UNA LUCE TENEBROSA Dove siamo? – Nella caverna. – Quale caverna? – Quella del mito platonico. – Raccontiamo il mito con un con un copia incolla e veniamone fuori. – Troppo semplice. – Perché? – Tu non hai occhi per vedere. – Ma se stiamo nel buio di una caverna, seppure platonica, è il caso di dire, come faccio a vedere? – Ripeto, non hai occhi per vedere. – Ho la vista offuscata, vuoi dire? – Più o meno. – E allora, quel bagliore là in fondo, potrebbe rischiararmi la vista. – Peggio che andar di notte, ti farebbe perdere del tutto ogni possibilità di visione. – No, io vado a vedere. – Debbo venire con te. – Non sei obbligato. – Ti devo controllare. – Controlla tua sorella caverna. – Ehi, maleducato! – Io parlo come il poverello di Assisi. – Anch’io, fra’. – Come? – Fratello, frate. – Ah! o’ fra’! – Qui, si brancola nel buio, o’ fra’. – E te l’ho detto che dobbiamo andare fino in fondo a quella parete. – Mi sembra di vedere delle persone di spalle. – Stanno guardando la televisione. – Al riverbero della fiamma vedono passare delle ombre sulla parete. – Forse sono quei numeri di cui parlavamo. – Non mi dire che stanno guardando una partita di calcio al maxischermo. – Ecco un numero, il 16. – Eh? – L’1 verticale si è buttato in orizzontale. – Come? – Ma non ha preso lo 0 tirato dal 16. – Ehi! Questi gridano, festeggiano. – Gol! o’ fra! – Credono che lo spettacolo sia vero. – Perché, non è vero, o’ fra’? – No, sono immagini del vero. – Veramente, o’ fra’? – E smettila con questo vocativo partenopeo, o’ fra’! – Ma è la nazionale! – Appunto! – E allora? – È la registrazione della partita Italia Norvegia, disputata a San Siro, il primo tempo in cui ha segnato l’azzurro con la maglia 16. – E quindi? – C’è poco da festeggiare, nella ripresa abbiamo preso quattro gol: 1 a 4. – Allora, i numeri esistono, e corrono pure! – Andiamocene. – Questi non si muovono. – Sono fissi alle immagini sulla parete. – La partita non è finita. – Non possono voltare il collo, convertirsi. – E perché? – Perché stanno incatenati lì davanti da fanciulli. – Davvero? – Vicino casa mia, una volta, ho visto due donne, forse la mamma (Calloné) e la zia (Ilizia) che portavano a passeggio un bebè in carrozzino, e siccome il piccolo frignava, per metterlo a tacere, gli hanno messo tra le mani un iPhone, con cui il bebè si è calmato e ha cominciato a trastullarsi con questo iPhone giocattolo. – E questo che c’entra? – Tu non solo non hai occhi per vedere i numeri, ovvero gli enti matematici ideali, ma neppure capisci il mito che stai vivendo e le metafore che esso trascina con sé. – Ma che dici, o’ fra’? – E smettila, con questo vezzo, che mi hai stufato! – Scusa, o’ fra’. – Sopportare pazientemente le persone moleste. – E pregare il Signore che muoiano presto. – Ma benedetto, ragazzo. – Senti, o’ fra’, io non lo faccio apposta; ma ultimamente, ho visto un film, in cui il protagonista e gli altri attori partenopei facevano la satira a questo vezzo, come lo chiami tu, e io sono rimasto impressionato. – Allora, o’ fra’, giriamo il collo, e andiamo via da questo fondo di caverna. – E non ci viene il torcicollo? – No! – Scusa. – Via, dunque! Allontaniamoci dall’ombra di questa luce tenebrosa e andiamo incontro ad una luce vera. – Ti seguo. – Ottimo!
IL BARATRO DI LUCE Ecco, adesso, prendi il testo di Platone, e leggiamo i brani riguardanti il mito della caverna, che noi giullari del destino, poco fa, abbiamo scimmiottato. – Abbiamo interpretato un copione scritto da altri. – Lasciamo perdere, e non parliamo di questo “altri” indefinibile autore. – Copia anche lui. – Questo lo diceva anche Platone, come poi spieghiamo. Adesso leggiamo i brani del suo dialogo, che ci interessano. – Quali sono? – Per il momento l’incipit del Libro Settimo della “Repubblica” (514a-515d) «Ora», seguitai, «paragona la nostra natura, per quanto concerne l'educazione e la mancanza di educazione, a un caso di questo genere. Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli». «Li vedo», disse. «Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri tacciono». «Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!». «Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di sé stessi e dei compagni qualcos'altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?» «E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?» «E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?» «Sicuro!». «Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?» «È inevitabile». «E se nel carcere ci fosse anche un'eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all'ombra che passa?» «Certo, per Zeus!». «Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti». «È del tutto inevitabile», disse. «Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall'ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo (περιάγειν), camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l'abbaglio fosse incapace di scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos'è? Non credi che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?» «E di molto!», esclamò. «E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli più chiari di quelli che gli vengono mostrati?» «È così», rispose.
