“Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.” Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi. La massima della filosofia scolastica medievale, di derivazione tomistico aristotelica, fu accolta da John Locke nella sua teoria dell’origine delle idee, esposta nel “Saggio sull’intelletto umano” (1690). Il pensiero di Locke, ispirato all’antica tradizione di Ruggero Bacone e Guglielmo di Occam, viene considerato come l’iniziatore di quella corrente filosofica, l’empirismo britannico, che attraverso Berkley raggiunge il suo culmine nello scetticismo di Hume. Quest’ultimo offrirà lo spunto a Kant per uscire dal sonno dogmatico, e con il suo criticismo della ragione, dare inizio alla corrente dell’idealismo tedesco, che troverà compimento infine nella filosofia dello Spirito di Hegel. Al di fuori di questa collocazione di Locke nelle varie correnti della storia del pensiero, non si può fare a meno di considerare come la sua teoria della conoscenza risponda sul piano pratico al desiderio di libertà e autonomia della persona umana nei confronti di un regime di potere assolutistico. In questo senso, la sua dottrina può considerarsi alla base di quella tradizione britannica del pensiero liberale, che si è andata via via affermando nella storia delle moderne democrazie occidentali. Il senso della ricerca filosofica di Locke sta nel rifiuto dell’innatismo delle idee di Cartesio e dei suoi seguaci e del razionalismo di Spinoza o di Leibniz, secondo i quali da pochi principi e regole, non revocabili in dubbio, si può dedurre un insieme di verità non soggette a verifiche. E di conseguenza dovrebbe esistere un ordine universale e necessario, a cui l’uomo sarebbe soggetto. Per Locke un tale ordine necessario e assoluto non esiste, come si può osservare nel campo politico e religioso, prima ancora che in quello della conoscenza. Sorgeva quindi l’esigenza di una indagine sui limiti della ragione umana, non potendosi ancorare la conoscenza a principi assoluti e infallibili. “Era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione.” Così scrive nell’Epistola al Lettore, premessa al Saggio. Per meglio comprendere la sua presa di posizione contro il razionalismo, non si può fare a meno di riferirsi alla vicenda storica del suo tempo, che lo stesso Locke si ritrovò a vivere. Egli iniziò a stendere i primi abbozzi del Saggio nel 1670, e vi lavorò per un ventennio, contemporaneamente alla sua attività diplomatica e politica al seguito di Lord Ashley Shaftesbury, per pubblicarlo infine nel 1690. Durante questo periodo, Locke fu accusato di essere coinvolto nel tentativo di rovesciamento del re Giacomo II, cattolico, e nel 1685 espatriò in Olanda. Nel 1689, a seguito della gloriosa rivoluzione, che portò alla deposizione di Giacomo II e alla sua sostituzione con il genero Guglielmo d’Orange, protestante, Locke rientrò in patria. Fu l’inizio della nuova monarchia di tipo parlamentare, e per diventare sovrano d’Inghilterra, Guglielmo dovette firmare una “Dichiarazione dei diritti” (Bill of Rights, 1689), in cui si impegnava a rispettare la libertà del popolo e le leggi votate dal parlamento. Era una forma di monarchia costituzionale, in contrasto con il modello di monarchia assoluta di Luigi XIV in Francia. Ecco perché Locke coglieva nella teoria delle idee innate di Cartesio quella certa forma di assolutismo, che ostacola il libero processo di formazione della coscienza individuale, e corrisponde in pratica a quella componente autoritaria del potere, che distrae gli uomini dall’uso personale della ragione e dall’autonomia del giudizio, inducendoli ad un’acritica credulità politica.
