IL DOTTOR WINTER “Vi sono tre modi di intendere la libertà: come autodeterminazione o auto-causalità; come necessità, che si fonda sullo stesso concetto di autodeterminazione, attribuita però non al singolo, ma alla totalità di cui fa parte: l’ordine naturale, il mondo, la società; come possibilità o scelta, secondo cui la libertà è limitata e condizionata, vale a dire finita.” Andando oltre nella lettura del testo, era spiegata questa terza forma di intendere la libertà: “Mentre le prime due concezioni della libertà hanno un nucleo concettuale comune, la terza non fa appello a questo nucleo, perché intende la libertà come misura di possibilità, quindi scelta motivata o condizionata. In questo senso, non è che chi è causa sui o s’identifica con una totalità che è causa sui, ma chi possiede in un grado e misura determinata, possibilità determinate. Platone per primo ha enunciato il concetto che la libertà consiste in una “giusta misura” (Leggi, 603e); ed ha illustrato questo concetto nel mito di Er. In questo mito, si dice che le anime, prima di incarnarsi sono condotte a scegliere il modello di vita, a cui poi rimarranno legate. “Per la virtù, annuncia la parca Làchesi, non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a seconda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta, la divinità non ha colpa.” (Repubblica, X, 617e) Ma l’importante è che questa scelta, di cui ciascuno è l’autore, e la cui causalità, perciò, non può essere addossata alla divinità è limitata in un senso dalle possibilità oggettive, cioè dai modelli di vita disponibili e in un altro senso dalla motivazione giacché, come dice Platone, “la maggior parte delle anime sceglie secondo la consuetudine della vita precedente” (ibidem, 620a). La situazione mitica qui illustrata è esattamente quella di una libertà finita, cioè di una scelta tra possibilità determinate e condizionata da motivi determinanti. Una tale libertà è limitata: 1) dal rango delle possibilità oggettive, che sono sempre più o meno ristrette di numero; 2) dal rango dei motivi della scelta, che possono ancora ridurre, fino all’unità, il rango delle possibilità oggettive. Pertanto, questo concetto di libertà è una forma di determinismo, sebbene non di necessitarismo: ammette la determinazione dell’uomo da parte delle condizioni, a cui la sua attività risponde, ma non ammette che a partire da tali condizioni la scelta sia infallibilmente prevedibile.” Il dottor Winter chiuse di botto il libro che stava leggendo, “Enciclopedia filosofica”, e guardò verso la porta del suo studio medico, dove in quell’istante qualcuno aveva bussato e aperto, mentre lui diceva “avanti”. Nel riquadro apparvero la sua segretaria e una donna alta, la figura slanciata, i capelli rosso amaranto, l’età ancora giovane, Elsa Tedeschi. Winter posò il libro sulla scrivania e si alzò in piedi, mentre Elsa Tedeschi gli andò incontro allungando la mano: “Tedeschi” disse. Winter strinse la mano: “Winter” disse, mentre congedava con lo sguardo la segretaria, che si ritirò chiudendo la porta. “Ci siamo sentiti stamattina per telefono” disse Elsa Tedeschi. “Certo, collega, ti stavo aspettando.” Winter era un colonnello medico, psichiatra, sulla quarantina, e quindi collega del maggiore, entrambi ufficiali superiori, e non era il caso di frapporre distanze, per la differenza di grado. Girò attorno alla scrivania e venne a sedersi di fronte alla donna. “Sono venuta per un consulto psicologico” disse lei. “Un consiglio” corresse lui.. Elsa Tedeschi tacque, abbassando la testa. Winter si alzò, andò all’attaccapanni, prese il camice bianco, lo indossò e andò a sedersi dietro la scrivania. Quindi fece un gesto con la mano come per dire: “Bene, sentiamo.”
