L’ALTRA VIA … Quindi, invece di cominciare, anzi continuare, a gigioneggiare, com‘è nostro solito, rimandiamo al post del 15 novembre 2024: “Il trono eccelso”, paragrafo secondo effettivo: “Il nodo alla gola”, “Libertà e Necessità nella logica dei contrari”, in cui sono messi a confronto il pensiero di Luigi Pareyson ed Emanuele Severino. Va bene. Intanto sposta il commento della “scrittura creativa” in coda a “Un giorno luce” e pubblica “La porta d’avorio”. E che c’entrava tutta questa digressione su Severino? Era “secondo Necessità”. No, seguiva altre vie. Tu vai di là, io di qua. Va bene, ciao.
AUTOMATON “Automa: una delle parole più ambigue. Se oggi diciamo di un uomo che è un automa, intendiamo che si muove senza coscienza e volontà, spinto fa una forza esterna, come avviene nelle macchine costruite sin dall’antichità, che imitano i movimenti dei viventi e vennero chiamati “automi”, soprattutto con la comparsa dell’opera del matematico Erone di Alessandria (I-II sec., d. C.), “Sugli automi”. Ma automa proviene dall’antica parola greca autòmaton, che significa “ciò che si muove e agisce da sé, di proprio impulso, spontaneo” e anche “la spontaneità del bramare, del tendere e dell’intendere”. Tale parola è riferita alle piante, agli animali, ai fiumi, agli uomini, alla morte. È così accentuato, in questa parola, il senso del non aver bisogno di nient’altro che di sé, per accadere ed esistere, che autòmaton significa addirittura il “caso”, ossia ciò che accade sulla terra, senza provenire da alcuna regione, dove l’occhio di un dio o di un mortale possa prefigurarlo prima del suo accadere. L’autòmaton è cioè l’assolutamente imprevedibile. Si tratta dell’imprevedibilità stessa della vita. E nella vita il più imprevedibile degli eventi è l’uomo stesso.” Emanuele Severino, “La strada” (1983)
Questa era la chiosa mancata ieri, in margine alle battute dell’ultima riga, quando avevo interrotto la stesura completa del racconto, oggi pubblicato per intero: “Che cosa segue? La Necessità. No, segue l'altra via. Come? Il caso, l’accaduto, autòmaton. Come? A domani.” Bisognava illustrare la parola “autòmaton”. Avevo il proposito di pubblicare l’intera prima parte della “porta d’avorio”, poi last minute ho cambiato idea e ho pubblicato solo due paragrafi. Perché? La contingenza immediata era di non ritardare la pubblicazione del post nella mattinata, perdendo ulteriore tempo nel voler rileggere con attenzione il racconto in ristampa. Ma avevo anche il malcelato proposito di dare tempo al lettore del post di giornata di andarsi a leggere il citato “Il nodo alla gola”, e se non l’ha fatto ieri, invito a farlo oggi. Va bene. Chi ha risposto? Io, il lettore. Ah! (Sono anch’io lettore. Io chi? Uffa!) Infine, diciamo, che ogni tanto fa bene leggere solo una breve nota umoristica, o presunta tale – ma una nota su Severino è umoristica? – invece di narrazioni o discorsi più o meno interessanti. E qui chiudo con un monito: domani vi interrogo su “Il nodo alla gola”, e se avrò tempo anche su Plotino. Pure Plotino? Sì, perché? Non l’ho ancora letto. E allora, pelandrone, che aspetti? Che tu mi spieghi che cosa significa “pelandrone”. Scansafatiche, fannullone, con un’idea di viziosa pigrizia e trascuratezza. Il tuo autoritratto. No, il tuo. Ecco che ricomincia il teatrino. Non possiamo proprio farne a meno? No! No, eh? No! Rimando a data da destinare un ulteriore commento non umoristico, come dire senza “interferenze” di giullari alieni, alla pagina di filosofia di Severino su autòmaton.
Post-Scriptum L’hai visto? Chi? Il caporale di giornata. E chi è? Quello che la mattina ci dà la sveglia, insultandoci: pelandrone! E allora? Rideva in maniera sfrenata, ovviamente da solo, davanti allo schermo del computer, dove digitava le sue smodatezze. Davvero? Prima o dopo dobbiamo intervenire. E cioè? Farlo rinchiudere. Tu dici? Certo, questo signor autore offende. E come? Insulta il lettore, cioè sé stesso allo specchio. Facciamogli passare il Natale e poi vediamo. Va bene. Eh, no! Va male. E se no, che fare? Speriamo bene. Però, pelandrone, vogliamo procedere a questa pubblicazione del giorno sì o no? Va bene. Ecco: “La porta d’avorio”.
La smodatezza (o smoderatezza) è l'atto o la qualità di eccedere i limiti della misura, della convenienza, della sobrietà o del buon gusto, comportando eccesso, intemperanza, esagerazione o mancanza di freno. Si usa per descrivere desideri, lussi, ambizioni o comportamenti che vanno oltre il necessario equilibrio, spesso con una connotazione di difetto morale o mancanza di controllo. Comunque, ne riparliamo. Di che coa? Del ricovero e successivo rilascio. Quando? Dopo le feste, o magari nel corso di questi prossimi giorni.
“Sunt geminae somni portae; quarum altera fertur cornea, qua veris facilis datur exitus umbris, altera candenti perfecta nitens elephanto, sed falsa ad caelum mittunt insomnia Manes.” Virgilio, Eneide, VI, 893 ss.
1. Il turbine bianco Ero seduto sul divano del salotto in ombra e guardavo verso il riquadro scuro della vetrata sul terrazzo, il silenzio della notte interrotto soltanto dal fruscio impercettibile delle luci intermittenti dell’albero di Natale e sulla mia sinistra il grigio lampeggiante dello schermo televisivo. Mi è venuto incontro Carlo De Pasquale, l’atteggiamento di sempre: “Ciao, Silvio,” mi ha detto, sorridente. “Oh, Carlo!” ho esclamato, sorpreso perché non lo vedevo da tempo. “Vieni,” mi ha detto, ed io l’ho seguito sulla pista da sci. Abbiamo preso la seggiovia ed abbiamo iniziato a salire; mentre salivamo sempre più a monte, potevamo osservare giù a valle il nero punteggiare sul bianco di una miriade di sciatori, che sembrava formassero uno sciame di moscerini. “L’umanità,” ha detto De Pasquale, il volto illuminato dal sorriso. Ho guardato in basso quel nero punteggiare ed ho visto salire improvviso ed arrivare fino a me sulla seggiovia come un “turbine” bianco nell’avvolgente forma di una spirale. Ho aperto gli occhi nel buio, il lampeggiare grigio dello schermo televisivo alla mia sinistra, nel silenzio della stanza, interrotto dall’intermittenza delle luci dell’albero di Natale. In maniera automatica, quasi come un sonnambulo, mi sono alzato dal divano, ho attraversato il salotto e salendo i gradini della scala interna della casa, sono andato al piano di sopra nella camera da letto a dormire. Il dottor De Pasquale è un illustre neurologo altoatesino ed io mi sento molto fiero della sua amicizia. Ero andato in vacanza sulla neve con Vera, mia moglie, e i nostri tre figli Luigi, Giulio e Silvia. Clelia, la collega amica di Vera, ci aveva raccomandato di andare alla pensione “Dolomiti”, tenuta da una Gastwirtin (locandiera) molto affabile, Frau Schreiber. La prima volta ci trovammo molto bene e ritornammo anche l’anno successivo, per la settimana bianca, in verità due settimane. Ormai ero diventato un bravo sciatore ed anche Vera e i bambini, ma quella volta, forse perché non aveva indossato un maglione abbastanza caldo sotto la tuta, il primo giorno, Vera si raffreddò e rimase a letto due giorni con la febbre. Io accompagnavo i bambini sulle piste, dove ci trattenevamo soltanto la mattina, mentre nel pomeriggio rimanevo nella sala soggiorno della pensione, per essere subito d’aiuto a Vera, i piccoli invece, già abbastanza grandicelli per stare insieme da soli, andavano a divertirsi con gli slittini sul ghiaccio o al minigolf o sulla pista di pattinaggio.
Fu in uno di quei pomeriggi che feci conoscenza con il dottor De Pasquale, figlio di Frau Ailke Schreiber e di Felice De Pasquale, ex-nuotatore napoletano, trasferitosi in Alto Adige, dove aveva sposato Ailke, ed era diventato gestore della piscina olimpica di Auronzo di Cadore e maestro di nuoto. Stavo leggendo un libro di Elias Canetti, “Il frutto del fuoco”, quando Vera mi ha mandato un sms sul telefonino, per chiedermi di portarle in camera una bottiglia d’acqua da bere. Al bar c’era la kellerina, e subito mi ha servito l’acqua minerale, che ho portato su in camera da Vera. Poco dopo, quando sono sceso, ho visto il dottor De Pasquale, il giovane che poi ho saputo essere il neurologo di fama, se non proprio nazionale, quanto meno regionale. Era in piedi davanti al tavolinetto, dove avevo posato il libro di Canetti, forse stava leggendo il titolo della copertina. Nel vedermi arrivare, si è spostato leggermente di lato, un atteggiamento quasi di scusa per la sua indiscrezione. “Un premio Nobel,” ho detto sorridendogli, “certo, merita attenzione.” Si è sentito subito a suo agio, per la mia battuta. Allora, incoraggiante, l’ho invitato a sedersi con me, e il giovane ha accettato. “Beviamo qualcosa,” ho detto, “offro io.” Ha fatto un gesto quasi di riprovazione: “Offre la casa, se mi posso permettere,” ha replicato. “Zwei Biere, bitte,” ha detto alla kellerina al banco, facendo il segno due con le dita. Avevo già notato quel giovane alto e biondo con i capelli ricci, gli occhiali da vista, il corpo massiccio, ma non sapevo ancora che fosse il figlio di Frau Schreiber. Quando Vera si era ammalata, avevo chiesto alla donna se poteva indirizzarmi da un medico, e lei mi aveva assicurato che avrebbe provveduto il figlio in quel momento assente, ma a cui aveva prontamente telefonato. Nel giro di qualche minuto si era presentato un dottore, che aveva prescritto alcune medicine e raccomandato qualche giorno di riposo, per quella influenza passeggera. Vera doveva stare più attenta e coprirsi meglio, perché non stavamo a Roma. “Stanotte, meno quindici, è il freddo alpino,” mi diceva intanto De Pasquale. “Come sta sua moglie?” Era venuta la kellerina con due grandi boccali di birra sul vassoio, che era riuscita a tenere in equilibrio, un attimo prima, quando per un soffio non si era scontrata con due avventori entrati in quel momento nella piccola hall della pensione. “Achtung bitte!” aveva pronunziato, scansando i due, ed ora, sorridendo, posava le sottocoppe sul tavolino e i due boccali di birra.