Non vi è nessun motivo, perché vi siano principi speculativi o morali innati, neppure immaginando il disegno divino: “Sono pienamente persuaso che Dio infinitamente saggio ha fatto ogni cosa conformemente alla sua saggezza perfetta, e non riesco quindi a rendermi conto perché si debba supporre che abbia stampato nello spirito degli uomini alcuni principi universali, di cui quelli che si pretendono innati e che concernono la speculazione non sono di grande utilità, quelli che concernono la pratica non sono autoevidenti, e nessuno di essi si può distinguere da altre verità che si riconoscono innate. Infatti, per quale scopo sarebbero stati tracciati nel nostro spirito dal dito di Dio caratteri che non sono più chiari di quelli che sono poi introdotti o che non possono distinguersi da questi?” (Saggio, I, III, 22) Nell’Introduzione, Locke indica subito qual è il principale oggetto di conoscenza dell’intelletto umano: “Idea […] è l’oggetto dell’intelletto, quando un uomo pensa; e quindi l’ho usato per esprimere tutto ciò che può essere inteso per immagine, nozione, specie, o tutto quello intorno a cui lo spirito può essere adoperato nel pensare. […] Tali idee sono nello spirito dell’uomo, ognuno ne è consapevole in sé stesso, e le parole e le azioni degli altri uomini lo convinceranno che esse si trovano anche in loro. La nostra prima indagine sarà sul come esse vengano allo spirito.” Nel primo dei quattro libri, poi, espone il suo pensiero sul perché non vi sono principi speculativi innati (innate notions) nella mente e così anche principi pratici. “Non vi è opinione più comunemente accettata di quella secondo cui ci sono certi principi, speculativi e pratici (dicono entrambi), su cui l’umanità è universalmente concorde. Il fatto che ci sia un universale consenso sulla verità di queste proposizioni, dicono, è la dimostrazione evidente che devono essere credenze innate, che l’anima umana riceve alla sua creazione e che sono necessariamente portate nel mondo e sono altrettanto reali quanto le facoltà naturali [i cinque sensi]. Questo argomento basato sul consenso universale presenta quest’inconveniente: se fosse vero, infatti, che alcune credenze vengono universalmente accettate come vere, questo consenso non proverebbe che fossero innate, ove una spiegazione alternativa di come la gente arriva a un universale consenso potesse essere dimostrata, ed io presumo di poterlo fare.” (Saggio, I, I, 2-3) Per Locke, la dimostrazione che gli uomini non posseggono idee dalla nascita è data dall’osservazione che i bambini, come i deficienti o altri minorati fisici o psichici non conoscono i principi speculativi, per es. il principio d’identità e il principio di non contraddizione. Si viene a conoscenza di questi principi, presunti innati, con l’uso della ragione: ma allora, ed è questa l’obiezione, come è possibile che con tale uso la mente venga a conoscenza di principi o proposizioni che già conosce? Conoscenza come reminiscenza? Era questa l’impostazione platonica del problema delle idee innate, dimostrazione peraltro dell’immortalità dell’anima. Nei tempi moderni, Cartesio aveva ripreso il discorso delle idee, non più realtà soggiornanti nell’Iperuranio, ma idee (pensieri) nella mente degli uomini dalla nascita.
