[...] Abbiamo voluto passare in rassegna, e anche con una particolare acribia, tutte le maggiori e autorevoli fonti della critica dantesca, senza tenere conto dell’apocrifo, che invece scioglierebbe ogni dubbio sull’ultima zona d’ombra rilevata, dando ragione a coloro, che hanno considerato Catone, collocato da Dante in Purgatorio, alla pari degli altri purganti, un’anima in attesa di purificazione. L’ultimo compito che ci resta da affrontare è quello di commentare l’apocrifo, facendo chiarezza sulla sua origine e indicandone il valore apprezzabile, rispetto al testo originale della “Commedia”. Per portare a conclusione quest’ultimo adempimento, dobbiamo però spostarci a Parigi, dando di seguito la spiegazione di questa nostra trasferta.
L’ESILIO È controverso se Dante, nel corso del suo esilio ventennale, da Firenze si sia recato fuori d’Italia, in Francia, a Parigi, dove sembra possibile ritrovare alcune sue tracce, in particolare alla Sorbona, nel così detto Quartiere Latino. È necessario, quindi, seguire il suo itinerario di esule da quando lasciò Firenze per l’ultima volta, senza farvi più ritorno. Ricapitolando in breve la sua parabola politica, possiamo ricordare come egli fosse più vicino, tra le due fazioni di Guelfi, ai Bianchi, e quindi nemico dei Neri, che si mostravano di più stretta osservanza nell’obbedienza al Papa. Il 13 giugno 1300, Dante era stato nominato, per due mesi, uno dei sette Priori, massimo incarico nel governo della città. Nel periodo successivo, Dante si reca a Roma come membro di un’ambasceria per un tentativo di pacificazione tra le due fazioni in lotta. Ritornato a Firenze, il 14 aprile 1301, viene chiamato tra i Savi e riprende il suo posto nel Consiglio dei Cento, e il governo sembra saldamente in mano ai Bianchi. Ma con la venuta in Italia di Carlo di Valois, fratello del re di Francia, Filippo IV, i Neri tentano di riprendere il sopravvento a Firenze. Dante viene inviato con una nuova ambasceria dal papa, Bonifacio VIII, ma l’1 novembre 1301 Carlo di Valois entra a Firenze, con i Neri mischiati tra le truppe, compiendo spogliazioni e violenze di ogni genere, il saccheggio dura una decina di giorni, a cui seguono processi, con accuse, interrogatori e testimonianze. Il 2 gennaio 1302, Dante Alighieri e altri tre Bianchi vengono processati e ritenuti colpevoli di baratteria (corruzione nei pubblici affari), profitti illeciti, ostilità al Pontefice e al Principe di Valois, e vengono condannati a restituire il maltolto, all’esilio dalla Toscana per due anni, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ad una multa di 5.000 fiorini da pagare entro 3 giorni, un termine impossibile.
Dante deve avere avuto contezza della sentenza di condanna, stante egli presso Siena, dove cerca più l’aiuto dei Ghibellini che non quello dei suoi non più fidati amici Bianchi. Pertanto, il 10 marzo dello stesso anno, oltre alla confisca dei beni, viene condannato all’esilio perpetuo e ad essere arso vivo, se cade in mani fiorentine o per rimpatrio clandestino o altri motivi. Intanto vi sono diversi scontri armati e battaglie tra Bianchi e Neri. Il 13 ottobre 1303, muore Bonifacio VIII, il nuovo papa Benedetto XI tenta una nuova pacificazione di Firenze, Dante si trova ad Arezzo, il tentativo fallisce, ed i Neri prevalgono. L’ultima battaglia, con la definitiva sconfitta dei Bianchi, si tiene il 19-20 luglio 1304, nel sobborgo fiorentino di Lastra. Dante non è presente, la sua mente è altrove, gli ex amici Bianchi sospettano di lui, sapendo che la consorte Gemma e i figli, appartenenti alla famiglia Donati, il capo dei Neri, sono rimasti a Firenze. Dove si reca Dante dal 1304, “legno sanza vela e sanza governo”? Nel “Convivio” (I, 3) scrive di essere andato “peregrino, quasi mendicando, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua (il volgare italiano) si stende.” Il poeta, dicendo di sé, non parla di una trasferta in terra di Francia, ma vi sono accenni nella “Commedia” a luoghi parigini. Dante ha scritto il “Convivio” tra il 1304 e il 1307, e di questo periodo abbiamo notizie frammentarie, di certo è entrato al servizio dei Marchesi Malaspina di Fosdinovo e Mulazzo, nella Lunigiana, tra Toscana e Liguria. Nel biennio 1307-08, pare che il poeta abbia avuto una tempestosa relazione conosciuta nel Casentino, ai tempi in cui si trovava ad Arezzo. E inoltre si ha notizia di frequenti viaggi a Lucca, dove corteggiava una gentildonna, forse Gentucca Morla, moglie di Buonaccorso Fondora. Ma il 31 marzo 1309, Lucca si trova ad espellere tutti gli esuli fiorentini per non entrare in conflitto con la loro città natale. Dove va Dante nella primavera del 1309? È il periodo in cui, si dice, possa essersi recato a Parigi. Alcuni studiosi hanno addirittura ricostruito un presunto tragitto d’oltralpe, su tracce sparse nella “Commedia”. E qui bisogna interrogarsi se da codeste tracce letterarie si debba per forza trarre la conseguenza, che Dante abbia avuto contezza dei luoghi per via diretta oppure, come appare possibile, ne sia venuto a conoscenza da documenti o altre fonti letterarie. Numerosi sono i riferimenti nelle sue opere, soprattutto nella “Commedia”, a persone o luoghi direttamente conosciuti, ma prima di andarli a riscontrare, vediamo se esistano testimonianze di altri autori di un soggiorno di Dante a Parigi.
TESTIMONIANZE Abbiamo due testimonianze del Trecento, la più autorevole e conosciuta è quella di Giovanni Boccaccio (1313-75): “Ma poi che egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di dì in dì più divenire vana la sua speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a Parigi e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede.” E ancora : “[…] e già vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave l’andarne a Parigi, dove non dopo molta dimora con tanta gloria di sé, disputando più volte, mostrò l’altezza del suo ingegno che ancora narrandosi se ne maravigliano gli uditori. E di tanti e si fatti studii non ingiustamente meritò altissimi titoli; però che alcuni lo chiamarono sempre poeta, altri filosofo, e molti teologo, mentre visse.” Di più : “Fu ancora questo poeta di meravigliosa capacità e di memoria fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a Parigi, e quivi sostenendo in un disputazione de quodlibet che nelle scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circostanti fu reputata.” “De origine, vita, studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii florentini, poetae illustris, et de operibus compositis ab eodem”. Lo scritto è meglio conosciuto come “Vita di Dante” o, secondo una definizione dello stesso autore, “Trattatello in laude di Dante”, Milano, Garzanti, 1995. A tale proposito si è osservato che Boccaccio, biografo di Dante, nel definirlo poeta, teologo e filosofo lo pone a confronto con una Scuola, la Sorbona di Parigi, all’epoca considerata il centro di cultura di attrazione per l’intera Europa. Non dimentichiamo che nella capitale francese (1245-48) aveva studiato il giovane frate domenicano Tommaso d’Aquino, e poi insegnato come baccelliere (1252-55), ottenendo la cattedra di teologia nella prestigiosa università parigina per il triennio 1256-59 e una seconda volta nel 1269-71. Ora, il Boccaccio, la cui testimonianza è avvalorata dal suo genio di scrittore, uno dei tre grandi del Trecento, assieme a Dante e Petrarca, proprio per il suo tocco di fantasia letteraria, può essere sospettato di aver voluto ampliare la fama del compatriota, dichiarandone le grandi qualità poetiche e culturali. Egli fu inoltre il fondatore della “Lectura Dantis”, tenendo lezioni e commenti pubblici nella chiesa di Santo Stefano in Badia (1374-’75), e poi ancora uno dei primi copisti della “Divina Commedia”, facendone dono personale di una copia a Francesco Petrarca.
E se è vero che non vi sono testimonianze ma neppure smentite, in merito a una trasferta a Parigi, da parte dei figli, Pietro e Jacopo, primi commentatori del poeta, un’altra testimonianza è data da un cronista, contemporaneo di Dante, Giovanni Villani (12767-1348): “[…] colla detta parte bianca fu cacciato e sbandito da Firenze, e andossene allo studio di Bologna, e poi a Parigi.” (“La Nuova Cronica”, 1348) Si è giustamente osservato come il redattore della cronaca abbia voluto concentrare l’attenzione sul Dante poeta e letterato, che bandito in patria, si reca in due delle più importanti Università di Europa. Un altro commentatore della “Commedia”, Benvenuto da Imola (1330-88), racconta di una presenza di Dante a Parigi, senza citare la fonte, ma solo basandosi su alcuni versi del “Purgatorio” (VI, 19-24), dove dal primo emistichio l’anima di Pierre de la Brosse racconta di essere stato ucciso per invidia e non per colpa, e Dante invita Maria di Brabante a pentirsi per evitare di finire tra i dannati.
