Il dottore rimase un istante a fissare la porta chiusa; si riscosse, prese il foglio sulla scrivania e cominciò a leggerlo. “Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora ho proseguito con passo regolare e ho raggiunto il cancello chiuso. Sono salita sul muro di cinta, e ho guardato la radura illuminata, in fondo brillava l’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, sulla facciata di una costruzione d’angolo. È sbucato un cane, che di corsa ha raggiunto il centro della radura, una fucilata secca, e il cane è caduto. Un secondo animale è comparso, e di corsa si è diretto anche lui verso il cerchio di luce al centro della radura. Una seconda fucilata, ed anche il secondo cane è stato abbattuto. Ho guardato in direzione, della caserma della polizia veterinaria e ho visto una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Ho guardato ancora e ho visto la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. Ho scavalcato il muro, sono balzata a terra, ho udito la fucilata e ho visto il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. D’istinto mi sono messa correre sempre più velocemente verso la luce bianca, e nell’abbaglio è risuonato ancora un colpo secco di fucile. Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto. Poi devo essermi riaddormentata.” . . .
UNA LUCE NERA Winter ripose il foglio sulla scrivania, si chinò di lato, e dalla base inferiore del mobiletto, prese uno dei libri allineati nella scansia. Cominciò a sfogliarlo, poi ritrovò il passo che gli interessava: “Occorre spiegare perché la delusione ha in generale un carattere astenico, perché nei casi di delusione la nostra intera esistenza non ha più basi salde, ma soltanto un “debole” fondamento. Quando il suo accordo con il mondo viene infranto, la nostra esistenza si sente mancare sotto i piedi e rimane sospesa. L’esser sospesa della nostra esistenza assume necessariamente la direzione verso il basso, è anche possibilità di liberazione, o di ascesa; ma se la delusione continua ad essere delusione, il sentirsi sospesi diventa un vacillare, uno sprofondare, un cadere. Il linguaggio attinge a questa struttura ontologica essenziale, ma ad essa attinge anche l’immaginazione del poeta, e soprattutto il sogno.” Winter mise il segnalibro alla pagina e chiuse il volume. Poi riprese il foglio con la descrizione del sogno di Elsa Tedeschi e rilesse l’ultima riga: “Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto.” Fluttuare in aria, ecco il sentimento dell’esistenza sospesa. Winter assunse l’aria soddisfatta: alla struttura ontologica essenziale, la nostra esistenza, attinge anche il sogno. Il libro che poco prima aveva chiuso era “Sogno ed Esistenza” di Ludwig Binswanger (1930).
Bussarono alla porta, la segretaria annunciò l’arrivo della paziente successiva: “Angela Riva”. Una ragazza con i capelli neri lunghi, un elegante vestito scuro con le spalline, che arrivava al di sotto del ginocchio, il trucco del viso e le ciglia ben curate, ma lo sguardo e l’espressione sofferenti, come rivelavano le occhiaie e le labbra serrate. Winter le fece cenno di sedersi, intanto aveva intravisto dietro la segretaria, ferma sulla soglia, la figura di Elsa Tedeschi in piedi nella sala d’attesa. Allora scambiò con la sua collaboratrice un segno d’intesa, che stava a significare un no alla richiesta di pagare la visita da parte della donna. La segretaria, Claudia, assentì, si ritrasse e chiuse la porta. In sala d’attesa, andò a sedersi dietro il bancone della ricezione e comunicò ad Elsa Tedeschi che non doveva fare nessun pagamento, poi continuò a scambiare qualche informazione con lei. Nel frattempo, si sentì un vociare proveniente dallo studio, culminato in un grido: “Ma io sono la vittima!” Le due donne, Claudia e d Elsa Tedeschi, guardarono il monitor, la ragazza era seduta al suo posto e anche il dottore. Claudia scosse la testa, rispondendo allo sguardo interrogativo dell’altra. Angela Riva era stata la protagonista di un caso di cronaca giudiziaria dell’anno precedente. Giovane donna in carriera in un ramo del settore finanziario, sposata con un uomo della sua età, l’intesa con il marito in declino, dopo alcuni anni