venerdì 31 ottobre 2025

Narrativa

 


           Il libro di Attanasio



8 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

IL LIBRO DI ATTANASIO

1. Un’impossibile salvezza
“Si trovano ottocento porte per ottocento giusti, un giusto vale tutti i giusti.” Questa affermazione, l’autore sugli “Studi sull’Aldilà”, riferiva di averla ricavata dal “Libro di Attanasio”, un testo apocrifo di data incerta, probabilmente tra il I e il II secolo d.C. Mi sono sempre chiesto il perché di quel numero, ma andiamo per ordine, e spiego dove e come ho letto questa frase, e perché mi è tornata recentemente alla memoria. Anni fa, viaggiavo per l’Italia e l’estero, quella volta ero andato con Maria Giulia, la mia compagna degli ultimi anni della mia vita, allora eravamo all’inizio della nostra relazione, dicevo ero andato, o meglio eravamo andati a Firenze da Roma, dove siamo diventati stanziali. Lei proveniva dalla Tunisia, dove era nata da genitori italiani, io da Napoli, ci siamo incontrati ad Ischia, in vacanza, ci ritrovammo l’anno dopo a Paestum, in visita ai templi, da allora stiamo insieme, viaggiamo, e facciamo base nella capitale. Nella biblioteca nazionale di Firenze, trovai un libro, credo di uno scrittore tedesco, non ricordo bene il titolo, soltanto il sottotitolo: “Studi sull’Aldilà”. Parlava dei vari miti d’oltretomba degli Egizi, dei greci, dei latini, di testi ebraici e testi dei primi secoli cristiani e dell’alto Medio Evo, e di antichi apocrifi, tra cui quello abbastanza sconosciuto forse di un monaco cristiano d’Oriente, tradotto dal greco, a cui era stato dato il titolo, è presumibile, dal nome dell’autore: “Il libro di Attanasio”.
Il riferimento era alla Bibbia ebraica: dopo la morte, le anime andavano nello sheol e di lì o precipitavano nella geenna, un luogo di eterno castigo, oppure erano destinate ai giardini dell’Eden, come ricompensa per la loro buona condotta di vita. Nei cieli era situata la dimora di Dio, e si trovavano anche ottocento porte per ottocento giusti: un giusto vale tutti i giusti, era il commento. Perché ottocento? Indubbiamente, si trattava di un numero simbolico, ma qual era il simbolo? E il commento non aiutava a chiarire: “Un giusto vale tutti i giusti.” Poi, gli interrogativi si dissolsero, non appena io e Maria Giulia ci ritrovammo al Ponte Vecchio, nel pomeriggio lei aveva fatto shopping, passeggiammo ancora un po', quindi andammo a fare uno spuntino serale, e in attesa del treno per Roma, ci intrattenemmo in Piazza della Repubblica. Non so perché, ma al mio sguardo il grigio crepuscolare del giorno alla fine rischiarò la piazza di una luce irreale, come confusa con le ombre imminenti della sera impallidite dall’illuminazione pubblica. Volsi lo sguardo al cielo, ancora chiaro nell’azzurro imbrunito, ed ebbi come il senso dell’eskaton, l’attesa del compimento del mio destino ultimo. Era la suggestione delle mie letture o il momento esistenziale? Così quella sera, le sue luci irreali, non vicina ad altre ombre e luci irreali di altre sere.

Silvio Minieri ha detto...

