrigidì e lanciò un’occhiata al giovane, poi si voltò a destra dall’altra parte, quindi guardò la figlia, appoggiando le mani ai braccioli della sedia. “Va bene, noi andiamo, ciao, papà.” Il giovane gli indirizzò un timido cenno di saluto col capo, poi i due ragazzi si allontanarono insieme. Il padre si alzò, si guardò intorno, poi tornò a sedersi e fissò un punto indistinto davanti a sé. L’ufficializzazione dei rapporti tra i due ragazzi lo aveva colto impreparato, si sentiva responsabilizzato a fare qualcosa, programmare spese impreviste, forse. Il giovane filosofo lo guardava con aria di attesa, aveva alzato una mano, un gesto rimasto a mezz’aria, quasi a registrare un accaduto per lui banale. Ho definito il giovane un filosofo, perché era un volto televisivo conosciuto, un professore che aveva pubblicato diverse monografie e studi. Si definiva un hegeliano di sinistra e spiegava che la sua corrente, quella di Feurbach, Marx e Stirner, tanto per intenderci, si era disfatta dell’intrusione teologica nella metafisica hegeliana, attenendosi soltanto all’errare infinito del pensiero finito, un pensiero che si dà nel tempo come produzione di realtà sociale, economica, tecnica, come dire il materialismo storico. Guardavo l’ingegnere, l’aria smarrita, quando i due al tavolino si alzarono, sostarono un attimo in piedi, poi andarono via.
Il giorno successivo alla telefonata di Elena Zurlo, quella del 14 novembre, mi recai automaticamente sotto casa sua e le citofonai. Ero leggermente stordito, perché non avevo dormito tutta la notte, stavo lì imbambolato, aspettando non so che cosa. Un uomo uscì dal portone, mi trattenni a stento dal chiedere se conoscesse Elena. Sapevo dove lavorava, una società privata, che riceveva commissioni dall’Istituto di Statistica, decisi però di non andarvi quella mattina stessa. Una settimana dopo, ero all’ingresso della porta a vetri. Suonai il campanello, vedevo l’impiegata che premette il bottone e il vetro si mosse aprendomi il passaggio. Chiesi di Elena Zurlo. “Aspetti” disse lei, indicandomi un divanetto rosso. Rimasi in piedi ad aspettare, mentre la ragazza s’inoltrò nel corridoio. Poco dopo apparve un uomo sulla quarantina, alto, i capelli ricci biondastri, la pancia del sedentario. Mi squadrò. “Sono un amico di Elena,” dissi. “Ah!” Rimasi in silenzio. “La signora Zurlo si è assentata una settimana fa, non abbiamo avuto notizie da lei, ma sappiamo della disgrazia.” Ecco, la disgrazia! L’uomo, il direttore di quella società, poteva illuminarmi. Continuava ad osservarmi, non era possibile che io, l’amico di Elena, non sapessi. Ero sulle spine. “La notizia era in cronaca su tutti i giornali” disse. Non risposi. “Per legge, ha diritto a un congedo di trenta giorni, lutto familiare.” Non sapevo che cosa dire, quindi non insistetti. “Mi scusi, non volevo disturbarvi.” L’uomo mi guardò, sottovalutavo il suo grado di comprensione umana: “Vogliamo esprimere ad Elena il nostro cordoglio, a nome mio e di tutti i colleghi.” Dissi: “Sì, senz’altro.” Mi diede una forte stretta di mano, ringraziai e uscii.
Sapevo che a Roma, lei viveva da sola, una sorella in Svizzera, alcuni cugini sparsi in Italia e altrove, i genitori defunti. Andai a scorrere le cronache on-line dei giornali con la data successiva alla scomparsa di Elena. Trovai un incidente stradale con la morte di due anziani coniugi, alcuni casi giudiziari datati in precedenza e il ritrovamento di un giovane morto per un colpo d’arma da fuoco, apparentemente un suicidio, in una stanza d’albergo di una località turistica del litorale laziale, Sabaudia. Si chiamava Stefano Principe, un diciottenne. Si vedeva la fotografia del viso di un adolescente con gli occhiali, una foto tessera. Sul posto era sopraggiunta la madre, a fatica erano riusciti a staccarla dalla salma del figlio. “Elena Zurlo”, il dolore della sua voce, mi aveva rivelato l’altra sua identità, la penombra della sua vita, divenuta tragico incubo. Non l’ho più vista né saputo più nulla di lei. Mi è rimasta soltanto un’immagine e un nome, un’ ultima combinazione del pensiero.
“O God, I could bounded in a nutshell and count myself a King of infinite space, were it not that I have bad dreams.”
“Signore! potrei vivere nel guscio di una noce e credermi Re di uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni.”
IL SERVO FUGGITIVO
“Lo sfuggente Mercurio, che sempre si sottrae alla presa, è un vero truffatore e spinge l’alchimista alla disperazione.” Jung, “La simbolica dello spirito”.