Chi, invece, valorizzò proprio quest’aspetto della dottrina platonica della conoscenza come reminiscenza fu Leibnitz, il quale nel 1704, alla morte di Locke, scrisse i “Nuovi Saggi sull’Intelletto umano” (pubblicati 60 anni dopo), contestando punto per punto le tesi empiriste del filosofo inglese. Ecco che cosa scrive in proposito il filosofo e matematico tedesco: “La nostra anima ha sempre in sé la qualità di rappresentarsi qualsiasi natura o forma, quando si presenta l’occasione di pensarci e credo che questa qualità della nostra anima, in quanto esprime qualche natura forma o essenza, sia propriamente la cosa che è in noi, che è sempre in noi, sia che ci pensiamo o no. La nostra anima, infatti, esprime Dio e l’universo, tutte le Essenze e tutte le Esistenze.” Secondo il suo sistema metafisico delle monadi senza porte e finestre, nulla può venire dall’esterno: “Ciò si accorda con i miei principi […] D’altronde non potremmo apprendere nulla, se non avessimo già l’idea nella mente: l’idea è come la materia di cui si forma questo pensiero. Ciò è stato considerato in modo eccellente da Platone, quando ha introdotto la reminiscenza, teoria ben fondata se intesa nel senso giusto, liberata cioè dall’errore della preesistenza, senza figurarsi che l’anima debba già aver conosciuto e pensato distintamente tutto ciò che apprende e pensa attualmente.” Certo, Leibnitz non poteva accogliere la dottrina della metempsicosi, la stessa anima che si incarna in diversi corpi, nel suo processo purificatorio verso l’Iperuranio, ma coglie quella particolare verità della conoscenza come reminiscenza. Anche per Locke, le idee si trovano nell’intelletto: “Poiché ogni uomo è consapevole di pensare, e poiché ciò a cui il suo spirito si applica mentre pensa, sono le idee che vi si trovano, è fuori di dubbio che gli uomini abbiano nello spirito molte idee.” Quindi, passa a dimostrare da dove queste idee provengono e come vengono a impressionare lo spirito: “Supponiamo che lo spirito sia come si dice un foglio di carta bianco, privo di qualsiasi segno, senza nessuna idea; come arriva a essere fornito di idee? [...] Dall'esperienza, su cui si fonda tutta la nostra conoscenza, e da cui da ultimo deriva. La nostra osservazione usata sia per gli oggetti esterni sensibili, sia per le esperienze interne del nostro spirito che percepiamo e sulle quali riflettiamo, è quella che fornisce al nostro intelletto tutti i materiali del pensare. […] Io dico che queste due cose, cioè le cose esterne materiali quali oggetto della sensazione, e le operazioni del nostro spirito dentro di noi quali oggetto della riflessione, sono le sole origini dalle quali tutte le nostre idee hanno inizio.” (Saggio, II, I, 1-5) Quindi tutte le idee (ideas) e il sapere vengono acquisiti per esperienza (esperience), attraverso la sensazione (sensation) o attraverso la riflessione (reflection), e pertanto possono ritenersi vere solo le idee riconducibili a queste fonti della conoscenza. La mente non ha accesso diretto alle idee semplici (simple ideas), da cui si sviluppano per composizione le idee complesse, per esempio l’idea di cavallo o di bellezza. Si tratta, dice Locke, di sconosciuti sostegni della qualità (unknown support of qualities): “Thus a snow-ball having the power to produce in us the ideas of white, cold, and round, the powers to produce those ideas in us, as they are in the snow-ball, I call qualities; and as they are sensations or perceptions in our understandings, I call them ideas.” “Così una palla di neve ha il potere di produrre in noi l’idea di bianco, freddo e tondo: chiamo qualità i poteri di produrre quelle idee in noi, così come sono presenti nella palla di neve; e in quanto sono sensazioni o percezioni del nostro intelletto, le chiamo idee.” (Saggio, II, VIII, 8)
L’immagine della carta bianca su cui s’imprimono i dati sensibili, corrisponde al tema filosofico della tabula rasa, una tavola liscia su cui l’esperienza viene a incidere i suoi dati. In proposito, Leibnitz assume una posizione di mediazione, tra innatismo delle idee e conoscenza empirica. Egli, in primis, modifica la sentenza scolastica derivata da Aristotele, aggiungendo un’eccezione: “Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus.” Tutto deriva dai sensi, tranne l’intelletto stesso. L’obiezione da sola è tale da minare dalle fondamenta l’intero edificio dell’empirismo lockiano. Ne consegue che l’anima è “innata a sé stessa e l’intelletto e le sue attività sono “a priori”, che precedono l’esperienza. Tuttavia, Leibnitz pensa non all’innatismo attuale di