giovedì 9 maggio 2024

Psicologia

 

         La santa canaglia



6 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

LA SANTA CANAGLIA

“E tra ’l fuoco e tra ’l fumo e le faville
E ’l grandinar de la rovente scaglia
Ti gittasti feroce in mezzo a i mille,
Santa canaglia.”
Giosuè Carducci - Giambi ed Epodi (1906)
Libro I - Nel vigesimo anniversario dell'8 agosto 1848.

La data ricorda l’insurrezione contro le truppe austriache dei cittadini bolognesi e la battaglia combattuta vittoriosamente nei pressi della Montagnola.
È noto l’entusiasmo rivoluzionario del Carducci, che sin dagli anni giovanili si mostrò sostenitore dei diritti del popolo, la forza che muove il corso della storia, ostentando uno spirito anticlericale e repubblicano, fino ad un evento simbolico, l’incontro con la regina Margherita. Il poeta mutò il suo anonimo da rivoluzionario in patriottico e la “santa canaglia” divenne lo strumento per le battaglie nazionalistiche.
L’ossimoro poetico del Carducci si presenta di grande interesse sotto un duplice profilo: quello proprio della figura retorica, che evidenzia una contraddizione propria dell’animo umano, da esaminare sotto un profilo psicologico; e l’altro di carattere socio-politico, per la doppia valenza che può attribuirsi al termine, dispregiativo da un lato, glorificante dall’altro, a seconda della prospettiva da cui si guarda.
Nella sua analisi psicologica dello “Zarathustra”, a Jung non poteva certo sfuggire l’occasione di esaminare questa contraddizione, quando si presenta nei suoi aspetti più estremi. Nel riflesso della sorgente, Nietzsche non sopporta di vedere “i musi ghignanti”, “la sete degli impuri”, “il loro sorriso ributtante”.
“L’acqua sacra mi hanno avvelenato con la loro libidine; e quando chiamarono piacere i loro sogni sporchi, hanno avvelenato anche le parole.”
Di chi sono i sogni più sporchi? Jung risponde: “Naturalmente, i sogni più sporchi li fanno i santi. È un fatto sfortunatamente. Sant’Agostino, per esempio, affermava di ringraziare Dio per non averlo reso responsabile dei propri sogni. Non dice quali fossero e ho avuto sempre la curiosità di saperlo – devono essere stati piuttosto forti.”
Si sa che ogni visione proibita è sempre tentatrice, Jung cita la “Tentation de saint Antoine” di Flaubert e assicura che lo scrittore francese si basava sempre su studi molto attenti. Infatti, nel testo si fa riferimento ad Atanasio di Alessandria, il Patriarca autore di una “Vita di sant’Antonio”, dove descrivono le lotte del santo contro gli assalti e i molteplici inganni del demonio.
Nietzsche ha la percezione della grande quantità di sozzura accumulata al di sotto della sua coscienza e la proietta su quella che lui considera la canaglia umana. È un meccanismo psicologico valido per tutti, e commenta ironicamente Jung: “Dovremmo essere molto grati per il fatto che esista qualcosa come la canaglia umana. Si tratta di esseri inferiori, e io non sono inferiore; ringrazio il cielo per aver incontrato persone che sono inferiori – ora so dove si trova l’inferiorità.”
Ed è ovvio che tanto più grande è la presa di distanza, tanto maggiore è l’invettiva, che inconsciamente Nietzsche scaglia contro sé stesso. Usa parole di fuoco contro la canaglia: “Sdegnosa diventa la fiamma, quando essi mettono al fuoco i loro cuori madidi; anche lo spirito gorgoglia fumigante, dove la canaglia si avvicina al fuoco.” E adopera immagini suggestive e ricche d’inventiva nell’insulto: “Sono necessarie fonti avvelenate e fuochi puzzolenti e sogni insozzati e vermi nel pane della vita? Non l’odio, lo schifo ha insaziabilmente roso la mia vita! Ah, spesso presi a tedio anche lo spirito, quando trovai che anche la canaglia ha spirito! E a coloro che dominano ho voltato le spalle, quando ho visto che cosa essi chiamano dominare: mercanteggiare vilmente sulla potenza con la canaglia!”

Silvio Minieri ha detto...