1. Nel viale poco illuminato
L’altra sera, dopo cena, ho preso i sacchetti dell’immondizia, quelli verdi forniti dal Comune per la differenziata, con i rifiuti regolarmente divisi tra organico, plastica, non riciclabile, carta e vetro, e sono sceso sotto casa, per depositarli negli appositi contenitori dell’isola ecologica condominiale e fare due passi nel parco. Dopo avere svuotato i rifiuti, ho lasciato i sacchetti vuoti lì accanto e mi sono mosso verso il parco vicino, ho attraversato il cancello aperto e sono sceso lungo il vialetto di destra. Il parco è semibuio, perché scarsamente illuminato dalle luci dei condominii che si affacciano intorno, tranne quelle zone d’ombra situate a ridosso del più ampio Parco dell’Appia Antica con cui confina. Sul piccolo piazzale dove ci sono le altalene e gli scivoli per i bambini, la zona è illuminata da alcuni lampioncini. Sono arrivato lì e poi ho proseguito un po’ nell’ombra, dove avevo convocato due miei fantasmi, che sarebbe meglio definire due personaggi dei miei racconti, due figure della mia fantasia letteraria. I miei lettori (che bello avere dei lettori!) sanno già di chi sto parlando. Si tratta di Traseo Nera e Decio Livio, due personaggi cangianti, come cangiante è lo scorrere della vita nella realtà, ma costanti nei loro caratteri, come è costante nei suoi caratteri la vita. Ma la vita, noi ci domandiamo, è costante o non è invece incostante? Rimando la soluzione di questo quesito ad un altro racconto sull’irregolarità del tempo, ora voglio concentrarmi sul racconto di quel convegno nel buio della sera avanzata con le due parvenze di realtà, create dalla mia fantasia. Ero fermo nel piazzaletto illuminato delle altalene, e allora, per favorire l’apparizione delle mie ombre, che nella luce si dissolvono, sono avanzato nell’ombra un po’ più avanti, una penombra, perché il riflesso vicino della luce rendeva ancora possibile distinguere le sagome degli alberi, del prato d’intorno e del vialetto di ghiaia su cui sostavo.
“Eccoci, padrone!” ha detto Ladislavo. Era Decio Livio, alla sua sinistra un Traseo Nera che non era Traseo Nera. E allora se non era Traseo, quello lì chi era? Poi mi sono riavuto subito e ho detto: “Come?”, guardando Decio Ladislavo, ma tenendo d’occhio lo pseudo Traseo Nera, la cui figura un po’ più mi preoccupava, non avendone ancora stabilito bene l’identità. Ero abbastanza sconcertato, avevo evocato i miei due fantasmi letterari ed ora quelle due apparizioni, nell’ombra a mala pena illuminata del parco buio, non rispondevano alle mie aspettative. Ma quali erano le mie aspettative? Volevo confidare loro, ai miei due vecchi amici, anche se fra me e loro c’è un rapporto naturale di sudditanza, per cui tra noi non c’è una vera e propria parità, appartenendo noi a due diversi piani della realtà, io a quella che noi esseri normali consideriamo la realtà vera, loro a quella fantastica, sempre secondo il pensiero di noi normali, volevo confidare loro, dicevo, della sparizione di un post dal mio Blog. Ladislavo mi guardava, ed io riflettevo sulla sua strana battuta: “Eccoci, padrone!”. Ero sconcertato. Che cosa significava quel vocativo: “padrone!” Non sono mica Aladino, che sfrega la lampada e vengono fuori due geni, non uno! In verità il genio era Ladislavo, l’altro appariva come un suo sodale, un subordinato, ma anche un estraneo.
Ma chiariamo l’identità di Ladislavo. Avevo detto prima che i miei due personaggi erano cangianti, come cangiante è lo scorrere della vita nella realtà, ed in questo senso Decio Livio, pur rimanendo Decio, diventava Ladislavo. Ma per coloro che non ricordano questo mio personaggio, richiamo un mio racconto di qualche anno fa, che pure avevo riproposto recentemente: “Vestito di grigio flanella”. Sono andato a ripescarlo nell’archivio del computer, ma purtroppo il file era danneggiato in alcuni simboli matematici e nelle parole con alfabeto greco. Ho cercato di restaurare quelle parti, che poi non incidono sul racconto, la narrazione scorre egualmente, per chi vuole ripercorrerne il corso. Al nuotatore che voglia avventurarsi in quella corrente, consiglio di aggirare gli scogli appena vede simboli matematici, è quello che faccio anch’io quando m’imbatto in disquisizioni matematiche ricche di formule, simboli e calcoli. Comunque, onore al nuotatore o nuotatrice, a cui conferisco una medaglia d’oro virtuale al coraggio e su questo argomento basta quanto detto. È quest’ultima una formula usata da Aristotele, quando è stufo di ragionare ancora su un argomento su cui ha detto fin troppo. In definitiva, il Decio Livio da me convocato era Ladislavo non però nei panni di Ladislavo, comunque una letta di “Vestito di grigio flanella” va fatta, per comprendere meglio codesto personaggio, di cui qui riporto il ritratto: “Quando mio cugino aprì la porta, si rivelò l’inaspettata scena dell’apparizione, la chiamo così, di un vero ospite improbabile. Era questi un uomo sulla quarantina d’anni d’età, i capelli biondi pettinati con la scriminatura a destra ed il ciuffo rialzato sulla sinistra della fronte, vestito con un abito di flanella grigio chiaro, camicia bianca, cravatta grigio perla, scarpe di camoscio chiare, almeno così mi parve di notare quest’ultimo particolare.”