“Vidi conte Orso e l’anima divisa dal corpo suo per astio e per inveggia, com’e’ dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, mentr’è di qua, la donna di Brabante, sì che però non sia di peggior greggia,”
“Dantes, qui fuit Parisius, post exilium suum, explorata diligenter veritate huius rei, dignum duxit ipsum ponere salvum in Purgatorio.” “Dante, che fu parigino, dopo il suo esilio, esplorata diligentemente la verità dei fatti, lo ritenne degno di collocarlo salvo in Purgatorio” Così commenta Benvenuto. È da aggiungere soltanto, come conferma, il particolare pure rilevato che le desinenze di “inveggia” e “proveggia” richiamano un certo gallicismo, per vocaboli della lingua francese terminanti in “age”, con esempio tipico “langage”, e anche quel “comisa” si può considerare tale per “comise” Riprendiamo brevemente alcune notizie su Maria di Brabante (1254-1321). Sposò nel 1274 il re Filippo III l'Ardito, già vedovo di Isabella d'Aragona, e divenne regina di Francia. Nel 1276 morì il primogenito Luigi, erede al trono, e dagli intrighi di Corte venne fuori di essere stata accusata da Pierre de la Brosse, ciambellano del re dal 1266, di aver avvelenato il figliastro, per favorire i suoi eredi. Nel 1278 furono recapitate al re alcune lettere dirette dal de la Brosse ad Alfonso X di Castiglia, e il ciambellano fu giustiziato, con l’accusa di alto tradimento. Antichi commentatori concordano nell’affermare che il De Brosse fu vittima di un complotto ordito dalla Regina, che aveva fatto produrre lettere false ed aveva accusato il ciambellano di aver attentato al suo onore. Dopo la morte del re (1285) Maria di Brabante si ritirò a vita privata, dandosi a pratiche religiose fino alla morte, avvenuta nel gennaio 1321.
L’ammonimento a ravvedersi era stato scritto da Dante, quando la regina era ancora in vita, anche se il “Paradiso” fu pubblicato postumo dopo la morte del poeta, avvenuta nel 1321, lo stesso anno di Maria di Brabante. Dante era un contemporaneo, e le voci del complotto poteva averle raccolte direttamente in ambienti parigini. E il commentatore, Benvenuto da Imola, pone come sicura la sua premessa del soggiorno parigino di Dante in esilio: “Dantes, qui fuit Parisius, post exilium suum”. Inoltre, riprende la notizia del Boccaccio: “Avendo in gioventù vacato alla Filosofia naturale e morale […], in età più matura, già esule, diedesi alla sacra Teologia in Parigi. Dove tanto splendore acquistò che veniva dagli uni chiamato poeta, dagli altri filosofo, dagli altri teologo.” (Benvenuto da Imola, “Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam”) Entrambi gli autori parlano in maniera elogiativa di Dante, quasi a volerne esportare più le qualità spirituali e culturali, che la presenza stessa della persona, estenderne la fama. Giovanni Boccaccio aveva una certa familiarità con Parigi, in quanto il proprio padre, detto Boccaccino (1297-1348), aveva soggiornato a Parigi nel primo trimestre del 1313, in ragione della sua attività di agente della Compagnia dei Bardi, potenti banchieri e mercanti fiorentini, ed alloggiato presso la chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie. E pertanto il figlio Giovanni capiva che il viaggio di Dante non poteva essere caratterizzato come un viaggio d’affari o di piacere, ma compiuto in ragione della sua auctoritas come poeta, filosofo e teologo, destinazione la Sorbona, la più prestigiosa Università d’Europa, dove in anni precedenti aveva tenuto la cattedra magistrale di teologia Tommaso d’Aquino. Ed è indubbio che soggiornare in ambienti di alta cultura significa venire a conoscenza di quanto si dibatte in circoli politici, riguardanti fatti di governo, nell’occorso la Corte del re di Francia e i suoi intrighi. Lo stesso Giovanni, nel De casibus (IX, 21), evoca ricordi e impressioni del padre sui gravi fatti di cronaca politica dell’epoca: il rogo dei Templari (1310) e l’esecuzione del Gran Maestro dell’Ordine, Jacques de Molay (1314). Ma si possono ritenere sufficienti queste notizie, per attestare storicamente un viaggio e soggiorno a Parigi di Dante Alighieri ed una sua presenza alla Sorbona, verosimilmente attorno al 1309-10? In mancanza di altre notizie, allora, si deve fare riferimento a riscontri autobiografici presenti nelle sue opere, anche se sono tracce, di cui si è soliti trascurarne l’importanza.
RIFERIMENTI NELLA “COMMEDIA” Un puntuale riferimento alla città di Parigi, in particolare l’ubicazione della Sorbona nella toponomastica della metropoli francese, si ricava dalla terzina dedicata a Sigieri di Brabante (Paradiso, X,136-38)
Essa è la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidiosi veri.
Essa è la luce eterna di Sigieri, che insegnando in “Vico de li Strami” dimostrò verità dottrinali, suscitando l’invidia altrui. Nell’attuale mappa di Parigi, provenendo da Notre Dame, attraversato il Lungo Senna, si finisce nella rue du Fouarre (“Vicolo de li Strami”), che continua con la rue Dante, quindi proseguendo oltre l’incrocio con il boulevard Saint-Germain, risalendo la Rue Saint-Jacques, si sbuca nella rue des Écoles, dove ha sede la Sorbona. “La rue du Fouarre, parola che significa Paglia, fu nel XIII secolo la più illustre via di Parigi. Là avevano sede le scuole dell’Università, quando la voce di Abelardo e quella di Gerson risuonavano nel mondo della cultura.” (Honoré de Balzac, “L'Interdiction”, vol. III , “La Comédie humaine”, Éditions Gallimard.) Il nome della via faceva riferimento alle balle di paglia, dove all’epoca si sedevano gli studenti per seguire i corsi universitari. Una stele in bronzo, situata sul luogo, reca l’iscrizione: “La culla dell’Università”. Il riferimento a Sigieri di Brabante va inquadrato nella più ampia cornice della narrazione poetica, ossia l’ascesa di Dante e Beatrice al IV Cielo del Sole, l’apparizione degli spiriti sapienti della prima corona e l’incontro con san Tommaso d'Aquino, che presenta gli altri undici beati. In particolare, lo spirito parlante si presenta come un frate domenicano: “Fui uno degli agnelli del santo gregge che san Domenico conduce per il cammino, dove ci si arricchisce di beni spirituali, se non si devia dalla regola.” Lo spirito alla sua destra è Alberto Magno, laureatosi in teologia a Parigi e divenuto docente in varie università germaniche. Quando si trasferì da Colonia a Parigi, ebbe come discepolo Tommaso, che lo seguì quando il maestro fece ritorno a Colonia. Nel 1270 inviò una memoria a Tommaso d’Aquino, che in quel momento si trovava a Parigi, per aiutarlo nella disputa con Sigieri di Brabante e le teorie averroiste, ispirate ad Aristotele. Tra gli altri undici beati della corona, troviamo Pietro Lombardo, che fu nel monastero di san Vittore e insegnò a Parigi, dove morì nel 1160; inoltre, Riccardo di San Vittore, così detto dall'abbazia di Parigi, di cui fu priore dal 1162 fino alla morte 1173. Infine, l’ultimo menzionato è Sigieri di Brabante, maestro alla facoltà delle Arti di Parigi, sostenitore del cosiddetto «averroismo latino» e per questo avversato dalla Chiesa, che lo accusò di eresia. Tra i suoi più accesi detrattori fu lo stesso san Tommaso, di cui Dante gli fa tessere la lode.