Abbiamo copiato un po' più del dovuto. – Come? – L’ultimo periodo (515e), “Se fosse costretto a guardare la luce…”, comincia a trattare il problema della verità (aletheia), attraverso l’immagine del passaggio dall’ombra alla luce, di cui Heidegger ha dato un’interpretazione diversa da quella comune, sviando il nostro discorso. – E qual è il nostro discorso? – Comprendere il significato del mito, nel contesto del discorso che Socrate intrattiene con Glaucone, un Socrate ormai sostenitore di tesi platoniche. – E quali sono queste tesi? – Il mito della caverna rappresenta l’allegoria del filosofo, che dal mondo sensibile ascende al mondo delle Idee, per acquisire la conoscenza del vero. Per questo, nella sua educazione (paideia), il compito principale del filosofo è quello di convertire (περιάγειν) il suo sguardo verso l'Idea del Bene. – Il passaggio dall’ombra alla luce è quindi uno svelarsi del nascosto, latente, come l’alfa privativo della parola verità nella lingua greca indica (a-letheia, non-latente), un “vedere”, conoscere la verità. – In tal modo, acquisita la vera conoscenza, il filosofo potrà quindi scendere di nuovo nel mondo sensibile, tra la gente comune, che vive senza saperlo nell’ignoranza, ed avere la capacità di governare. – In tale compito, il filosofo rischia di non essere creduto e perfino di essere ucciso. – Beh! Mi sembra ovvio: arriva uno (il filosofo) e vuole governare, dichiarando di essere quello che ha la vera conoscenza, mentre gli altri sono nell’ignoranza, non conoscenza. Non fa certo piacere sentirsi dire di essere ignorante. – Era già successo con Socrate, che andava in giro dicendo che l’oracolo di Delfi, tramite la Pizia, lo aveva proclamato “il più sapiente degli uomini”, ed abbiamo visto come è andata a finire. – Sì, aveva interrogato tutti coloro che si ritenevano sapienti, ma aveva scoperto di essere l’unico a sapere di non sapere, come dire che gli altri erano ignoranti, ma non sapevano di esserlo. – Chiaramente questi suoi discorsi avevano dovuto irritare i suoi concittadini, ed era stato anche avvertito, ma lui continuava imperterrito, dicendo di non meravigliarsi di essere frainteso. ANITO: O Socrate, mi sembra che tu abbia una certa facilità a parlar male della gente. Quindi io ti consiglierei, se vuoi prestarmi fede, di stare attento: forse anche in un'altra città è facile fare del male o del bene alla gente, ma in questa è addirittura facilissimo e penso che lo sappia anche tu. SOCRATE: Menone, ho l'impressione che Anito sia adirato e non me ne meraviglio: per prima cosa pensa che io stia parlando male di costoro, poi ritiene di essere anche lui uno di essi. Ma se mai saprà cosa vuol dire parlar male, smetterà la sua irritazione; ora però lo ignora. Dimmi, non ci sono anche tra voi dei galantuomini? (Platone, “Menone”, 94e-95a) Io direi di cambiare argomento e ritornare allo studio dei numeri. – Beh! Certo, la filosofia è pericolosa, si sa come si comincia, ma non si sa come va a finire. – Platone e gli atri discepoli rimasero sconvolti dalla morte di Socrate e dovettero allontanarsi abbastanza in fretta dalla Città. – Lo stesso Aristotele dichiarò di voler evitare di dare agli ateniesi la possibilità di "peccare di nuovo contro la filosofia", quando si rifugiò a Calcide in Eubea, l’anno prima di morire, temendo di essere incriminato per empietà. – Ma Socrate non poteva rifiutarsi di bere la cicuta? – L’aveva scelto lui. – Possibile? – Sì, altrimenti la messa a morte prevista era quella di essere gettato nel baratro. – Dici il baratro di luce, in cui precipita tutto il presente? – Sì, quello. – Ciao.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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UNA LUCE TENEBROSA
Dove siamo? – Nella caverna. – Quale caverna? – Quella del mito platonico. – Raccontiamo il mito con un con un copia incolla e veniamone fuori. – Troppo semplice. – Perché? – Tu non hai occhi per vedere. – Ma se stiamo nel buio di una caverna, seppure platonica, è il caso di dire, come faccio a vedere? – Ripeto, non hai occhi per vedere. – Ho la vista offuscata, vuoi dire? – Più o meno. – E allora, quel bagliore là in fondo, potrebbe rischiararmi la vista. – Peggio che andar di notte, ti farebbe perdere del tutto ogni possibilità di visione. – No, io vado a vedere. – Debbo venire con te. – Non sei obbligato. – Ti devo controllare. – Controlla tua sorella caverna. – Ehi, maleducato! – Io parlo come il poverello