Ma i geni usciti dalla lampada di Aladino non erano due, perché mentre tacevo di fronte a quella situazione inaspettata, Decio Livio che è Ladislavo, e Traseo Nera che non è Traseo Nera, sentii una voce alle mie spalle: “Uno, due e tre, il quarto dov’è?” Mi voltai sorpreso al tono familiare di quella voce e lo riconobbi immediatamente: era l’Incurvato. Non si tratta di una figura dei tarocchi, era uno dei fantasmi, che assieme ad una massa di altre ombre, mi assediò davanti all’Église Notre-Dame du Sablon sulla Rue de la Régence di Bruxelles, tempo fa, ai tempi di Giano Prodigo. Riporto qui l’episodio, come lo raccontai allora: “Ed io restai abbandonato nelle ombre della sera, nel silenzio solitario della Karmelienstraat. Quindi, mi ritrovai a scendere la scalinata, dopo essere passato al buio sotto l’arco, raggiungendo i giardini della Kleine Zavel (le petit Sablon), il cuore angosciato e sgomento. A sorpresa, nel silenzio della sera, risuonò un tocco di campana: era l’invito al ritiro e alla preghiera dell’Église Notre Dame du Sablon. Cedetti ad un sentimento di pietà, il senso di commozione suscitato dalla collerica implorazione della grande fraternità, e divenni così preda dell’assalto da parte di un’onda mormorante di fantasmi. A stento distinguevo sbiadite figure, dai tratti perversi, come il veterano o l’occhialuto ambiguo, l’incurvato e il compare, la donna della collegiata, il beffardo iettatore e il buffone grottesco, la dama soluta e le rosine e i santi d’oro, ed assieme a questa piccola folla dalle sembianze cangianti e che rivelavano a tratti profili inquietanti e sconosciuti, schiere e file di ombre che si serravano, ammassandosi e stringendomi davanti alla facciata dell’Église Notre Dame du Sablon, sulla rue de la Régence, l’assedio di fantasmi, di soffocati sussurri di defunti, che si rinnovava nell’umidità della sera, come in un delirio. Non so come, forse il tocco di campana riecheggiante nel silenzio della realtà, che ricomprese e dissolse in una parentesi illusoria l’evanescente massa mormorante delle parvenze, m’incamminai sulla Régence lucida di pioggia, in direzione della Place Poelaert, sovrastata dalla sagoma scura del Palais de Justice.”
In verità, questo delirante assedio di fantasmi fu vissuto da Aristarco, il principe degli ottimi, stante il racconto che ne fa Traseo Nera a Decio Livio nel mimo scritto da me tempo fa, il tempo di Giano Prodigo. Ma chiunque capisce che tutti questi personaggi sono creature della mia fantasia, maschere che celano il mio volto. Mi pare ovvio, no? E invece no, no e no! E ripeto, battendo istericamente il piede destro a terra ogni volta con la negazione: no, no e no! Capito? No, no, e no! Beh, adesso basta! Come no?
Io, nei miei personaggi, sono il dio straziato, quello che sopporta tutti i dolori, e pertanto il dolore del grande Aristarco di quella sera davanti all’Église Notre Dame du Sablon è il mio dolore, ma nella situazione concreta chi sopporta il dolore è Aristarco. Infatti, Traseo Nera, che riferisce dell’episodio, dice all’amico: “- A questo punto, Livio, il grande Aristarco ebbe un sussulto, come se qualcosa fosse di colpo traboccato dal suo cuore. Che accadeva?” E quel buffone di Decio Livio, insensibile al dolore altrui: “- Io resto silenzioso, Nera, ad ascoltarti, immobile, come un felino sorpreso nel buio della notte dalla bianca luce della luna.” Si diverte. E Nera: “Di nuovo le tue poetiche immagini, Livio, ispirate a menti sognatrici. Che accadeva, dunque, al sapiente Aristarco? Rialzò il capo, che aveva chinato e guardando davanti a sé, l’espressione incrinata come dall’ombra di un dolore, egli riprese il suo racconto: “E poi li ho visti, fermi, in piedi, sotto la pioggerellina fine, ed avvertii una stretta al cuore. Ho riconosciuto, io, ormai, adulto, gli affetti più cari della mia infanzia, quelli che mi avevano più di tutti al mondo teneramente amato ed il cui amore mi aveva sempre sorretto negli anni e nei giorni. Come dice il poeta, di cui riportano le suggestive immagini i sapienti professori? “Mi si apre un abisso nell’anima e un soffio freddo dell’ora di Dio mi sfiora il volto livido. Il tempo! Il passato! Ciò che sono stato e non sarò mai più! Ciò che ho avuto, e non riavrò! I Morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li evoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante il silenzio sbarrato di tutte le porte.” Che dire? “- Chi, dunque, il poeta, Nera? - Fernando Pessoa. - Ah!” Quindi il dolore è mio, di Pessoa e di chi altro s’immedesima nella situazione, ma soprattutto è di Aristarco. Se non vi fosse il dolore di Aristarco, come potrebbe giungere l’insensibilità di Decio Livio di fronte al dolore altrui? Spiegheremo meglio in seguito questo concetto, che riguarda la psicologia del profondo, di cui peraltro stiamo trattando, ora, in questa mia narrazione, come presto emergerà.