“Fortunatamente non è niente di grave,” risposi. “Ero in paese, quando mia madre ha telefonato e ho pregato il collega Stefanon di venire subito.” Ringraziai, lui si schermì e indicò il libro di Canetti. Presto il discorso scivolò sui temi trattati dallo scrittore bulgaro di lingua tedesca, io accennai al problema della psicologia delle masse, prendendo spunto dalla descrizione fatta nel libro che stavo leggendo di una violenta protesta operaia, esplosa la mattina del 15 luglio 1927, a Vienna. I tumulti durarono due giorni e si conclusero con una novantina di morti, mi soffermavo sui particolari illustrati da Canetti, in specie di come il singolo possa essere travolto e sentirsi irretito nella folla. A tal proposito, raccolsi il libro, lo sfogliai e lessi l’affermazione dell’autore, per me illuminante sull’esistenza di un’anima collettiva, la cui volontà trascende quella individuale: “Mi trasformai in un elemento della massa, la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva.” De Pasquale mi ascoltava con attenzione e pazienza, sembrava voler cogliere un’opportunità per un suo commento, che poi intervenne, quando approfittò di una mia pausa. Osservò come anche Robert Musil, in “L’uomo senza qualità”, registra interessanti notazioni sulla psicologia della massa in movimento, quando descrive, nella finzione del romanzo, un corteo di protesta promosso dall’Azione Parallela, che raggiunge il palazzo del conte Leisendorf. Egli parla di un’irrazionale eccitazione che trabocca sommergendo la ragione, un “andare fuori di sé” affine a quegli stati di estasi e trasfigurazione, che non fanno stare più negli abiti e nella pelle, un’azione di massa percepita a un tempo come violenza e liberazione. È una forma contagiosa d’isteria, osservò De Pasquale, che possiamo riscontrare anche nel protagonista, Ulrich, quando affacciato al balcone del palazzo del conte, notando non pochi dimostranti allegri e festosi, scoppia a ridere anche lui, provocando la collera minacciosa di quelli di sotto, che lo avevano scambiato per Leisendorf. A questo punto non potei fare a meno di ridere anch’io, ricordandomi di situazioni simili vissute in manifestazioni di piazza, dove si passa facilmente dalle beffe alla rissa. “Si cambia da un momento all’altro, come il tempo in montagna” commentò De Pasquale. Il discorso si spostò sulla neve e sullo sci, che per noi “romani” costituiva un’evasione dai consueti scenari mediterranei, il sole e il mare e l’estate, che non è la fredda e splendente aria alpina. E qui venne fuori la nostalgia dell’altoatesino, nelle cui vene scorreva sangue napoletano, il ricordo delle vacanze passate dalla nonna, quand’era bambino, la patria del cuore. Intanto, era venuto il momento di andare a vedere e controllare i marmocchi, che si divertivano fuori con gli slittini. Ci lasciammo con l’intesa di ritrovarci sulle piste da sci nei giorni seguenti, ai suoi occhi rappresentavo il trait d’union con i luoghi d’origine di un ramo ancestrale della sua famiglia.
Passò da Roma l’estate successiva. Si annunziò con una telefonata, riconobbi subito la sua voce dal forte accento tedesco, era diretto con la fidanzata americana a Napoli e poi in Sicilia. Si fermò a pranzo, dove si presentò con un grosso involto di un metro circa di lunghezza e una cassetta di vini pregiata. Quando svolgemmo il pacco sul tavolo della cucina, scoprimmo che era uno strudel di grandezza esagerata. De Pasquale dichiarò che si trattava di un regalo, opera della famiglia Schreiber, sua madre e le zie, e illustrò la ricetta: circa cinque chili di mele, due di pasta matta, cento grammi di uva passa, mezzo etto di pinoli, pan grattato saltato nel burro, il tutto riccamente innaffiato di cannella e ricoperto da un leggero velo di zucchero. A tavola Vera servì un piatto di spaghetti alle vongole sfumate con vino bianco del Sannio, Falanghina. Il piatto ricevette molte lodi dai nostri commensali, suscitando le proteste sincere della cuoca, anche se Nancy osservò che era riuscita ad avvertire quella punta di peperoncino così saggiamente dosato, quasi da non lasciarlo percepire ad un gusto non abituato a quei sapori. La fidanzata di De Pasquale si era soffermata su questo particolare del peperoncino, per rivelare le sue origini calabresi, come si poteva arguire, disse, dal suo cognome, Frangipane. Lei e Carlo si erano conosciuti all’Università di Hartford nel Connecticut: “Poi sono venuta a frequentare un corso di parapendio in Trentino,” disse Nancy e guardò De Pasquale, “ed ora siamo in giro, così posso conoscere l’Italia.” Vera aveva portato in tavola un fritto misto di pesce con spiedini di mazzancolle. “Alla ricerca delle vostre origini,” dissi rivolgendomi a entrambi. “Peccato che io non possa vederla, questa mia terra soltanto raccontata, mi dicono che dalla punta estrema della Calabria, si possono vedere le luci della costa della Sicilia,” disse Nancy. E al mio sguardo interrogativo, aggiunse: “Seguiamo lo stesso itinerario di Goethe, che a Napoli s’imbarcò direttamente per l’isola degli aranci, non sappiamo se avremo la sua stessa fortuna, viaggiò con una gioviale compagnia di artisti e ballerini scritturati dall’opera di Palermo.” Al ritorno lei sarebbe volata dalla Sicilia direttamente in America, mentre lui tornava a casa con un volo nazionale. Intanto, era arrivato a tavola lo strudel gigante, accompagnato da una bottiglia di Gewürztraminer, scelta su loro consiglio tra quelle donate dai nostri amici. E qui il discorso cadde sul nome Schreiber, fu lo stesso De Pasquale a introdurlo, dichiarando con un sorriso enigmatico che in Germania il nome di famiglia della madre è molto diffuso, soprattutto con la variante priva della “i” e cioè “Schreber”. Il più famoso, dissi io, è stato alla fine dell’Ottocento un giurista di Lipsia, Daniel Paul Schreber l’autore di “Memorie di un malato di nervi”. De Pasquale ebbe un breve sorriso: “Confesso di non sapere bene se ho scelto di diventare un neurologo, per questa mia quasi omonimia da parte materna con il ferreo magistrato prussiano.” Dopo pranzo andammo a fare un giro per le vie del centro di Roma, io indicai il carcere di Regina Coeli in via della Lungara. Un uomo, probabilmente un agente di polizia penitenziaria, era affacciato a una finestra e guardava il traffico sul Lungotevere, un momento di pausa dalle sue incombenze. “Nel 1913, in viaggio a Roma, il nostro amico Musil visitò il manicomio, che doveva trovarsi più o meno qui, e traspose questa sua esperienza nel suo romanzo, ambientando la scena in quello che doveva rappresentare lo Steinhof di Vienna,” commentò De Pasquale. “Sì, la scena in cui i pazzi salutano Clarissa,” conclusi io, ricordandomi i particolari del racconto. Era un po’, considerai, l’analoga descrizione intrisa di umana tristezza che fa Italo Calvino del “Cottolengo” di Torino, in un suo racconto degli anni Sessanta.
La mattina dopo, prima di partire, quando andammo a salutarli alla stazione Termini, Nancy regalò una piccola sveglia in argento a Vera, insistendo molto per vincere la resistenza della mia consorte ad accettare quel dono abbastanza prezioso. Nancy si fece promettere che in cambio la sua nuova amica l’avrebbe tenuta sul fuso orario di Milano, sorrise, in inglese Milan, un piccolo paesino del New Hampshire, meno sei ore rispetto all’Italia. Vera accettò, piccoli enigmi femminili, scetticismo nostro, il mio e quello di De Pasquale. Qualche anno dopo, quando si sono sposati, abbiamo potuto contraccambiare quel dono, facendo un regalo di altrettanto valore. Poi li sentimmo sempre un po’ meno i coniugi, anche perché avevamo smesso di fare la settimana bianca, i ragazzi erano cresciuti ed erano diventati più autonomi. L’altro giorno ero andato a Palazzo di Giustizia, che ha ampi corridoi in ombra. Stavo uscendo nel cortile, alla luce del giorno, quando sono stato sorpreso da una voce alle mie spalle: “Posso chiedere a lei?” Mi sono voltato e mi è apparsa di fronte una figura femminile, un soprabito bianco, un fisico longilineo, i capelli neri sciolti, non molto lunghi, arricciati a dovere. “Sì,” ho risposto. Mi ha chiesto un’informazione su dove si trovasse un certo ufficio deposito atti del Tribunale. Doveva uscire dall’Edificio B, dove ci trovavamo ed accedere tramite il cortile all’Edificio C di fronte, lì avrebbe trovato l’ufficio. Senza aspettare la replica, ho voltato le spalle e mi sono avviato all’uscita, ben sapendo che lei si sarebbe mossa alle mie spalle e quasi temendo senza ragione di avere dato una risposta sbagliata. Perché? Nel cortile ho guardato l’orologio, era circa mezzogiorno, e senza motivo apparente, ho pensato che sulla costa atlantica dell’America del Nord dovevano essere appena le sei del mattino. Era parecchio tempo che non facevo questo calcolo, qualche volta l’avevo fatto dopo il matrimonio di Nancy con De Pasquale. Ecco, la giovane donna che mi aveva poco prima chiesto l’informazione mi aveva ricordato la figura di Nancy, lo stesso profilo longilineo, gli stessi capelli neri e la stessa acconciatura e poi… Sì, avevo pensato al mio amico, Sergio Nobili, Consigliere di Corte d’Appello, l’ultima volta, l’avevo visto vicino a piazza Cavour, in via Ennio Quirino Visconti. “Ciao, Presidente,” l’avevo salutato, incrociandolo all’angolo con la via Cicerone, sapevo che era stato promosso Presidente di Sezione. “Ciao, Silvio,” mi ha risposto. Nobili era un mio compagno di scuola, l’avevo perso di vista alla fine del liceo, poi l’avevo ritrovato giudice, noto alle cronache per alcuni processi di fatti criminali di rilievo. Io sono uno scrittore di romanzi gialli, per la comune opinione un nullafacente, con la fortuna di avere ereditato rendite immobiliari, in questo senso sono indaffarato in questo ramo, con acquisti, vendite e affitti. Alle spese correnti provvediamo con lo stipendio di Vera, insegnante di musica, comunque finora siamo sopravvissuti e sono confidente nel futuro, un ottimista. Era questo il quadro esistenziale in cui dovetti riconoscermi, quando facemmo il punto delle nostre vite con Sergio. “Minieri!” gridò quel giorno in via Frattina, ero arrivato all’angolo di piazza di Spagna, mi voltai, era Sergio, dopo dieci anni, forse più, non era cambiato dai tempi della scuola. All’epoca, ero fidanzato con Vera e ci trovammo per una pizza a Porta Pia con lui e Stefania, la sua segretaria, come la presentò. In seguito l’ho rivisto, aveva cambiato segretaria, lo incontrai poi altre volte da solo, ma non sapevo più nulla della sua privata, però faceva rapidamente carriera. Perché estemporaneamente avevo pensato a lui, un po’ dopo avere dato l’indicazione alla sconosciuta del palazzo di giustizia, verosimilmente una praticante legale o quantomeno una del ramo giudiziario, in ogni caso diverso dal mio, che pure mi sapevo orientare abbastanza bene in quei meandri?
Se penso a Nancy Frangipane e al marito Carlo De Pasquale, non posso fare a meno di associare l’immagine della coppia al nome di Schreiber o meglio Schreber. Avevo approfondito il caso, leggendo il ritratto che in “Massa e Potere”, Elias Canetti fa di questo personaggio, per illustrare il rapporto tra paranoia e potere. In verità il primo a parlare di paranoia fu Freud, che definì dementia paranoides il caso clinico del presidente Schreber, commentandone il testo: “Memorie di un malato di nervi”, senza però avere cognizione diretta del malato. Tra i vari deliri descritti nelle “Memorie”, Freud si soffermò sulla convinzione dell’autore di essere coinvolto in un processo di trasformazione da uomo in donna e di aver subito molestie sessuali dal suo medico, il Dr. Flechsig. In tale contesto, Freud trovò conferma nella malattia di Schreber della sua teoria incentrata sul collegamento fra sindrome paranoide e libido omosessuale repressa. In aperto dissenso con Freud, Jung giudicò diversamente il disturbo mentale del presidente della Corte d’Appello di Dresda (era questa qualifica che lo legava nella mia mente al mio amico Sergio Nobili?), ritenendolo come un esempio dell’inflazione dell’Io. “In uno schizofrenico vero e proprio è consueto che emerga una situazione archetipica – un archetipo qualsiasi – che dilata la coscienza individuale finché questa non si espande sulla totalità dell’umanità; e quando questa inizia d’un tratto a disfarsi in molte unità, è divenuto un caso di schizofrenia. È come un’esplosione. L’inflazione opera come un gas in pressione all’interno di un contenitore: raggiunto un certo valore, la pressione all’improvviso fa esplodere le pareti del contenitore in molti frammenti.” Ecco, la coscienza frammentata, era forse quest’immagine di Jung, che colpiva il mio interesse, collegandola alle riflessioni di Canetti sul fenomeno della massa. E una certa volta, spinto dalle letture sul tema di quest’autore, mi proposi di scrivere un saggio: “L’anima del potere. Note sullo spirito e la psicologia delle folle.” Il mio proponimento era di rispondere al quesito se esista o meno un’anima collettiva in una massa di persone in movimento, ma lasciai il lavoro incompiuto, perché allora ero impegnato a scrivere le trame dei miei romanzi gialli, un’attività decisamente meno impegnativa di un saggio di carattere antropologico. Nella mente, però, mi è rimasta l’idea di quest’analogia tra la coscienza individuale, che raccoglie un insieme infinito di singolarità, ed una virtuale coscienza collettiva, nell’immagine ad esempio di una piazza o uno stadio gremiti di gente o di cortei di migliaia di persone in marcia per strade metropolitane. È chiaro che l’agitazione delle masse potrebbe essere correlata alla confusione interiore di una coscienza “turbata” da mille demoni. Nella lingua latina, come rileva con perspicacia Jung, “turba” sta per grande confusione, un “indiavolato baccano di spiriti liberi”, potremmo dire noi lettori di Nietzsche. E allora quel “turbine” bianco del sogno, mentre con De Pasquale salivo in seggiovia?
