EXAIPHNES L’angoscia dell’istante e la vertigine della libertà
“In verità questo sembra il significato della parola “istante” (“exaiphnes”), quello da cui partono i cambiamenti nelle due opposte direzioni. Non si ha cambiamento a partire da uno stato di quiete ancora immobile e neppure a partire da uno stato di movimento ancora in movimento. Invece questo è straordinario (atopon) dell’istante, che si trova in mezzo tra il movimento e la quiete, perché non è in nessun tempo. È quello verso cui e da cui quanto si muove muta nella quiete e quanto è nella quiete muta in movimento.” (Platone, Parmenide, 156d) Nel suo testo, “Il concetto dell’angoscia”, il filosofo danese Søren Kierkegaard sofferma la sua attenzione su questo passo del dialogo platonico, per contestare l’uso della categoria del “passaggio” da parte di Hegel, in modo da poter dare inizio al suo sistema filosofico, partendo dalla realtà storica nel tempo. “La difficoltà di introdurre il “passaggio” nella metafisica pura, l’ha vista molto bene Platone”, dice Kierkegaard, soffermandosi quindi sulla definizione di “istante” data nel “Parmenide”. Questo “istante” senza tempo, impossibile da misurare e come tale mai in quiete né in movimento, evidenziato da Kierkegaard, secondo l’interpretazione di Gadamer, è il mistero della nostra presenza psichica e spirituale, che trascende tutte le differenze. È l’angoscia dell’istante l’aspetto fondante della filosofia del pensatore danese, che rifiutando la logica astratta del sistema hegeliano, porta all’attenzione e riconduce il pensiero alla dimensione esistenziale del singolo individuo. Ha avuto così inizio quella corrente filosofica che va sotto il nome di “esistenzialismo”, nella cui scia incontriamo Heidegger, con la sua analisi esistenziale di “Essere e Tempo”, e Sartre con il suo testo “L’Essere e il Nulla”. Entrambi si rivelano indebitati con Kierkegaard, soprattutto per quanto riguarda la traccia filosofica della condizione esistenziale, data dall’insorgenza dell’angoscia di fronte al nulla, che dispone alla possibilità e quindi alla libertà. “L’innocenza è ignoranza. Nell’ignoranza l’uomo non è determinato come spirito, ma è determinato psichicamente nell’unione immediata con la sua naturalità. Lo spirito nell’uomo è come sognante… In questo stato c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora che cos’è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia.” Così definisce Kierkegaard il suo concetto d’angoscia. Da dove ha tratto questa figura? L’espressione verbale è ripresa dalla Lettera ai Filippesi di San Paolo: “apokaradokia”, “ansiosa attesa”; ma il significato della parola acquista una tonalità emotiva particolare: “L’angoscia appartiene allo spirito sognante e come tale appartiene alla psicologia.” Per comprendere il senso di questa affermazione, però, bisogna ripercorrere, anche se sommariamente, l’itinerario spirituale e culturale dell’autore, che l’ha condotto a comporre la sua opera. L’intento era quello di spiegare il dogma del peccato originale, tenendosi strettamente nel campo psicologico, al di fuori della teologia dogmatica. Il discorso ha però un carattere chiaramente filosofico ed il suo tratto fondamentale, quello dell’angoscia sarà ripreso poi da Heidegger e Sartre, che certo non sono pensatori religiosi. Il primo separa nettamente dalla filosofia il sentiero del sacro che conduce al divino, l’altro ateo si volge alla religione con sguardo indifferente: “Nelle chiese, al chiarore dei ceri, un uomo beve vino davanti a delle donne inginocchiate.” L’angoscia di entrambi è la stessa di Kierkegaard, una condizione esistenziale che diventa pensiero filosofico.