L’Incurvato, così detto, perché dopo le sue battute abbassa la testa di lato e curva le spalle, per non farsi sorprendere dalla reazione di quelli a cui le ha indirizzate, essendo spesso velenose le sue battute, adesso rideva. Che cosa aveva detto di male? Nulla. Infatti, continuò a fissarmi, ridendo, senza curvarsi né fare l’atto di curvarsi.
Io mi rabbuiai improvvisamente, come colsi nell’espressione leggermente smarrita dell’Incurvato, che non capiva il motivo della mia contrarietà. Allargai a metà le braccia, come a trattenere una reazione delle mie tre ombre e mi spostai di alcuni passi nel prato, dov’era più scuro, seguito da loro. Restai un attimo in attesa e poi sentii lo scalpiccio sempre più distinto. Quindi si profilò l’ombra di un uomo, un vecchio, sicuramente oltre i sessanta, di circa settant’anni direi e forse più. Il vecchio si fermò dov’ero poco prima, diede uno sguardo distratto nell’oscurità dalla nostra parte, dalla mia parte, dico, se non vogliamo dare consistenza di figura visibile ai miei fantasmi, poi il vecchio guardò in alto verso le finestre illuminate dell’ultimo piano dell’edificio condominiale dove abito. Restò ancora a guardare, quindi distolse lo sguardo, si voltò dalla mia parte e mi sembrò che ghignasse, ma forse fu una mia impressione, quindi se ne andò. Un po’ dopo uscimmo dall’oscurità e ci spostammo di nuovo nella zona un po’ più illuminata. L’Incurvato guardava con evidente tensione nella direzione dove il vecchio inopportuno si era allontanato, Decio Ladislavo mi diede un’occhiata, anche lui con l’aria tesa, quindi anche lui guardò nella direzione in cui guardava l’Incurvato. Lo pseudo Traseo Nera invece mi fissava con aria irridente, forse era un complice del vecchio inopportuno. Allora dissi: “Beh, ragazzi, adesso andiamocene.” Ora anche Decio Ladislavo mi guardava, come ridendo a denti stretti, e così anche l’Incurvato. Era come se avessi perso il mio potere sui miei tre fantasmi, per quella visita, inopportuna e molesta, quasi fosse la figura del vecchio una potenza che mi soverchiava, per cui perdevo carisma e autorità nei loro confronti. Mi avviai su per il viale verso l’uscita del parco, lasciando i fantasmi alle mie spalle. Capivo di stare ripercorrendo le tracce di quel molesto visitatore, che aveva interrotto la nostra piacevole riunione, mi sentivo vecchio come lui, io, io che avevo… quanti anni? Tanti. Tanti quanti? Quanti il vecchio.
2. In casa, davanti al computer
Poco dopo, ero di nuovo seduto davanti allo schermo del mio computer e fissavo il mio blog. Il post era ricomparso, ma prima di specificare i particolari di questa sparizione e successiva riapparizione, abbastanza inspiegabile, vorrei riferire del dubbio che in quell’occasione mi colse. Mi ricordai dei sacchetti verdi della raccolta differenziata che avevo lasciato davanti all’isola ecologica condominiale e mi rialzai, per scendere di nuovo giù a riprenderli. Prima di andare alla porta, passai però in cucina a dare un’occhiata: i sacchetti verdi erano là, indubitabilmente, con le loro scritte bianche in stampatello: carta, vetro, plastica, organico, non riciclabile. Mi concentrai sul fatto che i rifiuti in plastica vanno assieme al metallo, ma capii che scantonavo. Chi aveva riportato su i sacchetti? Io. E quando? Poco fa. Ero incantato nei pensieri sull’occorso nel viale poco illuminato del parco, risalendo verso casa, e automaticamente, in maniera irriflessa, avevo ripreso i sacchetti verdi, deponendoli quindi al loro posto, e poi ero ritornato al computer. E il post? Idem con patate, forma colloquiale che sta per: “Lo stesso come già detto poc'anzi”. Ma era necessario specificarlo? Che cosa? Che idem con patate significa etc. Sì, anzi no, non lo so.
Ecco, penso di avere guadagnato le tre alternative, che possono opporsi all’affacciarsi di un dubbio. Allora, ero veramente sceso poco fa a convocare i fantasmi ed era veramente accaduto quello che ho raccontato? La risposta “non so” non esclude né la prima né la seconda alternativa. Quindi, eliminiamola, manifesta solo reticenza di fronte ai legittimi dubbi della ragione. Se era vero, era tutto abbastanza fantastico e inverosimile, almeno come raccontato. Se era falso, o avevo immaginato il tutto stando seduto davanti al computer o effettivamente ero sceso giù nel parco, per controllare se il filo dell’antenna parabolica sul terrazzo, sopra le finestre illuminate della mia abitazione, non fosse fuori posto, a causa del vento. Ogni tanto, durante un programma televisivo, l’immagine scompare e appare l’avviso: “Nessun segnale dalla parabola”. E poi mi ero inventato la storiella dei fantasmi, il gusto di affabulare.