2. La porta d’avorio “Due sono le porte del sonno; di esse una si dice di corno, / da cui spedite escono le ombre vere dei sogni, / l’altra splendente di nitido avorio, ma sogni illusori inviano alla luce del cielo i Mani.” In fuga da Troia, Enea è approdato a Cuma, dove si reca a pregare al tempio Apollo, venendo accolto nell’antro della Sibilla. La veggente, invasata dal dio, furente lancia dai penetrali oscuri vaticini e invita l’eroe a cogliere il ramo d’oro, per guidarlo nell’Ade. “Questo è il luogo delle Ombre, del Sonno e della soporifera Notte,” grida loro Caronte, subito acquetato dalla sacerdotessa di Apollo. Quindi, l’eroe troiano vaga tra le Ombre, riconoscendo quella del padre Anchise, che al vederlo gli tende le braccia, il volto rigato di lacrime. Tre volte tentò di abbracciarlo Enea, tre volte l'ombra invano abbracciata sfuggì alle sue mani, simile ai venti leggeri, simile ad un sogno alato.” Qui, Virgilio ricalca il passo omerico dell’Odissea (XI, 265 ss.), quando Ulisse nell’Ade incontra Anticlea, la madre defunta: “o, pensando tra me, l’estinta madre / volea stringermi al sen: tre volte corsi, / quale il mio cor mi sospingea, ver lei, / e tre volte m’usci fuor delle braccia, / come nebbia sottile, o lieve sogno.” Ed ancora dall’Odissea (XIX, 690 ss.) è tratta la tradizione poetica delle due porte dei sogni. Penelope racconta ad Ulisse travestito da mendicante il sogno delle venti oche uscite dall’acqua per mangiare il suo grano, ma uccise dall’aquila piombata su di loro, che poi con voce umana dal tetto rivela di essere il marito tornato a fare vendetta sui Proci. Un sogno che parla da sé risponde il mendicante, ma Penelope, anticipando di quasi trenta secoli Freud, sa bene che i sogni realizzano i desideri soltanto nel sonno, al risveglio, potranno non avverarsi, ma rivelarsi ingannevoli. «Ospite, sono vani i sogni e alcun fondamento / non hanno; così non tutto si avvera agli uomini poi. / Due sono le porte dei sogni inconsistenti: / una è di corno, l'altra d'avorio; i sogni che passano / attraverso l'avorio segato sono fallaci, portando / vane parole; invece quelli che vengono fuori/ attraverso la porta di lucido corno presentano cose vere, ogni volta che uno li abbia sognati. /Ma credo che non a questa a me venne il terribile sogno.» Nella sua catabasi (discesa), Enea raggiunge da ultimo i Campi Elisi, dove incontra il padre Anchise, che gli rivela la futura grandezza di Roma e i gloriosi destini delle italiche genti, uscendo infine dalla porta d’avorio. Perché, si è domandato, Virgilio compie questa scelta. Per non sminuire le future gesta dell’eroe, si potrebbe rispondere, un destino di gloria non ricevuto come dono dalla fortuna, ma conquistato con le proprie imprese. Faber est suae quisque fortunae. Il retroterra culturale e civile della sentenza attribuita a Sallustio, in contraddizione con il pensiero dominante del fato, non poteva certo sfuggire a Publio Virgilio Marone, suo contemporaneo. In un certo senso, è un pensiero subconscio del poeta, respinto dalla chiarezza della sua coscienza religiosa: “Desine fata deum flecti sperare precando.” (Eneide, VI, 36) “Desisti dalla speranza di cambiare i decreti divini con la preghiera.” È questa differenza che rispecchia il dubbio delle due porte dietro cui i sogni si rivelano realtà vera o illusoria. Ma le immagini vissute nel sogno che cosa ci raccontano, infine? Desideri? Attese? Incubi? Profezie? Fantasmi di vivi e di morti?
Nella modernità a rilanciare il tema dei sogni e la loro interpretazione è stato Freud con “Die Traumdeutung”, un trattato di oniromanzia, nella cui linea di fondo si può riscontrare il dato comune a tutti i sogni come realizzazione di un desiderio più o meno inconscio ossia velato dalle immagini oniriche. Più in profondo, è disceso Jung, allontanandosi da Freud. Per il medico zurighese, le immagini dei sogni presentano in simboli gli archetipi dell’Inconscio collettivo, istinti primordiali, modelli profondi, radicati nella psiche umana. In riferimento ai simboli, ecco cosa scrive Jung: “Una parola o un’immagine è simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato, quando rinvia a un senso più ampio, “inconscio”, che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato”. Che cosa sono quelle “fantasie” che ci raggiungono sotto forma di immagini oniriche? Dice Jung: “L’uomo produce simboli inconsciamente e spontaneamente sotto forma di sogni.” Il nostro percepire la realtà da svegli avviene attraversi i sensi, per cui fenomeni reali, visioni, suoni si trasmettono alla mente sotto forma di eventi psichici, la cui sostanziale natura è inconoscibile, in quanto la psiche non può conoscere la propria sostanza psichica. E pertanto molti eventi che non registriamo consapevolmente rimangono al di sotto della soglia della nostra coscienza, la loro importanza emotiva e vitale riaffiora dall’inconscio come fenomeno riflesso, anche sotto forma di un sogno. “Di regola, l’aspetto inconscio di ogni evento si rivela a noi nei sogni, dove esso appare non come pensiero razionale, ma sotto forma d’immagine simbolica.” Così conclude Jung. Avrebbe potuto simbolicamente rappresentare la mia risalita alpina in seggiovia con il neurologo De Pasquale un’escursione (excursus) nella psiche umana? Ma era stata quella visione un sogno oppure una sfilata di immagini in uno stato di dormiveglia? Scrive Schopenhauer: “Accade che durante le visioni, l’occhio interno proietti le sue figure laddove quello esterno non vede niente, in angoli bui, dietro tende che all’improvviso diventano trasparenti e in particolar modo nell’oscurità della notte, che ben per questo è l’ora degli spiriti, perché oscurità, silenzio e solitudine, eliminando le impressioni esterne, permettono libertà d’azione a quest’attività cerebrale di origine interna.” In “Versuch über das Geistersehnund was damit zusammenhängt”, “Saggio sulla visione degli spiriti e i fenomeni ad essa collegati”, il filosofo tedesco si occupa in primis dei sogni e riconosce ad essi un carattere profetico, adducendo anche prove di esperienze personali. Che cosa il mio sogno o visione in stato di dormiveglia? “L’umanità”, aveva detto De Pasquale, mentre salivamo in seggiovia, indicando la pista di neve gremita di sciatori sotto di noi, uno sciame, tanti puntini neri, e poi quel “turbine” di candida neve che s’innalza a spirale fino ad avvolgermi. Che cosa, dunque, queste immagini in una visione di sogno? È questo andar su con la seggiovia un desiderio di vette bianche di neve immacolata? Un innalzarsi al di sopra dell’umanità nel quadro nostalgico di un panorama alpino? Forse. E De Pasquale, anzi Schreber? Ecco che cosa vela il sogno! Un “turbine” di neve che rappresenta in simbolo una “turba” mentale. E come?
Scrive Jung, a proposito dell’uomo collettivo, sempre più identico all’umanità: “Quella persona è identica al suo popolo, ma questo è un problema aperto. Essa potrebbe coincidere con l’umanità e ciò provocherebbe una grande confusione interiore… una turba… Nei sogni viene rappresentata da uno sciame di formiche o di moscerini, una moltitudine innumerevole di minuscoli animaletti, è sempre questo l’inizio di quel fenomeno caratteristico della psicopatologia che è la schizofrenia. Nel caso in cui la dissociazione in unità prosegua, la mente finirà per dissolversi.” Si raggiungerà un limite insopportabile e alla fine si verificherà una violenta esplosione della psiche, che si polverizzerà in mille frammenti, generando un numero infinito di piccoli “Io”, dotato ognuno di caratteristiche personali differenti. Queste innumerevoli entità psichiche frammentarie, seguendo ognuna uno scopo particolare, non potranno mai comporsi nell’unità dell’Io di un intero individuo, generando quella grande confusione, che costituisce la “turba” mentale. Nel descrivere il fenomeno, Jung si rifà a quanto raccontato dal presidente Schreber nel suo libro: “Memorie di un malato di nervi”. Questi riferiva che spesso si ritrovava sul corpo una moltitudine di minuscoli individui, piccole creature, che per esempio gli camminavano sulle palpebre o volavano in giro, e che gli si posavano sulla pelle come zanzare, a volte scomparendo all’interno. “Cercavano di essere reintegrate in lui,” commenta Jung, che poi prosegue: “Sembra che certe parti vengano a riunirsi, come schegge di ghiaccio che di notte gelino in un blocco unico e si scindano nuovamente quando si alza il vento.” Si apre qui uno squarcio sulla possibilità di guarigione. In verità, con la pubblicazione delle sue “Memorie”, Schreber volle dimostrare di essere guarito dalla sua follia, avendone acquistato coscienza. Infatti, il suo ricorso in appello contro la sentenza d’interdizione venne accolto, permettendogli di essere temporaneamente reintegrato nelle sue funzioni. Ma scrive Jung: “Si può addirittura osservare come ampie aree di un continuum scisso si congelino nuovamente e tornino a essere coese. Tali casi danno l’impressione di essere piuttosto normali, ma qua e là incontrate una fenditura, una scissione che penetra attraverso la superficie.” Per quanto riguarda Schreber, in breve, ricadde nella malattia e fu internato in manicomio dove alla fine spirò. In psichiatria, il caso Schreber ha suscitato tutta una lunga serie d’interpretazioni anche contrastanti, compresa quella di Deleuze e Guattarix, “Anti-Edipo”. È stato inoltre rilevato come nelle sue memorie l’autore non racconti mai nulla della sua infanzia e della sua famiglia. E frugando in tale ambito, si scopre un padre rigido e inventore di strumenti educativi decisamente sadici. Era un medico e professore dell’Università di Lipsia, fondatore dei “Giardini Schreber” per l’infanzia. Aveva inventato un congegno, una sbarra di ferro a forma di croce fissata al tavolo di studio, che facendo pressione sulla clavicola, impediva ai bambini di stare curvi a leggere o scrivere, nonché delle cinghie per le spalle, da portare tutto il giorno, per favorire la loro posizione eretta. Allevato così, ecco spiegato perché il figlio, il presidente Schreber, nei suoi deliri allucinatori, si sentisse perseguitato dall’occhio onnisciente di Dio, la figura ossessiva del padre.