Queste scelte di spiriti sapienti, le cui tracce portano a Parigi, non sono una prova della presenza di Dante nella capitale francese, in quanto poteva avere cognizione delle loro vite e delle loro opere per fama, anche restando in Italia. Noi però possiamo accoglierlo come un indizio e porlo accanto agli altri riferimenti della “Commedia” alla terra di Francia e Parigi. Il nome della città viene nominato in “Purgatorio” XI, 78-81:
«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi, l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
“Oh! non sei forse Oderisi, l'onore di Gubbio e di quell'arte che a Parigi è chiamata 'enluminer'?” In italiano, il verbo è miniare. La miniatura consisteva nella decorazione di manoscritti e libri antichi, in origine tingere in rosso le lettere iniziali dei capitoli di un testo scritto. Il termine deriva dal latino minium, un particolare minerale, il solfuro di mercurio, l’attuale cinabro, dal quale si ricavava il colore rosso. L’uso del vocabolo francese e del conseguente riferimento a Parigi è stato considerato come un omaggio di Dante all’arte della miniatura francese. Ma è anche il segno di un’intenzione ben precisa, quale il voler portare a conoscenza del lettore la sua lectio d’oltralpe. Possiamo immaginare il poeta a Parigi, che nei monasteri scopre antichi codici miniati, rimanendo ammirato dall’arte della miniatura carolingia, per riversare poi questo suo sentimento in uno dei versi del Purgatorio. In ogni caso è da rilevare che sulla persona di storica di Oderisi da Gubbio le notizie sono incerte: “Miniatore attivo a Bologna nella seconda metà del sec. XIII, cui al momento non è possibile assegnare alcuna opera, nonostante che la critica si sia sforzata a lungo di ricostruirne la personalità artistica e, in qualche misura, il catalogo. La questione storiografica relativa a Oderisi ha origine esclusivamente da suggestioni letterarie, quelle dantesche del “Purgatorio” (XI, vv.79-102).” (“Enciclopedia dell’arte medievale”, 1997) Altri documenti lo ricordano come “Odericus quondam Guidonis de Gubbio”, attivo a Bologna negli anni 1268-69 e ‘71, dove sembra che nel 1287 Dante l’abbia conosciuto, e dove ha sempre vissuto, tranne un soggiorno a Roma, presso una libreria papale. Un documento (Baldani) lo ritiene morto nel 1299. In base a tali notizie, non abbiamo nessun riferimento della persona di Oderisi a Parigi o alla Francia, l’unico accostamento è quello dantesco. Il poeta avrà trovato l’espressione giusta del verso per ragione di metro e di rima? Ma dimostriamo, commettendo un peccato di orgoglio, finendo in Purgatorio in compagnia di Oderisi e dei Superbi, come Dante avrebbe potuto usare un altro verso per trovare lo stesso metro e la stessa rima:
«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi, l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte [di miniar che su’ codici tu misi?] ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
L’arte di miniare che tu impiegasti sui manoscritti. Se dovessi definire il verso più appropriato, sarei più dantesco di Dante, o forse ho letto altrove questa correzione e lascio qui insoluto il dubbio e velato il mistero. Perché Dante ha usato il verbo “alluminar”, di chiara matrice francese, ricollegabile al latino “lumen”, invece di “miniar”, che ha un etimo latino diretto “minium”? Forse perché è un verbo che esprime l’umile azione degli artigiani del minio, i minieri, non l’arte raffinata, e tanto più quella superba di Oderisi, paragonabile a quella parigina, a cui il verso allude? Rimanendo nella distinzione dei termini, la cui scelta è nel genio del poeta, in alluminare traspare l’oro delle miniature, mentre il miniare ricorda il rosso delle lettere iniziali di capitoli. È per questo forse il miniare meno nobile dell’alluminare? La terzina dantesca nasce dal cuore del poeta, il suo ricordo. Un ulteriore riferimento alla cultura parigina e al mondo accademico della Sorbona e degli altri ambienti universitari, si può cogliere In “Paradiso”, XXIV 46-49:
Si come il baccellier s’arma e non parla Fin che ‘l maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla, così m’armava io d’ogne ragione
Come il baccelliere si prepara e non parla finché il maestro non ha proposto la questione, per confermarla con argomenti a sostegno e non per portarla a yermine, così io mi preparavo con ogni mezzo dialettico
Nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse, Beatrice si rivolge a san Pietro, perché esamini Dante sulla solidità della sua fede. Il poeta allora deve esprimere il suo stato d’animo di esaminando in Teologia ed usa due termini accademici propri dell’Università di Parigi, baccelliere e maestro, corrispondenti a due gradi di insegnamento, già raggiunti da San Tommaso d’Aquino. I critici hanno fatto osservare che nel convento di Santa Maria Novella era priore e lector, il domenicano Remigio de’ Girolami, discepolo di Tommaso d'Aquino alla Sorbona (1269), e non si può escludere un suo ruolo tra i maestri di Dante in Firenze. È questa una notizia non riportata dai cronisti dell’epoca ed il silenzio non prova una tale ipotesi. Si è osservato al contrario che le norme regolanti l’accesso ai corsi degli Studia dei domenicani contenevano numerose interdizioni, e forse è stata la presenza in Firenze del teologo Remigio de’ Girolami a ispirare la trasferta dell’Alighieri a Parigi. I tre riferimenti, di cui abbiamo parlato, rivelano quindi una certa familiarità di Dante con la capitale francese e la sua Università della Sorbona. Un ultimo indizio rintracciabile nella “Commedia”, anche se non di carattere culturale, ma esclusivamente politico, di una presenza di Dante a Parigi, potrebbe essere la citazione di Filippo il Bello in “Paradiso” XIX vv.118-20, condannato nel giorno del Giudizio Universale:
Lì si vedrà il duol che sovra Senna induce, falseggiando la moneta, quel che morrà di colpo di cotenna.
Lì si vedrà il dolore che arreca alla Francia, coniando falsa moneta, colui (Filippo il Bello) che morirà per il colpo di un cinghiale. In realtà, il re morì durante una battuta di caccia, a causa di un cinghiale che lo fece cadere da cavallo. Non è escluso che Dante fosse presente a Parigi, quando nel 1310 ci fu il rogo dei templari, anche se in questi versi non si fa cenno ai cavalieri dell’ordine, ma è stato rilevato che cenni su di loro sono stati rintracciati in altri luoghi della “Commedia”. Dante situa in Paradiso Bernardo di Chiaravalle, il santo autore della regola dei templari, mentre finiscono nelle fiamme dell’Inferno i persecutori dell’Ordine, il citato Filippo, re di Francia, e Papa Clemente V. Un altro importante personaggio è Cacciaguida, trisavolo di Dante, aveva partecipato alla seconda crociata e probabilmente era un templare. Nel Paradiso appare tra le anime dei combattenti per la fede. Certo, sono vicende storiche, che avevano una risonanza anche lontano dai luoghi, dove esse si svolgevano, ma che una presenza in quei luoghi, anche se per un soggiorno più o meno breve, contribuisce a mantenere vive nel ricordo, rendendo attiva la coscienza creativa nella composizione di opere letterarie. Si è voluto inoltre individuare, da parte degli studiosi sul tema di un possibile viaggio a Parigi di Dante, anche l’eventuale tragitto d’oltralpe percorso dal poeta, cercando riscontri nei canti della Commedia. Se poi, come è stato osservato, nell’opera si vogliono rintracciare i segni di un allegorismo autobiografico, seguendo l’itinerario dei luoghi, di cui è traccia nelle tre cantiche, di certe regioni come Toscana, Emilia, Romagna e Veneto, non c’è ragione di escludere la Liguria e la Provenza, terra di origine dei poeti trobadorici. E si fa riferimento ai famosi otto versi della Commedia scritti in Langue d’Oc (Purgatorio, XXVI, 140-147), in cui si esprime lo spirito del cantore provenzale Arnaut Daniel, a cui Dante si rivolge su indicazione di Guinizelli.
El cominciò liberamente a dire: «Tan m’abellis vostre cortes deman, qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l’escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!». Poi s’ascose nel foco che li affina.
Lui cominciò volentieri a dire: «La vostra cortese domanda mi piace a tal punto, che non posso né voglio nascondere la mia identità. Io sono Arnaut, che piango e vado cantando; preoccupato guardo la mia passata follia d'amore, e vedo gioioso la gioia, che spero, davanti a me. Ora vi prego, per quella virtù che vi guida alla sommità di questa scala, di rammentarvi al momento opportuno del mio dolore!» Poi si nascose nel fuoco che li purifica.
Rispetto ad Arnaut, Guido aveva affermato che gli stolti gli preferiscono Giraut de Bornelh: “e lascia dir li stolti /che quel di Lemosì credon ch’avanzi”. Questi era un altro trovatore provenzale originario del Périgord, regione francese attigua al Limosino (“Lemosì”), nella Francia centro meridionale. I riferimenti nella Commedia ai trovatori provenzali stanno ad indicare l’ammirazione di Dante per la letteratura occitanica: “versi d’amore e prose di romanzi”, nonché la vocazione a un viaggio verso le terre di quei poeti, stante il suo esilio. Ora, se consideriamo che i paesaggi fantastici di un artista letterario o poeta, e così anche e soprattutto per il sommo poeta, sono il riflesso delle visioni vissute di luoghi reali, la precisa indicazione dell’arco ligure si trova in “Purgatorio” (III, 49-51):
Tra Lerice e Turbìa, la più diserta, la più rotta ruina è una scala, verso di quella, agevole ed aperta.