Diciamo che questa è l’ipotesi più plausibile, ma ad essa io vorrei opporre lo stesso interrogativo angoscioso di Guglielmino e della storia degli “ottanta cavalli”. È il figlio adolescente del defunto giardiniere del condominio, che abita con la madre in una delle vicine villette a schiera attorno al parco. Una sera, mentre tornavo verso casa, l’ho incrociato sulla strada, affannato veniva di corsa dal parco. Nel vedermi si è fermato e notando il mio sguardo interrogativo, ha detto, indicando il buio dietro di lui: “C’erano ottanta cavalli, poco fa, che correvano all’impazzata nel parco”. “Ma come è possibile?” ho risposto, bonario, nella quiete dell’ora tarda di sera. “Eppure io li ho sentiti!” “Guglielmino, non ci sono ottanta cavalli nel parco!” “Sì, è vero,” ha ammesso il ragazzo. Quindi, dopo un attimo di riflessione, ha posto il dubbio: “Ma, allora, chi faceva tutto quello strepito nel parco?” Ho accompagnato Guglielmino fino alla sua villetta: “Ciao, buona notte.”
Io, poco fa, dopo cena, sono sceso giù a fare due passi: “Post prandium aut stare aut lento pede deambulare”. Nell’occasione, ho portato i rifiuti nell’isola ecologica condominiale, mi sono avventurato per un tratto nel parco, per controllare l’antenna in alto sul terrazzo, poi sono risalito fuori, ho ripreso i sacchetti vuoti, e venuto su a casa, mi sono seduto davanti al computer. Ma, allora, quei quattro fantasmi, che confabulavano tra loro nell’ombra del parco, vicino allo spiazzetto illuminato con gli scivoli e l’altalena, chi erano?
Il post sparito dal mio Blog era quello posto accanto all’immagine della Lupa, una scultura della Grote Markt di Bruxelles: “La palla d'oro. All'indomani della mia morte.
Dialogo su uno strano gioco e sul congedo di un indefinibile alchimista.” Ero riuscito a recuperare il file e l’avevo rimesso a posto. Nel rileggerlo, mi sono soffermato sul secondo paragrafo: “L’alchimista”. Nel commentare il brano della “palla d’oro” di Nietzsche, Jung dice: “Vedete, l’idea più alta insegnata da Zarathustra è che il superuomo è identico a una palla, e la palla è il globo, la rotondità perfetta che esprime l’uomo primordiale, l’uomo che era prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate… l’idea del superuomo è un’idea mistica estremamente antica che ricompare sempre di nuovo nel corso dei secoli… - Che cos’è Nietzsche, dopo tutto? Non è che il ripresentarsi di uno di quei vecchi alchimisti: Nietzsche è un prosecutore della filosofia alchimistica del Medioevo.” A suo tempo, avevo chiuso là il discorso e concluso il mimo con un po’ di autoironia. Non mi sembrava la sede opportuna, per commentare e spiegare Jung, anche perché allora non avevo ancora approfondito il suo pensiero sull’alchimia.
Ora, colgo l’occasione per parlarne, vista che l’occasione è per me ancora possibile, in quanto non siamo ancora all’indomani della mia morte, ovviamente mentre scrivo, “non certo” quando queste righe verranno lette, nel senso che l’incertezza riguarda le eventuali future letture di queste righe. Bon! Spiegherò dopo il titolo: “All’indomani della mia morte”, ora parliamo di Jung, anzi lasciamolo parlare.
“Il dio dai mille mutamenti e raggiri non è morto, né col tramonto dell’età antica né in seguito, ma è sopravvissuto travestito in strane fogge, per molti secoli fino all’età moderna, e con le sue arti ingannevoli e i suoi doni salutari non ha dato tregua allo spirito dell’uomo.” È l’incipit di “Der Geist Mercurius”, Conferenza di Ascona del 1942.
Quindi, Jung riporta il sunto di una favola dei fratelli Grimm: “Lo spirito nella bottiglia”, che io qui riduco ancora al minimo: “Un contadino non può più mantenere agli studi il figlio, allora per fare un po’ di soldi, va a tagliare legna nel bosco, accompagnato dal giovane. Mentre lavorano, vicino alle radici di un albero sentono una vocina, il giovane scava e sotto terra scopre una bottiglia, l’alza e contro luce vede un ranuncolo, che si agita nella bottiglia e implora: “Liberami! Liberami!” Solleva il tappo e fuoriesce uno spirito che s’ingigantisce e diventa un mostro orrendo alto come l’albero, che grida: “Ti devo rompere l’osso del collo.” Al giovane spaventato, per questa sorte, urla: “Credi forse che io sia stato rinchiuso tanto tempo per grazia? No, era per punizione. Io sono il potentissimo Mercurio; a chi mi libera, devo rompergli il collo.” Il giovane chiede una prova per sapere se è vero. Lo spirito rientra nella bottiglia e il giovane subito la chiude con il tappo. Lo spirito implora di essere nuovamente liberato e promette che in compenso lo farà diventare ricco. Il giovane prova, lo spirito esce e gli dà uno pezzo di stoffa, che da una parte cura le ferite e dall’altro muta il metallo in argento. Il giovane diventa ricco e può tornare agli studi, s’iscrive all’università, diventa dottore e guarisce tutti con il pezzetto di stoffa.”