Quel mio sogno o immagine tra veglia e sogno mi rimandava alle turbe mentali, di cui il caso del presidente Schreber rappresentava il paradigma, una coscienza agitata dagli infiniti frammenti dell’umanità, una turba che m’investiva sotto forma di un turbine di neve? Oppure non era altro che il ricordo nostalgico di un panorama alpino di splendente e limpida bellezza, che mi catturava nel suo sogno illusorio? O, forse, poteva trattarsi di un sogno fatidico, venuto a rivelarmi di un evento futuro? Ricordo che una volta dibattevo con l’amico De Pasquale sul problema della vecchiaia, era lui un grande conoscitore dei classici latini ed aveva di Roma un’immagine più che altro freudiana, come egli stesso mi dichiarò. Sorridendo, mi disse che la città eterna era una sua “nevrosi”, nella sua coscienza interiore era l’antica Roma, in cui poteva riconoscersi soltanto ammirandone le ultime preziose vestigia. Il tema dell’antichità e dell’eternità dell’arte si coniugava con la fugacità del tratto esistenziale, De Pasquale citò allora il “De senectute” di Cicerone e il “De brevitate vitae” di Seneca. “Perché in vecchiaia la memoria si dissolve?” domandai a sorpresa al neurologo. “Manca il tempo per ricordare, - rispose - dove il ricordo dà le indicazioni per il futuro. Non avendo più tempo davanti a sé, l’uomo prossimo alla fine dimentica più in fretta, onde poter vivere nella maniera più piena la morte, l’esperienza ultima della sua esistenza.” La nostra memoria (ricordo), il cuore, sovrintende alla conservazione dell’Io, senza cui la nostra anima (psiche) si frantumerebbe in mille frammenti. Ecco, l’anima! “Come può accadere che con la morte dell’uomo, l’anima non si disperda e questa non sia la fine del suo essere?” Domandai, allora. Era il dubbio non risolto di Cebete, a cui deve rispondere Socrate nel “Fedone” (77b). Ma, invece, di farsi trascinare in una lunga discussione, De Pasquale non era un “dialettico”, il mio amico disse: “Silvio, le propongo un patto. Per conoscere se davvero l’anima esiste, chi di noi due morirà per primo tornerà dall’Aldilà, per dare testimonianza della sua esistenza a chi di noi due è rimasto ancora vivo.” “D’accordo!” dissi e sollevammo i nostri due calici, per suggellare con un brindisi di grappa alla ruta il nostro patto ultraterreno. Fuori cadeva la neve e il grappino era d’obbligo, in alto i calici! Fu allora che familiarizzammo e la nostra amicizia si cementò poi con la sua visita a Roma, in compagnia di Nancy. Intanto, devo dire che da qualche anno non andiamo più a fare la settimana bianca e i rapporti con il dottor De Pasquale si sono allentati, soltanto ultimamente improvviso mi è tornato il ricordo del patto post mortem stipulato quella prima volta con l’amico. È accaduto quando curiosamente mi è capitato di leggere la cronaca del domenicano Agustin Calmet (1672-1757) su un patto simile al nostro, stipulato tra Marsilio Ficino e il suo amico e compagno di studi Michele Mercato. Non credo che De Pasquale avesse letto le “Dissertazioni sopra le apparizioni de' spiriti, e sopra i vampiri, o i risurgenti d’Ungheria, di Moravia etc.” dell’abate francese, ma doveva certo conoscere l’aneddoto, altrimenti come gli sarebbe venuta in mente quest’idea?
Ed ecco il brano delle “Dissertazioni”, dove è riportato l’episodio: “Il Cardinal Baronio, uomo dottissimo, e grave, dice di avere inteso [la storia] da molte persone di senno, le quali l’avevano sentito più volte dal pulpito, e particolarmente da Michel Mercato Protonotario della Santa Sede, uomo di nota bontà, e di dottrina, particolarmente nella Filosofia di Platone, cui di continuo s’applicava insieme con Marsilio Ficino suo intimo amico, non meno di lui zelante per la dottrina di Platone. Un giorno, che questi due gran Filosofi ragionavano insieme dell’immortalità dell’anima, e s’ella esistesse ancora dopo la morte del corpo, terminarono il loro discorso sulla materia con una promessa reciproca che il primo di loro che morisse verrebbe a dare all’altro notizia dello stato dell’altra vita. Separatisi con questa fede, qualche tempo dopo, essendo Michele Mercato medesimo benissimo desto, e studiando di buon mattino secondo il solito quelle materie filosofiche, sentì all’improvviso uno strepitio come d’uomo a cavallo, che correva verso la porta, e sentì nel medesimo tempo la voce del suo amico Marsilio Ficino che gridava: ‘Michele, Michele, tutto ciò che dicesi dell’altra vita è verissimo’. Aprì la finestra e vide Marsilio correre su un cavallo bianco. Michele gridavagli, che si fermasse, ma egli continuò la carriera e gli si tolse di vista. Marsilio Ficino soggiornava allora a Firenze ed era colà morto in quel punto stesso in cui era apparito, e aveva parlato all’amico. Michele scrisse tosto a Firenze per informarsi della verità del fatto ed ebbe in risposta esser mancato di vita Marsilio in quel momento appunto in cui aveva sentito lo strepitio e la voce di lui alla porta”. Era l’1 ottobre 1499, giorno in cui Marsilio Ficino moriva a Careggi, mentre l’amico di studi platonici si trovava a Roma. Ora, è chiaro che al credente un tale episodio fuori dall’ordinario può apparire miracoloso, ma non lo stupisce affatto, perché trova conferma in esso della sua fede. Un discorso d’altro genere, si deve fare, invece, per un laico o uno scettico, che di fronte a un racconto così inverosimile sentono di dover rafforzare il loro scetticismo. Le obiezioni sono diverse, a cominciare da certi particolari del racconto, tipo quello del cavallo bianco al gran galoppo cavalcato da Marsilio, seguito dall’enfatico vocativo: “Michele, Michele…” E sembra di udire l’eco della voce oracolare del predicatore, che dal pulpito si diffonde nella navata del tempio religioso: “Michele, Michele…” Inoltre, che quest’ammonimento dall’oltretomba venga profferito da Marsilio è nell’insieme un particolare coerente, anche se inverosimile, quello che invece sembra gratuito e sicuramente fantasticato è il colore bianco del cavallo, simile a quello che gli agiografi attribuiscono al destriero di famosi condottieri, tipo Alessandro Magno o Napoleone Bonaparte. Si dirà, è un simbolo, e allora si replicherà, è un sogno, in cui, come insegna Jung, il sognatore produce simboli.
Certo, il trattato di Agostino Calmet sui non-morti, pubblicato a Parigi nel 1746, è stato composto attraverso un attento lavoro di raccolta delle fonti storiche e con grande acribia. Ma bisogna anche dire che Simone Occhi, editore e tipografo attivo a Venezia dal 1738 al 1794, prima di licenziare dai propri torchi la traduzione dal “franzese” del volume, dovette subire il vaglio e l’approvazione dei “Riformadori a lo Studio de Padoa”, ufficio istituito dal Senato della Serenissima nel 1516, sovrintendente a tutto il settore riguardante la cultura e la pubblica istruzione, come riportato in calce all’opera: “Avendo veduto per la fede di Revisione ed Approvazione del Padre Fra Paolo Tommaso Manuelli Inquisitore Generale del Santo Uffizio di Venezia nel Libro intitolato “Dissertazione sopra l’Apparizione delli Spiriti, e sovra i Vampiri, del Padre Domenicano Agostino Calmet” non v’esser cosa alcuna contro la Santa Fede Cattolica; e parimente per attestato del Segretario nostro niente contro Principi e buoni costumi, concediamo licenza a Simone Occhi Stampatore di Venezia, che possi esser stampato, osservando gli ordini in materie di Stampe, e presentando le solite Copie alle pubbliche Librarie di Venezia, e di Padova. Data, li 25 settembre, 1751.” Si è voluto riportare per intero la formula di approvazione dei Riformatori allo Studio di Padova per registrare la seriosità con cui lo studio sugli Spiriti e i Vampiri è stato condotto e portato a termine, quindi non per contestarne il contenuto, mettendone alla berlina lo stile. Questo può ingannevolmente apparire pomposo, perché ancorato a un linguaggio settecentesco, benché una tale forma aulica possa indurre a dei veri e propri fraintendimenti in coloro che ne subiscono il fascino. In merito, per fare un’analogia, posso raccontare un episodio di cui sono stato testimone oculare, qualche anno fa, quando una sera si tenne una manifestazione in piazza San Marco a Venezia, non ricordo bene quale, forse un concerto musicale all’aperto, in cui su file di sedie allineate avevano preso posto degli spettatori avventizi. Prima dell’inizio, passava tra loro un filosofo allora sindaco della città lagunare, inquadrato dall’occhio attento delle telecamere. Vedendolo, uno degli avventizi, che si sentiva tutto solleticato dall’evento di cui era partecipe, gli si rivolse dichiarando che loro erano gli eredi degli antichi signori patrizi veneziani, ricevendo come risposta un brusco: “Ma stai zitto, idiota!”, che lasciò senza parole il “patrizio”.
Dobbiamo poi aggiungere che per ottenere il permesso di stampa, la “Dissertazione” dell’abate di Saint-Pierre de Senones dovette sottostare all’obbligo di pubblicare in appendice due documenti dei dottori della Sorbona, che condannavano certe pratiche di “esecuzione” di non-morti, condanna sottoscritta dall’abate alla fine del suo trattato: “Tutto quello che si sa e può servire a spiegare come s’abbian potuto cavar dal sepolcro alcuni vampiri, che abbian parlato, gridato, urlato, gettato sangue. E tutto ciò perché non eran ancora morti. Li han fatti morire di poi decapitandoli, abbruciandoli, trafiggendo loro il cuore. In simili esecuzioni apparisce una manifesta ingiustizia, poiché il pretesto del loro preteso ritorno per dar travaglio ai vivi, per farli morire, per maltrattarli, non è una sufficiente ragione per trattarli in quella guisa. Peraltro non è mai stato provato il loro preteso ritorno, né mai autenticato in maniera che possa autorizzare alcuno a usare tale crudeltà e tal disonore.” Il giudizio conclusivo è inequivocabile: “Imperciocché non ha fondamento alcuno tutto quel che si dice delle apparizioni, delle vessazioni, dei danni cagionati dai pretesi Vampiri e dai Brucolachi. Non mi meraviglio, che la Sorbona abbia condannato quegli atti inumani e violenti, che si praticano in quei corpi morti; è ben da stupirsi, che Potestà secolari, e i Magistrati non usino la loro autorità, e la severità della Leggi a reprimerli.” Mi è venuto incontro Carlo De Pasquale, l’atteggiamento di sempre: “Ciao, Silvio,” mi ha detto, sorridente. “Oh, Carlo!” ho esclamato, sorpreso perché non lo vedevo da tempo. “Vieni,” mi ha detto, ed io l’ho seguito sulla pista da sci. Abbiamo preso la seggiovia ed abbiamo iniziato a salire… Ma dove stavamo andando? In cielo?... E giù nella valle, la miriade di puntini neri, lontano sempre più lontano da noi? Laggiù! “L’umanità”, De Pasquale il volto illuminato… Visione o sogno? Un sogno fatidico? Non cavalca nessun cavallo bianco il mio amico… non-morto… no! Il velo bianco di neve immacolata del New Hampshire sale su a spirale ad investirmi, non devo dormire, devo svegliarmi, telefonare a… Nancy? Dov’è il figlio di Frau Schreber? È buio, sento il confuso bisbiglio di una turba di ombre, più in fondo una luce disegna il rettangolo di una porta chiusa. Vado avanti verso la soglia ora illuminata da un esterno bagliore, uno splendente nitido avorio.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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L’ALTRA VIA
…
Quindi, invece di cominciare, anzi continuare, a gigioneggiare, com‘è nostro solito, rimandiamo al post del 15 novembre 2024: “Il trono eccelso”, paragrafo secondo effettivo: “Il nodo alla gola”, “Libertà e Necessità nella logica dei contrari”, in cui sono messi a confronto il pensiero di Luigi Pareyson ed Emanuele Severino. Va bene. Intanto sposta il commento della “scrittura creativa” in coda a “Un giorno luce” e pubblica “La porta d’avorio”. E che c’entrava tutta questa digressione su Severino? Era “secondo Necessità”. No, seguiva altre vie. Tu vai di là, io di qua. Va bene, ciao.