IL SIMBOLO DEL SERPENTE
“E molti che vennero come distruttori e come grandine per i campi fruttiferi, non volevano se non cacciare il piede nelle fauci della canaglia e così tapparne la gola.”
Commenta Jung: “Questa è una figura retorica straordinaria […] quando Nietzsche fa uso di un’immagine di cattivo gusto, dietro c’è qualcosa di simbolico. L’idea è che egli metta il proprio piede nella bocca di un mostro, presumibilmente soffocandolo.” Quindi richiama l’attenzione su un altro passo dello “Zarathustra”, quello del serpente che entrò nella bocca del pastore e che questi non riusciva a inghiottire.
“Il serpente è il drago, colui che rappresenta i centri inferiori del cervello e del midollo spinale. È quell’animale a sangue freddo che non ha alcuna connessione, alcun rapporto con l’uomo, e simboleggia quella parte della nostra psicologia che ci è completamente estranea, che non riusciremo mai a capire, di fronte alla quale rabbrividiamo e di cui abbiamo paura.” Qui Jung fa riferimento al proprio concetto dell’Inconscio, lo Spirito, che ci possiede e che non conosciamo, e proprio in quanto “inconscio”, non possiamo conoscere.
Quindi inizia la sua spiegazione del serpente come simbolo religioso, ricordando i misteri di Sabazio. Si tratta di una divinità di origine tracio-frigia, identificata con Dioniso, di cui sono noti i riti orgiastici dei suoi seguaci. L’iniziazione consisteva in un rito in cui veniva simulato l’inghiottimento del serpente. Agli iniziandi veniva spinto sotto il mento un serpente d’oro e poi passato sotto le vesti cerimoniali. Il rituale simboleggiava l’entrata del dio nell’uomo (éntheos), che veniva fecondato e colmato della sua natura divina; il gesto di trarlo fuori da sotto le vesti rappresentava l’evento della nascita, una “rinascita”, il rinnovamento della personalità.
Spiega Jung: “Dove è in questione la canaglia – la parte inferiore della psicologia di Nietzsche – incontreremo certamente la medesima idea, ma in forma inversa […] Come il serpente entrava nella gola del pastore, così il suo piede entra nella gola della canaglia.” Identificandosi con Zarathustra, una forma umanizzata di Dio, Nietzsche si comporta come se fosse lui stesso il dio, il serpente. Egli non soffoca la canaglia, ossia la sua parte inferiore, ma la feconda, la rende gravida del suo spirito divino. Le sue forze spirituali, che appartengono alla parte superiore, possono così unirsi alle potenze che si trovano sotto la superficie, perché “lo spirito che non appare nella carne è un vento che non dura un solo istante.” “Per farsi reale – dice Jung – il vento deve entrare nella materia. Lo spirito non è niente, se non discende nella materia, proprio come la materia è assolutamente morta, se non è vivificata dallo spirito.”
Nietzsche utilizza il suo risentimento contro la canaglia, tutto quel che rappresenta gli istinti inferiori dell’uomo, attraverso un’immagine di odio, in cui Jung vede apparire il simbolo positivo della “necessaria” composizione di spirito e materia, secondo la teoria di derivazione eraclitea dell’enantiodromia, l’incontro degli opposti.
E la controprova di quanto sostiene la ritrova nello sgomento di Nietzsche, che così commenta quanto da lui stesso detto : “E il boccone per me più difficile da inghiottire non è stato il sapere che la vita stessa ha bisogno di inimicizia, e di morte e di croci di martirio. Così una volta chiesi, quasi soffocando la mia domanda: come? È "necessaria" per la vita anche la canaglia?”

Silvio Minieri ha detto...

IL DISGUSTO
Il parallelo in prospettiva rovesciata, proposto da Jung fra l’immagine del piede nella bocca della canaglia e quella del serpente nella bocca del pastore, esprime lo stesso sentimento: il disgusto per l’uomo. Il morso liberatorio, che stacca la testa al serpente, rappresenta la liberazione dell’uomo dal “livido orrore” dell’esistenza, il peso del suo essere uomo, e quindi il superamento dell’uomo, il Superuomo.
Nella sua autobiografia, “Ecce homo”, alla fine del paragrafo 8 del capitolo: “Perché sono così saggio”, Nietzsche scrive: “Il disgusto per l’uomo, per la “canaglia” è stato sempre il mio maggior pericolo.” E poi spiega come ha fatto per evitare il pericolo, limitandosi semplicemente a citare il passo dello “Zarathustra” in questione:
“Ma che cosa mi accadde? Come mi salvai dal disgusto? Chi ringiovanì il mio occhio? Come potei raggiungere a volo l’altezza dove nessuna canaglia più siede alla fonte?
È stato il mio stesso disgusto a crearmi ali ed energie presaghe di sorgenti? In verità, bisognava ch’io volassi alla massima altezza per ritrovare la sorgente del diletto! […] In verità, Zarathustra è un vento impetuoso per tutte le pianure; questo consiglio dà ai nemici e a tutto quanto vomita e sputa: guardatevi dallo sputare contro vento!”
Il vento (ànemos) è l’anima, lo spirito, che aleggia fuori dal corpo, senza contaminarsi, e uno spirito contaminato avverte il disgusto per la materia, l’uomo, la “canaglia”.
Sempre in “Ecce homo”, poco prima egli scrive: “La mia umanità è un costante superamento di me stesso. Ma io ho bisogno di solitudine, voglio dire guarigione, ritorno a me, respirare un’aria libera, lieve, giocosa… Tutto il mio “Zarathustra” è un ditirambo sulla solitudine o, se sono stato compreso, sulla purezza… Per fortuna non sulla pura pazzia…” Qui l’autore, rileggendosi, prende le distanze del suo personaggio, quasi una resipiscenza (o forse un presagio), perché è consapevole del rischio che corre se gli accade (come gli accadde) di trovarsi in quella situazione, quella di volare troppo in alto. “Invero noi non abbiamo qui rifugi per gli impuri! Una caverna di ghiaccio significherebbe per i vostri corpi la nostra gioia, e per i vostri spiriti!”
Così commenta Jung questo versetto: “Naturalmente quella caverna di ghiaccio è per il corpo di Zarathustra. Il ghiaccio veicola sempre l’idea di mancanza d’innervazione, di mancanza di calore, di assenza di vita, la morte dell’uomo corporale”.
Viene da dire: si perde il gusto della vita. Ma poi che cosa è il gusto, se al termine si vuol assegnare un senso filosofico, vale a dire concettuale?