La filosofia del pensatore danese sorge come critica all’ottimismo hegeliano e rifiuto dei dogmi ufficiali della Chiesa, e l’educazione pietista ricevuta, a cui si aggiunsero le sventure familiari (la morte prematura di cinque fratelli), contribuì a generare nel giovane Kierkegaard quell’atmosfera di malinconia riflessa nelle sue opere. Il pietismo si rifà ad una concezione di caduta originaria nel creato, la natura lapsa, una situazione che spinge l’indagine filosofica a ricercare il perché di questa colpa d’inizio del genere umano. Lo studio dell’autore aveva questo fine, al di fuori di ogni influenza dottrinaria del dogmatismo, essendo il dogma una verità non discutibile. E la ricerca della caduta originaria rivela lo stato angoscioso della creatura che rimanda di rettamente alla colpa, un concetto quest’ultimo ripreso da Heidegger, ma obliato da Sartre più intento ad una scrittura impegnata nel sociale, l’umanismo. Nell’incipit di una sua conferenza dell’ottobre del 1945, “L’esistenzialismo è un umanismo”, così si esprime il filosofo francese: “Vorrei qui difendere l’esistenzialismo… accusato di indurre gli uomini ad un quietismo di disperazione, poiché, precluse tutte le soluzioni, si dovrebbe considerare in questo modo l’azione del tutto impossibile e sfociare, come conclusione, in una filosofia contemplativa.” Questa concezione di Sartre dell’esistenzialismo fu peraltro criticata da Heidegger, che rispose con una “Lettera sull’umanismo”, in cui rifiutava l’impostazione sartriana: “Il pensiero non è solo l'engagement dans l'action per e mediante l'ente, nel senso del reale della situazione presente. Il pensiero è l'engagement per e attraverso la verità dell'essere... quel che conta è l'essere, non l'uomo.” Ma tiene a precisare Heidegger che la sua opposizione all’umanismo non è inumanità: “L’uomo è piuttosto “gettato” dall’essere stesso nella verità dell’essere, in modo che, così esistendo, custodisca la verità dell’essere”. La condizione dell’uomo è quella della “deiezione”, l’essere gettato nel mondo, e la situazione emotiva che ne rivela l’esistenza è l’angoscia: “Nella chiara notte del nulla l’angoscia rivela l’essente”. Come l’uomo sia venuto all’essere, questo avvento, dice Heidegger, riposa nel destino dell’essere: “All’uomo resta il problema di trovare la destinazione conveniente alla sua essenza, che corrisponda a questo destino; perché conformemente a questo destino, egli in quanto esistente ha da custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere.” Per Heidegger è valida l’identità tra essere e pensiero, venuta per prima alla luce nel linguaggio di Parmenide: to gar autò noein estin te kai einai, lo stesso è essere e pensare. Custodire la verità dell’essere significa quindi che compito dell’uomo è quello di pensare (condurre il pensiero), in questo senso l’uomo è il “pastore dell’essere”.
Il dramma esistenziale per Kierkegaard, invece, è dato dall’istante, che porta l’uomo ad una scelta continua e cosciente, aut-aut (“Enten-Eller”), tra un comportamento estetico, la soddisfazione dei sensi, e quello etico della vita spirituale. La vita scorre nell’istante ed è un presente infinitamente vuoto, rispetto all’eternità che al contrario è un presente infinitamente pieno. In quest’ultimo senso va intesa l’espressione biblica di fattura paolina della “pienezza dei tempi”. Ora, ci domandiamo che cosa intende Kierkegaard per il “presente infinitamente vuoto” rispetto alla “pienezza” dell’eternità. Il quesito è posto dall’autore stesso, quando egli afferma che l’uomo non è soltanto una sintesi di anima e corpo, ma anche di tempo ed eternità. Allora egli si domanda: “Che cosa è, dunque, il tempo?” Nel “Timeo” (37d), Platone definisce il tempo un’immagine mobile dell’eternità, ponendo quindi la distinzione tra tempo (chronon) ed eternità (aion). Il demiurgo, guardando all’esemplare del vivente eterno, “mentre costituisce l’ordine del cielo, un’eternità che permane nell’unità, fa un’immagine eterna che procede secondo il numero, appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo.” Quindi, nota Platone: “L’«era» e il «sarà» sono forme generate di tempo, che noi ci accorgiamo di riferire all’essere eterno in modo non corretto. Infatti diciamo che esso [l’eterno] “era”, “è”, “sarà”; invece ad esso, secondo il vero ragionamento, solamente “è” si addice, mentre “era” e “sarà” conviene che si dicano della generazione che si svolge nel tempo.” Questo passo del “Timeo” indica nell’«è» quell’istante che Kierkegaard coglie come il punto di congiunzione tra il tempo e l’eternità. Quando si dice che il tempo è una successione infinita, comprendente le determinazioni di passato, presente e futuro, questa distinzione si presenta solo nel tempo. In questa successione però non c’è un punto su cui fissare il presente, “dove posare il piede”, un presente che divida il passato dal futuro, perché il tempo è un continuo scorrere, “passare”, e quindi nel tempo, conclude Kierkegaard, non c’è né passato, né presente, né futuro. Essendoci nel tempo una continua successione di momenti, nessun momento è presente. Isolando l’istante, si spazializza il tempo, arrestandone la successione infinita, che si può rappresentare, ma non pensare. “Per la rappresentazione, la successione infinita del tempo è un presente infinitamente privo di contenuto.” “Invece, appena si pensa che l’uno succede all’altro – osserva Kierkegaard – si pone il presente.” In questa osservazione si avverte l’eco della concezione aristotelica del tempo: “il numero del movimento secondo un prima e un poi” (Fisica, IV, 11, 219b) Il presente è determinabile secondo il passato e il futuro, ma come tale, tra passato e futuro, il suo è un continuo svanire. Al contrario, venendo a mancare nell’eternità la distinzione tra passato e futuro, essa si presenta come un presente senza successione, che non svanisce nel vuoto nulla, un presente quindi infinitamente pieno. In questo senso della pienezza del presente dell’eternità, i Romani dicevano che la divinità è paesens: “Dii saepe praesentes vim suam declarant” (Cicerone, De natura Deorum, II, 6), “Spesso gli dei manifestano la propria forza con la loro presenza”.