Elsa Tedeschi si raccolse sulla sedia, e sporgendosi leggermente in avanti disse: “Dottore, io ho fatto uno strano sogno, accompagnato da un vuoto di memoria.” “Vogliamo parlare prima del sogno o del vuoto di memoria?” disse Winter. Elsa Tedeschi sembrò riflettere, ma subito disse: “Il sogno”. Il dottore ripeté il cenno incoraggiante con la mano, l’invito a parlare. Elsa Tedeschi prese la borsetta che aveva a tracolla, la depose sulle ginocchia, l’aprì e trasse un foglio: “L’ho scritto” disse. Winter la invitò: “Legga.” Elsa Tedeschi cominciò a leggere: “Era pomeriggio, ma il sole tramontava e già iniziava il crepuscolo. Mi sono incamminata sul viale del parco dell’Appia Antica, quando…” s’interruppe e precisò: “Il parco “Giulia Servilia”, quello qui vicino.” “Sì, va bene” disse Winter. Elsa Tedeschi riprese a leggere “mi è sembrato che qualcuno mi seguisse. Allora, ho affrettato il passo, ma dietro di me ho sentito che anche l’altro accelerava, ho cominciato a correre spaventata e mi sono rifugiata in una macchia, a lato del viale, raggomitolandomi, e cercando di trattenere i gemiti. Ho sentito l’altro vicino a me spiarmi, poi si è allontanato.” Elsa Tedeschi smise di leggere, per riprendere fiato. “È finito?” domandò Winter. La donna scosse la testa e riprese a leggere: “Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora…” Il dottore aveva leggermente picchiato con le dita sul ripiano della scrivania e fatto un cenno con la mano, per interromperla. “Il “Giardino delle fontane” è l’area del parco, dove c’è una sede della polizia veterinaria,” disse Elsa Tedeschi, come a spiegare un particolare che presumeva il dottore non conoscesse. Winter guardò davanti a sé, poi abbassò lo sguardo e disse: “Sono due scene, è cambiato il quadro, come accade nei sogni.” Quindi, tornò a tornò a fissare un punto davanti a sé, mentre Elsa Tedeschi aspettava con il foglio in mano, infine lui rimise a fuoco la sua interlocutrice. In quella pausa di silenzio, qualcuno bussò e aperta la porta, si affacciò nello studio. Era la moglie del dottore, aveva approfittato della pausa, ed era entrata. Nella sala d’attesa c’era il monitor, collegato alla telecamera interna dello studio. “Accompagno i bambini a nuoto, dopo andiamo a casa, ti aspetto per cena, non tardare.” Quindi, guardò la paziente rivolta verso di lei con il foglio in mano: “Mi scusi l’interruzione, dottoressa” disse. Quindi si rivolse di nuovo al marito: “Beh, ciao”, poi aggiunse: “Scusatemi ancora”, dando un ultimo sguardo alla paziente, prima di ritirarsi e chiudere la porta. Winter fece un gesto, come per esprimere un certo disappunto, poi disse: “Bene dottoressa Tedeschi, continui.”
Elsa Tedeschi posò il foglio sulla scrivania: “Forse è opportuno che lo lasci a lei, così potrà leggerlo con calma, e darmi dopo il suo giudizio.” Winter guardò il foglio sulla scrivania, poi lo prese, e disse: “Mi dica del vuoto di memoria.” “Non ricordo bene quando sono rientrata a casa quella sera” rispose la donna. “La sera del sogno?” interloquì Winter. “Sì,” disse lei. “Quando è successo?” Elsa Tedeschi sembrò riflettere, poi domandò: “La passeggiata nel parco?” Winter accennò di sì. “Una settimana fa, più o meno.” Il dottore rimase ad osservare in silenzio il foglio che aveva preso poco prima, ora giacente a rovescio sulla scrivania, ovviamente non leggeva, pensava. “Quindi il sogno è di una settimana fa?” disse. “Sì,” rispose lei. “E quando l’ha scritto?” domandò lui. “Ho segnato degli appunti, la mattina dopo.” “E ha scritto il testo, prima di venire qui?” interrogò Winter. “Sì, stamattina, dopo averle telefonato.” Il medico rigirò il foglio, limitandosi a dare qualche occhiata allo scritto, poi disse: “Facciamo così, Tedeschi, tu mi scrivi le date e le ore della passeggiata e del sogno, per come le puoi ricostruire, poi me le invii per e-mail.” La donna assentì. “E adesso, scusami un momento.” Winter si alzò e andò alla porta, l’aprì e chiese della prossima visita. La paziente aveva telefonato per confermare che stava arrivando. Winter tornò al suo posto. “Collega Tedeschi, siamo d’accordo?” disse. “Sì, colonnello Winter.” Elsa Tedeschi si alzò, si strinsero la mano, poi la donna