di Assisi. – Anch’io, fra’. – Come? – Fratello, frate. – Ah! o’ fra’! – Qui, si brancola nel buio, o’ fra’. – E te l’ho detto che dobbiamo andare fino in fondo a quella parete. – Mi sembra di vedere delle persone di spalle. – Stanno guardando la televisione. – Al riverbero della fiamma vedono passare delle ombre sulla parete. – Forse sono quei numeri di cui parlavamo. – Non mi dire che stanno guardando una partita di calcio al maxischermo. – Ecco un numero, il 16. – Eh? – L’1 verticale si è buttato in orizzontale. – Come? – Ma non ha preso lo 0 tirato dal 16. – Ehi! Questi gridano, festeggiano. – Gol! o’ fra! – Credono che lo spettacolo sia vero. – Perché, non è vero, o’ fra’? – No, sono immagini del vero. – Veramente, o’ fra’? – E smettila con questo vocativo partenopeo, o’ fra’! – Ma è la nazionale! – Appunto! – E allora? – È la registrazione della partita Italia Norvegia, disputata a San Siro, il primo tempo in cui ha segnato l’azzurro con la maglia 16. – E quindi? – C’è poco da festeggiare, nella ripresa abbiamo preso quattro gol: 1 a 4. – Allora, i numeri esistono, e corrono pure! – Andiamocene. – Questi non si muovono. – Sono fissi alle immagini sulla parete. – La partita non è finita. – Non possono voltare il collo, convertirsi. – E perché? – Perché stanno incatenati lì davanti da fanciulli. – Davvero? – Vicino casa mia, una volta, ho visto due donne, forse la mamma (Calloné) e la zia (Ilizia) che portavano a passeggio un bebè in carrozzino, e siccome il piccolo frignava, per metterlo a tacere, gli hanno messo tra le mani un iPhone, con cui il bebè si è calmato e ha cominciato a trastullarsi con questo iPhone giocattolo. – E questo che c’entra? – Tu non solo non hai occhi per vedere i numeri, ovvero gli enti matematici ideali, ma neppure capisci il mito che stai vivendo e le metafore che esso trascina con sé. – Ma che dici, o’ fra’? – E smettila, con questo vezzo, che mi hai stufato! – Scusa, o’ fra’. – Sopportare pazientemente le persone moleste. – E pregare il Signore che muoiano presto. – Ma benedetto, ragazzo. – Senti, o’ fra’, io non lo faccio apposta; ma ultimamente, ho visto un film, in cui il protagonista e gli altri attori partenopei facevano la satira a questo vezzo, come lo chiami tu, e io sono rimasto impressionato. – Allora, o’ fra’, giriamo il collo, e andiamo via da questo fondo di caverna. – E non ci viene il torcicollo? – No! – Scusa. – Via, dunque! Allontaniamoci dall’ombra di questa luce tenebrosa e andiamo incontro ad una luce vera. – Ti seguo. – Ottimo!
IL BARATRO DI LUCE
Ecco, adesso, prendi il testo di Platone, e leggiamo i brani riguardanti il mito della caverna, che noi giullari del destino, poco fa, abbiamo scimmiottato. – Abbiamo interpretato un copione scritto da altri. – Lasciamo perdere, e non parliamo di questo “altri” indefinibile autore. – Copia anche lui. – Questo lo diceva anche Platone, come poi spieghiamo. Adesso leggiamo i brani del suo dialogo, che ci interessano. – Quali sono? – Per il momento l’incipit del Libro Settimo della “Repubblica” (514a-515d)
«Ora», seguitai, «paragona la nostra natura, per quanto concerne l'educazione e la mancanza di educazione, a un caso di questo genere. Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli». «Li vedo», disse. «Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri tacciono». «Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!». «Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di sé stessi e dei compagni qualcos'altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?» «E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?» «E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?» «Sicuro!». «Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?» «È inevitabile». «E se nel carcere ci fosse anche un'eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all'ombra che passa?» «Certo, per Zeus!». «Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti». «È del tutto inevitabile», disse. «Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall'ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo (περιάγειν), camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l'abbaglio fosse incapace di scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos'è? Non credi che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?» «E di molto!», esclamò. «E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli più chiari di quelli che gli vengono mostrati?» «È così», rispose.