Nei versi la pendenza dell’erta del Purgatorio è assimilata a certi strapiombi sul mare tipici di quella fascia costiera, e alcuni critici hanno indicato nell’orrido di Muzzerone a Portovenere il luogo descritto. L’indicazione ha il suo specifico valore, per il fatto che la via d’accesso al luogo è un percorso compiuto dal mare. Ai piedi del monte del Purgatorio dantesco, si trova una spiaggia, in cui le anime approdano sulla barca condotta dall’angelo nocchiero. E qualche studioso ha individuato nella tratta da Lerici a La Turbie, che dalla Riviera di Ponente a quella di Levante abbraccia l’intero golfo ligure, una chiaro segno del viaggio di Dante “ad partes ultramontanas”, di cui si fa menzione nella “Epistola di frate Ilaro”. Nello “Zibaldone Laurenziano” di Giovanni Boccaccio è trascritta un'epistola inviata a Uguccione della Faggiuola da un monaco Ilaro del convento di Santa Croce del Corvo. Il monastero della Congregazione Benedettina era situato alla foce del fiume Magra, ai confini della Toscana con la Liguria. Non si hanno documenti ufficiali del convento relativi alla fine ‘200 o l’inizio del ‘300, per cui non abbiamo altre notizie del frate Ilaro. In epoca recente è stata apposta sulle rovine una lapide celebrativa del soggiorno dantesco. Nella Lettera si parla di Dante e della composizione della sua opera in lingua latina, di cui vengono citati i primi tre versi: “Ultima regna canam, fluvido contermina mundo, spiritibus que lata patent, que premia solvunt pro meritis cuicunque suis.” “Canterò i regni ultimi, oltre i confini mondo corruttibile, come ampi si aprono alle anime, quali ricompense offrono a ciascuno secondo i propri meriti.” A proposito della presenza di Dante, frate Ilaro riferisce che il poeta “diretto verso luoghi oltremontani [ad partes ultramontanas] e in transito per la diocesi di Luni, raggiunse il suddetto monastero, spinto dalla devozione o da qualche altra causa.” Alcuni esegeti hanno però rilevato che la formula latina potesse intendere, nella Lunigiana del Trecento, un viaggio oltre l’Appennino, cioè verso il parmense, secondo la pratica propria della transumanza. Si è però opposto che la locuzione in esame può essere interpretata diversamente, tenendo presente l’uso generale del tempo. In una epistola (1257) del teologo francescano Adamo Marsh indirizzata a Bonaventura di Bagnoregio, magister presso la Sorbona e residente in Parigi, l’autore utilizza lo stesso stilema, “ad partes ultramontanas”, per indicare la sua venuta in Italia. In realtà, nel lessico europeo del Trecento, la locuzione in esame stava a indicare il varco dei passi alpini, sia in una direzione che in quella contraria.
Il tragitto indicato “da Lerice a Turbia” (“Purgatorio”, III, 46) pone in evidenza come all’epoca la definizione geografica dell’arco ligure corrispondeva ancora alla mappa della cartografia romano-imperiale di oltre un millennio prima. E si trova conferma di questo in Petrarca, che sulle orme di Dante, indica il medesimo tracciato: “A Corvo scilicet usque ad Portum herculeo, ut quondam putant, nomine consecratum.” “Da Corvo appunto fino al Porto consacrato al nome di Ercole, come una volta di pensava.” In questa versione, la città di Lerici è stata sostituita dal Monte Caprione, indicato come Capo Corvo, località dell’abbazia citata nell’Epistola di Ilaro. Al posto di La Turbie, viene menzionata l’attuale città del Principato di Monaco, in antico Porto Ercole. Quest’ultima località era ricordata già dal VI secolo per il santuario dedicato al dio vittorioso sui Liguri delle Alpi Marittime, e fondatore della arx Monoeci (rocca di Monaco) e del porto. Per tutto il Medioevo, la rada di Monaco rappresentava ancora un importante punto di approdo e ricovero delle imbarcazioni. O via mare, oppure attraverso il crinale appenninico, si può supporre che Dante dalla Lunigiana raggiunse La Turbie, e dalle Alpi Marittime si portò poi fino ad Arles, all’estuario del Rodano: “Sì come ad Arli, ove Rodano stagna” (“Inferno” IX, 112). E da Arles ad Avignone, risalendo la valle del Rodano, “ogne valle onde Rodano è pieno”, (“Paradiso”,VI, 60), raggiunse Lione, proseguendo per Parigi. Notiamo che il francese Clemente V, al secolo Bertrand de Got, fu incoronato papa nel 1305 a Lione, e stabilì poi la sua residenza ad Avignone nel 1309. È stato disegnato un verosimile tragitto di Dante in terra di Francia, attraverso i riferimenti della “Divina Commedia”, partendo dalla sua presenza in Lunigiana. Dall’Epistola del 1315 di Frate Ilaro, si ritiene che Dante salisse al monastero del Corvo di Bocca di Magra nell'autunno del 1308 e consegnasse al priore, frate Ilaro, il manoscritto del suo poema. Dopo non abbiamo una traccia sicura del suo percorso di esiliato, ma siamo arrivati agli anni 139-10, in cui si pensa che abbia compiuto il suo viaggio per recarsi nella più prestigiosa Università d’Europa. La conferma ci viene data, come abbiamo visto, da Benvenuto da Imola, esegeta dantesco del Trecento, che riprende la notizia da Giovanni Boccaccio: “In età più matura, già esule, diedesi alla sacra Teologia in Parigi, dove tanto splendore acquistò che veniva dagli uni chiamato poeta, dagli altri filosofo, dagli altri teologo.”
Vorremmo aggiungere che la figura di Dante esule, la troviamo come personaggio di un libro di Balzac: “I proscritti”. Nel 1831, Balzac pubblica questo romanzo, in cui Dante appare come personaggio, presentato come lo straniero, l’esule, la cui vera identità sarà rivelata soltanto alla fine del racconto. Il romanzo, la cui trama è data da un intreccio tra verità storica e finzione, fa parte assieme ad altri due romanzi del Libro mistico, confluito come segmento di “Studi filosofici” nella Comédie humaine, il vasto affresco balzachiano, costituito da 137 opere. L’autore era affascinato dalla filosofia e dalla teologia e per questo era attratto da Dante, a cui si ispirò per il titolo definitivo della sua raccolta di scritti. Pochi mesi prima (1831), Victor Hugo aveva pubblicato la sua opera “Notre Dame de Paris”, e proprio accanto alla cattedrale, Balzac aveva immaginato l’alloggio di Dante esule a Parigi. Ora, basta attraversare il ponte sulla Senna, per trovarsi nel quartiere latino, e raggiungere in breve la Sorbona, dove l’autore, nel suo racconto, si figura Dante che va a seguire i corsi di teologia mistica di Sigieri di Brabante. Ed è proprio la terzina dantesca, di cui abbiamo trattato sopra nel paragrafo dei “Riferimenti della Commedia”, ad avere ispirato Balzac nella trama della sua narrazione. Balzac tenta di costituire, come è stato osservato, una comunità di spiriti mistici. Dante e Sigieri sono due sovrani della parola e parlano tra loro non in latino né in francese, ma in un linguaggio sconosciuto. Il romanzo di Balzac costituisce un incontro tra Dante e la cultura francese, un recupero ottocentesco della figura dell’autore della Divina Commedia, un’opera abbastanza trascurata nel Medioevo e nei secoli successivi. Una prima traduzione dell’intero poema è stata eseguita, come indicato nello studio di Ottavia Anessi, “Dante au tournant du XXIe siècle” (Università Ferrara, 2018), un manoscritto contenente l’Inferno in terzine di alessandrini, conservato nella Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino e risalente alla prima metà del secolo XVI, dunque ben due secoli dopo la sua prima pubblicazione. Su questa e altre traduzioni in lingua francese di singole Cantiche o semplici brani dell’opera, ne parliamo nel prossimo paragrafo, in cui dobbiamo affrontare la soluzione dell’origine e ritrovamento del documento apocrifo presentato all’inizio di questo lavoro.
