“Lo sfuggente Mercurio, che sempre si sottrae alla presa, è un vero truffatore e spinge l’alchimista alla disperazione.” Jung, “La simbolica dello spirito”.
1. Nel viale poco illuminato L’altra sera, dopo cena, ho preso i sacchetti dell’immondizia, quelli verdi forniti dal Comune per la differenziata, con i rifiuti regolarmente divisi tra organico, plastica, non riciclabile, carta e vetro, e sono sceso sotto casa, per depositarli negli appositi contenitori dell’isola ecologica condominiale e fare due passi nel parco. Dopo avere svuotato i rifiuti, ho lasciato i sacchetti vuoti lì accanto e mi sono mosso verso il parco vicino, ho attraversato il cancello aperto e sono sceso lungo il vialetto di destra. Il parco è semibuio, perché scarsamente illuminato dalle luci dei condominii che si affacciano intorno, tranne quelle zone d’ombra situate a ridosso del più ampio Parco dell’Appia Antica con cui confina. Sul piccolo piazzale dove ci sono le altalene e gli scivoli per i bambini, la zona è illuminata da alcuni lampioncini. Sono arrivato lì e poi ho proseguito un po’ nell’ombra, dove avevo convocato due miei fantasmi, che sarebbe meglio definire due personaggi dei miei racconti, due figure della mia fantasia letteraria. I miei lettori (che bello avere dei lettori!) sanno già di chi sto parlando. Si tratta di Traseo Nera e Decio Livio, due personaggi cangianti, come cangiante è lo scorrere della vita nella realtà, ma costanti nei loro caratteri, come è costante nei suoi caratteri la vita. Ma la vita, noi ci domandiamo, è costante o non è invece incostante? Rimando la soluzione di questo quesito ad un altro racconto sull’irregolarità del tempo, ora voglio concentrarmi sul racconto di quel convegno nel buio della sera avanzata con le due parvenze di realtà, create dalla mia fantasia. Ero fermo nel piazzaletto illuminato delle altalene, e allora, per favorire l’apparizione delle mie ombre, che nella luce si dissolvono, sono avanzato nell’ombra un po’ più avanti, una penombra, perché il riflesso vicino della luce rendeva ancora possibile distinguere le sagome degli alberi, del prato d’intorno e del vialetto di ghiaia su cui sostavo. “Eccoci, padrone!” ha detto Ladislavo. Era Decio Livio, alla sua sinistra un Traseo Nera che non era Traseo Nera. E allora se non era Traseo, quello lì chi era? Poi mi sono riavuto subito e ho detto: “Come?”, guardando Decio Ladislavo, ma tenendo d’occhio lo pseudo Traseo Nera, la cui figura un po’ più mi preoccupava, non avendone ancora stabilito bene l’identità. Ero abbastanza sconcertato, avevo evocato i miei due fantasmi letterari ed ora quelle due apparizioni, nell’ombra a mala pena illuminata del parco buio, non rispondevano alle mie aspettative. Ma quali erano le mie aspettative? Volevo confidare loro, ai miei due vecchi amici, anche se fra me e loro c’è un rapporto naturale di sudditanza, per cui tra noi non c’è una vera e propria parità, appartenendo noi a due diversi piani della realtà, io a quella che noi esseri normali consideriamo la realtà vera, loro a quella fantastica, sempre secondo il pensiero di noi normali, volevo confidare loro, dicevo, della sparizione di un post dal mio Blog. Ladislavo mi guardava, ed io riflettevo sulla sua strana battuta: “Eccoci, padrone!”. Ero sconcertato. Che cosa significava quel vocativo: “padrone!” Non sono mica Aladino, che sfrega la lampada e vengono fuori due geni, non uno! In verità il genio era Ladislavo, l’altro appariva come un suo sodale, un subordinato, ma anche un estraneo.
Ma chiariamo l’identità di Ladislavo. Avevo detto prima che i miei due personaggi erano cangianti, come cangiante è lo scorrere della vita nella realtà, ed in questo senso Decio Livio, pur rimanendo Decio, diventava Ladislavo. Ma per coloro che non ricordano questo mio personaggio, richiamo un mio racconto di qualche anno fa, che pure avevo riproposto recentemente: “Vestito di grigio flanella”. Sono andato a ripescarlo nell’archivio del computer, ma purtroppo il file era danneggiato in alcuni simboli matematici e nelle parole con alfabeto greco. Ho cercato di restaurare quelle parti, che poi non incidono sul racconto, la narrazione scorre egualmente, per chi vuole ripercorrerne il corso. Al nuotatore che voglia avventurarsi in quella corrente, consiglio di aggirare gli scogli appena vede simboli matematici, è quello che faccio anch’io quando m’imbatto in disquisizioni matematiche ricche di formule, simboli e calcoli. Comunque, onore al nuotatore o nuotatrice, a cui conferisco una medaglia d’oro virtuale al coraggio e su questo argomento basta quanto detto. È quest’ultima una formula usata da Aristotele, quando è stufo di ragionare ancora su un argomento su cui ha detto fin troppo. In definitiva, il Decio Livio da me convocato era Ladislavo non però nei panni di Ladislavo, comunque una letta di “Vestito di grigio flanella” va fatta, per comprendere meglio codesto personaggio, di cui qui riporto il ritratto: “Quando mio cugino aprì la porta, si rivelò l’inaspettata scena dell’apparizione, la chiamo così, di un vero ospite improbabile. Era questi un uomo sulla quarantina d’anni d’età, i capelli biondi pettinati con la scriminatura a destra ed il ciuffo rialzato sulla sinistra della fronte, vestito con un abito di flanella grigio chiaro, camicia bianca, cravatta grigio perla, scarpe di camoscio chiare, almeno così mi parve di notare quest’ultimo particolare.” Ma i geni usciti dalla lampada di Aladino non erano due, perché mentre tacevo di fronte a quella situazione inaspettata, Decio Livio che è Ladislavo, e Traseo Nera che non è Traseo Nera, sentii una voce alle mie spalle: “Uno, due e tre, il quarto dov’è?” Mi voltai sorpreso al tono familiare di quella voce e lo riconobbi immediatamente: era l’Incurvato. Non si tratta di una figura dei tarocchi, era uno dei fantasmi, che assieme ad una massa di altre ombre, mi assediò davanti all’Église Notre-Dame du Sablon sulla Rue de la Régence di Bruxelles, tempo fa, ai tempi di Giano Prodigo. Riporto qui l’episodio, come lo raccontai allora: “Ed io restai abbandonato nelle ombre della sera, nel silenzio solitario della Karmelienstraat. Quindi, mi ritrovai a scendere la scalinata, dopo essere passato al buio sotto l’arco, raggiungendo i giardini della Kleine Zavel (le petit Sablon), il cuore angosciato e sgomento. A sorpresa, nel silenzio della sera, risuonò un tocco di campana: era l’invito al ritiro e alla preghiera dell’Église Notre Dame du Sablon. Cedetti ad un sentimento di pietà, il senso di commozione suscitato dalla collerica implorazione della grande fraternità, e divenni così preda dell’assalto da parte di un’onda mormorante di fantasmi. A stento distinguevo sbiadite figure, dai tratti perversi, come il veterano o l’occhialuto ambiguo, l’incurvato e il compare, la donna della collegiata, il beffardo iettatore e il buffone grottesco, la dama soluta e le rosine e i santi d’oro, ed assieme a questa piccola folla dalle sembianze cangianti e che rivelavano a tratti profili inquietanti e sconosciuti, schiere e file di ombre che si serravano, ammassandosi e stringendomi davanti alla facciata dell’Église Notre Dame du Sablon, sulla rue de la Régence, l’assedio di fantasmi, di soffocati sussurri di defunti, che si rinnovava nell’umidità della sera, come in un delirio. Non so come, forse il tocco di campana riecheggiante nel silenzio della realtà, che ricomprese e dissolse in una parentesi illusoria l’evanescente massa mormorante delle parvenze, m’incamminai sulla Régence lucida di pioggia, in direzione della Place Poelaert, sovrastata dalla sagoma scura del Palais de Justice.”