Silvio Minieri ha detto...

Secondo le teorie tradizionali, il gusto è il giudizio sul bello, diciamo così, catalogando il giudizio come estetico. Il termine si riferisce alla dottrina filosofica, detta appunto “estetica”, che tratta del bello artistico e naturale. Aisthesis, in greco “sensazione”, corrisponde al verbo aisthanomai, “percepire attraverso i sensi”. Il primo a conferire al termine il significato odierno fu nel 1750 il filosofo tedesco Baumgarten nel suo trattato "Aesthetica". Questa concezione dell’estetica, in cui il giudizio sul bello verrebbe ricondotto ad una regola generale viene però respinta da Kant, che la considera soltanto come un “critica del gusto”, facoltà non conoscitiva, ma soltanto sensibile. Nella “Critica della ragion pura” (1781), egli recupera il significato greco di estetica, come scienza della sensibilità, percezione sensibile del mondo esterno. Soltanto nella “Critica del giudizio”, egli si esprime sul “gusto” del bello e del sublime:
il bello perde la sua veste sensibile e viene ad assumere un significato concettuale, ha ovviamente radici antiche. Il problema del bello in sé, non come sentimento soggettivo, ma come un “in sé” universalmente valido, era stato già posto da Platone.
“Tutte queste cose che tu dici essere belle, se esistesse il bello in sé, sarebbero belle a causa sua?” (Ippia maggiore, 288a) Socrate sta discutendo con Ippia su che cosa deve intendersi per bello ed è chiara la distinzione tra le due posizioni. Da una parte, Socrate chiede: “Che cosa è il bello?”, l’idea del Bello; dall’altra, Ippia intende: “Che cosa è bello?”, quali sono le cose belle. Quindi, per Socrate, come osserva Giovanni Reale, è facile introdurre tutta una serie di cose che per esperienza possono intendersi come belle: una bella ragazza, una bella cavalla, una bella lira etc. Allora pone il quesito: “Una bella pentola, non è una bella cosa?” “O Socrate, [colui che fa una tale domanda] che razza di uomo è? Come è rozzo, se osa nominare oggetti tanto volgari, in una questione così importante!”
La risposta di Ippia è sintomatica: una tale domanda, in cui si paragona la bellezza di una pentola a una bella ragazza, una bella cavalla, una bella lira, poteva farla soltanto un individuo rozzo (oklos, “plebaglia”). Nel dialogo, non si arriverà a una definizione del bello universale; soltanto più tardi, nel “Simposio”, Platone formulerà l’idea della bellezza, ipostatizzandola nella figura divina di Calloné, e nella “Repubblica” parlerà del “Bello” come forma sensibile del vero “Bene”.
Nella prospettiva del discorso appena concluso, in cui un giudizio sul bello, sia pure nella forma di una “critica del gusto” ossia la formulazione soggettiva della sensazione di un certo “non so che”, sulla cui base si esprime il giudizio se una cosa sia bella, si potrebbe forse cercare di definire concettualmente ‘a contrario‘, il “disgusto” di Nietzsche per la canaglia, la plebaglia in genere, l’uomo?
Gadamer pone in evidenza come il “non so che”, su cui si fonda il giudizio sul bello, significhi appunto “non sapere”, “non conoscere”, e quindi se non si riesce a definire concettualmente il “gusto” estetico, tanto meno si potrà definire l’opposto: il “disgusto”. E pertanto dobbiamo ritenere il discorso del “disgusto” di Nietzsche soltanto la narrazione di un sentimento personale, espresso con il solito linguaggio colorito, con immagini suggestive? La conclusione è troppo riduttiva.