Cartesio, ma ad una sorta di innatismo virtuale: “Si può forse negare che nella nostra mente ci sia molto d’innato, giacché noi siamo innati per così dire a noi stessi?” Per risolvere il problema della tabula rasa, Leibnitz si serve del paragone di un blocco di marmo non uniforme, come tavola vuota, ma di un blocco venato, dove la presenza delle venature di una figura non lo rende indifferente a ricevere tutte le altre figure. Il tema richiama quello della sostanza su cui ineriscono gli accidenti, secondo la dottrina aristotelica recepita nel Medio Evo, in età moderna rinnovata da Cartesio, la res cogitans, la realtà psichica, e res extensa, realtà materiale. Che cosa dice Locke della sostanza? “L’idea quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza, non è altro che il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare sussistano sine re substante, senza qualcosa per sostenerle; e chiamiamo perciò quel sostegno substantia; il che, secondo il vero valore della parola, in inglese comune si dice star sotto o sostenere.” (Saggio, II, XXIII, 2). Locke si rifà al concetto aristotelico di hypokeimenon o sostrato, subiectum, quello che giace sotto, la sconosciuta “cosa in sé” kantiana. Comunque, egli non smarrisce il concetto di sostanza: “Abbiamo le idee solo di tre specie di sostanze: 1) Dio; 2) Intelligenze finite; 3) Corpi. In primo luogo, Dio è senza principio, eterno, inalterabile e ovunque; quindi, non ci può essere dubbio circa la sua identità. In secondo luogo, poiché gli spiriti finiti hanno avuto ciascuno il suo determinato tempo e luogo, in cui ha cominciato ad esistere, la relazione con quel tempo e luogo determinerà sempre, per ciascuno di essi finché esiste, la sua identità. In terzo luogo, lo stesso varrà per ogni particella di materia, che è la stessa quando nessuna addizione o sottrazione di materia le vien fatta.”
Qui, Locke inizia il suo discorso sulla identità personale (personal identy), un concetto che dandone una rappresentazione empirica, quindi mutevole, come muta ogni esperienza nel tempo e nello spazio. È da notare che il capitolo XXVII del Libro II del Saggio, contenente questo discorso, è stato inserito da Locke nella 2^ edizione dell’opera, per cui dobbiamo presumere che sull’argomento trattato, “relazione tra le idee di identità e diversità”, l’autore abbia compiuto una più attenta riflessione. Ora, bisogna comprendere che cosa Locke intende per “persona” e quindi personal identy. È lo stesso autore a porre il quesito: “Per trovare in che cosa consiste l’identità personale, dobbiamo considerare per che cosa sta la parola “persona”; e sta, credo, per un essere pensante e intelligente, dotato di ragione e di riflessione, che può considerare sé stessa come sé stessa, cioè la stessa cosa pensante in diversi tempi e luoghi, il che accade solamente mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensare, e a me risulta essenziale ad esso, giacché è impossibile che qualcuno percepisca senza percepire che percepisce.” (Saggio, II, XXVII, 11) L’attacco, appare chiaro, è contro il “Cogito” universale di Cartesio, staccato dal percepente, sostanza incorporea, res cogitans, non ego cogito, “io penso”: “Giacché solo per mezzo della coscienza, che ha dei propri pensieri e azioni presenti, l’io è ora un io per sé stesso, e così sarà lo stesso finché la stessa coscienza può estendersi ad azioni passate o a venire.” (Saggio, ivi, 12) Quella delineata da Locke è un’identità personale mutevole e sfuggente, ma affinché questa identità personale dell’uomo non sfugga volatilizzandosi, come “ombre di nuvole che scorrono sui campi di grano”, è necessario coltivarla, per conservarne memoria, salvandola dall’oblio: “Le idee della nostra giovinezza, come i nostri figli, molte volte muoiono prima di noi. In ciò il nostro spirito somiglia a quelle tombe alle quali ci avviciniamo, si vedono il bronzo e il marmo, ma il tempo ha cancellato le iscrizioni, e le immagini cadono in polvere. Le immagini tracciate nel nostro spirito sono dipinte con colori che si dissolvono, e se non le dipingiamo di nuovo, svaniscono e scompaiono per sempre.” (Saggio, II, X, 5)
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
6 commenti:
JOHN LOCKE
LA TEORIA DELLA CONOSCENZA EMPIRICA
“Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.” Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi. La massima della filosofia scolastica medievale, di derivazione tomistico aristotelica, fu accolta da John Locke nella sua teoria dell’origine delle idee, esposta nel “Saggio sull’intelletto umano” (1690).