In verità, questo delirante assedio di fantasmi fu vissuto da Aristarco, il principe degli ottimi, stante il racconto che ne fa Traseo Nera a Decio Livio nel mimo scritto da me tempo fa, il tempo di Giano Prodigo. Ma chiunque capisce che tutti questi personaggi sono creature della mia fantasia, maschere che celano il mio volto. Mi pare ovvio, no? E invece no, no e no! E ripeto, battendo istericamente il piede destro a terra ogni volta con la negazione: no, no e no! Capito? No, no, e no! Beh, adesso basta! Come no? Io, nei miei personaggi, sono il dio straziato, quello che sopporta tutti i dolori, e pertanto il dolore del grande Aristarco di quella sera davanti all’Église Notre Dame du Sablon è il mio dolore, ma nella situazione concreta chi sopporta il dolore è Aristarco. Infatti, Traseo Nera, che riferisce dell’episodio, dice all’amico: “- A questo punto, Livio, il grande Aristarco ebbe un sussulto, come se qualcosa fosse di colpo traboccato dal suo cuore. Che accadeva?” E quel buffone di Decio Livio, insensibile al dolore altrui: “- Io resto silenzioso, Nera, ad ascoltarti, immobile, come un felino sorpreso nel buio della notte dalla bianca luce della luna.” Si diverte. E Nera: “Di nuovo le tue poetiche immagini, Livio, ispirate a menti sognatrici. Che accadeva, dunque, al sapiente Aristarco? Rialzò il capo, che aveva chinato e guardando davanti a sé, l’espressione incrinata come dall’ombra di un dolore, egli riprese il suo racconto: “E poi li ho visti, fermi, in piedi, sotto la pioggerellina fine, ed avvertii una stretta al cuore. Ho riconosciuto, io, ormai, adulto, gli affetti più cari della mia infanzia, quelli che mi avevano più di tutti al mondo teneramente amato ed il cui amore mi aveva sempre sorretto negli anni e nei giorni. Come dice il poeta, di cui riportano le suggestive immagini i sapienti professori? “Mi si apre un abisso nell’anima e un soffio freddo dell’ora di Dio mi sfiora il volto livido. Il tempo! Il passato! Ciò che sono stato e non sarò mai più! Ciò che ho avuto, e non riavrò! I Morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li evoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante il silenzio sbarrato di tutte le porte.” Che dire? “- Chi, dunque, il poeta, Nera? - Fernando Pessoa. - Ah!” Quindi il dolore è mio, di Pessoa e di chi altro s’immedesima nella situazione, ma soprattutto è di Aristarco. Se non vi fosse il dolore di Aristarco, come potrebbe giungere l’insensibilità di Decio Livio di fronte al dolore altrui? Spiegheremo meglio in seguito questo concetto, che riguarda la psicologia del profondo, di cui peraltro stiamo trattando, ora, in questa mia narrazione, come presto emergerà.
L’Incurvato, così detto, perché dopo le sue battute abbassa la testa di lato e curva le spalle, per non farsi sorprendere dalla reazione di quelli a cui le ha indirizzate, essendo spesso velenose le sue battute, adesso rideva. Che cosa aveva detto di male? Nulla. Infatti, continuò a fissarmi, ridendo, senza curvarsi né fare l’atto di curvarsi. Io mi rabbuiai improvvisamente, come colsi nell’espressione leggermente smarrita dell’Incurvato, che non capiva il motivo della mia contrarietà. Allargai a metà le braccia, come a trattenere una reazione delle mie tre ombre e mi spostai di alcuni passi nel prato, dov’era più scuro, seguito da loro. Restai un attimo in attesa e poi sentii lo scalpiccio sempre più distinto. Quindi si profilò l’ombra di un uomo, un vecchio, sicuramente oltre i sessanta, di circa settant’anni direi e forse più. Il vecchio si fermò dov’ero poco prima, diede uno sguardo distratto nell’oscurità dalla nostra parte, dalla mia parte, dico, se non vogliamo dare consistenza di figura visibile ai miei fantasmi, poi il vecchio guardò in alto verso le finestre illuminate dell’ultimo piano dell’edificio condominiale dove abito. Restò ancora a guardare, quindi distolse lo sguardo, si voltò dalla mia parte e mi sembrò che ghignasse, ma forse fu una mia impressione, quindi se ne andò. Un po’ dopo uscimmo dall’oscurità e ci spostammo di nuovo nella zona un po’ più illuminata. L’Incurvato guardava con evidente tensione nella direzione dove il vecchio inopportuno si era allontanato, Decio Ladislavo mi diede un’occhiata, anche lui con l’aria tesa, quindi anche lui guardò nella direzione in cui guardava l’Incurvato. Lo pseudo Traseo Nera invece mi fissava con aria irridente, forse era un complice del vecchio inopportuno. Allora dissi: “Beh, ragazzi, adesso andiamocene.” Ora anche Decio Ladislavo mi guardava, come ridendo a denti stretti, e così anche l’Incurvato. Era come se avessi perso il mio potere sui miei tre fantasmi, per quella visita, inopportuna e molesta, quasi fosse la figura del vecchio una potenza che mi soverchiava, per cui perdevo carisma e autorità nei loro confronti. Mi avviai su per il viale verso l’uscita del parco, lasciando i fantasmi alle mie spalle. Capivo di stare ripercorrendo le tracce di quel molesto visitatore, che aveva interrotto la nostra piacevole riunione, mi sentivo vecchio come lui, io, io che avevo… quanti anni? Tanti. Tanti quanti? Quanti il vecchio.