Silvio Minieri ha detto...

Si potrà allora parlare di una “estetica” nietzschiana? L’opera in cui egli tratta il tema è “La nascita della tragedia”, uno scritto giovanile. Nel “Tentativo di autocritica”, una “tardiva prefazione (o conclusione)”, inserita successivamente alla stesura dell’opera, circa quattordici anni dopo, all’inizio del paragrafo cinque, Nietzsche così si esprime: “Già nella prefazione a Riccardo Wagner, l’arte, e non la morale, era presentata come la vera e propria l’attività metafisica dell’uomo; nel libro stesso ricorre spesso la frase allusiva che l’esistenza del mondo è giustificata unicamente come fenomeno estetico. In effetti, l’intero libro riconosce dietro ad ogni accadere solo un senso e un senso recondito d’artista: un dio, se si vuole, ma certo solo un dio-artista in tutto incurante e immorale, che nel costruire come nel distruggere, nel bene come nel male, vuole provare lo stesso piacere e dispotismo, e che nel creare mondi si libera dalla pena della pienezza e dell’abbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compresse. Il mondo concepito come la liberazione di un dio raggiunta a ogni istante, come visione eternamente cangiante, eternamente nuova del più sofferente, del più contrastato, del più ricco di contraddizioni, capace di redimersi solamente nell’apparenza della realtà: è questa un’intera metafisica da artista, che può definirsi arbitraria, oziosa, fantastica; ma l’essenziale in essa è che già si manifesta uno spirito che un giorno, incurante del pericolo, si porrà come baluardo contro l’interpretazione e il significato morale dell’esistenza. Qui, si annunzia, forse per la prima volta, un pessimismo «di là dal bene e dal male».”
Siamo arrivati a un punto nodale: il rapporto tra etica ed estetica, tra il bello e il bene, connessi in Platone, sconnessi in Nietzsche, ma sarebbe meglio dire “superati”. Per il filosofo tedesco, l’importante era eliminare ogni qualsiasi possibile significato morale dell’esistenza, e per questo ne aveva tentato una giustificazione estetica, poi criticata. In seguito, infatti, egli elaborò “la dottrina dell’eterno ritorno, cioè del movimento circolare, assoluto e ripetuto all’infinito di tutte le cose”, come la definisce nella sua autobiografia: “Ecce homo”.
Il “disgusto” per la canaglia, tutto quello che attiene alle qualità inferiori dell’uomo, l’uomo stesso, in Nietzsche, non ha nessuna coloritura estetica o morale, esprime un elemento metafisico, oltre l’uomo.
Lo spirito vola in alto, nella solitudine e nel silenzio, ad altezze irraggiungibili:
“Ma che cosa mi accadde? Come mi salvai dal disgusto? Chi ringiovanì il mio occhio? Come potei raggiungere a volo l’altezza dove nessuna canaglia più siede alla fonte?
È stata il mio stesso disgusto a crearmi ali ed energie presaghe di sorgenti? In verità, bisognava ch’io volassi alla massima altezza per ritrovare la sorgente del diletto!
Oh, fratelli, io l’ho trovata! Qui sulla vetta sgorga per me la sorgente del diletto! E vi è una vita alla quale non attinge la canaglia! […]
[…] E come venti vigorosi noi vogliamo vivere al di sopra di loro, vicini alle aquile, vicini alla neve, vicini al sole: così vivono venti vigorosi.
E un giorno voglio soffiare come un vento anche tra loro e col mio spirito togliere il fiato al loro spirito: così vuole il mio futuro.”
Il vento, lo spirito, che soffia al di sopra dell’uomo e tra gli uomini è la filosofia del futuro: il Superuomo.

Silvio Minieri ha detto...

IMMAGINE
SABAZIO (gr. Σαβάζιος) Divinità di probabile origine traco-frigia, venerata nel mondo greco dal 5° sec. a.C. Per i suoi aspetti esotico-orgiastici e la popolarità presso le classi inferiori, il culto di S. attirò le critiche degli ambienti colti greci, ma ciò non ne impedì la diffusione: nel 2° sec. a.C. raggiunse Roma, da dove si tentò di bandirlo nel 139. Il culto aveva forme misteriche esoteriche: i riti d’iniziazione si celebravano di notte, con una finta morte e resurrezione e una simbolica unione sessuale con il dio, rappresentato da un serpente, e di giorno, con una processione e formule rituali.
Il culto di Sabazio era aperto al sincretismo: nella Frigia la figura di Sabazio si fondeva con quella di Attis, in Grecia tendeva a identificarsi con Dioniso, Zeus ed Elio. Per gli adepti era quasi un dio unico che assorbiva tutti gli altri; l’epiteto di σωτήρ, «salvatore», sottolinea il carattere della religiosità dei fedeli, carica di ansie salvifiche.