Il pensiero di Locke, ispirato all’antica tradizione di Ruggero Bacone e Guglielmo di Occam, viene considerato come l’iniziatore di quella corrente filosofica, l’empirismo britannico, che attraverso Berkley raggiunge il suo culmine nello scetticismo di Hume. Quest’ultimo offrirà lo spunto a Kant per uscire dal sonno dogmatico, e con il suo criticismo della ragione, dare inizio alla corrente dell’idealismo tedesco, che troverà compimento infine nella filosofia dello Spirito di Hegel.
Al di fuori di questa collocazione di Locke nelle varie correnti della storia del pensiero, non si può fare a meno di considerare come la sua teoria della conoscenza risponda sul piano pratico al desiderio di libertà e autonomia della persona umana nei confronti di un regime di potere assolutistico. In questo senso, la sua dottrina può considerarsi alla base di quella tradizione britannica del pensiero liberale, che si è andata via via affermando nella storia delle moderne democrazie occidentali.
Il senso della ricerca filosofica di Locke sta nel rifiuto dell’innatismo delle idee di Cartesio e dei suoi seguaci e del razionalismo di Spinoza o di Leibniz, secondo i quali da pochi principi e regole, non revocabili in dubbio, si può dedurre un insieme di verità non soggette a verifiche. E di conseguenza dovrebbe esistere un ordine universale e necessario, a cui l’uomo sarebbe soggetto. Per Locke un tale ordine necessario e assoluto non esiste, come si può osservare nel campo politico e religioso, prima ancora che in quello della conoscenza. Sorgeva quindi l’esigenza di una indagine sui limiti della ragione umana, non potendosi ancorare la conoscenza a principi assoluti e infallibili. “Era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione.” Così scrive nell’Epistola al Lettore, premessa al Saggio.
Per meglio comprendere la sua presa di posizione contro il razionalismo, non si può fare a meno di riferirsi alla vicenda storica del suo tempo, che lo stesso Locke si ritrovò a vivere. Egli iniziò a stendere i primi abbozzi del Saggio nel 1670, e vi lavorò per un ventennio, contemporaneamente alla sua attività diplomatica e politica al seguito di Lord Ashley Shaftesbury, per pubblicarlo infine nel 1690. Durante questo periodo, Locke fu accusato di essere coinvolto nel tentativo di rovesciamento del re Giacomo II, cattolico, e nel 1685 espatriò in Olanda. Nel 1689, a seguito della gloriosa rivoluzione, che portò alla deposizione di Giacomo II e alla sua sostituzione con il genero Guglielmo d’Orange, protestante, Locke rientrò in patria. Fu l’inizio della nuova monarchia di tipo parlamentare, e per diventare sovrano d’Inghilterra, Guglielmo dovette firmare una “Dichiarazione dei diritti” (Bill of Rights, 1689), in cui si impegnava a rispettare la libertà del popolo e le leggi votate dal parlamento. Era una forma di monarchia costituzionale, in contrasto con il modello di monarchia assoluta di Luigi XIV in Francia. Ecco perché Locke coglieva nella teoria delle idee innate di Cartesio quella certa forma di assolutismo, che ostacola il libero processo di formazione della coscienza individuale, e corrisponde in pratica a quella componente autoritaria del potere, che distrae gli uomini dall’uso personale della ragione e dall’autonomia del giudizio, inducendoli ad un’acritica credulità politica.