2. In casa, davanti al computer Poco dopo, ero di nuovo seduto davanti allo schermo del mio computer e fissavo il mio blog. Il post era ricomparso, ma prima di specificare i particolari di questa sparizione e successiva riapparizione, abbastanza inspiegabile, vorrei riferire del dubbio che in quell’occasione mi colse. Mi ricordai dei sacchetti verdi della raccolta differenziata che avevo lasciato davanti all’isola ecologica condominiale e mi rialzai, per scendere di nuovo giù a riprenderli. Prima di andare alla porta, passai però in cucina a dare un’occhiata: i sacchetti verdi erano là, indubitabilmente, con le loro scritte bianche in stampatello: carta, vetro, plastica, organico, non riciclabile. Mi concentrai sul fatto che i rifiuti in plastica vanno assieme al metallo, ma capii che scantonavo. Chi aveva riportato su i sacchetti? Io. E quando? Poco fa. Ero incantato nei pensieri sull’occorso nel viale poco illuminato del parco, risalendo verso casa, e automaticamente, in maniera irriflessa, avevo ripreso i sacchetti verdi, deponendoli quindi al loro posto, e poi ero ritornato al computer. E il post? Idem con patate, forma colloquiale che sta per: “Lo stesso come già detto poc'anzi”. Ma era necessario specificarlo? Che cosa? Che idem con patate significa etc. Sì, anzi no, non lo so. Ecco, penso di avere guadagnato le tre alternative, che possono opporsi all’affacciarsi di un dubbio. Allora, ero veramente sceso poco fa a convocare i fantasmi ed era veramente accaduto quello che ho raccontato? La risposta “non so” non esclude né la prima né la seconda alternativa. Quindi, eliminiamola, manifesta solo reticenza di fronte ai legittimi dubbi della ragione. Se era vero, era tutto abbastanza fantastico e inverosimile, almeno come raccontato. Se era falso, o avevo immaginato il tutto stando seduto davanti al computer o effettivamente ero sceso giù nel parco, per controllare se il filo dell’antenna parabolica sul terrazzo, sopra le finestre illuminate della mia abitazione, non fosse fuori posto, a causa del vento. Ogni tanto, durante un programma televisivo, l’immagine scompare e appare l’avviso: “Nessun segnale dalla parabola”. E poi mi ero inventato la storiella dei fantasmi, il gusto di affabulare. Diciamo che questa è l’ipotesi più plausibile, ma ad essa io vorrei opporre lo stesso interrogativo angoscioso di Guglielmino e della storia degli “ottanta cavalli”. È il figlio adolescente del defunto giardiniere del condominio, che abita con la madre in una delle vicine villette a schiera attorno al parco. Una sera, mentre tornavo verso casa, l’ho incrociato sulla strada, affannato veniva di corsa dal parco. Nel vedermi si è fermato e notando il mio sguardo interrogativo, ha detto, indicando il buio dietro di lui: “C’erano ottanta cavalli, poco fa, che correvano all’impazzata nel parco”. “Ma come è possibile?” ho risposto, bonario, nella quiete dell’ora tarda di sera. “Eppure io li ho sentiti!” “Guglielmino, non ci sono ottanta cavalli nel parco!” “Sì, è vero,” ha ammesso il ragazzo. Quindi, dopo un attimo di riflessione, ha posto il dubbio: “Ma, allora, chi faceva tutto quello strepito nel parco?” Ho accompagnato Guglielmino fino alla sua villetta: “Ciao, buona notte.” Io, poco fa, dopo cena, sono sceso giù a fare due passi: “Post prandium aut stare aut lento pede deambulare”. Nell’occasione, ho portato i rifiuti nell’isola ecologica condominiale, mi sono avventurato per un tratto nel parco, per controllare l’antenna in alto sul terrazzo, poi sono risalito fuori, ho ripreso i sacchetti vuoti, e venuto su a casa, mi sono seduto davanti al computer. Ma, allora, quei quattro fantasmi, che confabulavano tra loro nell’ombra del parco, vicino allo spiazzetto illuminato con gli scivoli e l’altalena, chi erano?