Jung interpreta la favola in chiave alchemica. L’essenza mercuriale, ossia il principium individuationis, tende a svilupparsi liberamente in circostanze naturali. Il principio viene ripreso dalla filosofia di Schopenhauer, per il quale Il mondo non è altro che la rappresentazione differenziata di una stessa unica Volontà di vivere (Wille zum leben). Oggetto di rappresentazione, la Volontà si manifesta illusoriamente (Velo di Maya) attraverso gli individui, apparentemente differenziati e irrimediabilmente separati l'uno dall'altro. Il principio d’individuazione, per Jung, è il processo, in base a cui la persona diventa sé stessa, un essere unico e differenziato dalla psiche collettiva e inconscia. Questo sviluppo viene privato della sua libertà da una violenza esterna intenzionale, che lo imprigiona con un artificio, confinandolo come spirito maligno. Infatti, commenta Jung, soltanto gli spiriti maligni vengono confinati! Il proposito omicida rivela la malvagità dello spirito. Risulta quindi meritoria l’opera compiuta dal maestro alchimista d’imprigionare il principium individuationis, seppellendo il male naturale alle “radici” dell’albero, cioè sotto terra, come dire nel corpo, nella materia. In quest’opera l’alchimista imita il Creatore. La semplice istintualità e l’ingenua inconsapevolezza dell’essere naturale, non turbata dalla coscienza, quando viene interrotta nel suo libero sviluppo, rivela la distinzione del bene e del male e quindi la scienza morale e la colpa. Per gli alchimisti, la bottiglia, il vas hermeticum, chiusa “ermeticamente” con il sigillo di Ermete, doveva essere un vitrum, possibilmente rotondo, simbolo dell’universo, in cui la terra venne creata. Storicamente, lo spirito cattivo imprigionato era il dio pagano, confinato con l’avvento del Cristianesimo.
Queste spiegazioni di Jung vanno interpretate alla luce del suo pensiero che riteneva la persona come l’insieme sia del bene che del male, la sua parte oscura quest’ultima, l’Ombra. E nei suoi studi su psicologia e religione, discute il simbolo della quaternità, che nell’inconscio dell’uomo areligioso moderno si sovrappone allo schema trinitario. Che cosa aveva detto ridendo l’Incurvato, riproponendo la battuta di Jung, che parafrasa l’incipit del “Timeo” di Platone: “Uno, due, tre, il quarto dov’è?”
La palla d’oro, il globo di vetro alchimistico, indica la completezza dell’uomo, prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate. Ecco perché Jung dice che l’idea di Nietzsche non è altro che il nuovo riproporsi della figura medievale dell’alchimista.
Il servus fugitivus è il fluido mercuriale volatile, con le ali ai piedi, come dice Jung, lo sfuggente Mercurio, che sempre si sottrae alla presa, un vero truffatore che spinge l’alchimista alla disperazione. Se, però, si riesce a trattenerlo nel “vas hermeticum”, allora il selvaggio Mercurio diventa uno spirito servizievole, obbediente, familiaris.
Ed ora illustriamo il titolo: “All’indomani della mia morte.” Io mi presento come un indefinibile alchimista, che prima di lasciare il suolo di questa terra, lancia ai suoi amici la “palla d’oro”, il lascito spirituale di tutto quel materiale psichico disordinato, che costituisce la sua “letteratura” sotterranea. In tale veste, mi raffiguro come un autore postumo, di cui rimane, all’indomani della mia morte, una beffarda eredità.
Resta un ultimo interrogativo, vago e sfuggente, che aleggia nell’aria. Ma la figura di questo alchimista, a ragione definitosi “indefinibile”, non è forse la maschera dietro cui si nasconde il demone dei misteri di tutti i tenebriones?
LA NOTTE PSICHICA
“Finché il sole
risplenderà sulle sciagure umane.”
I Sepolcri, Ugo Foscolo
L’interrogativo retorico e allusivo con cui si chiude il testo del servo fuggitivo fa riferimento al demone dei misteri di tutti i tenebriones. L’espressione è di Jung, e di chi altri poteva essere se non di questo medico psichiatra, che stando a contatto ogni giorno con le anime oscure (quest’ultima espressione è mia) cercava di sondarne il buio profondo del loro inconscio? Appropriandomi del tocco misterico del nome, per farne maschera del mio personaggio di alchimista indefinibile, ponevo l’interrogativo su questa figura tenebrosa e sulle trame oscure ch’egli va tessendo come protagonista occulto. Ed allora seguiamo il filo della trama del racconto, attraverso cui si giunge fino a quest’ultimo interrogativo.