Non vi è nessun motivo, perché vi siano principi speculativi o morali innati, neppure immaginando il disegno divino: “Sono pienamente persuaso che Dio infinitamente saggio ha fatto ogni cosa conformemente alla sua saggezza perfetta, e non riesco quindi a rendermi conto perché si debba supporre che abbia stampato nello spirito degli uomini alcuni principi universali, di cui quelli che si pretendono innati e che concernono la speculazione non sono di grande utilità, quelli che concernono la pratica non sono autoevidenti, e nessuno di essi si può distinguere da altre verità che si riconoscono innate. Infatti, per quale scopo sarebbero stati tracciati nel nostro spirito dal dito di Dio caratteri che non sono più chiari di quelli che sono poi introdotti o che non possono distinguersi da questi?” (Saggio, I, III, 22)
Nell’Introduzione, Locke indica subito qual è il principale oggetto di conoscenza dell’intelletto umano: “Idea […] è l’oggetto dell’intelletto, quando un uomo pensa; e quindi l’ho usato per esprimere tutto ciò che può essere inteso per immagine, nozione, specie, o tutto quello intorno a cui lo spirito può essere adoperato nel pensare. […] Tali idee sono nello spirito dell’uomo, ognuno ne è consapevole in sé stesso, e le parole e le azioni degli altri uomini lo convinceranno che esse si trovano anche in loro. La nostra prima indagine sarà sul come esse vengano allo spirito.”
Nel primo dei quattro libri, poi, espone il suo pensiero sul perché non vi sono principi speculativi innati (innate notions) nella mente e così anche principi pratici.
“Non vi è opinione più comunemente accettata di quella secondo cui ci sono certi principi, speculativi e pratici (dicono entrambi), su cui l’umanità è universalmente concorde. Il fatto che ci sia un universale consenso sulla verità di queste proposizioni, dicono, è la dimostrazione evidente che devono essere credenze innate, che l’anima umana riceve alla sua creazione e che sono necessariamente portate nel mondo e sono altrettanto reali quanto le facoltà naturali [i cinque sensi]. Questo argomento basato sul consenso universale presenta quest’inconveniente: se fosse vero, infatti, che alcune credenze vengono universalmente accettate come vere, questo consenso non proverebbe che fossero innate, ove una spiegazione alternativa di come la gente arriva a un universale consenso potesse essere dimostrata, ed io presumo di poterlo fare.” (Saggio, I, I, 2-3)
Per Locke, la dimostrazione che gli uomini non posseggono idee dalla nascita è data dall’osservazione che i bambini, come i deficienti o altri minorati fisici o psichici non conoscono i principi speculativi, per es. il principio d’identità e il principio di non contraddizione. Si viene a conoscenza di questi principi, presunti innati, con l’uso della ragione: ma allora, ed è questa l’obiezione, come è possibile che con tale uso la mente venga a conoscenza di principi o proposizioni che già conosce? Conoscenza come reminiscenza? Era questa l’impostazione platonica del problema delle idee innate, dimostrazione peraltro dell’immortalità dell’anima. Nei tempi moderni, Cartesio aveva ripreso il discorso delle idee, non più realtà soggiornanti nell’Iperuranio, ma idee (pensieri) nella mente degli uomini dalla nascita.
Chi, invece, valorizzò proprio quest’aspetto della dottrina platonica della conoscenza come reminiscenza fu Leibnitz, il quale nel 1704, alla morte di Locke, scrisse i “Nuovi Saggi sull’Intelletto umano” (pubblicati 60 anni dopo), contestando punto per punto le tesi empiriste del filosofo inglese. Ecco che cosa scrive in proposito il filosofo e matematico tedesco: “La nostra anima ha sempre in sé la qualità di rappresentarsi qualsiasi natura o forma, quando si presenta l’occasione di pensarci e credo che questa qualità della nostra anima, in quanto esprime qualche natura forma o essenza, sia propriamente la cosa che è in noi, che è sempre in noi, sia che ci pensiamo o no. La nostra anima, infatti, esprime Dio e l’universo, tutte le Essenze e tutte le Esistenze.” Secondo il suo sistema metafisico delle monadi senza porte e finestre, nulla può venire dall’esterno: “Ciò si accorda con i miei principi […] D’altronde non potremmo apprendere nulla, se non avessimo già l’idea nella mente: l’idea è come la materia di cui si forma questo pensiero. Ciò è stato considerato in modo eccellente da Platone, quando ha introdotto la reminiscenza, teoria ben fondata se intesa nel senso giusto, liberata cioè dall’errore della preesistenza, senza figurarsi che l’anima debba già aver conosciuto e pensato distintamente tutto ciò che apprende e pensa attualmente.”