IMMAGINE Statua di Dante, rue des Écoles, Sorbona. La statua in bronzo è stata realizzata nel 1882 da Jean-Paul Aubé. Si trova in quel luogo, perché si dice che il poeta avesse frequentato da teologo e filosofo la prima Università di Parigi, all’epoca situata nell’attuale vicina rue Dante. La scultura rappresenta una scena del Canto XXXII dell’Inferno, quando il poeta schiaccia il capo di Bocca degli Abati.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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Abbiamo voluto passare in rassegna, e anche con una particolare acribia, tutte le maggiori e autorevoli fonti della critica dantesca, senza tenere conto dell’apocrifo, che invece scioglierebbe ogni dubbio sull’ultima zona d’ombra rilevata, dando ragione a coloro, che hanno considerato Catone, collocato da Dante in Purgatorio, alla pari degli altri purganti, un’anima in attesa di purificazione. L’ultimo compito che ci resta da affrontare è quello di commentare l’apocrifo, facendo chiarezza sulla sua origine e indicandone il valore apprezzabile, rispetto al testo originale della “Commedia”. Per portare a conclusione quest’ultimo adempimento, dobbiamo però spostarci a Parigi, dando di seguito la spiegazione di questa nostra trasferta.
L’ESILIO
È controverso se Dante, nel corso del suo esilio ventennale, da Firenze si sia recato fuori d’Italia, in Francia, a Parigi, dove sembra possibile ritrovare alcune sue tracce, in particolare alla Sorbona, nel così detto Quartiere Latino. È necessario, quindi, seguire il suo itinerario di esule da quando lasciò Firenze per l’ultima volta, senza farvi più ritorno. Ricapitolando in breve la sua parabola politica, possiamo ricordare come egli fosse più vicino, tra le due fazioni di Guelfi, ai Bianchi, e quindi nemico dei Neri, che si mostravano di più stretta osservanza nell’obbedienza al Papa. Il 13 giugno 1300, Dante era stato nominato, per due mesi, uno dei sette Priori, massimo incarico nel governo della città. Nel periodo successivo, Dante si reca a Roma come membro di un’ambasceria per un tentativo di pacificazione tra le due fazioni in lotta. Ritornato a Firenze, il 14 aprile 1301, viene chiamato tra i Savi e riprende il suo posto nel Consiglio dei Cento, e il governo sembra saldamente in mano ai Bianchi. Ma con la venuta in Italia di Carlo di Valois, fratello del re di Francia, Filippo IV, i Neri tentano di riprendere il sopravvento a Firenze. Dante viene inviato con una nuova ambasceria dal papa, Bonifacio VIII, ma l’1 novembre 1301 Carlo di Valois entra a Firenze, con i Neri mischiati tra le truppe, compiendo spogliazioni e violenze di ogni genere, il saccheggio dura una decina di giorni, a cui seguono processi, con accuse, interrogatori e testimonianze. Il 2 gennaio 1302, Dante Alighieri e altri tre Bianchi vengono processati e ritenuti colpevoli di baratteria (corruzione nei pubblici affari), profitti illeciti, ostilità al Pontefice e al Principe di Valois, e vengono condannati a restituire il maltolto, all’esilio dalla Toscana per due anni, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ad una multa di 5.000 fiorini da pagare entro 3 giorni, un termine impossibile.
Dante deve avere avuto contezza della sentenza di condanna, stante egli presso Siena, dove cerca più l’aiuto dei Ghibellini che non quello dei suoi non più fidati amici Bianchi. Pertanto, il 10 marzo dello stesso anno, oltre alla confisca dei beni, viene condannato all’esilio perpetuo e ad essere arso vivo, se cade in mani fiorentine o per rimpatrio clandestino o altri motivi. Intanto vi sono diversi scontri armati e battaglie tra Bianchi e Neri. Il 13 ottobre 1303, muore Bonifacio VIII, il nuovo papa Benedetto XI tenta una nuova pacificazione di Firenze, Dante si trova ad Arezzo, il tentativo fallisce, ed i Neri prevalgono. L’ultima battaglia, con la definitiva sconfitta dei Bianchi, si tiene il 19-20 luglio 1304, nel sobborgo fiorentino di Lastra. Dante non è presente, la sua mente è altrove, gli ex amici Bianchi sospettano di lui, sapendo che la consorte Gemma e i figli, appartenenti alla famiglia Donati, il capo dei Neri, sono rimasti a Firenze. Dove si reca Dante dal 1304, “legno sanza vela e sanza governo”? Nel “Convivio” (I, 3) scrive di essere andato “peregrino, quasi mendicando, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua (il volgare italiano) si stende.” Il poeta, dicendo di sé, non parla di una trasferta in terra di Francia, ma vi sono accenni nella “Commedia” a luoghi parigini. Dante ha scritto il “Convivio” tra il 1304 e il 1307, e di questo periodo abbiamo notizie frammentarie, di certo è entrato al servizio dei Marchesi Malaspina di Fosdinovo e Mulazzo, nella Lunigiana, tra Toscana e Liguria. Nel biennio 1307-08, pare che il poeta abbia avuto una tempestosa relazione conosciuta nel Casentino, ai tempi in cui si trovava ad Arezzo. E inoltre si ha notizia di frequenti viaggi a Lucca, dove corteggiava una gentildonna, forse Gentucca Morla, moglie di Buonaccorso Fondora. Ma il 31 marzo 1309, Lucca si trova ad espellere tutti gli esuli fiorentini per non entrare in conflitto con la loro città natale. Dove va Dante nella primavera del 1309? È il periodo in cui, si dice, possa essersi recato a Parigi. Alcuni studiosi hanno addirittura ricostruito un presunto tragitto d’oltralpe, su tracce sparse nella “Commedia”. E qui bisogna interrogarsi se da codeste tracce letterarie si debba per forza trarre la conseguenza, che Dante abbia avuto contezza dei luoghi per via diretta oppure, come appare possibile, ne sia venuto a conoscenza da documenti o altre fonti letterarie. Numerosi sono i riferimenti nelle sue opere, soprattutto nella “Commedia”, a persone o luoghi direttamente conosciuti, ma prima di andarli a riscontrare, vediamo se esistano testimonianze di altri autori di un soggiorno di Dante a Parigi.
TESTIMONIANZE
Abbiamo due testimonianze del Trecento, la più autorevole e conosciuta è quella di Giovanni Boccaccio (1313-75): “Ma poi che egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di dì in dì più divenire vana la sua speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a Parigi e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede.” E ancora : “[…] e già vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave l’andarne a Parigi, dove non dopo molta dimora con tanta gloria di sé, disputando più volte, mostrò l’altezza del suo ingegno che ancora narrandosi se ne maravigliano gli uditori. E di tanti e si fatti studii non ingiustamente meritò altissimi titoli; però che alcuni lo chiamarono sempre poeta, altri filosofo, e molti teologo, mentre visse.” Di più : “Fu ancora questo poeta di meravigliosa capacità e di memoria fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a Parigi, e quivi sostenendo in un disputazione de quodlibet che nelle scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circostanti fu reputata.” “De origine, vita, studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii florentini, poetae illustris, et de operibus compositis ab eodem”. Lo scritto è meglio conosciuto come “Vita di Dante” o, secondo una definizione dello stesso autore, “Trattatello in laude di Dante”, Milano, Garzanti, 1995.
A tale proposito si è osservato che Boccaccio, biografo di Dante, nel definirlo poeta, teologo e filosofo lo pone a confronto con una Scuola, la Sorbona di Parigi, all’epoca considerata il centro di cultura di attrazione per l’intera Europa. Non dimentichiamo che nella capitale francese (1245-48) aveva studiato il giovane frate domenicano Tommaso d’Aquino, e poi insegnato come baccelliere (1252-55), ottenendo la cattedra di teologia nella prestigiosa università parigina per il triennio 1256-59 e una seconda volta nel 1269-71. Ora, il Boccaccio, la cui testimonianza è avvalorata dal suo genio di scrittore, uno dei tre grandi del Trecento, assieme a Dante e Petrarca, proprio per il suo tocco di fantasia letteraria, può essere sospettato di aver voluto ampliare la fama del compatriota, dichiarandone le grandi qualità poetiche e culturali. Egli fu inoltre il fondatore della “Lectura Dantis”, tenendo lezioni e commenti pubblici nella chiesa di Santo Stefano in Badia (1374-’75), e poi ancora uno dei primi copisti della “Divina Commedia”, facendone dono personale di una copia a Francesco Petrarca.
E se è vero che non vi sono testimonianze ma neppure smentite, in merito a una trasferta a Parigi, da parte dei figli, Pietro e Jacopo, primi commentatori del poeta, un’altra testimonianza è data da un cronista, contemporaneo di Dante, Giovanni Villani (12767-1348): “[…] colla detta parte bianca fu cacciato e sbandito da Firenze, e andossene allo studio di Bologna, e poi a Parigi.” (“La Nuova Cronica”, 1348) Si è giustamente osservato come il redattore della cronaca abbia voluto concentrare l’attenzione sul Dante poeta e letterato, che bandito in patria, si reca in due delle più importanti Università di Europa.