Il “servo fuggitivo” si compone di due parti, la prima come narrazione, la seconda come riflessione. L’inizio descrive un’azione banale della realtà quotidiana, che subito scivola nel fantastico, secondo lo schema stilistico del genere, un fondere la realtà con l’immaginario, una tecnica poetica insuperata nell’arte visionaria di Borges, ma anche di Pessoa ed altri virtuosi della letteratura.
Se nello stile del narrare della prima parte imitavo, o cercavo di farlo, i due poeti e gli altri, nell’andamento discorsivo della seconda parte, il mio intendimento era non solo d’illustrare certi contenuti di “La palla d’oro”, il post del mio Blog, che per errore avevo cancellato e poi ripristinato, ma anche la psicologia dell’inconscio di Jung, in relazione ai suoi studi sull’alchimia. Pretenziosamente, infatti, dicevo: “Spiegheremo meglio in seguito questo concetto, che riguarda la psicologia del profondo, di cui peraltro stiamo trattando, ora, in questa mia narrazione, come presto emergerà.” Era l’aspetto relativo al giudizio morale, che discende dall’ambiguità propria della natura umana, secondo la visione di Jung, alla luce della dottrina alchemica. Dovendo commentare la scissione che il dolore provoca nel cuore degli uomini, in cui si riversa con sentimenti contraddittori, nell’artificio narrativo scindevo la mia natura unica di creatore artistico (chiedo scusa della definizione che mi attribuisco) in due personaggi differenti, in cui si rivela la contraddizione tra bene e male: “Se non vi fosse il dolore di Aristarco, come potrebbe giungere l’insensibilità di Decio Livio di fronte al dolore altrui?” Come vuole Jung, seguendo certe dottrine gnostiche, l’indistinzione del bene e del male ha la sua radice nell’unitarietà del principio.
Ed ecco allora la scissione dell’uomo primordiale, “l’uomo che era prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate… l’idea del superuomo è un’idea mistica estremamente antica che ricompare sempre di nuovo nel corso dei secoli… - Che cos’è Nietzsche, dopo tutto? Non è che il ripresentarsi di uno di quei vecchi alchimisti: Nietzsche è un prosecutore della filosofia alchimistica del Medioevo.”
Senza discutere sulle verità dottrinarie dell’alchimia, consideriamo le conseguenze delle due entità separate dell’uomo, riferendoci alla sua ombra, quella notturna e passionale della notte e cerchiamo di addentrarci nelle buie profondità dell’Inconscio, dove si agita il demone dei misteri di tutti i tenebriones. È lui che muove questa massa oscura, gli “ottanta cavalli” impazziti nella notte del parco di Guglielmino?
Se vogliamo dare espressione alle tenebre del desiderio che possiedono l’uomo, possiamo rifarci a un’immagine da me evocata altrove, quella dell’onda nera della materia, che improvvisa si solleva ad afferrare per il collo, in una stretta mortale senza scampo, lo Spirito della luce disceso nei suoi oscuri fondali, dove rimane avvinto per sempre. È una figurazione che può riproporsi qui, dove la lotta non si svolge più sullo sfondo di scenari in grandezze su scala cosmica, la gigantesca allegoria gnostica che ci racconta l’alba del generarsi dei mondi, ma viene riferita all’individualità spirituale dell’uomo, la sua coscienza lacerata dalla contesa tra il bene e il male. È un conflitto interiore alimentato dalla sorgente di vitalità naturale, che trova espressione nella pienezza della libertà. Succede poi che la libertà, sull’orlo del precipizio, rivolgendo lo sguardo dalla sua altezza infinita al fondo dell’abisso, venga colta da vertigine e finisca per precipitarvi, realizzando la caduta nella materia finita, di cui rimane prigioniera. Ma la vertigine appartiene alla luce del giorno, che sola rende possibile lo sguardo nell’abisso, altrimenti insondabile. Ed è l’apertura solare del giorno che rende visibile il muoversi e l’agire dell’uomo, secondo le sue abitudini e i suoi costumi (mores) di vita, rendendo in tal modo possibile la pronuncia di un giudizio morale sulle sue azioni. Al contrario, il buio della notte nasconde nello spessore delle sue tenebre ogni nero desiderio, in tal guisa indistinto allo sguardo e quindi impossibile da giudicare. È la notte dei sensi priva della luce dell’intelletto a dissolvere tutte le differenze, fondendole nel magma di una massa oscura, l’onda nera impenetrabile della materia.
Nella favola dei fratelli Grimm, lo spirito del genio maligno è sepolto sottoterra, dove si ramificano le radici dell’albero che rappresenta la vita. È solo quando viene liberato, che lo spirito può rivelare, grazie alla impietosa luce del giorno, il suo genio maligno, seppellito fino ad allora nell’oscurità della terra.