Certo, Leibnitz non poteva accogliere la dottrina della metempsicosi, la stessa anima che si incarna in diversi corpi, nel suo processo purificatorio verso l’Iperuranio, ma coglie quella particolare verità della conoscenza come reminiscenza.
Anche per Locke, le idee si trovano nell’intelletto: “Poiché ogni uomo è consapevole di pensare, e poiché ciò a cui il suo spirito si applica mentre pensa, sono le idee che vi si trovano, è fuori di dubbio che gli uomini abbiano nello spirito molte idee.” Quindi, passa a dimostrare da dove queste idee provengono e come vengono a impressionare lo spirito: “Supponiamo che lo spirito sia come si dice un foglio di carta bianco, privo di qualsiasi segno, senza nessuna idea; come arriva a essere fornito di idee? [...] Dall'esperienza, su cui si fonda tutta la nostra conoscenza, e da cui da ultimo deriva. La nostra osservazione usata sia per gli oggetti esterni sensibili, sia per le esperienze interne del nostro spirito che percepiamo e sulle quali riflettiamo, è quella che fornisce al nostro intelletto tutti i materiali del pensare. […] Io dico che queste due cose, cioè le cose esterne materiali quali oggetto della sensazione, e le operazioni del nostro spirito dentro di noi quali oggetto della riflessione, sono le sole origini dalle quali tutte le nostre idee hanno inizio.” (Saggio, II, I, 1-5)
Quindi tutte le idee (ideas) e il sapere vengono acquisiti per esperienza (esperience), attraverso la sensazione (sensation) o attraverso la riflessione (reflection), e pertanto possono ritenersi vere solo le idee riconducibili a queste fonti della conoscenza. La mente non ha accesso diretto alle idee semplici (simple ideas), da cui si sviluppano per composizione le idee complesse, per esempio l’idea di cavallo o di bellezza. Si tratta, dice Locke, di sconosciuti sostegni della qualità (unknown support of qualities):
“Thus a snow-ball having the power to produce in us the ideas of white, cold, and round, the powers to produce those ideas in us, as they are in the snow-ball, I call qualities; and as they are sensations or perceptions in our understandings, I call them ideas.” “Così una palla di neve ha il potere di produrre in noi l’idea di bianco, freddo e tondo: chiamo qualità i poteri di produrre quelle idee in noi, così come sono presenti nella palla di neve; e in quanto sono sensazioni o percezioni del nostro intelletto, le chiamo idee.” (Saggio, II, VIII, 8)
L’immagine della carta bianca su cui s’imprimono i dati sensibili, corrisponde al tema filosofico della tabula rasa, una tavola liscia su cui l’esperienza viene a incidere i suoi dati. In proposito, Leibnitz assume una posizione di mediazione, tra innatismo delle idee e conoscenza empirica. Egli, in primis, modifica la sentenza scolastica derivata da Aristotele, aggiungendo un’eccezione: “Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus.” Tutto deriva dai sensi, tranne l’intelletto stesso.
L’obiezione da sola è tale da minare dalle fondamenta l’intero edificio dell’empirismo lockiano. Ne consegue che l’anima è “innata a sé stessa e l’intelletto e le sue attività sono “a priori”, che precedono l’esperienza. Tuttavia, Leibnitz pensa non all’innatismo attuale di Cartesio, ma ad una sorta di innatismo virtuale: “Si può forse negare che nella nostra mente ci sia molto d’innato, giacché noi siamo innati per così dire a noi stessi?” Per risolvere il problema della tabula rasa, Leibnitz si serve del paragone di un blocco di marmo non uniforme, come tavola vuota, ma di un blocco venato, dove la presenza delle venature di una figura non lo rende indifferente a ricevere tutte le altre figure. Il tema richiama quello della sostanza su cui ineriscono gli accidenti, secondo la dottrina aristotelica recepita nel Medio Evo, in età moderna rinnovata da Cartesio, la res cogitans, la realtà psichica, e res extensa, realtà materiale.