Al “momento” (“adesso”), in danese “nu”, che sta tra il “fu” e il “sarà”, si suole riferire la vita dei sensi. Ma osserva, Kierkegaard, “il momento indica il presente in quanto esso non ha né passato né futuro, perché qui sta l’imperfezione della vita sensuale. Anche l’eternità indica il presente che non ha né passato né futuro, e questa è la perfezione dell’eternità.” Ed è nel senso della perfezione e della pienezza che si parla di “onnipresenza divina”, un concetto già presente nella cultura greca. “Momento” viene dal latino movere, verbo indicante il movimento, che per Aristotele non è il tempo, ma una proprietà del tempo. Il movimento si attua in quello spazio di tempo che va da un momento all’altro, ma che non ha luogo (atopon), e come tale è pensabile soltanto come limite tra un “prima” e un “dopo”, secondo la riflessione della “Fisica” aristotelica. L’espressione “da un momento all’altro”, in lingua inglese “moment to moment”, indica proprio questo spazio vuoto di attesa, che come nulla genera angoscia. Quando, per esempio, aspettiamo l’autobus, che ritardando ci farà perdere un appuntamento, proviamo un vago sentimento di timore, di fronte a questo possibile evento negativo. Il concetto di angoscia però, osserva Kierkegaard, è “completamente diverso da quello del timore e da simili concetti, che si riferiscono a qualcosa di determinato”, perché essa si riferisce a qualcosa di indeterminato, quel nulla, che appunto genera questo sentimento metafisico. “L’angoscia è la realtà della libertà come possibilità della possibilità (mulighed for mulighed).” Anche Heidegger, nella sua analisi esistenziale di “Essere e Tempo”, quando parla dell’angoscia, la differenzia similmente dalla paura, una tonalità emotiva dell’Esserci [1], un senso di minacciosità che si prova di fronte a qualcosa di determinato: “Il “davanti-a-che” della paura, “ciò che fa paura”, è sempre un ente che si incontra nel mondo”. Sebbene la finalità della sua ricerca, il problema dell’Essere, è differente da quello di Kierkegaard, da Heidegger considerato non un filosofo, ma uno scrittore di cose religiose, l’analisi della condizione esistenziale dell’uomo è la stessa.
[1] Esserci è il termine con cui Heidegger definisce la realtà umana, l’uomo.