Il post sparito dal mio Blog era quello posto accanto all’immagine della Lupa, una scultura della Grote Markt di Bruxelles: “La palla d'oro. All'indomani della mia morte. Dialogo su uno strano gioco e sul congedo di un indefinibile alchimista.” Ero riuscito a recuperare il file e l’avevo rimesso a posto. Nel rileggerlo, mi sono soffermato sul secondo paragrafo: “L’alchimista”. Nel commentare il brano della “palla d’oro” di Nietzsche, Jung dice: “Vedete, l’idea più alta insegnata da Zarathustra è che il superuomo è identico a una palla, e la palla è il globo, la rotondità perfetta che esprime l’uomo primordiale, l’uomo che era prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate… l’idea del superuomo è un’idea mistica estremamente antica che ricompare sempre di nuovo nel corso dei secoli… - Che cos’è Nietzsche, dopo tutto? Non è che il ripresentarsi di uno di quei vecchi alchimisti: Nietzsche è un prosecutore della filosofia alchimistica del Medioevo.” A suo tempo, avevo chiuso là il discorso e concluso il mimo con un po’ di autoironia. Non mi sembrava la sede opportuna, per commentare e spiegare Jung, anche perché allora non avevo ancora approfondito il suo pensiero sull’alchimia. Ora, colgo l’occasione per parlarne, vista che l’occasione è per me ancora possibile, in quanto non siamo ancora all’indomani della mia morte, ovviamente mentre scrivo, “non certo” quando queste righe verranno lette, nel senso che l’incertezza riguarda le eventuali future letture di queste righe. Bon! Spiegherò dopo il titolo: “All’indomani della mia morte”, ora parliamo di Jung, anzi lasciamolo parlare. “Il dio dai mille mutamenti e raggiri non è morto, né col tramonto dell’età antica né in seguito, ma è sopravvissuto travestito in strane fogge, per molti secoli fino all’età moderna, e con le sue arti ingannevoli e i suoi doni salutari non ha dato tregua allo spirito dell’uomo.” È l’incipit di “Der Geist Mercurius”, Conferenza di Ascona del 1942. Quindi, Jung riporta il sunto di una favola dei fratelli Grimm: “Lo spirito nella bottiglia”, che io qui riduco ancora al minimo: “Un contadino non può più mantenere agli studi il figlio, allora per fare un po’ di soldi, va a tagliare legna nel bosco, accompagnato dal giovane. Mentre lavorano, vicino alle radici di un albero sentono una vocina, il giovane scava e sotto terra scopre una bottiglia, l’alza e contro luce vede un ranuncolo, che si agita nella bottiglia e implora: “Liberami! Liberami!” Solleva il tappo e fuoriesce uno spirito che s’ingigantisce e diventa un mostro orrendo alto come l’albero, che grida: “Ti devo rompere l’osso del collo.” Al giovane spaventato, per questa sorte, urla: “Credi forse che io sia stato rinchiuso tanto tempo per grazia? No, era per punizione. Io sono il potentissimo Mercurio; a chi mi libera, devo rompergli il collo.” Il giovane chiede una prova per sapere se è vero. Lo spirito rientra nella bottiglia e il giovane subito la chiude con il tappo. Lo spirito implora di essere nuovamente liberato e promette che in compenso lo farà diventare ricco. Il giovane prova, lo spirito esce e gli dà uno pezzo di stoffa, che da una parte cura le ferite e dall’altro muta il metallo in argento. Il giovane diventa ricco e può tornare agli studi, s’iscrive all’università, diventa dottore e guarisce tutti con il pezzetto di stoffa.”
Jung interpreta la favola in chiave alchemica. L’essenza mercuriale, ossia il principium individuationis, tende a svilupparsi liberamente in circostanze naturali. Il principio viene ripreso dalla filosofia di Schopenhauer, per il quale Il mondo non è altro che la rappresentazione differenziata di una stessa unica Volontà di vivere (Wille zum leben). Oggetto di rappresentazione, la Volontà si manifesta illusoriamente (Velo di Maya) attraverso gli individui, apparentemente differenziati e irrimediabilmente separati l'uno dall'altro. Il principio d’individuazione, per Jung, è il processo, in base a cui la persona diventa sé stessa, un essere unico e differenziato dalla psiche collettiva e inconscia. Questo sviluppo viene privato della sua libertà da una violenza esterna intenzionale, che lo imprigiona con un artificio, confinandolo come spirito maligno. Infatti, commenta Jung, soltanto gli spiriti maligni vengono confinati! Il proposito omicida rivela la malvagità dello spirito. Risulta quindi meritoria l’opera compiuta dal maestro alchimista d’imprigionare il principium individuationis, seppellendo il male naturale alle “radici” dell’albero, cioè sotto terra, come dire nel corpo, nella materia. In quest’opera l’alchimista imita il Creatore. La semplice istintualità e l’ingenua inconsapevolezza dell’essere naturale, non turbata dalla coscienza, quando viene interrotta nel suo libero sviluppo, rivela la distinzione del bene e del male e quindi la scienza morale e la colpa. Per gli alchimisti, la bottiglia, il vas hermeticum, chiusa “ermeticamente” con il sigillo di Ermete, doveva essere un vitrum, possibilmente rotondo, simbolo dell’universo, in cui la terra venne creata. Storicamente, lo spirito cattivo imprigionato era il dio pagano, confinato con l’avvento del Cristianesimo. Queste spiegazioni di Jung vanno interpretate alla luce del suo pensiero che riteneva la persona come l’insieme sia del bene che del male, la sua parte oscura quest’ultima, l’Ombra. E nei suoi studi su psicologia e religione, discute il simbolo della quaternità, che nell’inconscio dell’uomo areligioso moderno si sovrappone allo schema trinitario. Che cosa aveva detto ridendo l’Incurvato, riproponendo la battuta di Jung, che parafrasa l’incipit del “Timeo” di Platone: “Uno, due, tre, il quarto dov’è?” La palla d’oro, il globo di vetro alchimistico, indica la completezza dell’uomo, prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate. Ecco perché Jung dice che l’idea di Nietzsche non è altro che il nuovo riproporsi della figura medievale dell’alchimista. Il servus fugitivus è il fluido mercuriale volatile, con le ali ai piedi, come dice Jung, lo sfuggente Mercurio, che sempre si sottrae alla presa, un vero truffatore che spinge l’alchimista alla disperazione. Se, però, si riesce a trattenerlo nel “vas hermeticum”, allora il selvaggio Mercurio diventa uno spirito servizievole, obbediente, familiaris. Ed ora illustriamo il titolo: “All’indomani della mia morte.” Io mi presento come un indefinibile alchimista, che prima di lasciare il suolo di questa terra, lancia ai suoi amici la “palla d’oro”, il lascito spirituale di tutto quel materiale psichico disordinato, che costituisce la sua “letteratura” sotterranea. In tale veste, mi raffiguro come un autore postumo, di cui rimane, all’indomani della mia morte, una beffarda eredità. Resta un ultimo interrogativo, vago e sfuggente, che aleggia nell’aria. Ma la figura di questo alchimista, a ragione definitosi “indefinibile”, non è forse la maschera dietro cui si nasconde il demone dei misteri di tutti i tenebriones?