Che cosa dice Locke della sostanza? “L’idea quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza, non è altro che il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare sussistano sine re substante, senza qualcosa per sostenerle; e chiamiamo perciò quel sostegno substantia; il che, secondo il vero valore della parola, in inglese comune si dice star sotto o sostenere.” (Saggio, II, XXIII, 2). Locke si rifà al concetto aristotelico di hypokeimenon o sostrato, subiectum, quello che giace sotto, la sconosciuta “cosa in sé” kantiana.
Comunque, egli non smarrisce il concetto di sostanza: “Abbiamo le idee solo di tre specie di sostanze: 1) Dio; 2) Intelligenze finite; 3) Corpi. In primo luogo, Dio è senza principio, eterno, inalterabile e ovunque; quindi, non ci può essere dubbio circa la sua identità. In secondo luogo, poiché gli spiriti finiti hanno avuto ciascuno il suo determinato tempo e luogo, in cui ha cominciato ad esistere, la relazione con quel tempo e luogo determinerà sempre, per ciascuno di essi finché esiste, la sua identità. In terzo luogo, lo stesso varrà per ogni particella di materia, che è la stessa quando nessuna addizione o sottrazione di materia le vien fatta.”
Qui, Locke inizia il suo discorso sulla identità personale (personal identy), un concetto che dandone una rappresentazione empirica, quindi mutevole, come muta ogni esperienza nel tempo e nello spazio. È da notare che il capitolo XXVII del Libro II del Saggio, contenente questo discorso, è stato inserito da Locke nella 2^ edizione dell’opera, per cui dobbiamo presumere che sull’argomento trattato, “relazione tra le idee di identità e diversità”, l’autore abbia compiuto una più attenta riflessione.
Ora, bisogna comprendere che cosa Locke intende per “persona” e quindi personal identy. È lo stesso autore a porre il quesito: “Per trovare in che cosa consiste l’identità personale, dobbiamo considerare per che cosa sta la parola “persona”; e sta, credo, per un essere pensante e intelligente, dotato di ragione e di riflessione, che può considerare sé stessa come sé stessa, cioè la stessa cosa pensante in diversi tempi e luoghi, il che accade solamente mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensare, e a me risulta essenziale ad esso, giacché è impossibile che qualcuno percepisca senza percepire che percepisce.” (Saggio, II, XXVII, 11)
L’attacco, appare chiaro, è contro il “Cogito” universale di Cartesio, staccato dal percepente, sostanza incorporea, res cogitans, non ego cogito, “io penso”: “Giacché solo per mezzo della coscienza, che ha dei propri pensieri e azioni presenti, l’io è ora un io per sé stesso, e così sarà lo stesso finché la stessa coscienza può estendersi ad azioni passate o a venire.” (Saggio, ivi, 12)
Quella delineata da Locke è un’identità personale mutevole e sfuggente, ma affinché questa identità personale dell’uomo non sfugga volatilizzandosi, come “ombre di nuvole che scorrono sui campi di grano”, è necessario coltivarla, per conservarne memoria, salvandola dall’oblio: “Le idee della nostra giovinezza, come i nostri figli, molte volte muoiono prima di noi. In ciò il nostro spirito somiglia a quelle tombe alle quali ci avviciniamo, si vedono il bronzo e il marmo, ma il tempo ha cancellato le iscrizioni, e le immagini cadono in polvere. Le immagini tracciate nel nostro spirito sono dipinte con colori che si dissolvono, e se non le dipingiamo di nuovo, svaniscono e scompaiono per sempre.” (Saggio, II, X, 5)
L'ANGOLO DEL GIOCO
OASI
DESERTO
CAMMELLO
CAPPOTTO
STABILE
IMMOBILE
FABBRICATO
PRODOTTO
CONSUMO
ENERGIA
ATOMICA
BOMBA
NOTIZIA
NOTIZIA
ST . . . A
EPOCA
Posta un commento