si avviò alla porta. “Ci conto,” disse Winter, mentre lei era sulla soglia. La donna sorrise: “Certo, dottore”. E si allontanò, chiudendo la porta dietro di sé. Il dottore rimase un istante a fissare la porta chiusa; si riscosse, prese il foglio sulla scrivania e cominciò a leggerlo. “Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora ho proseguito con passo regolare e ho raggiunto il cancello chiuso. Sono salita sul muro di cinta, e ho guardato la radura illuminata, in fondo brillava l’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, sulla facciata di una costruzione d’angolo. È sbucato un cane, che di corsa ha raggiunto il centro della radura, una fucilata secca, e il cane è caduto. Un secondo animale è comparso, e di corsa si è diretto anche lui verso il cerchio di luce al centro della radura. Una seconda fucilata, ed anche il secondo cane è stato abbattuto. Ho guardato in direzione, della caserma della polizia veterinaria e ho visto una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Ho guardato ancora e ho visto la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. Ho scavalcato il muro, sono balzata a terra, ho udito la fucilata e ho visto il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. D’istinto mi sono messa correre sempre più velocemente verso la luce bianca, e nell’abbaglio è risuonato ancora un colpo secco di fucile. Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto. Poi devo essermi riaddormentata.”
UNA LUCE NERA Winter ripose il foglio sulla scrivania, si allungò e chinò di lato, e dalla parte inferiore del tavolinetto lì accanto, prese uno dei libri allineati in basso. (Segue)
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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IL DOTTOR WINTER
“Vi sono tre modi di intendere la libertà: come autodeterminazione o auto-causalità; come necessità, che si fonda sullo stesso concetto di autodeterminazione, attribuita però non al singolo, ma alla totalità di cui fa parte: l’ordine naturale, il mondo, la società; come possibilità o scelta, secondo cui la libertà è limitata e condizionata, vale a dire finita.” Andando oltre nella lettura del testo, era spiegata questa terza forma di intendere la libertà: “Mentre le prime due concezioni della libertà hanno un nucleo concettuale comune, la terza non fa appello a questo nucleo, perché intende la libertà come misura di possibilità, quindi scelta motivata o condizionata. In questo senso, non è che chi è causa sui o s’identifica con una totalità che è causa sui, ma chi possiede in un grado e misura determinata, possibilità determinate. Platone per primo ha enunciato il concetto che la libertà consiste in una “giusta misura” (Leggi, 603e); ed ha illustrato questo concetto nel mito di Er. In questo mito, si dice che le anime, prima di incarnarsi sono condotte a scegliere il modello di vita, a cui poi rimarranno legate. “Per la virtù, annuncia la parca Làchesi, non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a seconda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta, la divinità non ha colpa.” (Repubblica, X, 617e) Ma l’importante è che questa scelta, di cui ciascuno è l’autore, e la cui causalità, perciò, non può essere addossata alla divinità è limitata in un senso dalle possibilità oggettive, cioè dai modelli di vita disponibili e in un altro senso dalla motivazione giacché, come dice Platone, “la maggior parte delle anime sceglie secondo la consuetudine della vita precedente” (ibidem, 620a). La situazione mitica qui illustrata è esattamente quella di una libertà finita, cioè di una scelta tra possibilità determinate e condizionata da motivi determinanti. Una tale libertà è limitata: 1) dal rango delle possibilità oggettive, che sono sempre più o meno ristrette di numero; 2) dal rango dei motivi della scelta, che possono ancora ridurre, fino all’unità, il rango delle possibilità oggettive. Pertanto, questo concetto di libertà è una forma di determinismo, sebbene non di necessitarismo: ammette la determinazione dell’uomo da parte delle condizioni, a cui la sua attività risponde, ma non ammette che a partire da tali condizioni la scelta sia infallibilmente prevedibile.”