A base della “analitica esistenziale dell’Esserci”, ossia la “chiarificazione dell’Essere dell’Esserci”, come dire dell’esistenza, egli pone lo stato emotivo dell’angoscia, ovvero la “possibilità dell’Esserci dell’essere”, in altri termini, la realtà dell’esistenza come possibilità. “Nell’angoscia non s’incontra questo o quell’ente presso cui sia possibile una qualsiasi appagatività rispetto alla minaccia che reca con sé. Perciò l’angoscia non ha “occhi” per vedere un determinato “qui” o “là” da cui si avvicina ciò che è minaccioso. Ciò che caratterizza il “davanti-a-che” dell’angoscia è il fatto che il minaccioso non è in nessun luogo.” Più avanti Heidegger specifica che “nessun luogo” non equivale a “nulla”, ma questo nulla è il “mondo” rivelato dall’angoscia. In questo stare nel mondo, l’esistenza trova un limite nella morte, il cui esito fisiologico, ossia la cessazione del vivente, non costituisce però il concetto di morte, il suo “significato ontologico”. Pertanto dall’evento fisico, il decesso, va distinto il “morire” inteso come “modo di essere, in cui l’Esserci è per-la-sua-morte”. L’anticipazione di questo suo stato esistenziale, pone l’Esserci innanzi alla possibilità di essere sé stesso, in una libertà appassionata certa di sé stessa e piena di angoscia: “la libertà per la morte”. Questa possibilità di essere sé stesso è risvegliata dalla coscienza, che avverte il richiamo della colpa. Heidegger usa il termine “Schuld”, che in tedesco significa colpa, ma anche e soprattutto debito. Per comprendere quest’assimilazione della colpa al debito, possiamo rifarci al termine “mancanza”, che sta appunto a indicare nel comportamento tenuto in certe occasioni una notazione di colpa. Ad esempio, giuridicamente nel reato (fatto colpevole) di omissione di soccorso, la colpa imputata all’automobilista è quella di aver mancato di fermarsi a soccorrere la persona che giaceva inanimata sulla strada. Per Heidegger, però, la colpa è un fenomeno originario dell’Esserci, non il derivato di una qualche manchevolezza commessa. “Ma che significa allora risvegliare all’esser colpevole?” Così il filosofo tedesco risponde al suo stesso interrogativo: “Il senso della chiamata potrà rendersi chiaro solo se la comprensione, anziché assumere un concetto di colpa derivata (nel senso di colpevolezza risultante da un’azione o da un’omissione) terrà fermo il senso esistenziale dell’esser-colpevole.” La colpa è il richiamo della coscienza a quella mancanza originaria, che fa dell’Esserci il fondamento del suo nulla, dischiuso dall’angoscia, per il suo libero autoprogettarsi. Rendendosi disponibile alla chiamata, l’Esserci diventa hoerig: “attento ad ascoltare e pronto a ubbidire alla possibilità più propria della sua esistenza. Ha scelto sé stesso.” E soltanto con questa scelta, l’Esserci rende possibile “quel suo più proprio essere-colpevole” ossia diventare responsabile.
Notiamo che già in Kierkegaard, si trova questa tematica del risveglio. Nello stato d’innocenza, lo spirito dell’uomo è come sognante: “Sognando lo spirito, proietta la sua propria realtà, ma questa realtà è il nulla.” Con il peccato, lo spirito esce dal suo stato sognante ed entra nella sua naturalità. A causa della disobbedienza di Adamo, il peccato entrò nel mondo e da allora la sensualità diventò peccaminosità. Ma ogni uomo gode di quello stato primitivo d’ innocenza, lo spirito sognante che corrisponde emotivamente all’angoscia e alla libertà. Il peccato è il “salto qualitativo”, in cui la colpa prorompe nell’angoscia, preda della vertigine della libertà. Scrive Kierkegaard: “L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarvi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi, e la libertà, guardando giù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade.” L’immagine della vertigine della libertà è stata ripresa da Sartre nel suo testo “L’essere e il nulla”, per sviluppare la tematica dell’angoscia e della libertà, in un passaggio in cui si richiama espressamente sia a Kierkegaard che a Heidegger: “Kierkegaard, descrivendo l’angoscia prima della colpa, la caratterizza come angoscia davanti alla libertà. Heidegger, che si sa quanto abbia subito l’influenza di Kierkegaard, considera invece l’angoscia come l’intuizione del nulla. Queste due descrizioni dell’angoscia non ci sembrano contraddittorie, al contrario s’implicano a vicenda.” Nel dare, innanzitutto, ragione a Kierkegaard, Sartre rileva la distinzione tra paura e angoscia, che per lui si presenta nella loro differente relazione: “La paura è paura di fronte agli esseri del mondo, l’angoscia è angoscia di fronte a me stesso. La vertigine è angoscia in quanto temo non di cadere nel precipizio, ma di gettarmici io stesso.” La vertigine, per Sartre, è appunto vertigine della libertà, che si esprime attraverso la possibilità e il niente che separa un istante dall’altro: “Se niente mi costringe a salvare la mia vita, niente m’impedisce di precipitarmi nell’abisso.” Il “niente” è appunto quella libertà di cui si ha coscienza tra un istante e l’altro: “Ciò che separa l’anteriore dal posteriore, è precisamente niente.” E quindi “la libertà è l’essere umano che mette il suo passato fuori gioco, producendo il suo nulla”. Ed è questo processo di nullificazione che costituisce l’avvenire come possibile, ossia una libertà che angoscia: “La coscienza di essere il proprio avvenire al modo del non essere la chiameremo angoscia.” Ritroviamo in quest’ultima osservazione l’analisi esistenziale di Heidegger, che non contraddice, come nota Sartre, l’impostazione di Kierkegaard dell’angoscia che è angoscia di fronte al nulla, da cui scaturisce la vertigine della libertà.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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EXAIPHNES
L’angoscia dell’istante e la vertigine della libertà
“In verità questo sembra il significato della parola “istante” (“exaiphnes”), quello da cui partono i cambiamenti nelle due opposte direzioni. Non si ha cambiamento a partire da uno stato di quiete ancora immobile e neppure a partire da uno stato di movimento ancora in movimento. Invece questo è straordinario (atopon) dell’istante, che si trova in mezzo tra il movimento e la quiete, perché non è in nessun tempo. È quello verso cui e da cui quanto si muove muta nella quiete e quanto è nella quiete muta in movimento.” (Platone, Parmenide, 156d)
Nel suo testo, “Il concetto dell’angoscia”, il filosofo danese Søren Kierkegaard sofferma la sua attenzione su questo passo del dialogo platonico, per contestare l’uso della categoria del “passaggio” da parte di Hegel, in modo da poter dare inizio al suo sistema filosofico, partendo dalla realtà storica nel tempo. “La difficoltà di introdurre il “passaggio” nella metafisica pura, l’ha vista molto bene Platone”, dice Kierkegaard, soffermandosi quindi sulla definizione di “istante” data nel “Parmenide”.