di matrimonio, aveva preso l’abitudine di andare da sola il fine settimana in discoteca, per rilassarsi dallo stress della vita lavorativa. Una di quelle volte, divenuta l’ultima, era rimasta fino a tardi nella sala da ballo, ed aveva sollecitato lei stessa un passaggio a casa da un amico conosciuto quella sera stessa. L’altro, mentre l’accompagnava a casa, aveva svoltato in una stradina laterale buia, ed approfittando della mancata resistenza dell’amica, dovuto allo stato di ubriachezza, l’aveva violentata. Subito dopo lo stupro, la vittima si era ribellata e aveva aggredito l’assalitore, ma questi l’aveva sbattuta fuori dalla sua autovettura e si era allontanato, lasciandola distesa a terra, in preda alla sbornia. Scoperta da un passante, all’alba, era stata soccorsa e accompagnata all’ospedale, dove era andata a recuperarla il marito. Lo stupratore era stato arrestato e il processo era ancora in corso, i coniugi intanto avevano iniziato una terapia di coppia presso il dottor Winter. Ultimamente si erano separati, ed ora Angela Riva proseguiva la cura da sola. Si sentì di nuovo che parlava a voce alta e poi gridare: “Ma io sono morta!” Questa volta Elsa Tedeschi ne approfittò per congedarsi: “Arrivederci, Claudia.” Aveva fatto amicizia con la segretaria di Winter, pensava di tornare, ma si allontanava da quell’ambulatorio psichiatrico con un vago senso d’inquietudine.
Quando Winter si era informato sul processo penale in corso, lei aveva ripetuto la descrizione della violenza subita e aveva gridato il suo dolore di vittima. Se prima si faceva bella per provocare il desiderio degli uomini, ora aveva rinunciato per sempre a questo suo ruolo, quello di essere pienamente donna. La seduta di terapia di Angela Riva assistita dal dottor Winter durò circa un’ora, a metà lui aveva interrotto l’incontro ed aveva preso un caffè con la segretaria, la paziente aveva rifiutato l’invito a unirsi ed era rimasta seduta al suo posto a fissare il vuoto: un deserto di solitudine e disperazione, l’insopportabile sofferenza dell’anima, la luce nera della depressione. Il medico aveva rinnovato la ricetta dei farmaci antidepressivi e aveva congedato la paziente, impegnandola per la seduta successiva. All’inizio della cura, quando i coniugi si presentavano in coppia, il marito raccontava che ogni volta, come cercava di avvicinarsi a lei, veniva respinto, e quando non lo faceva, lei diceva di essere trascurata, e il commento di Angela Riva era sempre lo stesso: ma io sono la vittima! Un ripetuto grido di dolore irreparabile e di sofferenza continua, che nessuna forma di consolazione avrebbe mai potuto lenire, soltanto una violenza inflitta poteva cancellare una violenza subita. Il freddo tra i due era andato aumentando, alla fine la paziente si era presentata da sola, dopo la rottura, senza però mostrare segni di miglioramento. Nelle sedute seguenti, non avendo più altro da raccontare del suo vissuto, erano aumentati lunghi silenzi di ghiaccio, a cui rispondeva la cura e attenzione di un empatico ascolto del terapeuta. E lei riemergeva dal deserto della sua solitudine con frammentati ricordi di quando era bambina, poi di nuovo silenzio perduto tra quei sogni e visioni, e ancora espressioni di sofferenza nel volto. Angela Riva stava diventando sempre di più, per Winter, oggetto di osservazione e di studio di psichiatria fenomenologica, la sua empatia scemava e prevaleva il distacco della vicinanza, che si esprimeva soltanto come l’immobile linguaggio del corpo. La paziente aveva avvertito questo allontanarsi e sembrava come volersi riaccostare, Winter si alzò dal suo posto, girò attorno alla scrivania e restò in piedi lì davanti: “Adesso devo avere paura anche di lei, dottore?” disse la donna alzando lo sguardo, un amaro sorriso dipinto sul volto. Winter si scostò sorpreso, di nuovo su quel viso l’espressione sofferente, e al medico non restò altro che il silenzio e l’ascolto. Con l’esperienza, lo psicologo aveva imparato a tenere la giusta distanza, per evitare il contagio emotivo, che però andava a discapito della dovuta empatia. Non riusciva a immaginarsi quella ragazza sorridente e felice, forse doveva sospendere la cura.