Il dottor Winter chiuse di botto il libro che stava leggendo, “Enciclopedia filosofica”, e guardò verso la porta del suo studio medico, dove in quell’istante qualcuno aveva bussato e aperto, mentre lui diceva “avanti”. Nel riquadro apparvero la sua segretaria e una donna alta, la figura slanciata, i capelli rosso amaranto, l’età ancora giovane, Elsa Tedeschi. Winter posò il libro sulla scrivania e si alzò in piedi, mentre Elsa Tedeschi gli andò incontro allungando la mano: “Tedeschi” disse. Winter strinse la mano: “Winter” disse, mentre congedava con lo sguardo la segretaria, che si ritirò chiudendo la porta. “Ci siamo sentiti stamattina per telefono” disse Elsa Tedeschi. “Certo, collega, ti stavo aspettando.” Winter era un colonnello medico, psichiatra, sulla quarantina, e quindi collega del maggiore, entrambi ufficiali superiori, e non era il caso di frapporre distanze, per la differenza di grado. Girò attorno alla scrivania e venne a sedersi di fronte alla donna. “Sono venuta per un consulto psicologico” disse lei. “Un consiglio” corresse lui.. Elsa Tedeschi tacque, abbassando la testa. Winter si alzò, andò all’attaccapanni, prese il camice bianco, lo indossò e andò a sedersi dietro la scrivania. Quindi fece un gesto con la mano come per dire: “Bene, sentiamo.”
Elsa Tedeschi si raccolse sulla sedia, e sporgendosi leggermente in avanti disse: “Dottore, io ho fatto uno strano sogno, accompagnato da un vuoto di memoria.” “Vogliamo parlare prima del sogno o del vuoto di memoria?” disse Winter. Elsa Tedeschi sembrò riflettere, ma subito disse: “Il sogno”. Il dottore ripeté il cenno incoraggiante con la mano, l’invito a parlare. Elsa Tedeschi prese la borsetta che aveva a tracolla, la depose sulle ginocchia, l’aprì e trasse un foglio: “L’ho scritto” disse. Winter la invitò: “Legga.” Elsa Tedeschi cominciò a leggere: “Era pomeriggio, ma il sole tramontava e già iniziava il crepuscolo. Mi sono incamminata sul viale del parco dell’Appia Antica, quando…” s’interruppe e precisò: “Il parco “Giulia Servilia”, quello qui vicino.” “Sì, va bene” disse Winter. Elsa Tedeschi riprese a leggere “mi è sembrato che qualcuno mi seguisse. Allora, ho affrettato il passo, ma dietro di me ho sentito che anche l’altro accelerava, ho cominciato a correre spaventata e mi sono rifugiata in una macchia, a lato del viale, raggomitolandomi, e cercando di trattenere i gemiti. Ho sentito l’altro vicino a me spiarmi, poi si è allontanato.” Elsa Tedeschi smise di leggere, per riprendere fiato. “È finito?” domandò Winter. La donna scosse la testa e riprese a leggere: “Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora…” Il dottore aveva leggermente picchiato con le dita sul ripiano della scrivania e fatto un cenno con la mano, per interromperla. “Il “Giardino delle fontane” è l’area del parco, dove c’è una sede della polizia veterinaria,” disse Elsa Tedeschi, come a spiegare un particolare che presumeva il dottore non conoscesse. Winter guardò davanti a sé, poi abbassò lo sguardo e disse: “Sono due scene, è cambiato il quadro, come accade nei sogni.” Quindi, tornò a tornò a fissare un punto davanti a sé, mentre Elsa Tedeschi aspettava con il foglio in mano, infine lui rimise a fuoco la sua interlocutrice. In quella pausa di silenzio, qualcuno bussò e aperta la porta, si affacciò nello studio.