Questo “istante” senza tempo, impossibile da misurare e come tale mai in quiete né in movimento, evidenziato da Kierkegaard, secondo l’interpretazione di Gadamer, è il mistero della nostra presenza psichica e spirituale, che trascende tutte le differenze. È l’angoscia dell’istante l’aspetto fondante della filosofia del pensatore danese, che rifiutando la logica astratta del sistema hegeliano, porta all’attenzione e riconduce il pensiero alla dimensione esistenziale del singolo individuo. Ha avuto così inizio quella corrente filosofica che va sotto il nome di “esistenzialismo”, nella cui scia incontriamo Heidegger, con la sua analisi esistenziale di “Essere e Tempo”, e Sartre con il suo testo “L’Essere e il Nulla”. Entrambi si rivelano indebitati con Kierkegaard, soprattutto per quanto riguarda la traccia filosofica della condizione esistenziale, data dall’insorgenza dell’angoscia di fronte al nulla, che dispone alla possibilità e quindi alla libertà.
“L’innocenza è ignoranza. Nell’ignoranza l’uomo non è determinato come spirito, ma è determinato psichicamente nell’unione immediata con la sua naturalità. Lo spirito nell’uomo è come sognante… In questo stato c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora che cos’è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia.” Così definisce Kierkegaard il suo concetto d’angoscia. Da dove ha tratto questa figura? L’espressione verbale è ripresa dalla Lettera ai Filippesi di San Paolo: “apokaradokia”, “ansiosa attesa”; ma il significato della parola acquista una tonalità emotiva particolare: “L’angoscia appartiene allo spirito sognante e come tale appartiene alla psicologia.” Per comprendere il senso di questa affermazione, però, bisogna ripercorrere, anche se sommariamente, l’itinerario spirituale e culturale dell’autore, che l’ha condotto a comporre la sua opera. L’intento era quello di spiegare il dogma del peccato originale, tenendosi strettamente nel campo psicologico, al di fuori della teologia dogmatica. Il discorso ha però un carattere chiaramente filosofico ed il suo tratto fondamentale, quello dell’angoscia sarà ripreso poi da Heidegger e Sartre, che certo non sono pensatori religiosi. Il primo separa nettamente dalla filosofia il sentiero del sacro che conduce al divino, l’altro ateo si volge alla religione con sguardo indifferente: “Nelle chiese, al chiarore dei ceri, un uomo beve vino davanti a delle donne inginocchiate.” L’angoscia di entrambi è la stessa di Kierkegaard, una condizione esistenziale che diventa pensiero filosofico.