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
7 commenti:
IL SERVO FUGGITIVO
“Lo sfuggente Mercurio, che sempre si sottrae alla presa, è un vero truffatore e spinge l’alchimista alla disperazione.” Jung, “La simbolica dello spirito”.
1. Nel viale poco illuminato
L’altra sera, dopo cena, ho preso i sacchetti dell’immondizia, quelli verdi forniti dal Comune per la differenziata, con i rifiuti regolarmente divisi tra organico, plastica, non riciclabile, carta e vetro, e sono sceso sotto casa, per depositarli negli appositi contenitori dell’isola ecologica condominiale e fare due passi nel parco. Dopo avere svuotato i rifiuti, ho lasciato i sacchetti vuoti lì accanto e mi sono mosso verso il parco vicino, ho attraversato il cancello aperto e sono sceso lungo il vialetto di destra. Il parco è semibuio, perché scarsamente illuminato dalle luci dei condominii che si affacciano intorno, tranne quelle zone d’ombra situate a ridosso del più ampio Parco dell’Appia Antica con cui confina. Sul piccolo piazzale dove ci sono le altalene e gli scivoli per i bambini, la zona è illuminata da alcuni lampioncini. Sono arrivato lì e poi ho proseguito un po’ nell’ombra, dove avevo convocato due miei fantasmi, che sarebbe meglio definire due personaggi dei miei racconti, due figure della mia fantasia letteraria. I miei lettori (che bello avere dei lettori!) sanno già di chi sto parlando. Si tratta di Traseo Nera e Decio Livio, due personaggi cangianti, come cangiante è lo scorrere della vita nella realtà, ma costanti nei loro caratteri, come è costante nei suoi caratteri la vita. Ma la vita, noi ci domandiamo, è costante o non è invece incostante? Rimando la soluzione di questo quesito ad un altro racconto sull’irregolarità del tempo, ora voglio concentrarmi sul racconto di quel convegno nel buio della sera avanzata con le due parvenze di realtà, create dalla mia fantasia. Ero fermo nel piazzaletto illuminato delle altalene, e allora, per favorire l’apparizione delle mie ombre, che nella luce si dissolvono, sono avanzato nell’ombra un po’ più avanti, una penombra, perché il riflesso vicino della luce rendeva ancora possibile distinguere le sagome degli alberi, del prato d’intorno e del vialetto di ghiaia su cui sostavo.
“Eccoci, padrone!” ha detto Ladislavo. Era Decio Livio, alla sua sinistra un Traseo Nera che non era Traseo Nera. E allora se non era Traseo, quello lì chi era? Poi mi sono riavuto subito e ho detto: “Come?”, guardando Decio Ladislavo, ma tenendo d’occhio lo pseudo Traseo Nera, la cui figura un po’ più mi preoccupava, non avendone ancora stabilito bene l’identità. Ero abbastanza sconcertato, avevo evocato i miei due fantasmi letterari ed ora quelle due apparizioni, nell’ombra a mala pena illuminata del parco buio, non rispondevano alle mie aspettative. Ma quali erano le mie aspettative? Volevo confidare loro, ai miei due vecchi amici, anche se fra me e loro c’è un rapporto naturale di sudditanza, per cui tra noi non c’è una vera e propria parità, appartenendo noi a due diversi piani della realtà, io a quella che noi esseri normali consideriamo la realtà vera, loro a quella fantastica, sempre secondo il pensiero di noi normali, volevo confidare loro, dicevo, della sparizione di un post dal mio Blog. Ladislavo mi guardava, ed io riflettevo sulla sua strana battuta: “Eccoci, padrone!”. Ero sconcertato. Che cosa significava quel vocativo: “padrone!” Non sono mica Aladino, che sfrega la lampada e vengono fuori due geni, non uno! In verità il genio era Ladislavo, l’altro appariva come un suo sodale, un subordinato, ma anche un estraneo.
Ma chiariamo l’identità di Ladislavo. Avevo detto prima che i miei due personaggi erano cangianti, come cangiante è lo scorrere della vita nella realtà, ed in questo senso Decio Livio, pur rimanendo Decio, diventava Ladislavo. Ma per coloro che non ricordano questo mio personaggio, richiamo un mio racconto di qualche anno fa, che pure avevo riproposto recentemente: “Vestito di grigio flanella”. Sono andato a ripescarlo nell’archivio del computer, ma purtroppo il file era danneggiato in alcuni simboli matematici e nelle parole con alfabeto greco. Ho cercato di restaurare quelle parti, che poi non incidono sul racconto, la narrazione scorre egualmente, per chi vuole ripercorrerne il corso. Al nuotatore che voglia avventurarsi in quella corrente, consiglio di aggirare gli scogli appena vede simboli matematici, è quello che faccio anch’io quando m’imbatto in disquisizioni matematiche ricche di formule, simboli e calcoli. Comunque, onore al nuotatore o nuotatrice, a cui conferisco una medaglia d’oro virtuale al coraggio e su questo argomento basta quanto detto. È quest’ultima una formula usata da Aristotele, quando è stufo di ragionare ancora su un argomento su cui ha detto fin troppo. In definitiva, il Decio Livio da me convocato era Ladislavo non però nei panni di Ladislavo, comunque una letta di “Vestito di grigio flanella” va fatta, per comprendere meglio codesto personaggio, di cui qui riporto il ritratto: “Quando mio cugino aprì la porta, si rivelò l’inaspettata scena dell’apparizione, la chiamo così, di un vero ospite improbabile. Era questi un uomo sulla quarantina d’anni d’età, i capelli biondi pettinati con la scriminatura a destra ed il ciuffo rialzato sulla sinistra della fronte, vestito con un abito di flanella grigio chiaro, camicia bianca, cravatta grigio perla, scarpe di camoscio chiare, almeno così mi parve di notare quest’ultimo particolare.”