AUTOMATON
“Automa: una delle parole più ambigue. Se oggi diciamo di un uomo che è un automa, intendiamo che si muove senza coscienza e volontà, spinto fa una forza esterna, come avviene nelle macchine costruite sin dall’antichità, che imitano i movimenti dei viventi e vennero chiamati “automi”, soprattutto con la comparsa dell’opera del matematico Erone di Alessandria (I-II sec., d. C.), “Sugli automi”. Ma automa proviene dall’antica parola greca autòmaton, che significa “ciò che si muove e agisce da sé, di proprio impulso, spontaneo” e anche “la spontaneità del bramare, del tendere e dell’intendere”. Tale parola è riferita alle piante, agli animali, ai fiumi, agli uomini, alla morte. È così accentuato, in questa parola, il senso del non aver bisogno di nient’altro che di sé, per accadere ed esistere, che autòmaton significa addirittura il “caso”, ossia ciò che accade sulla terra, senza provenire da alcuna regione, dove l’occhio di un dio o di un mortale possa prefigurarlo prima del suo accadere. L’autòmaton è cioè l’assolutamente imprevedibile. Si tratta dell’imprevedibilità stessa della vita. E nella vita il più imprevedibile degli eventi è l’uomo stesso.”
Emanuele Severino, “La strada” (1983)
Questa era la chiosa mancata ieri, in margine alle battute dell’ultima riga, quando avevo interrotto la stesura completa del racconto, oggi pubblicato per intero: “Che cosa segue? La Necessità. No, segue l'altra via. Come? Il caso, l’accaduto, autòmaton. Come? A domani.” Bisognava illustrare la parola “autòmaton”. Avevo il proposito di pubblicare l’intera prima parte della “porta d’avorio”, poi last minute ho cambiato idea e ho pubblicato solo due paragrafi. Perché? La contingenza immediata era di non ritardare la pubblicazione del post nella mattinata, perdendo ulteriore tempo nel voler rileggere con attenzione il racconto in ristampa. Ma avevo anche il malcelato proposito di dare tempo al lettore del post di giornata di andarsi a leggere il citato “Il nodo alla gola”, e se non l’ha fatto ieri, invito a farlo oggi. Va bene. Chi ha risposto? Io, il lettore. Ah! (Sono anch’io lettore. Io chi? Uffa!) Infine, diciamo, che ogni tanto fa bene leggere solo una breve nota umoristica, o presunta tale – ma una nota su Severino è umoristica? – invece di narrazioni o discorsi più o meno interessanti. E qui chiudo con un monito: domani vi interrogo su “Il nodo alla gola”, e se avrò tempo anche su Plotino. Pure Plotino? Sì, perché? Non l’ho ancora letto. E allora, pelandrone, che aspetti? Che tu mi spieghi che cosa significa “pelandrone”. Scansafatiche, fannullone, con un’idea di viziosa pigrizia e trascuratezza. Il tuo autoritratto. No, il tuo. Ecco che ricomincia il teatrino. Non possiamo proprio farne a meno? No! No, eh? No!
Rimando a data da destinare un ulteriore commento non umoristico, come dire senza “interferenze” di giullari alieni, alla pagina di filosofia di Severino su autòmaton.
Post-Scriptum
L’hai visto? Chi? Il caporale di giornata. E chi è? Quello che la mattina ci dà la sveglia, insultandoci: pelandrone! E allora? Rideva in maniera sfrenata, ovviamente da solo, davanti allo schermo del computer, dove digitava le sue smodatezze. Davvero? Prima o dopo dobbiamo intervenire. E cioè? Farlo rinchiudere. Tu dici? Certo, questo signor autore offende. E come? Insulta il lettore, cioè sé stesso allo specchio. Facciamogli passare il Natale e poi vediamo. Va bene. Eh, no! Va male. E se no, che fare? Speriamo bene. Però, pelandrone, vogliamo procedere a questa pubblicazione del giorno sì o no? Va bene. Ecco: “La porta d’avorio”.
La smodatezza (o smoderatezza) è l'atto o la qualità di eccedere i limiti della misura, della convenienza, della sobrietà o del buon gusto, comportando eccesso, intemperanza, esagerazione o mancanza di freno. Si usa per descrivere desideri, lussi, ambizioni o comportamenti che vanno oltre il necessario equilibrio, spesso con una connotazione di difetto morale o mancanza di controllo.
Comunque, ne riparliamo. Di che coa? Del ricovero e successivo rilascio. Quando? Dopo le feste, o magari nel corso di questi prossimi giorni.
LA PORTA D'AVORIO
“Sunt geminae somni portae; quarum altera fertur
cornea, qua veris facilis datur exitus umbris,
altera candenti perfecta nitens elephanto,
sed falsa ad caelum mittunt insomnia Manes.”
Virgilio, Eneide, VI, 893 ss.
1. Il turbine bianco
Ero seduto sul divano del salotto in ombra e guardavo verso il riquadro scuro della vetrata sul terrazzo, il silenzio della notte interrotto soltanto dal fruscio impercettibile delle luci intermittenti dell’albero di Natale e sulla mia sinistra il grigio lampeggiante dello schermo televisivo. Mi è venuto incontro Carlo De Pasquale, l’atteggiamento di sempre: “Ciao, Silvio,” mi ha detto, sorridente. “Oh, Carlo!” ho esclamato, sorpreso perché non lo vedevo da tempo. “Vieni,” mi ha detto, ed io l’ho seguito sulla pista da sci. Abbiamo preso la seggiovia ed abbiamo iniziato a salire; mentre salivamo sempre più a monte, potevamo osservare giù a valle il nero punteggiare sul bianco di una miriade di sciatori, che sembrava formassero uno sciame di moscerini. “L’umanità,” ha detto De Pasquale, il volto illuminato dal sorriso. Ho guardato in basso quel nero punteggiare ed ho visto salire improvviso ed arrivare fino a me sulla seggiovia come un “turbine” bianco nell’avvolgente forma di una spirale. Ho aperto gli occhi nel buio, il lampeggiare grigio dello schermo televisivo alla mia sinistra, nel silenzio della stanza, interrotto dall’intermittenza delle luci dell’albero di Natale. In maniera automatica, quasi come un sonnambulo, mi sono alzato dal divano, ho attraversato il salotto e salendo i gradini della scala interna della casa, sono andato al piano di sopra nella camera da letto a dormire.
Il dottor De Pasquale è un illustre neurologo altoatesino ed io mi sento molto fiero della sua amicizia. Ero andato in vacanza sulla neve con Vera, mia moglie, e i nostri tre figli Luigi, Giulio e Silvia. Clelia, la collega amica di Vera, ci aveva raccomandato di andare alla pensione “Dolomiti”, tenuta da una Gastwirtin (locandiera) molto affabile, Frau Schreiber. La prima volta ci trovammo molto bene e ritornammo anche l’anno successivo, per la settimana bianca, in verità due settimane. Ormai ero diventato un bravo sciatore ed anche Vera e i bambini, ma quella volta, forse perché non aveva indossato un maglione abbastanza caldo sotto la tuta, il primo giorno, Vera si raffreddò e rimase a letto due giorni con la febbre. Io accompagnavo i bambini sulle piste, dove ci trattenevamo soltanto la mattina, mentre nel pomeriggio rimanevo nella sala soggiorno della pensione, per essere subito d’aiuto a Vera, i piccoli invece, già abbastanza grandicelli per stare insieme da soli, andavano a divertirsi con gli slittini sul ghiaccio o al minigolf o sulla pista di pattinaggio.
Fu in uno di quei pomeriggi che feci conoscenza con il dottor De Pasquale, figlio di Frau Ailke Schreiber e di Felice De Pasquale, ex-nuotatore napoletano, trasferitosi in Alto Adige, dove aveva sposato Ailke, ed era diventato gestore della piscina olimpica di Auronzo di Cadore e maestro di nuoto. Stavo leggendo un libro di Elias Canetti, “Il frutto del fuoco”, quando Vera mi ha mandato un sms sul telefonino, per chiedermi di portarle in camera una bottiglia d’acqua da bere. Al bar c’era la kellerina, e subito mi ha servito l’acqua minerale, che ho portato su in camera da Vera. Poco dopo, quando sono sceso, ho visto il dottor De Pasquale, il giovane che poi ho saputo essere il neurologo di fama, se non proprio nazionale, quanto meno regionale. Era in piedi davanti al tavolinetto, dove avevo posato il libro di Canetti, forse stava leggendo il titolo della copertina. Nel vedermi arrivare, si è spostato leggermente di lato, un atteggiamento quasi di scusa per la sua indiscrezione. “Un premio Nobel,” ho detto sorridendogli, “certo, merita attenzione.” Si è sentito subito a suo agio, per la mia battuta. Allora, incoraggiante, l’ho invitato a sedersi con me, e il giovane ha accettato. “Beviamo qualcosa,” ho detto, “offro io.” Ha fatto un gesto quasi di riprovazione: “Offre la casa, se mi posso permettere,” ha replicato. “Zwei Biere, bitte,” ha detto alla kellerina al banco, facendo il segno due con le dita.
Avevo già notato quel giovane alto e biondo con i capelli ricci, gli occhiali da vista, il corpo massiccio, ma non sapevo ancora che fosse il figlio di Frau Schreiber. Quando Vera si era ammalata, avevo chiesto alla donna se poteva indirizzarmi da un medico, e lei mi aveva assicurato che avrebbe provveduto il figlio in quel momento assente, ma a cui aveva prontamente telefonato. Nel giro di qualche minuto si era presentato un dottore, che aveva prescritto alcune medicine e raccomandato qualche giorno di riposo, per quella influenza passeggera. Vera doveva stare più attenta e coprirsi meglio, perché non stavamo a Roma.
“Stanotte, meno quindici, è il freddo alpino,” mi diceva intanto De Pasquale. “Come sta sua moglie?” Era venuta la kellerina con due grandi boccali di birra sul vassoio, che era riuscita a tenere in equilibrio, un attimo prima, quando per un soffio non si era scontrata con due avventori entrati in quel momento nella piccola hall della pensione. “Achtung bitte!” aveva pronunziato, scansando i due, ed ora, sorridendo, posava le sottocoppe sul tavolino e i due boccali di birra.