DIE ANGST Alla fine delle vacanze estive, Winter aveva riaperto l’ambulatorio, dove si recava il pomeriggio. Non aveva avuto più notizie di Elsa Tedeschi, di cui aveva però studiato il caso e tratto le sue conclusioni. La donna aveva fatto realmente una passeggiata nel parco “Giulia Servilia”, il giorno o giorni prima della notte del sogno. Winter si era recato sul posto, per accertare la corrispondenza dei luoghi con il racconto fatto, ed aveva scoperto che non vi era affatto un’area recintata denominata “Giardino delle fontane” né tanto meno una caserma della polizia veterinaria, ma soltanto un’area cani abbastanza limitata. I luoghi della seconda scena del sogno e tutta la storia della corsa dei cani e delle fucilate nella radura illuminata dalla luna, Elsa Tedeschi se li era veramente sognati. Oppure questi ricordi e i particolari fantasticati appartenevano ad altri tempi e ad altri luoghi, verosimilmente alterati nelle immagini oniriche. Questo sogno era un vissuto esistenziale della donna, di cui soltanto lei poteva decifrare il significato concreto. In astratto, lui poteva soltanto concludere che il fluttuare in aria e il passare dalla luce all’ombra, nella parte finale del sogno, come da lei riferito, corrispondeva al passaggio da uno stato euforico ed un successivo stato disforico. Una tale conclusione gli era suggerita dalla teoria del sogno di Binswanger, come aveva già riscontrato e annotato in relazione al fluttuare in aria e poi cadere in basso. Lo psichiatra e filosofo svizzero, inoltre, nel suo saggio su sogno ed esistenza, menziona anche … (Segue)
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
5 commenti:
Il dottore rimase un istante a fissare la porta chiusa; si riscosse, prese il foglio sulla scrivania e cominciò a leggerlo.
“Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora ho proseguito con passo regolare e ho raggiunto il cancello chiuso. Sono salita sul muro di cinta, e ho guardato la radura illuminata, in fondo brillava l’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, sulla facciata di una costruzione d’angolo. È sbucato un cane, che di corsa ha raggiunto il centro della radura, una fucilata secca, e il cane è caduto. Un secondo animale è comparso, e di corsa si è diretto anche lui verso il cerchio di luce al centro della radura. Una seconda fucilata, ed anche il secondo cane è stato abbattuto. Ho guardato in direzione, della caserma della polizia veterinaria e ho visto una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Ho guardato ancora e ho visto la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. Ho scavalcato il muro, sono balzata a terra, ho udito la fucilata e ho visto il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. D’istinto mi sono messa correre sempre più velocemente verso la luce bianca, e nell’abbaglio è risuonato ancora un colpo secco di fucile. Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto. Poi devo essermi riaddormentata.”
. . .
UNA LUCE NERA
Winter ripose il foglio sulla scrivania, si chinò di lato, e dalla base inferiore del mobiletto, prese uno dei libri allineati nella scansia. Cominciò a sfogliarlo, poi ritrovò il passo che gli interessava: “Occorre spiegare perché la delusione ha in generale un carattere astenico, perché nei casi di delusione la nostra intera esistenza non ha più basi salde, ma soltanto un “debole” fondamento. Quando il suo accordo con il mondo viene infranto, la nostra esistenza si sente mancare sotto i piedi e rimane sospesa. L’esser sospesa della nostra esistenza assume necessariamente la direzione verso il basso, è anche possibilità di liberazione, o di ascesa; ma se la delusione continua ad essere delusione, il sentirsi sospesi diventa un vacillare, uno sprofondare, un cadere. Il linguaggio attinge a questa struttura ontologica essenziale, ma ad essa attinge anche l’immaginazione del poeta, e soprattutto il sogno.” Winter mise il segnalibro alla pagina e chiuse il volume. Poi riprese il foglio con la descrizione del sogno di Elsa Tedeschi e rilesse l’ultima riga: “Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto.” Fluttuare in aria, ecco il sentimento dell’esistenza sospesa. Winter assunse l’aria soddisfatta: alla struttura ontologica essenziale, la nostra esistenza, attinge anche il sogno. Il libro che poco prima aveva chiuso era “Sogno ed Esistenza” di Ludwig Binswanger (1930).