Ma i geni usciti dalla lampada di Aladino non erano due, perché mentre tacevo di fronte a quella situazione inaspettata, Decio Livio che è Ladislavo, e Traseo Nera che non è Traseo Nera, sentii una voce alle mie spalle: “Uno, due e tre, il quarto dov’è?” Mi voltai sorpreso al tono familiare di quella voce e lo riconobbi immediatamente: era l’Incurvato. Non si tratta di una figura dei tarocchi, era uno dei fantasmi, che assieme ad una massa di altre ombre, mi assediò davanti all’Église Notre-Dame du Sablon sulla Rue de la Régence di Bruxelles, tempo fa, ai tempi di Giano Prodigo. Riporto qui l’episodio, come lo raccontai allora: “Ed io restai abbandonato nelle ombre della sera, nel silenzio solitario della Karmelienstraat. Quindi, mi ritrovai a scendere la scalinata, dopo essere passato al buio sotto l’arco, raggiungendo i giardini della Kleine Zavel (le petit Sablon), il cuore angosciato e sgomento. A sorpresa, nel silenzio della sera, risuonò un tocco di campana: era l’invito al ritiro e alla preghiera dell’Église Notre Dame du Sablon. Cedetti ad un sentimento di pietà, il senso di commozione suscitato dalla collerica implorazione della grande fraternità, e divenni così preda dell’assalto da parte di un’onda mormorante di fantasmi. A stento distinguevo sbiadite figure, dai tratti perversi, come il veterano o l’occhialuto ambiguo, l’incurvato e il compare, la donna della collegiata, il beffardo iettatore e il buffone grottesco, la dama soluta e le rosine e i santi d’oro, ed assieme a questa piccola folla dalle sembianze cangianti e che rivelavano a tratti profili inquietanti e sconosciuti, schiere e file di ombre che si serravano, ammassandosi e stringendomi davanti alla facciata dell’Église Notre Dame du Sablon, sulla rue de la Régence, l’assedio di fantasmi, di soffocati sussurri di defunti, che si rinnovava nell’umidità della sera, come in un delirio. Non so come, forse il tocco di campana riecheggiante nel silenzio della realtà, che ricomprese e dissolse in una parentesi illusoria l’evanescente massa mormorante delle parvenze, m’incamminai sulla Régence lucida di pioggia, in direzione della Place Poelaert, sovrastata dalla sagoma scura del Palais de Justice.”
In verità, questo delirante assedio di fantasmi fu vissuto da Aristarco, il principe degli ottimi, stante il racconto che ne fa Traseo Nera a Decio Livio nel mimo scritto da me tempo fa, il tempo di Giano Prodigo. Ma chiunque capisce che tutti questi personaggi sono creature della mia fantasia, maschere che celano il mio volto. Mi pare ovvio, no? E invece no, no e no! E ripeto, battendo istericamente il piede destro a terra ogni volta con la negazione: no, no e no! Capito? No, no, e no! Beh, adesso basta! Come no?
Io, nei miei personaggi, sono il dio straziato, quello che sopporta tutti i dolori, e pertanto il dolore del grande Aristarco di quella sera davanti all’Église Notre Dame du Sablon è il mio dolore, ma nella situazione concreta chi sopporta il dolore è Aristarco. Infatti, Traseo Nera, che riferisce dell’episodio, dice all’amico: “- A questo punto, Livio, il grande Aristarco ebbe un sussulto, come se qualcosa fosse di colpo traboccato dal suo cuore. Che accadeva?” E quel buffone di Decio Livio, insensibile al dolore altrui: “- Io resto silenzioso, Nera, ad ascoltarti, immobile, come un felino sorpreso nel buio della notte dalla bianca luce della luna.” Si diverte. E Nera: “Di nuovo le tue poetiche immagini, Livio, ispirate a menti sognatrici. Che accadeva, dunque, al sapiente Aristarco? Rialzò il capo, che aveva chinato e guardando davanti a sé, l’espressione incrinata come dall’ombra di un dolore, egli riprese il suo racconto: “E poi li ho visti, fermi, in piedi, sotto la pioggerellina fine, ed avvertii una stretta al cuore. Ho riconosciuto, io, ormai, adulto, gli affetti più cari della mia infanzia, quelli che mi avevano più di tutti al mondo teneramente amato ed il cui amore mi aveva sempre sorretto negli anni e nei giorni. Come dice il poeta, di cui riportano le suggestive immagini i sapienti professori? “Mi si apre un abisso nell’anima e un soffio freddo dell’ora di Dio mi sfiora il volto livido. Il tempo! Il passato! Ciò che sono stato e non sarò mai più! Ciò che ho avuto, e non riavrò! I Morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li evoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante il silenzio sbarrato di tutte le porte.” Che dire? “- Chi, dunque, il poeta, Nera? - Fernando Pessoa. - Ah!” Quindi il dolore è mio, di Pessoa e di chi altro s’immedesima nella situazione, ma soprattutto è di Aristarco. Se non vi fosse il dolore di Aristarco, come potrebbe giungere l’insensibilità di Decio Livio di fronte al dolore altrui? Spiegheremo meglio in seguito questo concetto, che riguarda la psicologia del profondo, di cui peraltro stiamo trattando, ora, in questa mia narrazione, come presto emergerà.
L’Incurvato, così detto, perché dopo le sue battute abbassa la testa di lato e curva le spalle, per non farsi sorprendere dalla reazione di quelli a cui le ha indirizzate, essendo spesso velenose le sue battute, adesso rideva. Che cosa aveva detto di male? Nulla. Infatti, continuò a fissarmi, ridendo, senza curvarsi né fare l’atto di curvarsi.
Io mi rabbuiai improvvisamente, come colsi nell’espressione leggermente smarrita dell’Incurvato, che non capiva il motivo della mia contrarietà. Allargai a metà le braccia, come a trattenere una reazione delle mie tre ombre e mi spostai di alcuni passi nel prato, dov’era più scuro, seguito da loro. Restai un attimo in attesa e poi sentii lo scalpiccio sempre più distinto. Quindi si profilò l’ombra di un uomo, un vecchio, sicuramente oltre i sessanta, di circa settant’anni direi e forse più. Il vecchio si fermò dov’ero poco prima, diede uno sguardo distratto nell’oscurità dalla nostra parte, dalla mia parte, dico, se non vogliamo dare consistenza di figura visibile ai miei fantasmi, poi il vecchio guardò in alto verso le finestre illuminate dell’ultimo piano dell’edificio condominiale dove abito. Restò ancora a guardare, quindi distolse lo sguardo, si voltò dalla mia parte e mi sembrò che ghignasse, ma forse fu una mia impressione, quindi se ne andò. Un po’ dopo uscimmo dall’oscurità e ci spostammo di nuovo nella zona un po’ più illuminata. L’Incurvato guardava con evidente tensione nella direzione dove il vecchio inopportuno si era allontanato, Decio Ladislavo mi diede un’occhiata, anche lui con l’aria tesa, quindi anche lui guardò nella direzione in cui guardava l’Incurvato. Lo pseudo Traseo Nera invece mi fissava con aria irridente, forse era un complice del vecchio inopportuno. Allora dissi: “Beh, ragazzi, adesso andiamocene.” Ora anche Decio Ladislavo mi guardava, come ridendo a denti stretti, e così anche l’Incurvato. Era come se avessi perso il mio potere sui miei tre fantasmi, per quella visita, inopportuna e molesta, quasi fosse la figura del vecchio una potenza che mi soverchiava, per cui perdevo carisma e autorità nei loro confronti. Mi avviai su per il viale verso l’uscita del parco, lasciando i fantasmi alle mie spalle. Capivo di stare ripercorrendo le tracce di quel molesto visitatore, che aveva interrotto la nostra piacevole riunione, mi sentivo vecchio come lui, io, io che avevo… quanti anni? Tanti. Tanti quanti? Quanti il vecchio.