Un giusto vale tutto i giusti, la scelta dei principi nell’azione, la legge morale di Kant, l’associazione di idee, devo dirlo, mi venne in mente leggendo “Le parole” di Sartre, le ultime pagine dell’autobiografia del filosofo francese, dove conclude, individuando nella scrittura il fine della sua vita: “Una mattina , nel 1917, a La Rochelle, aspettavo i mie compagni con cui andare insieme al liceo; erano in ritardo e presto non seppi più che cosa inventare per distrarmi, decisi di pensare all’Onnipotente. Immediatamente scivolò nel cielo e sparì senza dare spiegazioni: non esiste, mi dissi con stupore di cortesia, e credetti risolto il problema. E in certo modo era risolto, dato che mai, in seguito, ho avuto la minima intenzione di riaprirlo. Ma l’Altro rimaneva, l’Invisibile, lo Spirito Santo, colui che era garante del mio mandato e che signoreggiava la mia vita, per mezzo di grandi forze anonime e sacre. Di quello feci tanto più fatica a liberarmi, in quanto si era installato nella parte posteriore della mia testa, nelle trafficate nozioni di cui mi servivo per capirmi, situarmi e giustificarmi. Scrivere fu per molto tempo un chiedere alla Morte, alla Religione, in forma mascherata, di strappare la mia vita al caso. Fui sacerdote, militante, volli salvarmi per mezzo delle opere; mistico, tentai di svelare il silenzio dell’essere, per mezzo di un rumorio irritato di parole, e soprattutto confusi le cose con i loro nomi: è avere fede. Avevo le traveggole, finché le ebbi, mi ritenni fuori pericolo. Mi riuscì a trent’anni questo bel colpo di scrivere in “La Nausea” – davvero sinceramente, credetemi – l’esistenza ingiustificata, salmastra dei miei congeneri e di mettere la mia fuori causa. […] L’illusione retrospettiva è in briciole; martirio, salvezza, immortalità, tutto si deteriora, l’edificio cade in rovina, ho acchiappato lo Spirito Santo nelle cantine e l’ho discacciato; l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro: io credo di averla condotta in porto. […] Ho smesso di investire, ma mi sono spretato: scrivo sempre. Che c’è da fare di diverso. Nulla dies sine linea. È la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n’è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo a offrirgli la sua immagine. […] Il mio unico problema era di salvarmi, a mani vuote e a tasche vuote, per mezzo del lavoro e della fede. Di colpo, la mia pura opinione non mi sollevava sopra a nessuno, senza equipaggiamento, senza attrezzatura, mi sono messo per intero all’opera per salvarmi tutto per intero. Se ripongo l’impossibile Salvezza nel ripostiglio degli attrezzi, che cosa resta? Tutto un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque li vale.”
Chi legge con attenzione quest’ultima riga, il sigillo dell’autobiografia del filosofo francese, vi legge la sua massima morale, per una “impossibile Salvezza”. L’ateo pone a fronte del credente la sua etica: l’umanismo. Il senso ingiustificato della vita non è nella Salvezza e nella giustizia di un Dio che non esiste – coerentemente, in “L’Essere e il Nulla”, Sartre definisce quella di Cristo una passione inutile – ma nell’essere uomo, come tutti gli altri uomini: ogni azione di un uomo vale tutte le azioni degli uomini.
Questa estensione del comportamento morale di ognuno nella regola più generale del comportamento umano è di chiara derivazione kantiana.

Silvio Minieri ha detto...

“In verità, è preferibile, nel giudizio etico, procedere sempre secondo il metodo rigoroso, e porre a base la formula generale dell’imperativo categorico: agisci secondo una massima che possa farsi al tempo stesso legge universale.” (“Fondazione della metafisica dei costumi”) Quello che di kantiano si può leggere in Sartre è quel ricorso del filosofo illuminista al principio dell’universalità: “I tre modi di rappresentare il principio della moralità non sono, in fondo, se non altrettante formule di una medesima legge, ognuna della quale racchiude in sé le altre due.” Kant esplicita quindi il tratto comune alle tre massime, le “formule”, consistente in tre aspetti: forma, materia, determinazione. Ai nostri fini, interessa, il primo: “Una forma che consiste nell’universalità; e allora la formula dell’imperativo etico si esprime così: doversi scegliere le massime come se avessero da valere come leggi di natura.”
Questa dialettica tra libertà individuale e totalità degli altri esseri umani, che per Kant sono gli esseri razionali, è stata discussa da Sartre nell’ultima sua opera: “Critica della ragion dialettica”. Egli parte dal confronto dialettico tra esistenzialismo e marxismo, filosofia dominante, avente carattere storico, quindi unico strumento per interpretare la realtà del tempo e spiegare la dimensione essenziale della storia. Al contrario del pensiero borghese, che considera l’individuo un modello astratto, Sartre definisce l’individuo un soggetto reale condizionato dai rapporti di produzione, in relazione con altri individui nella sua condizione. Pertanto, parlare dell’individuo significa parlare di tutti gli altri individui, salvando però la specificità del singolo, il suo modo particolare di vivere la totalità. Non sono gli individui ad essere condizionati dai rapporti di produzione, ma è la loro azione a condizionare storicamente tali rapporti, ed in tal modo si fa salva la libertà dell’azione, contro un certo economicismo marxista, che riduce l’attività umana ai rapporti materiali di produzione, negando quella forma di umanismo in cui consiste l’esistenzialismo. (“L’esistenzialismo è un umanismo”, Conferenza, 1945). Sartre è un filosofo del ‘900, condizionato dal pensiero marxista,
Kant è un filosofo illuminista del Settecento, il secolo della Ragione e dei Lumi, noi ora torniamo nei secoli bui del Medio Evo.