Bussarono alla porta, la segretaria annunciò l’arrivo della paziente successiva: “Angela Riva”. Una ragazza con i capelli neri lunghi, un elegante vestito scuro con le spalline, che arrivava al di sotto del ginocchio, il trucco del viso e le ciglia ben curate, ma lo sguardo e l’espressione sofferenti, come rivelavano le occhiaie e le labbra serrate. Winter le fece cenno di sedersi, intanto aveva intravisto dietro la segretaria, ferma sulla soglia, la figura di Elsa Tedeschi in piedi nella sala d’attesa. Allora scambiò con la sua collaboratrice un segno d’intesa, che stava a significare un no alla richiesta di pagare la visita da parte della donna. La segretaria, Claudia, assentì, si ritrasse e chiuse la porta. In sala d’attesa, andò a sedersi dietro il bancone della ricezione e comunicò ad Elsa Tedeschi che non doveva fare nessun pagamento, poi continuò a scambiare qualche informazione con lei. Nel frattempo, si sentì un vociare proveniente dallo studio, culminato in un grido: “Ma io sono la vittima!” Le due donne, Claudia e d Elsa Tedeschi, guardarono il monitor, la ragazza era seduta al suo posto e anche il dottore. Claudia scosse la testa, rispondendo allo sguardo interrogativo dell’altra. Angela Riva era stata la protagonista di un caso di cronaca giudiziaria dell’anno precedente. Giovane donna in carriera in un ramo del settore finanziario, sposata con un uomo della sua età, l’intesa con il marito in declino, dopo alcuni anni di matrimonio, aveva preso l’abitudine di andare da sola il fine settimana in discoteca, per rilassarsi dallo stress della vita lavorativa. Una di quelle volte, divenuta l’ultima, era rimasta fino a tardi nella sala da ballo, ed aveva sollecitato lei stessa un passaggio a casa da un amico conosciuto quella sera stessa. L’altro, mentre l’accompagnava a casa, aveva svoltato in una stradina laterale buia, ed approfittando della mancata resistenza dell’amica, dovuto allo stato di ubriachezza, l’aveva violentata. Subito dopo lo stupro, la vittima si era ribellata e aveva aggredito l’assalitore, ma questi l’aveva sbattuta fuori dalla sua autovettura e si era allontanato, lasciandola distesa a terra, in preda alla sbornia. Scoperta da un passante, all’alba, era stata soccorsa e accompagnata all’ospedale, dove era andata a recuperarla il marito. Lo stupratore era stato arrestato e il processo era ancora in corso, i coniugi intanto avevano iniziato una terapia di coppia presso il dottor Winter. Ultimamente si erano separati, ed ora Angela Riva proseguiva la cura da sola. Si sentì di nuovo che parlava a voce alta e poi gridare: “Ma io sono morta!” Questa volta Elsa Tedeschi ne approfittò per congedarsi: “Arrivederci, Claudia.” Aveva fatto amicizia con la segretaria di Winter, pensava di tornare, ma si allontanava da quell’ambulatorio psichiatrico con un vago senso d’inquietudine.
Quando Winter si era informato sul processo penale in corso, lei aveva ripetuto la descrizione della violenza subita e aveva gridato il suo dolore di vittima. Se prima si faceva bella per provocare il desiderio degli uomini, ora aveva rinunciato per sempre a questo suo ruolo, quello di essere pienamente donna.