Un altro commentatore della “Commedia”, Benvenuto da Imola (1330-88), racconta di una presenza di Dante a Parigi, senza citare la fonte, ma solo basandosi su alcuni versi del “Purgatorio” (VI, 19-24), dove dal primo emistichio l’anima di Pierre de la Brosse racconta di essere stato ucciso per invidia e non per colpa, e Dante invita Maria di Brabante a pentirsi per evitare di finire tra i dannati.
“Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’e’ dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia,”
“Dantes, qui fuit Parisius, post exilium suum, explorata diligenter veritate huius rei, dignum duxit ipsum ponere salvum in Purgatorio.” “Dante, che fu parigino, dopo il suo esilio, esplorata diligentemente la verità dei fatti, lo ritenne degno di collocarlo salvo in Purgatorio” Così commenta Benvenuto. È da aggiungere soltanto, come conferma, il particolare pure rilevato che le desinenze di “inveggia” e “proveggia” richiamano un certo gallicismo, per vocaboli della lingua francese terminanti in “age”, con esempio tipico “langage”, e anche quel “comisa” si può considerare tale per “comise”
Riprendiamo brevemente alcune notizie su Maria di Brabante (1254-1321). Sposò nel 1274 il re Filippo III l'Ardito, già vedovo di Isabella d'Aragona, e divenne regina di Francia. Nel 1276 morì il primogenito Luigi, erede al trono, e dagli intrighi di Corte venne fuori di essere stata accusata da Pierre de la Brosse, ciambellano del re dal 1266, di aver avvelenato il figliastro, per favorire i suoi eredi. Nel 1278 furono recapitate al re alcune lettere dirette dal de la Brosse ad Alfonso X di Castiglia, e il ciambellano fu giustiziato, con l’accusa di alto tradimento. Antichi commentatori concordano nell’affermare che il De Brosse fu vittima di un complotto ordito dalla Regina, che aveva fatto produrre lettere false ed aveva accusato il ciambellano di aver attentato al suo onore. Dopo la morte del re (1285) Maria di Brabante si ritirò a vita privata, dandosi a pratiche religiose fino alla morte, avvenuta nel gennaio 1321.
L’ammonimento a ravvedersi era stato scritto da Dante, quando la regina era ancora in vita, anche se il “Paradiso” fu pubblicato postumo dopo la morte del poeta, avvenuta nel 1321, lo stesso anno di Maria di Brabante. Dante era un contemporaneo, e le voci del complotto poteva averle raccolte direttamente in ambienti parigini. E il commentatore, Benvenuto da Imola, pone come sicura la sua premessa del soggiorno parigino di Dante in esilio: “Dantes, qui fuit Parisius, post exilium suum”. Inoltre, riprende la notizia del Boccaccio: “Avendo in gioventù vacato alla Filosofia naturale e morale […], in età più matura, già esule, diedesi alla sacra Teologia in Parigi. Dove tanto splendore acquistò che veniva dagli uni chiamato poeta, dagli altri filosofo, dagli altri teologo.” (Benvenuto da Imola, “Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam”)
Entrambi gli autori parlano in maniera elogiativa di Dante, quasi a volerne esportare più le qualità spirituali e culturali, che la presenza stessa della persona, estenderne la fama. Giovanni Boccaccio aveva una certa familiarità con Parigi, in quanto il proprio padre, detto Boccaccino (1297-1348), aveva soggiornato a Parigi nel primo trimestre del 1313, in ragione della sua attività di agente della Compagnia dei Bardi, potenti banchieri e mercanti fiorentini, ed alloggiato presso la chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie. E pertanto il figlio Giovanni capiva che il viaggio di Dante non poteva essere caratterizzato come un viaggio d’affari o di piacere, ma compiuto in ragione della sua auctoritas come poeta, filosofo e teologo, destinazione la Sorbona, la più prestigiosa Università d’Europa, dove in anni precedenti aveva tenuto la cattedra magistrale di teologia Tommaso d’Aquino. Ed è indubbio che soggiornare in ambienti di alta cultura significa venire a conoscenza di quanto si dibatte in circoli politici, riguardanti fatti di governo, nell’occorso la Corte del re di Francia e i suoi intrighi.
Lo stesso Giovanni, nel De casibus (IX, 21), evoca ricordi e impressioni del padre sui gravi fatti di cronaca politica dell’epoca: il rogo dei Templari (1310) e l’esecuzione del Gran Maestro dell’Ordine, Jacques de Molay (1314).
Ma si possono ritenere sufficienti queste notizie, per attestare storicamente un viaggio e soggiorno a Parigi di Dante Alighieri ed una sua presenza alla Sorbona, verosimilmente attorno al 1309-10? In mancanza di altre notizie, allora, si deve fare riferimento a riscontri autobiografici presenti nelle sue opere, anche se sono tracce, di cui si è soliti trascurarne l’importanza.
RIFERIMENTI NELLA “COMMEDIA”
Un puntuale riferimento alla città di Parigi, in particolare l’ubicazione della Sorbona nella toponomastica della metropoli francese, si ricava dalla terzina dedicata a Sigieri di Brabante (Paradiso, X,136-38)
Essa è la luce etterna di Sigieri, che,
leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidiosi veri.
Essa è la luce eterna di Sigieri, che insegnando in “Vico de li Strami” dimostrò verità dottrinali, suscitando l’invidia altrui.
Nell’attuale mappa di Parigi, provenendo da Notre Dame, attraversato il Lungo Senna, si finisce nella rue du Fouarre (“Vicolo de li Strami”), che continua con la rue Dante, quindi proseguendo oltre l’incrocio con il boulevard Saint-Germain, risalendo la Rue Saint-Jacques, si sbuca nella rue des Écoles, dove ha sede la Sorbona. “La rue du Fouarre, parola che significa Paglia, fu nel XIII secolo la più illustre via di Parigi. Là avevano sede le scuole dell’Università, quando la voce di Abelardo e quella di Gerson risuonavano nel mondo della cultura.” (Honoré de Balzac, “L'Interdiction”, vol. III , “La Comédie humaine”, Éditions Gallimard.) Il nome della via faceva riferimento alle balle di paglia, dove all’epoca si sedevano gli studenti per seguire i corsi universitari. Una stele in bronzo, situata sul luogo, reca l’iscrizione: “La culla dell’Università”.
Il riferimento a Sigieri di Brabante va inquadrato nella più ampia cornice della narrazione poetica, ossia l’ascesa di Dante e Beatrice al IV Cielo del Sole, l’apparizione degli spiriti sapienti della prima corona e l’incontro con san Tommaso d'Aquino, che presenta gli altri undici beati. In particolare, lo spirito parlante si presenta come un frate domenicano: “Fui uno degli agnelli del santo gregge che san Domenico conduce per il cammino, dove ci si arricchisce di beni spirituali, se non si devia dalla regola.” Lo spirito alla sua destra è Alberto Magno, laureatosi in teologia a Parigi e divenuto docente in varie università germaniche. Quando si trasferì da Colonia a Parigi, ebbe come discepolo Tommaso, che lo seguì quando il maestro fece ritorno a Colonia. Nel 1270 inviò una memoria a Tommaso d’Aquino, che in quel momento si trovava a Parigi, per aiutarlo nella disputa con Sigieri di Brabante e le teorie averroiste, ispirate ad Aristotele. Tra gli altri undici beati della corona, troviamo Pietro Lombardo, che fu nel monastero di san Vittore e insegnò a Parigi, dove morì nel 1160; inoltre, Riccardo di San Vittore, così detto dall'abbazia di Parigi, di cui fu priore dal 1162 fino alla morte 1173. Infine, l’ultimo menzionato è Sigieri di Brabante, maestro alla facoltà delle Arti di Parigi, sostenitore del cosiddetto «averroismo latino» e per questo avversato dalla Chiesa, che lo accusò di eresia. Tra i suoi più accesi detrattori fu lo stesso san Tommaso, di cui Dante gli fa tessere la lode.