Silvio Minieri ha detto...

2. La logica del numero tondo

“… nell’egizia Tebe
per le cento sue porte”
(Iliade, IX, 495-6)

Le cento porte di Tebe egizia erano davvero cento? Maria Giulia sta facendo le parole crociate: “La città delle cento porte può essere Tebe? “Sono quattro caselle, le manca qualche incrocio. “Sì”, confermo. “Certo, te l’ho detto io.” E chi altri se no? La logica femminile è ferrea, inoppugnabile. Non replico, vado a controllare sul web, ricordavo la storia della Grecia antica: Atene, Sparta, Tebe. E a proposito del web, una mia conoscente che non si fidava di quello che dicevo andava a controllare continuamente sul suo iPhone le mie affermazioni. E io mi ricordavo altre verità sul tempo, quello meteorologico: “Che tempo fa oggi?” Fuori è nuvoloso, molto nuvoloso, il vento è cessato, sta per piovere. Risposta: “Non piove, c’è il sole.” Chi ha risposto, forse Maria Giulia, dice che ha appena controllato su internet. “Fuori c’è un sole splendente” dico, ma non attendo la replica. Mi ricordo di quel sergente che faceva lezione ai soldati: “Se io dico che fuori piove, ma fuori c’è il sole, e vi domando se fuori piove o c’è il sole, voi che rispondete? Qualcuno si volta a guardare fuori dalla finestra, gli altri rimangono in silenzio, aspettano da lui la risposta, hanno ragione. Non è il sergente a fare la lezione e a spiegare ai soldati quello che devono dire? Il sergente dubita se qualcuno ha capito che sta usando una metafora per spiegare il regolamento militare, ossia che i soldati devono eseguire gli ordini impartiti, anche se irragionevoli o apparentemente tali. Ma questo i soldati lo sanno bene, chissà se la pensano come quel generale di Hitler, che appena arrivava un ordine da Berlino, subito pensava a come fare per non eseguirlo. Non credo però se questa situazione possa paragonarsi all’interpretazione delle condizioni atmosferiche.
Comunque, sono andato a controllare sul web, per capire se Tebe fosse la città delle cento porte, e ho trovato la citazione del Libro IX dell’Iliade.
“Anche se mi offrisse dieci o venti volte
di quello che possiede ora e di quello che possiederà
o tutte le merci che affluiscono in Orcomeno o a Tebe d’Egitto,
dove ci sono moltissime ricchezze nelle case,
lì ci sono cento porte e da ognuna escono in campo
duecento guerrieri con carri e cavalli; anche se mi desse
tanti tesori quanti sono i granelli di sabbia e di polvere
neppure così Agamennone placherebbe il mio cuore!”
Achille non cede alle offerte riparatorie di Agamennone, che gli ha sottratto la schiava Briseide, la sua ira funesta aveva addotto infiniti mali agli Achei. Nel passo, l’uso dell’aggettivo, ἑκατομπυλόι hekatómpyloí “dalle cento porte” segue quella che possiamo definire la logica del numero tondo. Nel discorso non matematico, e quindi impreciso, le cifre si arrotondano, e forse il numero cento è quello più usato per arrotondare una cifra indefinita. Omero cita anche altre cifre arrotondate allo zero, nel crescendo dieci, venti, cento, duecento e all’infinito dei numeri di granelli di sabbia e di polvere. Nulla può placare l’ira di Achille.