2. In casa, davanti al computer
Poco dopo, ero di nuovo seduto davanti allo schermo del mio computer e fissavo il mio blog. Il post era ricomparso, ma prima di specificare i particolari di questa sparizione e successiva riapparizione, abbastanza inspiegabile, vorrei riferire del dubbio che in quell’occasione mi colse. Mi ricordai dei sacchetti verdi della raccolta differenziata che avevo lasciato davanti all’isola ecologica condominiale e mi rialzai, per scendere di nuovo giù a riprenderli. Prima di andare alla porta, passai però in cucina a dare un’occhiata: i sacchetti verdi erano là, indubitabilmente, con le loro scritte bianche in stampatello: carta, vetro, plastica, organico, non riciclabile. Mi concentrai sul fatto che i rifiuti in plastica vanno assieme al metallo, ma capii che scantonavo. Chi aveva riportato su i sacchetti? Io. E quando? Poco fa. Ero incantato nei pensieri sull’occorso nel viale poco illuminato del parco, risalendo verso casa, e automaticamente, in maniera irriflessa, avevo ripreso i sacchetti verdi, deponendoli quindi al loro posto, e poi ero ritornato al computer. E il post? Idem con patate, forma colloquiale che sta per: “Lo stesso come già detto poc'anzi”. Ma era necessario specificarlo? Che cosa? Che idem con patate significa etc. Sì, anzi no, non lo so.
Ecco, penso di avere guadagnato le tre alternative, che possono opporsi all’affacciarsi di un dubbio. Allora, ero veramente sceso poco fa a convocare i fantasmi ed era veramente accaduto quello che ho raccontato? La risposta “non so” non esclude né la prima né la seconda alternativa. Quindi, eliminiamola, manifesta solo reticenza di fronte ai legittimi dubbi della ragione. Se era vero, era tutto abbastanza fantastico e inverosimile, almeno come raccontato. Se era falso, o avevo immaginato il tutto stando seduto davanti al computer o effettivamente ero sceso giù nel parco, per controllare se il filo dell’antenna parabolica sul terrazzo, sopra le finestre illuminate della mia abitazione, non fosse fuori posto, a causa del vento. Ogni tanto, durante un programma televisivo, l’immagine scompare e appare l’avviso: “Nessun segnale dalla parabola”. E poi mi ero inventato la storiella dei fantasmi, il gusto di affabulare.
Diciamo che questa è l’ipotesi più plausibile, ma ad essa io vorrei opporre lo stesso interrogativo angoscioso di Guglielmino e della storia degli “ottanta cavalli”. È il figlio adolescente del defunto giardiniere del condominio, che abita con la madre in una delle vicine villette a schiera attorno al parco. Una sera, mentre tornavo verso casa, l’ho incrociato sulla strada, affannato veniva di corsa dal parco. Nel vedermi si è fermato e notando il mio sguardo interrogativo, ha detto, indicando il buio dietro di lui: “C’erano ottanta cavalli, poco fa, che correvano all’impazzata nel parco”. “Ma come è possibile?” ho risposto, bonario, nella quiete dell’ora tarda di sera. “Eppure io li ho sentiti!” “Guglielmino, non ci sono ottanta cavalli nel parco!” “Sì, è vero,” ha ammesso il ragazzo. Quindi, dopo un attimo di riflessione, ha posto il dubbio: “Ma, allora, chi faceva tutto quello strepito nel parco?” Ho accompagnato Guglielmino fino alla sua villetta: “Ciao, buona notte.”
Io, poco fa, dopo cena, sono sceso giù a fare due passi: “Post prandium aut stare aut lento pede deambulare”. Nell’occasione, ho portato i rifiuti nell’isola ecologica condominiale, mi sono avventurato per un tratto nel parco, per controllare l’antenna in alto sul terrazzo, poi sono risalito fuori, ho ripreso i sacchetti vuoti, e venuto su a casa, mi sono seduto davanti al computer. Ma, allora, quei quattro fantasmi, che confabulavano tra loro nell’ombra del parco, vicino allo spiazzetto illuminato con gli scivoli e l’altalena, chi erano?
Il post sparito dal mio Blog era quello posto accanto all’immagine della Lupa, una scultura della Grote Markt di Bruxelles: “La palla d'oro. All'indomani della mia morte.
Dialogo su uno strano gioco e sul congedo di un indefinibile alchimista.” Ero riuscito a recuperare il file e l’avevo rimesso a posto. Nel rileggerlo, mi sono soffermato sul secondo paragrafo: “L’alchimista”. Nel commentare il brano della “palla d’oro” di Nietzsche, Jung dice: “Vedete, l’idea più alta insegnata da Zarathustra è che il superuomo è identico a una palla, e la palla è il globo, la rotondità perfetta che esprime l’uomo primordiale, l’uomo che era prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate… l’idea del superuomo è un’idea mistica estremamente antica che ricompare sempre di nuovo nel corso dei secoli… - Che cos’è Nietzsche, dopo tutto? Non è che il ripresentarsi di uno di quei vecchi alchimisti: Nietzsche è un prosecutore della filosofia alchimistica del Medioevo.” A suo tempo, avevo chiuso là il discorso e concluso il mimo con un po’ di autoironia. Non mi sembrava la sede opportuna, per commentare e spiegare Jung, anche perché allora non avevo ancora approfondito il suo pensiero sull’alchimia.