La luce impietosa, in cui si rivela la malignità del genio, corrisponde alla grande ora mistica, l’ora del mezzogiorno, in cui secondo la mitologia greca, nel sogno meridiano di Pan, “come un improvviso scoppio di tuono nell’aria incandescente”, ha luogo l’apparizione degli spettri, le Sirene e le Ninfe. È l’ora della febbre che colpisce in pieno giorno, menzionata nel versetto biblico del Salmo 91/6, quella a cui si riferisce Giovanni Cassiano, monaco vissuto a cavallo del IV e V secolo: “I nostri antichi padri la chiamano del “demone meridiano”, del quale parla il salmo nonagesimo”.
Accade allora che i delitti meditati nelle tenebre, “la peste che colpisce a mezzanotte”, secondo l’altro verso del distico biblico, Salmo 91, vengano compiuti “sotto il sole di Satana”. Se la notte cela il mistero, le tenebre del desiderio prendono forma alla luce del giorno. E in verità, i mostri generati dal sonno della ragione possono fare la loro apparizione soltanto di giorno, quando la luce li rende visibili. Ecco perché il più grande cantore delle epiche gesta dell’antichità è Omero, "colui che non vede" (ho mè horôn). Soltanto come visioni poetiche fantastiche, infatti, possiamo prestare lo sguardo agli spettacoli delittuosi della Storia, lo scorrere del sangue, gli assassinii, le guerre. Sono i sepolcri, i monumenti dei giardini di pietra, i viali di palme e cipressi a custodire la memoria poetica: “Un dì vedrete / mendico un cieco errar sotto le vostre / antichissime ombre, e brancolando / penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne / e interrogarle. Gemeranno gli antri / secreti, e tutta [la storia d’Ilio] narrerà la tomba.”
Nella suggestiva successione romantica delle immagini poetiche del Foscolo è alla fine il trionfo di luce ad illuminare la tragica vicenda umana ordita nella sua notte psichica: “Finché il sole risplenderà sulle sciagure umane.”
L’INCONSCIO NELL’ARTE
Non abbiamo potuto proseguire il nostro percorso nell’officina infernale della notte dei misteri custodita dal demone principe di tutti i tenebriones, perché siamo andati ad immergerci e quindi a fonderci nella massa oscura, l’onda nera della materia (la “selva oscura”), in cui fondendosi la nostra anima (psiche) si è smarrita. Qui il nostro inconscio individuale, immerso nelle acque buie dell’inconscio collettivo, avrebbe dovuto inviarci in forma simbolica il contenuto profondo delle immagini primordiali, gli archetipi junghiani, figurandoli nei nostri sogni. Soltanto così avremmo potuto vedere sfilare in immagini le forme tenebrose dei nostri desideri notturni. Ora, questo viaggio precluso alla mia fantasia psichica ha avuto la possibilità magari (eccome non l’ha avuta!) di essere compiuto da anime più profonde e geniali, grandi artisti che hanno saputo esprimere in pittura o in poesia le immagini dei sogni, i loro incubi e deliri, che appartengono a tutti noi, e ce ne hanno fatto partecipi. E allora come non potremmo riconoscere in “Caron dimonio, con occhi di bragia” il volto di un principe dei tenebrosi? E così per le tante altre infernali immagini dantesche che descrivono i patimenti dei dannati, il giusto contrappasso, che compone insieme il bene e il male. E che dire della “Chevauchée de Faust et de Méphistophélès devant le gibet de Montfaucon”, dipinto ad olio dell’artista Joseph Thierry, custodito nella Biblioteca del Museo dell’Opera di Parigi? Un quadro ispirato ai versi immortali di Goethe: “Nella campagna di notte Faust e Mefistofele al galoppo su cavalli neri”. Il dipinto è conservato nel tempio della musica, perché sogni, incubi e deliri trovano espressione in quell’elemento, il dionisiaco, che muove le passioni sotterranee, risplendenti nella luce apollinea del giorno. Bene lo sapeva Nietzsche autore della sua prima opera giovanile: “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”.
In musica, il poema di Goethe è stato adattato da Hector Berlioz: “La dannazione di Faust”, composizione per coro e orchestra, “una leggenda drammatica”. "Pianure, montagne e valli, la corsa verso l’abisso di Faust e Mefistofele, al galoppo su due cavalli neri". Le battute scambiate tra i due personaggi durante la cavalcata notturna, evocanti le stregonerie, nella musica di Berlioz diventano il momento principale, inventato dal compositore, alla fine del quale l'eroe, dannato, sarà trascinato nell'inferno. Non vengono risparmiati gli effetti: un ritmo sconvolgente delle corde evoca la cavalcata infernale, mescolata a un coro di contadini, i cui inni vengono disturbati dal galoppo dei cavalli. I "mostri orribili", i “grandi uccelli notturni", gli "scheletri danzanti" sono illustrati dalle basse note dei tromboni accompagnate da fagotti, clarinetti, oficleidi e tube. La caduta nell'abisso è seguita da un silenzio ancora più suggestivo, perché preparato da una progressione di tutte le forze dell'orchestra verso il “tutti fortissimo”.
Nella sua “Storia della letteratura italiana”, Francesco De Sanctis ha scritto: “La lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtù. Questa è la base della leggenda del Dottor Faust che vendé l'anima al diavolo, leggenda così popolare al Medio Evo, e resa immortale da Goethe.”
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