Silvio Minieri ha detto...

Oltre al passo dell’Iliade, che la menziona, ho appreso di questa Tebe egizia, l’odierna Luxor, e delle sue cento porte, che mi riportavano al mio enigma delle ottocento porte dei cieli per gli ottocento giusti, tratte dall’apocrifo, il “Libro di Attanasio”. Il numero cento potevo considerarlo, secondo la logica dell’arrotondamento, come la metà della soluzione del problema. E il numero otto? Per associazione di idee, ho pensato all’ottavo cielo. L’Universo del Medio Evo è quello tolemaico, con le sfere dei cieli, sette, che ruotano attorno alla terra: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. L’ottava sfera è quella delle stelle fisse, che ruota insieme a tutte le altre, per effetto del moto loro impresso dalla sfera del Primo Mobile.
Capivo che quella era la strada, per risolvere il mio dubbio, ma non sapevo come fare. E mi venne in mente Claudio Sciscio, un nostro amico, un mio vecchio compagno di scuola, a Napoli; ero distratto quando qualche tempo fa Maria Giulia mi aveva parlato di lui, mi sembra che avesse parlato con la moglie. Alla fine, decisi di chiamarlo, Claudio era professore di lettere classiche, studioso del Medio Evo. Stavo per accennargli del mio problema, quando mi ha parlato della sua malattia, era stato contagiato, lui e tutta la sua famiglia, ero preoccupato, mi rassicurò, nessuno era grave, presto sarebbero risultati tutti negativi. Nessuno era stato ospedalizzato? No, nessuno. Parlammo, parlò in prevalenza lui, degli aspetti sanitari del contagio, le cure. Alla fine, conclusi, dicendogli di farmi sapere della guarigione sua e di tutti i suoi, stavo per chiudere, quando disse: “Ettorino, che mi volevi dire?” “Una sciocchezza” dissi e in breve gli rappresentai il problema, ma non ricordavo il nome dell’autore del saggio, forse un tedesco, e neppure il titolo del volume, soltanto il sottotitolo, tradotto in italiano: “Studi sull’Aldilà”. “Va bene, ti farò sapere.” “Quando starai meglio, cioè presto.” “Ciao, Ettorino.” “Ciao, Claudio.”

Silvio Minieri ha detto...

3. Le luci del congedo
Era sera tardi ed era buio, quando uscii di casa, per portare fuori Mike, un labrador, che un’amica di Maria Giulia ci ha affidato, sono alcuni mesi che sta con noi e ha familiarizzato presto. Abbiamo attraversato il cancello d’ingresso del parco e siamo scesi nel viale a sinistra, du côté de Meséglise, come l’ho nominato nella mia memoria. Andando avanti, lasciavamo la zona illuminata dalle luci di strada e dei condomini prospicienti al parco, procedendo nell’ombra. Poi, a metà discesa, Mike si è fermato ed ha voltato la testa all’indietro, guardando in alto verso la zona luminosa, dove splendevano le luci delle nostre abitazioni, in contrasto con l’oscurità della notte. Stava contemplando la dimora del tempo recente della sua vita, l’incanto di quelle luci illuminavano il suo sogno, nel momento del congedo verso le ombre nel fondo del viale. E quella scena di sogno mi ha rimandato ad altre luci non molto lontane, contemplate nel silenzio della notte, nella distanza del nostro sguardo contemplativo. Quanto tempo siamo rimasti così? Il tempo del cuore, che registra i ricordi della nostra vita, per custodirli per sempre. Siamo scesi in fondo al viale, sostando nel buio vicino ai cespugli e al fogliame, dove i rumori della notte mandavano segni di vita di piccoli animali, fruscii. Dopo una breve attesa abbiamo ripreso la via del ritorno.