La seduta di terapia di Angela Riva assistita dal dottor Winter durò circa un’ora, a metà lui aveva interrotto l’incontro ed aveva preso un caffè con la segretaria, la paziente aveva rifiutato l’invito a unirsi ed era rimasta seduta al suo posto a fissare il vuoto: un deserto di solitudine e disperazione, l’insopportabile sofferenza dell’anima, la luce nera della depressione. Il medico aveva rinnovato la ricetta dei farmaci antidepressivi e aveva congedato la paziente, impegnandola per la seduta successiva.
All’inizio della cura, quando i coniugi si presentavano in coppia, il marito raccontava che ogni volta, come cercava di avvicinarsi a lei, veniva respinto, e quando non lo faceva, lei diceva di essere trascurata, e il commento di Angela Riva era sempre lo stesso: ma io sono la vittima! Un ripetuto grido di dolore irreparabile e di sofferenza continua, che nessuna forma di consolazione avrebbe mai potuto lenire, soltanto una violenza inflitta poteva cancellare una violenza subita. Il freddo tra i due era andato aumentando, alla fine la paziente si era presentata da sola, dopo la rottura, senza però mostrare segni di miglioramento. Nelle sedute seguenti, non avendo più altro da raccontare del suo vissuto, erano aumentati lunghi silenzi di ghiaccio, a cui rispondeva la cura e attenzione di un empatico ascolto del terapeuta. E lei riemergeva dal deserto della sua solitudine con frammentati ricordi di quando era bambina, poi di nuovo silenzio perduto tra quei sogni e visioni, e ancora espressioni di sofferenza nel volto. Angela Riva stava diventando sempre di più, per Winter, oggetto di osservazione e di studio di psichiatria fenomenologica, la sua empatia scemava e prevaleva il distacco della vicinanza, che si esprimeva soltanto come l’immobile linguaggio del corpo. La paziente aveva avvertito questo allontanarsi e sembrava come volersi riaccostare, Winter si alzò dal suo posto, girò attorno alla scrivania e restò in piedi lì davanti: “Adesso devo avere paura anche di lei, dottore?” disse la donna alzando lo sguardo, un amaro sorriso dipinto sul volto. Winter si scostò sorpreso, di nuovo su quel viso l’espressione sofferente, e al medico non restò altro che il silenzio e l’ascolto. Con l’esperienza, lo psicologo aveva imparato a tenere la giusta distanza, per evitare il contagio emotivo, che però andava a discapito della dovuta empatia. Non riusciva a immaginarsi quella ragazza sorridente e felice, forse doveva sospendere la cura.
IMMAGINE
Albrecht Dürer, “Melancholia”, incisione, 1514.
DIE ANGST
Alla fine delle vacanze estive, Winter aveva riaperto l’ambulatorio, dove si recava il pomeriggio. Non aveva avuto più notizie di Elsa Tedeschi, di cui aveva però studiato il caso e tratto le sue conclusioni. La donna aveva fatto realmente una passeggiata nel parco “Giulia Servilia”, il giorno o giorni prima della notte del sogno. Winter si era recato sul posto, per accertare la corrispondenza dei luoghi con il racconto fatto, ed aveva scoperto che non vi era affatto un’area recintata denominata “Giardino delle fontane” né tanto meno una caserma della polizia veterinaria, ma soltanto un’area cani abbastanza limitata. I luoghi della seconda scena del sogno e tutta la storia della corsa dei cani e delle fucilate nella radura illuminata dalla luna, Elsa Tedeschi se li era veramente sognati. Oppure questi ricordi e i particolari fantasticati appartenevano ad altri tempi e ad altri luoghi, verosimilmente alterati nelle immagini oniriche. Questo sogno era un vissuto esistenziale della donna, di cui soltanto lei poteva decifrare il significato concreto. In astratto, lui poteva soltanto concludere che il fluttuare in aria e il passare dalla luce all’ombra, nella parte finale del sogno, come da lei riferito, corrispondeva al passaggio da uno stato euforico ed un successivo stato disforico.
Una tale conclusione gli era suggerita dalla teoria del sogno di Binswanger, come aveva già riscontrato e annotato in relazione al fluttuare in aria e poi cadere in basso. Lo psichiatra e filosofo svizzero, inoltre, nel suo saggio su sogno ed esistenza, menziona anche …
(Segue)
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