Era la moglie del dottore, aveva approfittato della pausa, ed era entrata. Nella sala d’attesa c’era il monitor, collegato alla telecamera interna dello studio. “Accompagno i bambini a nuoto, dopo andiamo a casa, ti aspetto per cena, non tardare.” Quindi, guardò la paziente rivolta verso di lei con il foglio in mano: “Mi scusi l’interruzione, dottoressa” disse. Quindi si rivolse di nuovo al marito: “Beh, ciao”, poi aggiunse: “Scusatemi ancora”, dando un ultimo sguardo alla paziente, prima di ritirarsi e chiudere la porta. Winter fece un gesto, come per esprimere un certo disappunto, poi disse: “Bene dottoressa Tedeschi, continui.”
Elsa Tedeschi posò il foglio sulla scrivania: “Forse è opportuno che lo lasci a lei, così potrà leggerlo con calma, e darmi dopo il suo giudizio.” Winter guardò il foglio sulla scrivania, poi lo prese, e disse: “Mi dica del vuoto di memoria.” “Non ricordo bene quando sono rientrata a casa quella sera” rispose la donna. “La sera del sogno?” interloquì Winter. “Sì,” disse lei. “Quando è successo?” Elsa Tedeschi sembrò riflettere, poi domandò: “La passeggiata nel parco?” Winter accennò di sì. “Una settimana fa, più o meno.” Il dottore rimase ad osservare in silenzio il foglio che aveva preso poco prima, ora giacente a rovescio sulla scrivania, ovviamente non leggeva, pensava. “Quindi il sogno è di una settimana fa?” disse. “Sì,” rispose lei. “E quando l’ha scritto?” domandò lui. “Ho segnato degli appunti, la mattina dopo.” “E ha scritto il testo, prima di venire qui?” interrogò Winter. “Sì, stamattina, dopo averle telefonato.” Il medico rigirò il foglio, limitandosi a dare qualche occhiata allo scritto, poi disse: “Facciamo così, Tedeschi, tu mi scrivi le date e le ore della passeggiata e del sogno, per come le puoi ricostruire, poi me le invii per e-mail.” La donna assentì. “E adesso, scusami un momento.” Winter si alzò e andò alla porta, l’aprì e chiese della prossima visita. La paziente aveva telefonato per confermare che stava arrivando. Winter tornò al suo posto. “Collega Tedeschi, siamo d’accordo?” disse. “Sì, colonnello Winter.” Elsa Tedeschi si alzò, si strinsero la mano, poi la donna si avviò alla porta. “Ci conto,” disse Winter, mentre lei era sulla soglia. La donna sorrise: “Certo, dottore”. E si allontanò, chiudendo la porta dietro di sé. Il dottore rimase un istante a fissare la porta chiusa; si riscosse, prese il foglio sulla scrivania e cominciò a leggerlo.
“Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora ho proseguito con passo regolare e ho raggiunto il cancello chiuso. Sono salita sul muro di cinta, e ho guardato la radura illuminata, in fondo brillava l’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, sulla facciata di una costruzione d’angolo. È sbucato un cane, che di corsa ha raggiunto il centro della radura, una fucilata secca, e il cane è caduto. Un secondo animale è comparso, e di corsa si è diretto anche lui verso il cerchio di luce al centro della radura. Una seconda fucilata, ed anche il secondo cane è stato abbattuto. Ho guardato in direzione, della caserma della polizia veterinaria e ho visto una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Ho guardato ancora e ho visto la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. Ho scavalcato il muro, sono balzata a terra, ho udito la fucilata e ho visto il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. D’istinto mi sono messa correre sempre più velocemente verso la luce bianca, e nell’abbaglio è risuonato ancora un colpo secco di fucile. Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto. Poi devo essermi riaddormentata.”
UNA LUCE NERA
Winter ripose il foglio sulla scrivania, si allungò e chinò di lato, e dalla parte inferiore del tavolinetto lì accanto, prese uno dei libri allineati in basso.
(Segue)
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