Silvio Minieri ha detto...

Quella sera, Maria Giulia mi aveva detto della morte di Sciscio, la moglie aveva riportato la notizia su WhatsApp, sono stato colto di sorpresa. Claudio si è congedato dalle luci della vita e si è avviato nelle ombre della sua ultima notte. All’improvviso, era peggiorato ed era finito all’ospedale in terapia intensiva, non ce l’ha fatta ed è morto. “La morte dell’altro, non soltanto ma soprattutto se lo si ama, non annuncia un’assenza, una scomparsa, la fine di questa o quella vita. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di ogni mondo possibile, e ogni volta la fine del mondo come totalità unica, dunque non rimpiazzabile, dunque infinita.” Come inscalfibili cristalli sono le parole che Jacques Derrida ha premesso alla raccolta di suoi testi di orazioni funebri, memorie, testimonianze, in ricordo degli amici scomparsi.
Sono passate alcune settimane dal lutto, un giorno nella posta elettronica ho trovato una e-mail di Francesca, la vedova di Sciscio, conteneva la risposta al mio quesito, che il mio amico scomparso non aveva dimenticato di studiare, trovando una soluzione.
“Ho fatto delle ricerche, per rintracciare il libro che mi hai segnalato, e ho trovato due autori, uno forse può corrispondere a quello da te indicato. Sono un tedesco e un francese: Marcus Fischer, Historisch jüdisch-christliche Vorstellungen vom Schicksal der Verstorbenen, “Concezioni storiche giudaico-cristiane del destino del defunto”; Jacques Tedika, “La doctrine chrétienne de l’au-delà”, La dottrina cristiana dell’aldilà. In nessuno dei due autori ho trovato la citazione del “Libro di Attanasio”, ma il primo riporta un riferimento di testi rabbinici dei primi secoli dell’era cristiana, in cui si parla del momento del giudizio con la divisione tra i totalmente giusti e i totalmente empi, e si accenna a sette firmamenti, e le anime dei totalmente giusti sono destinate al settimo cielo, quello più alto. Nel secondo, ho come raccolto degli echi danteschi: nella “Commedia” gli spiriti dei giusti sono collocati al sesto cielo, quello di Giove; al settimo, quello di Saturno, troviamo gli spiriti contemplanti. Una volta asceso all’ottavo cielo, quello delle stelle fisse, governato dai Cherubini, Dante vede i sette pianeti ruotanti nelle loro orbite intorno alla Terra, assiste al trionfo di tutti i beati e nella luce abbagliante riesce a distinguere la figura umana di Cristo. In seguito, assiste al trionfo di Maria, circondata dalla luce dell'arcangelo Gabriele che le ruota intorno, e segue Cristo verso l'Empireo, mentre le anime dei beati si protendono verso l'alto con tutto il loro ardore di carità. L’ottavo cielo ha una valenza superiore rispetto agli altri sette ruotanti al di sotto, e forse questa è stata la considerazione che ha spinto l’autore a parlare di un’ascesa all’ottava porta del cielo di tutti i beati, gli spiriti giusti.”
Sciscio poi si dischiarava d’accordo con me su cento come numero tondo, e per associazione l’ottava di otto porte conduceva ad ottocento, un numero simbolico. E la figura umana di Cristo, secondo la collocazione dantesca, garantiva l’affermazione di un giusto che vale tutti i giusti. È il modello della condotta di una vita giusta, che riflette nella sua persona la giustizia divina. Così concludeva Sciscio, poi il congedo.

Silvio Minieri ha detto...

[N. d. B.]
Pubblico il testo intero del racconto: “Il libro di Attanasio”, che definisco “racconto”, alla stregua dei tanti racconti alla Borges, testi a metà tra il poetico reale e il fantastico, la narrazione di fatti e la riflessione filosofica, con incursione nel pensiero e nelle scritture religiose.