“Fortunatamente non è niente di grave,” risposi. “Ero in paese, quando mia madre ha telefonato e ho pregato il collega Stefanon di venire subito.” Ringraziai, lui si schermì e indicò il libro di Canetti. Presto il discorso scivolò sui temi trattati dallo scrittore bulgaro di lingua tedesca, io accennai al problema della psicologia delle masse, prendendo spunto dalla descrizione fatta nel libro che stavo leggendo di una violenta protesta operaia, esplosa la mattina del 15 luglio 1927, a Vienna. I tumulti durarono due giorni e si conclusero con una novantina di morti, mi soffermavo sui particolari illustrati da Canetti, in specie di come il singolo possa essere travolto e sentirsi irretito nella folla. A tal proposito, raccolsi il libro, lo sfogliai e lessi l’affermazione dell’autore, per me illuminante sull’esistenza di un’anima collettiva, la cui volontà trascende quella individuale: “Mi trasformai in un elemento della massa, la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva.” De Pasquale mi ascoltava con attenzione e pazienza, sembrava voler cogliere un’opportunità per un suo commento, che poi intervenne, quando approfittò di una mia pausa. Osservò come anche Robert Musil, in “L’uomo senza qualità”, registra interessanti notazioni sulla psicologia della massa in movimento, quando descrive, nella finzione del romanzo, un corteo di protesta promosso dall’Azione Parallela, che raggiunge il palazzo del conte Leisendorf. Egli parla di un’irrazionale eccitazione che trabocca sommergendo la ragione, un “andare fuori di sé” affine a quegli stati di estasi e trasfigurazione, che non fanno stare più negli abiti e nella pelle, un’azione di massa percepita a un tempo come violenza e liberazione. È una forma contagiosa d’isteria, osservò De Pasquale, che possiamo riscontrare anche nel protagonista, Ulrich, quando affacciato al balcone del palazzo del conte, notando non pochi dimostranti allegri e festosi, scoppia a ridere anche lui, provocando la collera minacciosa di quelli di sotto, che lo avevano scambiato per Leisendorf. A questo punto non potei fare a meno di ridere anch’io, ricordandomi di situazioni simili vissute in manifestazioni di piazza, dove si passa facilmente dalle beffe alla rissa. “Si cambia da un momento all’altro, come il tempo in montagna” commentò De Pasquale. Il discorso si spostò sulla neve e sullo sci, che per noi “romani” costituiva un’evasione dai consueti scenari mediterranei, il sole e il mare e l’estate, che non è la fredda e splendente aria alpina. E qui venne fuori la nostalgia dell’altoatesino, nelle cui vene scorreva sangue napoletano, il ricordo delle vacanze passate dalla nonna, quand’era bambino, la patria del cuore. Intanto, era venuto il momento di andare a vedere e controllare i marmocchi, che si divertivano fuori con gli slittini. Ci lasciammo con l’intesa di ritrovarci sulle piste da sci nei giorni seguenti, ai suoi occhi rappresentavo il trait d’union con i luoghi d’origine di un ramo ancestrale della sua famiglia.
Passò da Roma l’estate successiva. Si annunziò con una telefonata, riconobbi subito la sua voce dal forte accento tedesco, era diretto con la fidanzata americana a Napoli e poi in Sicilia. Si fermò a pranzo, dove si presentò con un grosso involto di un metro circa di lunghezza e una cassetta di vini pregiata. Quando svolgemmo il pacco sul tavolo della cucina, scoprimmo che era uno strudel di grandezza esagerata. De Pasquale dichiarò che si trattava di un regalo, opera della famiglia Schreiber, sua madre e le zie, e illustrò la ricetta: circa cinque chili di mele, due di pasta matta, cento grammi di uva passa, mezzo etto di pinoli, pan grattato saltato nel burro, il tutto riccamente innaffiato di cannella e ricoperto da un leggero velo di zucchero.
A tavola Vera servì un piatto di spaghetti alle vongole sfumate con vino bianco del Sannio, Falanghina. Il piatto ricevette molte lodi dai nostri commensali, suscitando le proteste sincere della cuoca, anche se Nancy osservò che era riuscita ad avvertire quella punta di peperoncino così saggiamente dosato, quasi da non lasciarlo percepire ad un gusto non abituato a quei sapori. La fidanzata di De Pasquale si era soffermata su questo particolare del peperoncino, per rivelare le sue origini calabresi, come si poteva arguire, disse, dal suo cognome, Frangipane. Lei e Carlo si erano conosciuti all’Università di Hartford nel Connecticut: “Poi sono venuta a frequentare un corso di parapendio in Trentino,” disse Nancy e guardò De Pasquale, “ed ora siamo in giro, così posso conoscere l’Italia.” Vera aveva portato in tavola un fritto misto di pesce con spiedini di mazzancolle. “Alla ricerca delle vostre origini,” dissi rivolgendomi a entrambi. “Peccato che io non possa vederla, questa mia terra soltanto raccontata, mi dicono che dalla punta estrema della Calabria, si possono vedere le luci della costa della Sicilia,” disse Nancy. E al mio sguardo interrogativo, aggiunse: “Seguiamo lo stesso itinerario di Goethe, che a Napoli s’imbarcò direttamente per l’isola degli aranci, non sappiamo se avremo la sua stessa fortuna, viaggiò con una gioviale compagnia di artisti e ballerini scritturati dall’opera di Palermo.” Al ritorno lei sarebbe volata dalla Sicilia direttamente in America, mentre lui tornava a casa con un volo nazionale. Intanto, era arrivato a tavola lo strudel gigante, accompagnato da una bottiglia di Gewürztraminer, scelta su loro consiglio tra quelle donate dai nostri amici. E qui il discorso cadde sul nome Schreiber, fu lo stesso De Pasquale a introdurlo, dichiarando con un sorriso enigmatico che in Germania il nome di famiglia della madre è molto diffuso, soprattutto con la variante priva della “i” e cioè “Schreber”.
Il più famoso, dissi io, è stato alla fine dell’Ottocento un giurista di Lipsia, Daniel Paul Schreber l’autore di “Memorie di un malato di nervi”. De Pasquale ebbe un breve sorriso: “Confesso di non sapere bene se ho scelto di diventare un neurologo, per questa mia quasi omonimia da parte materna con il ferreo magistrato prussiano.”
Dopo pranzo andammo a fare un giro per le vie del centro di Roma, io indicai il carcere di Regina Coeli in via della Lungara. Un uomo, probabilmente un agente di polizia penitenziaria, era affacciato a una finestra e guardava il traffico sul Lungotevere, un momento di pausa dalle sue incombenze. “Nel 1913, in viaggio a Roma, il nostro amico Musil visitò il manicomio, che doveva trovarsi più o meno qui, e traspose questa sua esperienza nel suo romanzo, ambientando la scena in quello che doveva rappresentare lo Steinhof di Vienna,” commentò De Pasquale. “Sì, la scena in cui i pazzi salutano Clarissa,” conclusi io, ricordandomi i particolari del racconto. Era un po’, considerai, l’analoga descrizione intrisa di umana tristezza che fa Italo Calvino del “Cottolengo” di Torino, in un suo racconto degli anni Sessanta.
La mattina dopo, prima di partire, quando andammo a salutarli alla stazione Termini, Nancy regalò una piccola sveglia in argento a Vera, insistendo molto per vincere la resistenza della mia consorte ad accettare quel dono abbastanza prezioso. Nancy si fece promettere che in cambio la sua nuova amica l’avrebbe tenuta sul fuso orario di Milano, sorrise, in inglese Milan, un piccolo paesino del New Hampshire, meno sei ore rispetto all’Italia. Vera accettò, piccoli enigmi femminili, scetticismo nostro, il mio e quello di De Pasquale. Qualche anno dopo, quando si sono sposati, abbiamo potuto contraccambiare quel dono, facendo un regalo di altrettanto valore. Poi li sentimmo sempre un po’ meno i coniugi, anche perché avevamo smesso di fare la settimana bianca, i ragazzi erano cresciuti ed erano diventati più autonomi.
L’altro giorno ero andato a Palazzo di Giustizia, che ha ampi corridoi in ombra. Stavo uscendo nel cortile, alla luce del giorno, quando sono stato sorpreso da una voce alle mie spalle: “Posso chiedere a lei?” Mi sono voltato e mi è apparsa di fronte una figura femminile, un soprabito bianco, un fisico longilineo, i capelli neri sciolti, non molto lunghi, arricciati a dovere. “Sì,” ho risposto. Mi ha chiesto un’informazione su dove si trovasse un certo ufficio deposito atti del Tribunale. Doveva uscire dall’Edificio B, dove ci trovavamo ed accedere tramite il cortile all’Edificio C di fronte, lì avrebbe trovato l’ufficio. Senza aspettare la replica, ho voltato le spalle e mi sono avviato all’uscita, ben sapendo che lei si sarebbe mossa alle mie spalle e quasi temendo senza ragione di avere dato una risposta sbagliata. Perché?
Nel cortile ho guardato l’orologio, era circa mezzogiorno, e senza motivo apparente, ho pensato che sulla costa atlantica dell’America del Nord dovevano essere appena le sei del mattino. Era parecchio tempo che non facevo questo calcolo, qualche volta l’avevo fatto dopo il matrimonio di Nancy con De Pasquale. Ecco, la giovane donna che mi aveva poco prima chiesto l’informazione mi aveva ricordato la figura di Nancy, lo stesso profilo longilineo, gli stessi capelli neri e la stessa acconciatura e poi… Sì, avevo pensato al mio amico, Sergio Nobili, Consigliere di Corte d’Appello, l’ultima volta, l’avevo visto vicino a piazza Cavour, in via Ennio Quirino Visconti. “Ciao, Presidente,” l’avevo salutato, incrociandolo all’angolo con la via Cicerone, sapevo che era stato promosso Presidente di Sezione. “Ciao, Silvio,” mi ha risposto. Nobili era un mio compagno di scuola, l’avevo perso di vista alla fine del liceo, poi l’avevo ritrovato giudice, noto alle cronache per alcuni processi di fatti criminali di rilievo.
Io sono uno scrittore di romanzi gialli, per la comune opinione un nullafacente, con la fortuna di avere ereditato rendite immobiliari, in questo senso sono indaffarato in questo ramo, con acquisti, vendite e affitti. Alle spese correnti provvediamo con lo stipendio di Vera, insegnante di musica, comunque finora siamo sopravvissuti e sono confidente nel futuro, un ottimista. Era questo il quadro esistenziale in cui dovetti riconoscermi, quando facemmo il punto delle nostre vite con Sergio. “Minieri!” gridò quel giorno in via Frattina, ero arrivato all’angolo di piazza di Spagna, mi voltai, era Sergio, dopo dieci anni, forse più, non era cambiato dai tempi della scuola. All’epoca, ero fidanzato con Vera e ci trovammo per una pizza a Porta Pia con lui e Stefania, la sua segretaria, come la presentò. In seguito l’ho rivisto, aveva cambiato segretaria, lo incontrai poi altre volte da solo, ma non sapevo più nulla della sua privata, però faceva rapidamente carriera. Perché estemporaneamente avevo pensato a lui, un po’ dopo avere dato l’indicazione alla sconosciuta del palazzo di giustizia, verosimilmente una praticante legale o quantomeno una del ramo giudiziario, in ogni caso diverso dal mio, che pure mi sapevo orientare abbastanza bene in quei meandri?
Se penso a Nancy Frangipane e al marito Carlo De Pasquale, non posso fare a meno di associare l’immagine della coppia al nome di Schreiber o meglio Schreber. Avevo approfondito il caso, leggendo il ritratto che in “Massa e Potere”, Elias Canetti fa di questo personaggio, per illustrare il rapporto tra paranoia e potere. In verità il primo a parlare di paranoia fu Freud, che definì dementia paranoides il caso clinico del presidente Schreber, commentandone il testo: “Memorie di un malato di nervi”, senza però avere cognizione diretta del malato. Tra i vari deliri descritti nelle “Memorie”, Freud si soffermò sulla convinzione dell’autore di essere coinvolto in un processo di trasformazione da uomo in donna e di aver subito molestie sessuali dal suo medico, il Dr. Flechsig. In tale contesto, Freud trovò conferma nella malattia di Schreber della sua teoria incentrata sul collegamento fra sindrome paranoide e libido omosessuale repressa. In aperto dissenso con Freud, Jung giudicò diversamente il disturbo mentale del presidente della Corte d’Appello di Dresda (era questa qualifica che lo legava nella mia mente al mio amico Sergio Nobili?), ritenendolo come un esempio dell’inflazione dell’Io. “In uno schizofrenico vero e proprio è consueto che emerga una situazione archetipica – un archetipo qualsiasi – che dilata la coscienza individuale finché questa non si espande sulla totalità dell’umanità; e quando questa inizia d’un tratto a disfarsi in molte unità, è divenuto un caso di schizofrenia. È come un’esplosione. L’inflazione opera come un gas in pressione all’interno di un contenitore: raggiunto un certo valore, la pressione all’improvviso fa esplodere le pareti del contenitore in molti frammenti.” Ecco, la coscienza frammentata, era forse quest’immagine di Jung, che colpiva il mio interesse, collegandola alle riflessioni di Canetti sul fenomeno della massa. E una certa volta, spinto dalle letture sul tema di quest’autore, mi proposi di scrivere un saggio: “L’anima del potere. Note sullo spirito e la psicologia delle folle.” Il mio proponimento era di rispondere al quesito se esista o meno un’anima collettiva in una massa di persone in movimento, ma lasciai il lavoro incompiuto, perché allora ero impegnato a scrivere le trame dei miei romanzi gialli, un’attività decisamente meno impegnativa di un saggio di carattere antropologico. Nella mente, però, mi è rimasta l’idea di quest’analogia tra la coscienza individuale, che raccoglie un insieme infinito di singolarità, ed una virtuale coscienza collettiva, nell’immagine ad esempio di una piazza o uno stadio gremiti di gente o di cortei di migliaia di persone in marcia per strade metropolitane.