La filosofia del pensatore danese sorge come critica all’ottimismo hegeliano e rifiuto dei dogmi ufficiali della Chiesa, e l’educazione pietista ricevuta, a cui si aggiunsero le sventure familiari (la morte prematura di cinque fratelli), contribuì a generare nel giovane Kierkegaard quell’atmosfera di malinconia riflessa nelle sue opere. Il pietismo si rifà ad una concezione di caduta originaria nel creato, la natura lapsa, una situazione che spinge l’indagine filosofica a ricercare il perché di questa colpa d’inizio del genere umano. Lo studio dell’autore aveva questo fine, al di fuori di ogni influenza dottrinaria del dogmatismo, essendo il dogma una verità non discutibile. E la ricerca della caduta originaria rivela lo stato angoscioso della creatura che rimanda di rettamente alla colpa, un concetto quest’ultimo ripreso da Heidegger, ma obliato da Sartre più intento ad una scrittura impegnata nel sociale, l’umanismo. Nell’incipit di una sua conferenza dell’ottobre del 1945, “L’esistenzialismo è un umanismo”, così si esprime il filosofo francese: “Vorrei qui difendere l’esistenzialismo… accusato di indurre gli uomini ad un quietismo di disperazione, poiché, precluse tutte le soluzioni, si dovrebbe considerare in questo modo l’azione del tutto impossibile e sfociare, come conclusione, in una filosofia contemplativa.” Questa concezione di Sartre dell’esistenzialismo fu peraltro criticata da Heidegger, che rispose con una “Lettera sull’umanismo”, in cui rifiutava l’impostazione sartriana: “Il pensiero non è solo l'engagement dans l'action per e mediante l'ente, nel senso del reale della situazione presente. Il pensiero è l'engagement per e attraverso la verità dell'essere... quel che conta è l'essere, non l'uomo.” Ma tiene a precisare Heidegger che la sua opposizione all’umanismo non è inumanità: “L’uomo è piuttosto “gettato” dall’essere stesso nella verità dell’essere, in modo che, così esistendo, custodisca la verità dell’essere”. La condizione dell’uomo è quella della “deiezione”, l’essere gettato nel mondo, e la situazione emotiva che ne rivela l’esistenza è l’angoscia: “Nella chiara notte del nulla l’angoscia rivela l’essente”. Come l’uomo sia venuto all’essere, questo avvento, dice Heidegger, riposa nel destino dell’essere: “All’uomo resta il problema di trovare la destinazione conveniente alla sua essenza, che corrisponda a questo destino; perché conformemente a questo destino, egli in quanto esistente ha da custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere.” Per Heidegger è valida l’identità tra essere e pensiero, venuta per prima alla luce nel linguaggio di Parmenide: to gar autò noein estin te kai einai, lo stesso è essere e pensare. Custodire la verità dell’essere significa quindi che compito dell’uomo è quello di pensare (condurre il pensiero), in questo senso l’uomo è il “pastore dell’essere”.
Il dramma esistenziale per Kierkegaard, invece, è dato dall’istante, che porta l’uomo ad una scelta continua e cosciente, aut-aut (“Enten-Eller”), tra un comportamento estetico, la soddisfazione dei sensi, e quello etico della vita spirituale. La vita scorre nell’istante ed è un presente infinitamente vuoto, rispetto all’eternità che al contrario è un presente infinitamente pieno. In quest’ultimo senso va intesa l’espressione biblica di fattura paolina della “pienezza dei tempi”. Ora, ci domandiamo che cosa intende Kierkegaard per il “presente infinitamente vuoto” rispetto alla “pienezza” dell’eternità. Il quesito è posto dall’autore stesso, quando egli afferma che l’uomo non è soltanto una sintesi di anima e corpo, ma anche di tempo ed eternità. Allora egli si domanda: “Che cosa è, dunque, il tempo?”
Nel “Timeo” (37d), Platone definisce il tempo un’immagine mobile dell’eternità, ponendo quindi la distinzione tra tempo (chronon) ed eternità (aion). Il demiurgo, guardando all’esemplare del vivente eterno, “mentre costituisce l’ordine del cielo, un’eternità che permane nell’unità, fa un’immagine eterna che procede secondo il numero, appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo.” Quindi, nota Platone: “L’«era» e il «sarà» sono forme generate di tempo, che noi ci accorgiamo di riferire all’essere eterno in modo non corretto. Infatti diciamo che esso [l’eterno] “era”, “è”, “sarà”; invece ad esso, secondo il vero ragionamento, solamente “è” si addice, mentre “era” e “sarà” conviene che si dicano della generazione che si svolge nel tempo.”
Questo passo del “Timeo” indica nell’«è» quell’istante che Kierkegaard coglie come il punto di congiunzione tra il tempo e l’eternità. Quando si dice che il tempo è una successione infinita, comprendente le determinazioni di passato, presente e futuro, questa distinzione si presenta solo nel tempo. In questa successione però non c’è un punto su cui fissare il presente, “dove posare il piede”, un presente che divida il passato dal futuro, perché il tempo è un continuo scorrere, “passare”, e quindi nel tempo, conclude Kierkegaard, non c’è né passato, né presente, né futuro. Essendoci nel tempo una continua successione di momenti, nessun momento è presente. Isolando l’istante, si spazializza il tempo, arrestandone la successione infinita, che si può rappresentare, ma non pensare. “Per la rappresentazione, la successione infinita del tempo è un presente infinitamente privo di contenuto.”