Ora, colgo l’occasione per parlarne, vista che l’occasione è per me ancora possibile, in quanto non siamo ancora all’indomani della mia morte, ovviamente mentre scrivo, “non certo” quando queste righe verranno lette, nel senso che l’incertezza riguarda le eventuali future letture di queste righe. Bon! Spiegherò dopo il titolo: “All’indomani della mia morte”, ora parliamo di Jung, anzi lasciamolo parlare.
“Il dio dai mille mutamenti e raggiri non è morto, né col tramonto dell’età antica né in seguito, ma è sopravvissuto travestito in strane fogge, per molti secoli fino all’età moderna, e con le sue arti ingannevoli e i suoi doni salutari non ha dato tregua allo spirito dell’uomo.” È l’incipit di “Der Geist Mercurius”, Conferenza di Ascona del 1942.
Quindi, Jung riporta il sunto di una favola dei fratelli Grimm: “Lo spirito nella bottiglia”, che io qui riduco ancora al minimo: “Un contadino non può più mantenere agli studi il figlio, allora per fare un po’ di soldi, va a tagliare legna nel bosco, accompagnato dal giovane. Mentre lavorano, vicino alle radici di un albero sentono una vocina, il giovane scava e sotto terra scopre una bottiglia, l’alza e contro luce vede un ranuncolo, che si agita nella bottiglia e implora: “Liberami! Liberami!” Solleva il tappo e fuoriesce uno spirito che s’ingigantisce e diventa un mostro orrendo alto come l’albero, che grida: “Ti devo rompere l’osso del collo.” Al giovane spaventato, per questa sorte, urla: “Credi forse che io sia stato rinchiuso tanto tempo per grazia? No, era per punizione. Io sono il potentissimo Mercurio; a chi mi libera, devo rompergli il collo.” Il giovane chiede una prova per sapere se è vero. Lo spirito rientra nella bottiglia e il giovane subito la chiude con il tappo. Lo spirito implora di essere nuovamente liberato e promette che in compenso lo farà diventare ricco. Il giovane prova, lo spirito esce e gli dà uno pezzo di stoffa, che da una parte cura le ferite e dall’altro muta il metallo in argento. Il giovane diventa ricco e può tornare agli studi, s’iscrive all’università, diventa dottore e guarisce tutti con il pezzetto di stoffa.”
Jung interpreta la favola in chiave alchemica. L’essenza mercuriale, ossia il principium individuationis, tende a svilupparsi liberamente in circostanze naturali. Il principio viene ripreso dalla filosofia di Schopenhauer, per il quale Il mondo non è altro che la rappresentazione differenziata di una stessa unica Volontà di vivere (Wille zum leben). Oggetto di rappresentazione, la Volontà si manifesta illusoriamente (Velo di Maya) attraverso gli individui, apparentemente differenziati e irrimediabilmente separati l'uno dall'altro. Il principio d’individuazione, per Jung, è il processo, in base a cui la persona diventa sé stessa, un essere unico e differenziato dalla psiche collettiva e inconscia. Questo sviluppo viene privato della sua libertà da una violenza esterna intenzionale, che lo imprigiona con un artificio, confinandolo come spirito maligno. Infatti, commenta Jung, soltanto gli spiriti maligni vengono confinati! Il proposito omicida rivela la malvagità dello spirito. Risulta quindi meritoria l’opera compiuta dal maestro alchimista d’imprigionare il principium individuationis, seppellendo il male naturale alle “radici” dell’albero, cioè sotto terra, come dire nel corpo, nella materia. In quest’opera l’alchimista imita il Creatore. La semplice istintualità e l’ingenua inconsapevolezza dell’essere naturale, non turbata dalla coscienza, quando viene interrotta nel suo libero sviluppo, rivela la distinzione del bene e del male e quindi la scienza morale e la colpa. Per gli alchimisti, la bottiglia, il vas hermeticum, chiusa “ermeticamente” con il sigillo di Ermete, doveva essere un vitrum, possibilmente rotondo, simbolo dell’universo, in cui la terra venne creata. Storicamente, lo spirito cattivo imprigionato era il dio pagano, confinato con l’avvento del Cristianesimo.
Queste spiegazioni di Jung vanno interpretate alla luce del suo pensiero che riteneva la persona come l’insieme sia del bene che del male, la sua parte oscura quest’ultima, l’Ombra. E nei suoi studi su psicologia e religione, discute il simbolo della quaternità, che nell’inconscio dell’uomo areligioso moderno si sovrappone allo schema trinitario. Che cosa aveva detto ridendo l’Incurvato, riproponendo la battuta di Jung, che parafrasa l’incipit del “Timeo” di Platone: “Uno, due, tre, il quarto dov’è?”
La palla d’oro, il globo di vetro alchimistico, indica la completezza dell’uomo, prima di venire smembrato, fatto a pezzi o separato, prima di diventare due entità separate. Ecco perché Jung dice che l’idea di Nietzsche non è altro che il nuovo riproporsi della figura medievale dell’alchimista.
Il servus fugitivus è il fluido mercuriale volatile, con le ali ai piedi, come dice Jung, lo sfuggente Mercurio, che sempre si sottrae alla presa, un vero truffatore che spinge l’alchimista alla disperazione. Se, però, si riesce a trattenerlo nel “vas hermeticum”, allora il selvaggio Mercurio diventa uno spirito servizievole, obbediente, familiaris.
Ed ora illustriamo il titolo: “All’indomani della mia morte.” Io mi presento come un indefinibile alchimista, che prima di lasciare il suolo di questa terra, lancia ai suoi amici la “palla d’oro”, il lascito spirituale di tutto quel materiale psichico disordinato, che costituisce la sua “letteratura” sotterranea. In tale veste, mi raffiguro come un autore postumo, di cui rimane, all’indomani della mia morte, una beffarda eredità.
Resta un ultimo interrogativo, vago e sfuggente, che aleggia nell’aria. Ma la figura di questo alchimista, a ragione definitosi “indefinibile”, non è forse la maschera dietro cui si nasconde il demone dei misteri di tutti i tenebriones?
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