Queste scelte di spiriti sapienti, le cui tracce portano a Parigi, non sono una prova della presenza di Dante nella capitale francese, in quanto poteva avere cognizione delle loro vite e delle loro opere per fama, anche restando in Italia. Noi però possiamo accoglierlo come un indizio e porlo accanto agli altri riferimenti della “Commedia” alla terra di Francia e Parigi. Il nome della città viene nominato in “Purgatorio” XI, 78-81:
«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
“Oh! non sei forse Oderisi, l'onore di Gubbio e di quell'arte che a Parigi è chiamata 'enluminer'?” In italiano, il verbo è miniare. La miniatura consisteva nella decorazione di manoscritti e libri antichi, in origine tingere in rosso le lettere iniziali dei capitoli di un testo scritto. Il termine deriva dal latino minium, un particolare minerale, il solfuro di mercurio, l’attuale cinabro, dal quale si ricavava il colore rosso. L’uso del vocabolo francese e del conseguente riferimento a Parigi è stato considerato come un omaggio di Dante all’arte della miniatura francese. Ma è anche il segno di un’intenzione ben precisa, quale il voler portare a conoscenza del lettore la sua lectio d’oltralpe. Possiamo immaginare il poeta a Parigi, che nei monasteri scopre antichi codici miniati, rimanendo ammirato dall’arte della miniatura carolingia, per riversare poi questo suo sentimento in uno dei versi del Purgatorio. In ogni caso è da rilevare che sulla persona di storica di Oderisi da Gubbio le notizie sono incerte: “Miniatore attivo a Bologna nella seconda metà del sec. XIII, cui al momento non è possibile assegnare alcuna opera, nonostante che la critica si sia sforzata a lungo di ricostruirne la personalità artistica e, in qualche misura, il catalogo. La questione storiografica relativa a Oderisi ha origine esclusivamente da suggestioni letterarie, quelle dantesche del “Purgatorio” (XI, vv.79-102).” (“Enciclopedia dell’arte medievale”, 1997) Altri documenti lo ricordano come “Odericus quondam Guidonis de Gubbio”, attivo a Bologna negli anni 1268-69 e ‘71, dove sembra che nel 1287 Dante l’abbia conosciuto, e dove ha sempre vissuto, tranne un soggiorno a Roma, presso una libreria papale. Un documento (Baldani) lo ritiene morto nel 1299. In base a tali notizie, non abbiamo nessun riferimento della persona di Oderisi a Parigi o alla Francia, l’unico accostamento è quello dantesco. Il poeta avrà trovato l’espressione giusta del verso per ragione di metro e di rima? Ma dimostriamo, commettendo un peccato di orgoglio, finendo in Purgatorio in compagnia di Oderisi e dei Superbi, come Dante avrebbe potuto usare un altro verso per trovare lo stesso metro e la stessa rima:
«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
[di miniar che su’ codici tu misi?]
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
L’arte di miniare che tu impiegasti sui manoscritti. Se dovessi definire il verso più appropriato, sarei più dantesco di Dante, o forse ho letto altrove questa correzione e lascio qui insoluto il dubbio e velato il mistero. Perché Dante ha usato il verbo “alluminar”, di chiara matrice francese, ricollegabile al latino “lumen”, invece di “miniar”, che ha un etimo latino diretto “minium”? Forse perché è un verbo che esprime l’umile azione degli artigiani del minio, i minieri, non l’arte raffinata, e tanto più quella superba di Oderisi, paragonabile a quella parigina, a cui il verso allude?
Rimanendo nella distinzione dei termini, la cui scelta è nel genio del poeta, in alluminare traspare l’oro delle miniature, mentre il miniare ricorda il rosso delle lettere iniziali di capitoli. È per questo forse il miniare meno nobile dell’alluminare? La terzina dantesca nasce dal cuore del poeta, il suo ricordo.
Un ulteriore riferimento alla cultura parigina e al mondo accademico della Sorbona e degli altri ambienti universitari, si può cogliere In “Paradiso”, XXIV 46-49:
Si come il baccellier s’arma e non parla
Fin che ‘l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla,
così m’armava io d’ogne ragione
Come il baccelliere si prepara e non parla finché il maestro non ha proposto la questione, per confermarla con argomenti a sostegno e non per portarla a yermine, così io mi preparavo con ogni mezzo dialettico
Nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse, Beatrice si rivolge a san Pietro, perché esamini Dante sulla solidità della sua fede. Il poeta allora deve esprimere il suo stato d’animo di esaminando in Teologia ed usa due termini accademici propri dell’Università di Parigi, baccelliere e maestro, corrispondenti a due gradi di insegnamento, già raggiunti da San Tommaso d’Aquino.
I critici hanno fatto osservare che nel convento di Santa Maria Novella era priore e lector, il domenicano Remigio de’ Girolami, discepolo di Tommaso d'Aquino alla Sorbona (1269), e non si può escludere un suo ruolo tra i maestri di Dante in Firenze. È questa una notizia non riportata dai cronisti dell’epoca ed il silenzio non prova una tale ipotesi. Si è osservato al contrario che le norme regolanti l’accesso ai corsi degli Studia dei domenicani contenevano numerose interdizioni, e forse è stata la presenza in Firenze del teologo Remigio de’ Girolami a ispirare la trasferta dell’Alighieri a Parigi.
I tre riferimenti, di cui abbiamo parlato, rivelano quindi una certa familiarità di Dante con la capitale francese e la sua Università della Sorbona.
Un ultimo indizio rintracciabile nella “Commedia”, anche se non di carattere culturale, ma esclusivamente politico, di una presenza di Dante a Parigi, potrebbe essere la citazione di Filippo il Bello in “Paradiso” XIX vv.118-20, condannato nel giorno del Giudizio Universale:
Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.
Lì si vedrà il dolore che arreca alla Francia, coniando falsa moneta, colui (Filippo il Bello) che morirà per il colpo di un cinghiale. In realtà, il re morì durante una battuta di caccia, a causa di un cinghiale che lo fece cadere da cavallo. Non è escluso che Dante fosse presente a Parigi, quando nel 1310 ci fu il rogo dei templari, anche se in questi versi non si fa cenno ai cavalieri dell’ordine, ma è stato rilevato che cenni su di loro sono stati rintracciati in altri luoghi della “Commedia”. Dante situa in Paradiso Bernardo di Chiaravalle, il santo autore della regola dei templari, mentre finiscono nelle fiamme dell’Inferno i persecutori dell’Ordine, il citato Filippo, re di Francia, e Papa Clemente V. Un altro importante personaggio è Cacciaguida, trisavolo di Dante, aveva partecipato alla seconda crociata e probabilmente era un templare. Nel Paradiso appare tra le anime dei combattenti per la fede.
Certo, sono vicende storiche, che avevano una risonanza anche lontano dai luoghi, dove esse si svolgevano, ma che una presenza in quei luoghi, anche se per un soggiorno più o meno breve, contribuisce a mantenere vive nel ricordo, rendendo attiva la coscienza creativa nella composizione di opere letterarie.
Si è voluto inoltre individuare, da parte degli studiosi sul tema di un possibile viaggio a Parigi di Dante, anche l’eventuale tragitto d’oltralpe percorso dal poeta, cercando riscontri nei canti della Commedia. Se poi, come è stato osservato, nell’opera si vogliono rintracciare i segni di un allegorismo autobiografico, seguendo l’itinerario dei luoghi, di cui è traccia nelle tre cantiche, di certe regioni come Toscana, Emilia, Romagna e Veneto, non c’è ragione di escludere la Liguria e la Provenza, terra di origine dei poeti trobadorici. E si fa riferimento ai famosi otto versi della Commedia scritti in Langue d’Oc (Purgatorio, XXVI, 140-147), in cui si esprime lo spirito del cantore provenzale Arnaut Daniel, a cui Dante si rivolge su indicazione di Guinizelli.
El cominciò liberamente a dire:
«Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
Poi s’ascose nel foco che li affina.
Lui cominciò volentieri a dire: «La vostra cortese domanda mi piace a tal punto, che non posso né voglio nascondere la mia identità. Io sono Arnaut, che piango e vado cantando; preoccupato guardo la mia passata follia d'amore, e vedo gioioso la gioia, che spero, davanti a me. Ora vi prego, per quella virtù che vi guida alla sommità di questa scala, di rammentarvi al momento opportuno del mio dolore!» Poi si nascose nel fuoco che li purifica.
Rispetto ad Arnaut, Guido aveva affermato che gli stolti gli preferiscono Giraut de Bornelh: “e lascia dir li stolti /che quel di Lemosì credon ch’avanzi”. Questi era un altro trovatore provenzale originario del Périgord, regione francese attigua al Limosino (“Lemosì”), nella Francia centro meridionale.
I riferimenti nella Commedia ai trovatori provenzali stanno ad indicare l’ammirazione
di Dante per la letteratura occitanica: “versi d’amore e prose di romanzi”, nonché la vocazione a un viaggio verso le terre di quei poeti, stante il suo esilio.
Ora, se consideriamo che i paesaggi fantastici di un artista letterario o poeta, e così anche e soprattutto per il sommo poeta, sono il riflesso delle visioni vissute di luoghi reali, la precisa indicazione dell’arco ligure si trova in “Purgatorio” (III, 49-51):
Tra Lerice e Turbìa, la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole ed aperta.