“Invece, appena si pensa che l’uno succede all’altro – osserva Kierkegaard – si pone il presente.” In questa osservazione si avverte l’eco della concezione aristotelica del tempo: “il numero del movimento secondo un prima e un poi” (Fisica, IV, 11, 219b)
Il presente è determinabile secondo il passato e il futuro, ma come tale, tra passato e futuro, il suo è un continuo svanire. Al contrario, venendo a mancare nell’eternità la distinzione tra passato e futuro, essa si presenta come un presente senza successione, che non svanisce nel vuoto nulla, un presente quindi infinitamente pieno. In questo senso della pienezza del presente dell’eternità, i Romani dicevano che la divinità è paesens: “Dii saepe praesentes vim suam declarant” (Cicerone, De natura Deorum, II, 6), “Spesso gli dei manifestano la propria forza con la loro presenza”.
Al “momento” (“adesso”), in danese “nu”, che sta tra il “fu” e il “sarà”, si suole riferire la vita dei sensi. Ma osserva, Kierkegaard, “il momento indica il presente in quanto esso non ha né passato né futuro, perché qui sta l’imperfezione della vita sensuale. Anche l’eternità indica il presente che non ha né passato né futuro, e questa è la perfezione dell’eternità.” Ed è nel senso della perfezione e della pienezza che si parla di “onnipresenza divina”, un concetto già presente nella cultura greca.
“Momento” viene dal latino movere, verbo indicante il movimento, che per Aristotele non è il tempo, ma una proprietà del tempo. Il movimento si attua in quello spazio di tempo che va da un momento all’altro, ma che non ha luogo (atopon), e come tale è pensabile soltanto come limite tra un “prima” e un “dopo”, secondo la riflessione della “Fisica” aristotelica. L’espressione “da un momento all’altro”, in lingua inglese “moment to moment”, indica proprio questo spazio vuoto di attesa, che come nulla genera angoscia. Quando, per esempio, aspettiamo l’autobus, che ritardando ci farà perdere un appuntamento, proviamo un vago sentimento di timore, di fronte a questo possibile evento negativo. Il concetto di angoscia però, osserva Kierkegaard, è “completamente diverso da quello del timore e da simili concetti, che si riferiscono a qualcosa di determinato”, perché essa si riferisce a qualcosa di indeterminato, quel nulla, che appunto genera questo sentimento metafisico. “L’angoscia è la realtà della libertà come possibilità della possibilità (mulighed for mulighed).”
Anche Heidegger, nella sua analisi esistenziale di “Essere e Tempo”, quando parla dell’angoscia, la differenzia similmente dalla paura, una tonalità emotiva dell’Esserci [1], un senso di minacciosità che si prova di fronte a qualcosa di determinato: “Il “davanti-a-che” della paura, “ciò che fa paura”, è sempre un ente che si incontra nel mondo”. Sebbene la finalità della sua ricerca, il problema dell’Essere, è differente da quello di Kierkegaard, da Heidegger considerato non un filosofo, ma uno scrittore di cose religiose, l’analisi della condizione esistenziale dell’uomo è la stessa.
[1] Esserci è il termine con cui Heidegger definisce la realtà umana, l’uomo.