Abbiamo copiato un po' più del dovuto. – Come? – L’ultimo periodo (515e), “Se fosse costretto a guardare la luce…”, comincia a trattare il problema della verità (aletheia), attraverso l’immagine del passaggio dall’ombra alla luce, di cui Heidegger ha dato un’interpretazione diversa da quella comune, sviando il nostro discorso. – E qual è il nostro discorso? – Comprendere il significato del mito, nel contesto del discorso che Socrate intrattiene con Glaucone, un Socrate ormai sostenitore di tesi platoniche. – E quali sono queste tesi? – Il mito della caverna rappresenta l’allegoria del filosofo, che dal mondo sensibile ascende al mondo delle Idee, per acquisire la conoscenza del vero. Per questo, nella sua educazione (paideia), il compito principale del filosofo è quello di convertire (περιάγειν) il suo sguardo verso l'Idea del Bene. – Il passaggio dall’ombra alla luce è quindi uno svelarsi del nascosto, latente, come l’alfa privativo della parola verità nella lingua greca indica (a-letheia, non-latente), un “vedere”, conoscere la verità. – In tal modo, acquisita la vera conoscenza, il filosofo potrà quindi scendere di nuovo nel mondo sensibile, tra la gente comune, che vive senza saperlo nell’ignoranza, ed avere la capacità di governare. – In tale compito, il filosofo rischia di non essere creduto e perfino di essere ucciso. – Beh! Mi sembra ovvio: arriva uno (il filosofo) e vuole governare, dichiarando di essere quello che ha la vera conoscenza, mentre gli altri sono nell’ignoranza, non conoscenza. Non fa certo piacere sentirsi dire di essere ignorante. – Era già successo con Socrate, che andava in giro dicendo che l’oracolo di Delfi, tramite la Pizia, lo aveva proclamato “il più sapiente degli uomini”, ed abbiamo visto come è andata a finire. – Sì, aveva interrogato tutti coloro che si ritenevano sapienti, ma aveva scoperto di essere l’unico a sapere di non sapere, come dire che gli altri erano ignoranti, ma non sapevano di esserlo. – Chiaramente questi suoi discorsi avevano dovuto irritare i suoi concittadini, ed era stato anche avvertito, ma lui continuava imperterrito, dicendo di non meravigliarsi di essere frainteso.
ANITO: O Socrate, mi sembra che tu abbia una certa facilità a parlar male della gente. Quindi io ti consiglierei, se vuoi prestarmi fede, di stare attento: forse anche in un'altra città è facile fare del male o del bene alla gente, ma in questa è addirittura facilissimo e penso che lo sappia anche tu. SOCRATE: Menone, ho l'impressione che Anito sia adirato e non me ne meraviglio: per prima cosa pensa che io stia parlando male di costoro, poi ritiene di essere anche lui uno di essi. Ma se mai saprà cosa vuol dire parlar male, smetterà la sua irritazione; ora però lo ignora. Dimmi, non ci sono anche tra voi dei galantuomini? (Platone, “Menone”, 94e-95a)
Io direi di cambiare argomento e ritornare allo studio dei numeri. – Beh! Certo, la filosofia è pericolosa, si sa come si comincia, ma non si sa come va a finire. – Platone e gli atri discepoli rimasero sconvolti dalla morte di Socrate e dovettero allontanarsi abbastanza in fretta dalla Città. – Lo stesso Aristotele dichiarò di voler evitare di dare agli ateniesi la possibilità di "peccare di nuovo contro la filosofia", quando si rifugiò a Calcide in Eubea, l’anno prima di morire, temendo di essere incriminato per empietà.
– Ma Socrate non poteva rifiutarsi di bere la cicuta? – L’aveva scelto lui. – Possibile? – Sì, altrimenti la messa a morte prevista era quella di essere gettato nel baratro. – Dici il baratro di luce, in cui precipita tutto il presente? – Sì, quello. – Ciao.
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