È chiaro che l’agitazione delle masse potrebbe essere correlata alla confusione interiore di una coscienza “turbata” da mille demoni. Nella lingua latina, come rileva con perspicacia Jung, “turba” sta per grande confusione, un “indiavolato baccano di spiriti liberi”, potremmo dire noi lettori di Nietzsche.
E allora quel “turbine” bianco del sogno, mentre con De Pasquale salivo in seggiovia?
2. La porta d’avorio
“Due sono le porte del sonno; di esse una si dice di corno, / da cui spedite escono le ombre vere dei sogni, / l’altra splendente di nitido avorio, ma sogni illusori inviano alla luce del cielo i Mani.” In fuga da Troia, Enea è approdato a Cuma, dove si reca a pregare al tempio Apollo, venendo accolto nell’antro della Sibilla. La veggente, invasata dal dio, furente lancia dai penetrali oscuri vaticini e invita l’eroe a cogliere il ramo d’oro, per guidarlo nell’Ade. “Questo è il luogo delle Ombre, del Sonno e della soporifera Notte,” grida loro Caronte, subito acquetato dalla sacerdotessa di Apollo. Quindi, l’eroe troiano vaga tra le Ombre, riconoscendo quella del padre Anchise, che al vederlo gli tende le braccia, il volto rigato di lacrime. Tre volte tentò di abbracciarlo Enea, tre volte l'ombra invano abbracciata sfuggì alle sue mani, simile ai venti leggeri, simile ad un sogno alato.” Qui, Virgilio ricalca il passo omerico dell’Odissea (XI, 265 ss.), quando Ulisse nell’Ade incontra Anticlea, la madre defunta: “o, pensando tra me, l’estinta madre / volea stringermi al sen: tre volte corsi, / quale il mio cor mi sospingea, ver lei, / e tre volte m’usci fuor delle braccia, / come nebbia sottile, o lieve sogno.” Ed ancora dall’Odissea (XIX, 690 ss.) è tratta la tradizione poetica delle due porte dei sogni. Penelope racconta ad Ulisse travestito da mendicante il sogno delle venti oche uscite dall’acqua per mangiare il suo grano, ma uccise dall’aquila piombata su di loro, che poi con voce umana dal tetto rivela di essere il marito tornato a fare vendetta sui Proci. Un sogno che parla da sé risponde il mendicante, ma Penelope, anticipando di quasi trenta secoli Freud, sa bene che i sogni realizzano i desideri soltanto nel sonno, al risveglio, potranno non avverarsi, ma rivelarsi ingannevoli.
«Ospite, sono vani i sogni e alcun fondamento / non hanno; così non tutto si avvera agli uomini poi. / Due sono le porte dei sogni inconsistenti: / una è di corno, l'altra d'avorio; i sogni che passano / attraverso l'avorio segato sono fallaci, portando / vane parole; invece quelli che vengono fuori/ attraverso la porta di lucido corno presentano
cose vere, ogni volta che uno li abbia sognati. /Ma credo che non a questa a me venne il terribile sogno.»
Nella sua catabasi (discesa), Enea raggiunge da ultimo i Campi Elisi, dove incontra il padre Anchise, che gli rivela la futura grandezza di Roma e i gloriosi destini delle italiche genti, uscendo infine dalla porta d’avorio. Perché, si è domandato, Virgilio compie questa scelta. Per non sminuire le future gesta dell’eroe, si potrebbe rispondere, un destino di gloria non ricevuto come dono dalla fortuna, ma conquistato con le proprie imprese. Faber est suae quisque fortunae. Il retroterra culturale e civile della sentenza attribuita a Sallustio, in contraddizione con il pensiero dominante del fato, non poteva certo sfuggire a Publio Virgilio Marone, suo contemporaneo. In un certo senso, è un pensiero subconscio del poeta, respinto dalla chiarezza della sua coscienza religiosa: “Desine fata deum flecti sperare precando.” (Eneide, VI, 36) “Desisti dalla speranza di cambiare i decreti divini con la preghiera.”
È questa differenza che rispecchia il dubbio delle due porte dietro cui i sogni si rivelano realtà vera o illusoria. Ma le immagini vissute nel sogno che cosa ci raccontano, infine? Desideri? Attese? Incubi? Profezie? Fantasmi di vivi e di morti?
Nella modernità a rilanciare il tema dei sogni e la loro interpretazione è stato Freud con “Die Traumdeutung”, un trattato di oniromanzia, nella cui linea di fondo si può riscontrare il dato comune a tutti i sogni come realizzazione di un desiderio più o meno inconscio ossia velato dalle immagini oniriche. Più in profondo, è disceso Jung, allontanandosi da Freud. Per il medico zurighese, le immagini dei sogni presentano in simboli gli archetipi dell’Inconscio collettivo, istinti primordiali, modelli profondi, radicati nella psiche umana. In riferimento ai simboli, ecco cosa scrive Jung: “Una parola o un’immagine è simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato, quando rinvia a un senso più ampio, “inconscio”, che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato”. Che cosa sono quelle “fantasie” che ci raggiungono sotto forma di immagini oniriche? Dice Jung: “L’uomo produce simboli inconsciamente e spontaneamente sotto forma di sogni.” Il nostro percepire la realtà da svegli avviene attraversi i sensi, per cui fenomeni reali, visioni, suoni si trasmettono alla mente sotto forma di eventi psichici, la cui sostanziale natura è inconoscibile, in quanto la psiche non può conoscere la propria sostanza psichica. E pertanto molti eventi che non registriamo consapevolmente rimangono al di sotto della soglia della nostra coscienza, la loro importanza emotiva e vitale riaffiora dall’inconscio come fenomeno riflesso, anche sotto forma di un sogno. “Di regola, l’aspetto inconscio di ogni evento si rivela a noi nei sogni, dove esso appare non come pensiero razionale, ma sotto forma d’immagine simbolica.” Così conclude Jung.
Avrebbe potuto simbolicamente rappresentare la mia risalita alpina in seggiovia con il neurologo De Pasquale un’escursione (excursus) nella psiche umana? Ma era stata quella visione un sogno oppure una sfilata di immagini in uno stato di dormiveglia?
Scrive Schopenhauer: “Accade che durante le visioni, l’occhio interno proietti le sue figure laddove quello esterno non vede niente, in angoli bui, dietro tende che all’improvviso diventano trasparenti e in particolar modo nell’oscurità della notte, che ben per questo è l’ora degli spiriti, perché oscurità, silenzio e solitudine, eliminando le impressioni esterne, permettono libertà d’azione a quest’attività cerebrale di origine interna.” In “Versuch über das Geistersehnund was damit zusammenhängt”, “Saggio sulla visione degli spiriti e i fenomeni ad essa collegati”, il filosofo tedesco si occupa in primis dei sogni e riconosce ad essi un carattere profetico, adducendo anche prove di esperienze personali.
Che cosa il mio sogno o visione in stato di dormiveglia? “L’umanità”, aveva detto De Pasquale, mentre salivamo in seggiovia, indicando la pista di neve gremita di sciatori sotto di noi, uno sciame, tanti puntini neri, e poi quel “turbine” di candida neve che s’innalza a spirale fino ad avvolgermi. Che cosa, dunque, queste immagini in una visione di sogno? È questo andar su con la seggiovia un desiderio di vette bianche di neve immacolata? Un innalzarsi al di sopra dell’umanità nel quadro nostalgico di un panorama alpino? Forse. E De Pasquale, anzi Schreber? Ecco che cosa vela il sogno! Un “turbine” di neve che rappresenta in simbolo una “turba” mentale. E come?
Scrive Jung, a proposito dell’uomo collettivo, sempre più identico all’umanità: “Quella persona è identica al suo popolo, ma questo è un problema aperto. Essa potrebbe coincidere con l’umanità e ciò provocherebbe una grande confusione interiore… una turba… Nei sogni viene rappresentata da uno sciame di formiche o di moscerini, una moltitudine innumerevole di minuscoli animaletti, è sempre questo l’inizio di quel fenomeno caratteristico della psicopatologia che è la schizofrenia. Nel caso in cui la dissociazione in unità prosegua, la mente finirà per dissolversi.” Si raggiungerà un limite insopportabile e alla fine si verificherà una violenta esplosione della psiche, che si polverizzerà in mille frammenti, generando un numero infinito di piccoli “Io”, dotato ognuno di caratteristiche personali differenti. Queste innumerevoli entità psichiche frammentarie, seguendo ognuna uno scopo particolare, non potranno mai comporsi nell’unità dell’Io di un intero individuo, generando quella grande confusione, che costituisce la “turba” mentale.
Nel descrivere il fenomeno, Jung si rifà a quanto raccontato dal presidente Schreber nel suo libro: “Memorie di un malato di nervi”. Questi riferiva che spesso si ritrovava sul corpo una moltitudine di minuscoli individui, piccole creature, che per esempio gli camminavano sulle palpebre o volavano in giro, e che gli si posavano sulla pelle come zanzare, a volte scomparendo all’interno. “Cercavano di essere reintegrate in lui,” commenta Jung, che poi prosegue: “Sembra che certe parti vengano a riunirsi, come schegge di ghiaccio che di notte gelino in un blocco unico e si scindano nuovamente quando si alza il vento.” Si apre qui uno squarcio sulla possibilità di guarigione.
In verità, con la pubblicazione delle sue “Memorie”, Schreber volle dimostrare di essere guarito dalla sua follia, avendone acquistato coscienza. Infatti, il suo ricorso in appello contro la sentenza d’interdizione venne accolto, permettendogli di essere temporaneamente reintegrato nelle sue funzioni. Ma scrive Jung: “Si può addirittura osservare come ampie aree di un continuum scisso si congelino nuovamente e tornino a essere coese. Tali casi danno l’impressione di essere piuttosto normali, ma qua e là incontrate una fenditura, una scissione che penetra attraverso la superficie.” Per quanto riguarda Schreber, in breve, ricadde nella malattia e fu internato in manicomio dove alla fine spirò. In psichiatria, il caso Schreber ha suscitato tutta una lunga serie d’interpretazioni anche contrastanti, compresa quella di Deleuze e Guattarix, “Anti-Edipo”. È stato inoltre rilevato come nelle sue memorie l’autore non racconti mai nulla della sua infanzia e della sua famiglia. E frugando in tale ambito, si scopre un padre rigido e inventore di strumenti educativi decisamente sadici. Era un medico e professore dell’Università di Lipsia, fondatore dei “Giardini Schreber” per l’infanzia. Aveva inventato un congegno, una sbarra di ferro a forma di croce fissata al tavolo di studio, che facendo pressione sulla clavicola, impediva ai bambini di stare curvi a leggere o scrivere, nonché delle cinghie per le spalle, da portare tutto il giorno, per favorire la loro posizione eretta. Allevato così, ecco spiegato perché il figlio, il presidente Schreber, nei suoi deliri allucinatori, si sentisse perseguitato dall’occhio onnisciente di Dio, la figura ossessiva del padre.