A base della “analitica esistenziale dell’Esserci”, ossia la “chiarificazione dell’Essere dell’Esserci”, come dire dell’esistenza, egli pone lo stato emotivo dell’angoscia, ovvero la “possibilità dell’Esserci dell’essere”, in altri termini, la realtà dell’esistenza come possibilità. “Nell’angoscia non s’incontra questo o quell’ente presso cui sia possibile una qualsiasi appagatività rispetto alla minaccia che reca con sé. Perciò l’angoscia non ha “occhi” per vedere un determinato “qui” o “là” da cui si avvicina ciò che è minaccioso. Ciò che caratterizza il “davanti-a-che” dell’angoscia è il fatto che il minaccioso non è in nessun luogo.” Più avanti Heidegger specifica che “nessun luogo” non equivale a “nulla”, ma questo nulla è il “mondo” rivelato dall’angoscia. In questo stare nel mondo, l’esistenza trova un limite nella morte, il cui esito fisiologico, ossia la cessazione del vivente, non costituisce però il concetto di morte, il suo “significato ontologico”. Pertanto dall’evento fisico, il decesso, va distinto il “morire” inteso come “modo di essere, in cui l’Esserci è per-la-sua-morte”. L’anticipazione di questo suo stato esistenziale, pone l’Esserci innanzi alla possibilità di essere sé stesso, in una libertà appassionata certa di sé stessa e piena di angoscia: “la libertà per la morte”. Questa possibilità di essere sé stesso è risvegliata dalla coscienza, che avverte il richiamo della colpa. Heidegger usa il termine “Schuld”, che in tedesco significa colpa, ma anche e soprattutto debito. Per comprendere quest’assimilazione della colpa al debito, possiamo rifarci al termine “mancanza”, che sta appunto a indicare nel comportamento tenuto in certe occasioni una notazione di colpa. Ad esempio, giuridicamente nel reato (fatto colpevole) di omissione di soccorso, la colpa imputata all’automobilista è quella di aver mancato di fermarsi a soccorrere la persona che giaceva inanimata sulla strada. Per Heidegger, però, la colpa è un fenomeno originario dell’Esserci, non il derivato di una qualche manchevolezza commessa. “Ma che significa allora risvegliare all’esser colpevole?” Così il filosofo tedesco risponde al suo stesso interrogativo: “Il senso della chiamata potrà rendersi chiaro solo se la comprensione, anziché assumere un concetto di colpa derivata (nel senso di colpevolezza risultante da un’azione o da un’omissione) terrà fermo il senso esistenziale dell’esser-colpevole.” La colpa è il richiamo della coscienza a quella mancanza originaria, che fa dell’Esserci il fondamento del suo nulla, dischiuso dall’angoscia, per il suo libero autoprogettarsi. Rendendosi disponibile alla chiamata, l’Esserci diventa hoerig: “attento ad ascoltare e pronto a ubbidire alla possibilità più propria della sua esistenza. Ha scelto sé stesso.” E soltanto con questa scelta, l’Esserci rende possibile “quel suo più proprio essere-colpevole” ossia diventare responsabile.
Notiamo che già in Kierkegaard, si trova questa tematica del risveglio. Nello stato d’innocenza, lo spirito dell’uomo è come sognante: “Sognando lo spirito, proietta la sua propria realtà, ma questa realtà è il nulla.” Con il peccato, lo spirito esce dal suo stato sognante ed entra nella sua naturalità. A causa della disobbedienza di Adamo, il peccato entrò nel mondo e da allora la sensualità diventò peccaminosità. Ma ogni uomo gode di quello stato primitivo d’ innocenza, lo spirito sognante che corrisponde emotivamente all’angoscia e alla libertà. Il peccato è il “salto qualitativo”, in cui la colpa prorompe nell’angoscia, preda della vertigine della libertà. Scrive Kierkegaard: “L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarvi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi, e la libertà, guardando giù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade.”
L’immagine della vertigine della libertà è stata ripresa da Sartre nel suo testo “L’essere e il nulla”, per sviluppare la tematica dell’angoscia e della libertà, in un passaggio in cui si richiama espressamente sia a Kierkegaard che a Heidegger: “Kierkegaard, descrivendo l’angoscia prima della colpa, la caratterizza come angoscia davanti alla libertà. Heidegger, che si sa quanto abbia subito l’influenza di Kierkegaard, considera invece l’angoscia come l’intuizione del nulla. Queste due descrizioni dell’angoscia non ci sembrano contraddittorie, al contrario s’implicano a vicenda.”
Nel dare, innanzitutto, ragione a Kierkegaard, Sartre rileva la distinzione tra paura e angoscia, che per lui si presenta nella loro differente relazione: “La paura è paura di fronte agli esseri del mondo, l’angoscia è angoscia di fronte a me stesso. La vertigine è angoscia in quanto temo non di cadere nel precipizio, ma di gettarmici io stesso.” La vertigine, per Sartre, è appunto vertigine della libertà, che si esprime attraverso la possibilità e il niente che separa un istante dall’altro: “Se niente mi costringe a salvare la mia vita, niente m’impedisce di precipitarmi nell’abisso.” Il “niente” è appunto quella libertà di cui si ha coscienza tra un istante e l’altro: “Ciò che separa l’anteriore dal posteriore, è precisamente niente.” E quindi “la libertà è l’essere umano che mette il suo passato fuori gioco, producendo il suo nulla”. Ed è questo processo di nullificazione che costituisce l’avvenire come possibile, ossia una libertà che angoscia: “La coscienza di essere il proprio avvenire al modo del non essere la chiameremo angoscia.” Ritroviamo in quest’ultima osservazione l’analisi esistenziale di Heidegger, che non contraddice, come nota Sartre, l’impostazione di Kierkegaard dell’angoscia che è angoscia di fronte al nulla, da cui scaturisce la vertigine della libertà.
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