Nei versi la pendenza dell’erta del Purgatorio è assimilata a certi strapiombi sul mare tipici di quella fascia costiera, e alcuni critici hanno indicato nell’orrido di Muzzerone a Portovenere il luogo descritto. L’indicazione ha il suo specifico valore, per il fatto che la via d’accesso al luogo è un percorso compiuto dal mare. Ai piedi del monte del Purgatorio dantesco, si trova una spiaggia, in cui le anime approdano sulla barca condotta dall’angelo nocchiero. E qualche studioso ha individuato nella tratta da Lerici a La Turbie, che dalla Riviera di Ponente a quella di Levante abbraccia l’intero golfo ligure, una chiaro segno del viaggio di Dante “ad partes ultramontanas”, di cui si fa menzione nella “Epistola di frate Ilaro”.
Nello “Zibaldone Laurenziano” di Giovanni Boccaccio è trascritta un'epistola inviata a Uguccione della Faggiuola da un monaco Ilaro del convento di Santa Croce del Corvo. Il monastero della Congregazione Benedettina era situato alla foce del fiume Magra, ai confini della Toscana con la Liguria. Non si hanno documenti ufficiali del convento relativi alla fine ‘200 o l’inizio del ‘300, per cui non abbiamo altre notizie del frate Ilaro. In epoca recente è stata apposta sulle rovine una lapide celebrativa del soggiorno dantesco. Nella Lettera si parla di Dante e della composizione della sua opera in lingua latina, di cui vengono citati i primi tre versi:
“Ultima regna canam, fluvido contermina mundo,
spiritibus que lata patent, que premia solvunt
pro meritis cuicunque suis.”
“Canterò i regni ultimi, oltre i confini mondo corruttibile,
come ampi si aprono alle anime, quali ricompense offrono
a ciascuno secondo i propri meriti.”
A proposito della presenza di Dante, frate Ilaro riferisce che il poeta “diretto verso luoghi oltremontani [ad partes ultramontanas] e in transito per la diocesi di Luni, raggiunse il suddetto monastero, spinto dalla devozione o da qualche altra causa.”
Alcuni esegeti hanno però rilevato che la formula latina potesse intendere, nella Lunigiana del Trecento, un viaggio oltre l’Appennino, cioè verso il parmense, secondo la pratica propria della transumanza. Si è però opposto che la locuzione in esame può essere interpretata diversamente, tenendo presente l’uso generale del tempo. In una epistola (1257) del teologo francescano Adamo Marsh indirizzata a Bonaventura di Bagnoregio, magister presso la Sorbona e residente in Parigi, l’autore utilizza lo stesso stilema, “ad partes ultramontanas”, per indicare la sua venuta in Italia. In realtà, nel lessico europeo del Trecento, la locuzione in esame stava a indicare il varco dei passi alpini, sia in una direzione che in quella contraria.
Il tragitto indicato “da Lerice a Turbia” (“Purgatorio”, III, 46) pone in evidenza come all’epoca la definizione geografica dell’arco ligure corrispondeva ancora alla mappa della cartografia romano-imperiale di oltre un millennio prima. E si trova conferma di questo in Petrarca, che sulle orme di Dante, indica il medesimo tracciato: “A Corvo scilicet usque ad Portum herculeo, ut quondam putant, nomine consecratum.” “Da Corvo appunto fino al Porto consacrato al nome di Ercole, come una volta di pensava.”
In questa versione, la città di Lerici è stata sostituita dal Monte Caprione, indicato come Capo Corvo, località dell’abbazia citata nell’Epistola di Ilaro. Al posto di La Turbie, viene menzionata l’attuale città del Principato di Monaco, in antico Porto Ercole. Quest’ultima località era ricordata già dal VI secolo per il santuario dedicato al dio vittorioso sui Liguri delle Alpi Marittime, e fondatore della arx Monoeci (rocca di Monaco) e del porto. Per tutto il Medioevo, la rada di Monaco rappresentava ancora un importante punto di approdo e ricovero delle imbarcazioni.
O via mare, oppure attraverso il crinale appenninico, si può supporre che Dante dalla Lunigiana raggiunse La Turbie, e dalle Alpi Marittime si portò poi fino ad Arles, all’estuario del Rodano: “Sì come ad Arli, ove Rodano stagna” (“Inferno” IX, 112). E da Arles ad Avignone, risalendo la valle del Rodano, “ogne valle onde Rodano è pieno”, (“Paradiso”,VI, 60), raggiunse Lione, proseguendo per Parigi. Notiamo che il francese Clemente V, al secolo Bertrand de Got, fu incoronato papa nel 1305 a Lione, e stabilì poi la sua residenza ad Avignone nel 1309.
È stato disegnato un verosimile tragitto di Dante in terra di Francia, attraverso i riferimenti della “Divina Commedia”, partendo dalla sua presenza in Lunigiana. Dall’Epistola del 1315 di Frate Ilaro, si ritiene che Dante salisse al monastero del Corvo di Bocca di Magra nell'autunno del 1308 e consegnasse al priore, frate Ilaro, il manoscritto del suo poema. Dopo non abbiamo una traccia sicura del suo percorso di esiliato, ma siamo arrivati agli anni 139-10, in cui si pensa che abbia compiuto il suo viaggio per recarsi nella più prestigiosa Università d’Europa. La conferma ci viene data, come abbiamo visto, da Benvenuto da Imola, esegeta dantesco del Trecento, che riprende la notizia da Giovanni Boccaccio: “In età più matura, già esule, diedesi alla sacra Teologia in Parigi, dove tanto splendore acquistò che veniva dagli uni chiamato poeta, dagli altri filosofo, dagli altri teologo.”
Vorremmo aggiungere che la figura di Dante esule, la troviamo come personaggio di un libro di Balzac: “I proscritti”. Nel 1831, Balzac pubblica questo romanzo, in cui Dante appare come personaggio, presentato come lo straniero, l’esule, la cui vera identità sarà rivelata soltanto alla fine del racconto. Il romanzo, la cui trama è data da un intreccio tra verità storica e finzione, fa parte assieme ad altri due romanzi del Libro mistico, confluito come segmento di “Studi filosofici” nella Comédie humaine, il vasto affresco balzachiano, costituito da 137 opere. L’autore era affascinato dalla filosofia e dalla teologia e per questo era attratto da Dante, a cui si ispirò per il titolo definitivo della sua raccolta di scritti. Pochi mesi prima (1831), Victor Hugo aveva pubblicato la sua opera “Notre Dame de Paris”, e proprio accanto alla cattedrale, Balzac aveva immaginato l’alloggio di Dante esule a Parigi. Ora, basta attraversare il ponte sulla Senna, per trovarsi nel quartiere latino, e raggiungere in breve la Sorbona, dove l’autore, nel suo racconto, si figura Dante che va a seguire i corsi di teologia mistica di Sigieri di Brabante. Ed è proprio la terzina dantesca, di cui abbiamo trattato sopra nel paragrafo dei “Riferimenti della Commedia”, ad avere ispirato Balzac nella trama della sua narrazione. Balzac tenta di costituire, come è stato osservato, una comunità di spiriti mistici. Dante e Sigieri sono due sovrani della parola e parlano tra loro non in latino né in francese, ma in un linguaggio sconosciuto.
Il romanzo di Balzac costituisce un incontro tra Dante e la cultura francese, un recupero ottocentesco della figura dell’autore della Divina Commedia, un’opera abbastanza trascurata nel Medioevo e nei secoli successivi. Una prima traduzione dell’intero poema è stata eseguita, come indicato nello studio di Ottavia Anessi, “Dante au tournant du XXIe siècle” (Università Ferrara, 2018), un manoscritto contenente l’Inferno in terzine di alessandrini, conservato nella Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino e risalente alla prima metà del secolo XVI, dunque ben due secoli dopo la sua prima pubblicazione. Su questa e altre traduzioni in lingua francese di singole Cantiche o semplici brani dell’opera, ne parliamo nel prossimo paragrafo, in cui dobbiamo affrontare la soluzione dell’origine e ritrovamento del documento apocrifo presentato all’inizio di questo lavoro.
IMMAGINE
Statua di Dante, rue des Écoles, Sorbona. La statua in bronzo è stata realizzata nel 1882 da Jean-Paul Aubé. Si trova in quel luogo, perché si dice che il poeta avesse frequentato da teologo e filosofo la prima Università di Parigi, all’epoca situata nell’attuale vicina rue Dante. La scultura rappresenta una scena del Canto XXXII dell’Inferno, quando il poeta schiaccia il capo di Bocca degli Abati.
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