Quel mio sogno o immagine tra veglia e sogno mi rimandava alle turbe mentali, di cui il caso del presidente Schreber rappresentava il paradigma, una coscienza agitata dagli infiniti frammenti dell’umanità, una turba che m’investiva sotto forma di un turbine di neve? Oppure non era altro che il ricordo nostalgico di un panorama alpino di splendente e limpida bellezza, che mi catturava nel suo sogno illusorio? O, forse, poteva trattarsi di un sogno fatidico, venuto a rivelarmi di un evento futuro?
Ricordo che una volta dibattevo con l’amico De Pasquale sul problema della vecchiaia, era lui un grande conoscitore dei classici latini ed aveva di Roma un’immagine più che altro freudiana, come egli stesso mi dichiarò. Sorridendo, mi disse che la città eterna era una sua “nevrosi”, nella sua coscienza interiore era l’antica Roma, in cui poteva riconoscersi soltanto ammirandone le ultime preziose vestigia. Il tema dell’antichità e dell’eternità dell’arte si coniugava con la fugacità del tratto esistenziale, De Pasquale citò allora il “De senectute” di Cicerone e il “De brevitate vitae” di Seneca. “Perché in vecchiaia la memoria si dissolve?” domandai a sorpresa al neurologo. “Manca il tempo per ricordare, - rispose - dove il ricordo dà le indicazioni per il futuro. Non avendo più tempo davanti a sé, l’uomo prossimo alla fine dimentica più in fretta, onde poter vivere nella maniera più piena la morte, l’esperienza ultima della sua esistenza.” La nostra memoria (ricordo), il cuore, sovrintende alla conservazione dell’Io, senza cui la nostra anima (psiche) si frantumerebbe in mille frammenti. Ecco, l’anima!
“Come può accadere che con la morte dell’uomo, l’anima non si disperda e questa non sia la fine del suo essere?” Domandai, allora. Era il dubbio non risolto di Cebete, a cui deve rispondere Socrate nel “Fedone” (77b). Ma, invece, di farsi trascinare in una lunga discussione, De Pasquale non era un “dialettico”, il mio amico disse: “Silvio, le propongo un patto. Per conoscere se davvero l’anima esiste, chi di noi due morirà per primo tornerà dall’Aldilà, per dare testimonianza della sua esistenza a chi di noi due è rimasto ancora vivo.” “D’accordo!” dissi e sollevammo i nostri due calici, per suggellare con un brindisi di grappa alla ruta il nostro patto ultraterreno. Fuori cadeva la neve e il grappino era d’obbligo, in alto i calici! Fu allora che familiarizzammo e la nostra amicizia si cementò poi con la sua visita a Roma, in compagnia di Nancy.
Intanto, devo dire che da qualche anno non andiamo più a fare la settimana bianca e i rapporti con il dottor De Pasquale si sono allentati, soltanto ultimamente improvviso mi è tornato il ricordo del patto post mortem stipulato quella prima volta con l’amico. È accaduto quando curiosamente mi è capitato di leggere la cronaca del domenicano Agustin Calmet (1672-1757) su un patto simile al nostro, stipulato tra Marsilio Ficino e il suo amico e compagno di studi Michele Mercato. Non credo che De Pasquale avesse letto le “Dissertazioni sopra le apparizioni de' spiriti, e sopra i vampiri, o i risurgenti d’Ungheria, di Moravia etc.” dell’abate francese, ma doveva certo conoscere l’aneddoto, altrimenti come gli sarebbe venuta in mente quest’idea?
Ed ecco il brano delle “Dissertazioni”, dove è riportato l’episodio: “Il Cardinal Baronio, uomo dottissimo, e grave, dice di avere inteso [la storia] da molte persone di senno, le quali l’avevano sentito più volte dal pulpito, e particolarmente da Michel Mercato Protonotario della Santa Sede, uomo di nota bontà, e di dottrina, particolarmente nella Filosofia di Platone, cui di continuo s’applicava insieme con Marsilio Ficino suo intimo amico, non meno di lui zelante per la dottrina di Platone. Un giorno, che questi due gran Filosofi ragionavano insieme dell’immortalità dell’anima, e s’ella esistesse ancora dopo la morte del corpo, terminarono il loro discorso sulla materia con una promessa reciproca che il primo di loro che morisse verrebbe a dare all’altro notizia dello stato dell’altra vita. Separatisi con questa fede, qualche tempo dopo, essendo Michele Mercato medesimo benissimo desto, e studiando di buon mattino secondo il solito quelle materie filosofiche, sentì all’improvviso uno strepitio come d’uomo a cavallo, che correva verso la porta, e sentì nel medesimo tempo la voce del suo amico Marsilio Ficino che gridava: ‘Michele, Michele, tutto ciò che dicesi dell’altra vita è verissimo’. Aprì la finestra e vide Marsilio correre su un cavallo bianco. Michele gridavagli, che si fermasse, ma egli continuò la carriera e gli si tolse di vista. Marsilio Ficino soggiornava allora a Firenze ed era colà morto in quel punto stesso in cui era apparito, e aveva parlato all’amico. Michele scrisse tosto a Firenze per informarsi della verità del fatto ed ebbe in risposta esser mancato di vita Marsilio in quel momento appunto in cui aveva sentito lo strepitio e la voce di lui alla porta”. Era l’1 ottobre 1499, giorno in cui Marsilio Ficino moriva a Careggi, mentre l’amico di studi platonici si trovava a Roma.
Ora, è chiaro che al credente un tale episodio fuori dall’ordinario può apparire miracoloso, ma non lo stupisce affatto, perché trova conferma in esso della sua fede. Un discorso d’altro genere, si deve fare, invece, per un laico o uno scettico, che di fronte a un racconto così inverosimile sentono di dover rafforzare il loro scetticismo. Le obiezioni sono diverse, a cominciare da certi particolari del racconto, tipo quello del cavallo bianco al gran galoppo cavalcato da Marsilio, seguito dall’enfatico vocativo: “Michele, Michele…” E sembra di udire l’eco della voce oracolare del predicatore, che dal pulpito si diffonde nella navata del tempio religioso: “Michele, Michele…” Inoltre, che quest’ammonimento dall’oltretomba venga profferito da Marsilio è nell’insieme un particolare coerente, anche se inverosimile, quello che invece sembra gratuito e sicuramente fantasticato è il colore bianco del cavallo, simile a quello che gli agiografi attribuiscono al destriero di famosi condottieri, tipo Alessandro Magno o Napoleone Bonaparte. Si dirà, è un simbolo, e allora si replicherà, è un sogno, in cui, come insegna Jung, il sognatore produce simboli.
Certo, il trattato di Agostino Calmet sui non-morti, pubblicato a Parigi nel 1746, è stato composto attraverso un attento lavoro di raccolta delle fonti storiche e con grande acribia. Ma bisogna anche dire che Simone Occhi, editore e tipografo attivo a Venezia dal 1738 al 1794, prima di licenziare dai propri torchi la traduzione dal “franzese” del volume, dovette subire il vaglio e l’approvazione dei “Riformadori a lo Studio de Padoa”, ufficio istituito dal Senato della Serenissima nel 1516, sovrintendente a tutto il settore riguardante la cultura e la pubblica istruzione, come riportato in calce all’opera: “Avendo veduto per la fede di Revisione ed Approvazione del Padre Fra Paolo Tommaso Manuelli Inquisitore Generale del Santo Uffizio di Venezia nel Libro intitolato “Dissertazione sopra l’Apparizione delli Spiriti, e sovra i Vampiri, del Padre Domenicano Agostino Calmet” non v’esser cosa alcuna contro la Santa Fede Cattolica; e parimente per attestato del Segretario nostro niente contro Principi e buoni costumi, concediamo licenza a Simone Occhi Stampatore di Venezia, che possi esser stampato, osservando gli ordini in materie di Stampe, e presentando le solite Copie alle pubbliche Librarie di Venezia, e di Padova. Data, li 25 settembre, 1751.”
Si è voluto riportare per intero la formula di approvazione dei Riformatori allo Studio di Padova per registrare la seriosità con cui lo studio sugli Spiriti e i Vampiri è stato condotto e portato a termine, quindi non per contestarne il contenuto, mettendone alla berlina lo stile. Questo può ingannevolmente apparire pomposo, perché ancorato a un linguaggio settecentesco, benché una tale forma aulica possa indurre a dei veri e propri fraintendimenti in coloro che ne subiscono il fascino. In merito, per fare un’analogia, posso raccontare un episodio di cui sono stato testimone oculare, qualche anno fa, quando una sera si tenne una manifestazione in piazza San Marco a Venezia, non ricordo bene quale, forse un concerto musicale all’aperto, in cui su file di sedie allineate avevano preso posto degli spettatori avventizi. Prima dell’inizio, passava tra loro un filosofo allora sindaco della città lagunare, inquadrato dall’occhio attento delle telecamere. Vedendolo, uno degli avventizi, che si sentiva tutto solleticato dall’evento di cui era partecipe, gli si rivolse dichiarando che loro erano gli eredi degli antichi signori patrizi veneziani, ricevendo come risposta un brusco: “Ma stai zitto, idiota!”, che lasciò senza parole il “patrizio”.
Dobbiamo poi aggiungere che per ottenere il permesso di stampa, la “Dissertazione” dell’abate di Saint-Pierre de Senones dovette sottostare all’obbligo di pubblicare in appendice due documenti dei dottori della Sorbona, che condannavano certe pratiche di “esecuzione” di non-morti, condanna sottoscritta dall’abate alla fine del suo trattato: “Tutto quello che si sa e può servire a spiegare come s’abbian potuto cavar dal sepolcro alcuni vampiri, che abbian parlato, gridato, urlato, gettato sangue. E tutto ciò perché non eran ancora morti. Li han fatti morire di poi decapitandoli, abbruciandoli, trafiggendo loro il cuore. In simili esecuzioni apparisce una manifesta ingiustizia, poiché il pretesto del loro preteso ritorno per dar travaglio ai vivi, per farli morire, per maltrattarli, non è una sufficiente ragione per trattarli in quella guisa. Peraltro non è mai stato provato il loro preteso ritorno, né mai autenticato in maniera che possa autorizzare alcuno a usare tale crudeltà e tal disonore.” Il giudizio conclusivo è inequivocabile: “Imperciocché non ha fondamento alcuno tutto quel che si dice delle apparizioni, delle vessazioni, dei danni cagionati dai pretesi Vampiri e dai Brucolachi. Non mi meraviglio, che la Sorbona abbia condannato quegli atti inumani e violenti, che si praticano in quei corpi morti; è ben da stupirsi, che Potestà secolari, e i Magistrati non usino la loro autorità, e la severità della Leggi a reprimerli.”
Mi è venuto incontro Carlo De Pasquale, l’atteggiamento di sempre: “Ciao, Silvio,” mi ha detto, sorridente. “Oh, Carlo!” ho esclamato, sorpreso perché non lo vedevo da tempo. “Vieni,” mi ha detto, ed io l’ho seguito sulla pista da sci. Abbiamo preso la seggiovia ed abbiamo iniziato a salire… Ma dove stavamo andando? In cielo?... E giù nella valle, la miriade di puntini neri, lontano sempre più lontano da noi? Laggiù! “L’umanità”, De Pasquale il volto illuminato… Visione o sogno? Un sogno fatidico?
Non cavalca nessun cavallo bianco il mio amico… non-morto… no! Il velo bianco di neve immacolata del New Hampshire sale su a spirale ad investirmi, non devo dormire, devo svegliarmi, telefonare a… Nancy? Dov’è il figlio di Frau Schreber? È buio, sento il confuso bisbiglio di una turba di ombre, più in fondo una luce disegna il rettangolo di una porta chiusa. Vado avanti verso la soglia ora illuminata da un esterno bagliore, uno splendente nitido avorio.
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