sabato 20 aprile 2024

Filosofia


                           

           La coppa di veleno




15 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

LA COPPA DI VELENO
LA FIGURA E LA SORTE POLITICA DI SOCRATE

LA RETORICA
“ANITO: O Socrate, mi sembra che tu abbia una certa facilità a parlar male della gente. Quindi io ti consiglierei, se vuoi prestarmi fede, di stare attento: forse anche in un'altra città è facile fare del male o del bene alla gente, ma in questa è addirittura facilissimo e penso che lo sappia anche tu. SOCRATE: Menone, ho l'impressione che Anito [1] sia adirato e non me ne meraviglio: per prima cosa pensa che io stia parlando male di costoro, poi ritiene di essere anche lui uno di essi. Ma se mai saprà cosa vuol dire parlar male, smetterà la sua irritazione; ora però lo ignora. Dimmi, non ci sono anche tra voi dei galantuomini?” (Menone,95a)
Da questo passo del “Menone” di Platone si desume perché Socrate era inviso a molti tra i suoi concittadini, certo per i suoi ironici giudizi, considerati malevoli dai politici, come Anito. Si trattava di quella ironia socratica che pure traspare, anche se in maniera molto sfumata, nel passo iniziale del “Menesseno” [2]. Quel trattare il sentimento patriottico con una vena di ironia, e forse più, per quel tanto di retorico che si presentava nelle celebrazioni e commemorazioni ufficiali riservate dalla patria ai suoi concittadini morti in guerra, può sembrare come un senso di sottile sfiducia o malcelato dissenso nei confronti di quelle celebrazioni. Ma in verità, nel dialogo, secondo una certa critica, Platone tende a mettere in risalto la figura del filosofo nei confronti del retore, per mettere a confronto la nobiltà del discorso del primo rispetto all’enfasi di parole vuote del secondo. Ed è un modo di confronto tra la filosofia (Socrate) e la politica (Pericle).
“Dans le Ménexène et dans le contexte d’une parodie d’oraison funèbre, Aspasie apparaît comme « maître de vérité » à la fois pour Socrate et pour Périclès. […] Aspasie représente la figure « vraisemblable » d’une parole, celle dont l’autorité est fondée sur la capacité d’emprise : la parole « séductrice » de l’hétaïre. La parodie platonicienne ne vise pas ce type de parole mais les rhéteurs, comme Périclès, qui utilisent la parole d’Aspasie pour enchanter l’auditoire avec des mots creux et grandiloquents.” [3]
“Nel Menesseno e nel contesto di una parodia dell’orazione funebre, Aspasia appare come “maestro di verità” sia di Socrate sia di Pericle. […] Aspasia rappresenta la figura “verosimile” di un’eloquenza, quella la cui autorità è fondata sulla capacità d’incantamento: l’eloquenza “seduttrice” dell’etera. La parodia platonica non riguarda quel tipo di eloquenza, ma i retori, come Pericle, che utilizzano l’eloquenza di Aspasia, per incantare l’uditorio con parole vuote e magniloquenti.”

Silvio Minieri ha detto...

[1] Anito fu un politico di rilievo, un moderato del partito democratico. Aristotele lo presenta come personaggio corrotto (Costituzione di Atene, 27). nel 409 a.C. ebbe l’incarico di riprendere Pilo, che era stata conquistata dagli Spartani, ma fallì. Accusato di avere abbandonato Pilo, evitò la condanna, corrompendo il tribunale. Fu il promotore e il maggiore responsabile del processo contro Socrate, in cui esprimeva gli interessi dei politici e i loro risentimenti contro di lui. Cfr. [4]

[2] “SOCRATE: E pare, Menesseno, che sotto molti punti di vista veramente sia bello morire in guerra. Infatti, anche se chi muore è un povero, gli tocca una bella e magnifica sepoltura, e se è un incapace, gli tocca comunque un elogio pronunciato da uomini sapienti che non parlano a braccio, ma che hanno preparato i discorsi da molto tempo; essi tessono le lodi tanto bene che, mentre dicono di ciascuno le qualità che ha e anche quelle che non ha, ricamando con le parole più belle, incantano le nostre anime, elogiando in tutti i modi la città, i morti in guerra e i nostri progenitori tutti che ci hanno preceduti, e lodando noi che siamo ancora vivi; tanto che anch'io, Menesseno, per le loro lodi mi sento veramente nobile e ogni volta mi ritrovo ad ascoltarli rapito, mentre ritengo all'istante di essere divenuto più grande, nobile, virtuoso. Accade spesso, poi, che mi seguano e stiano ad ascoltare con me alcuni stranieri, di fronte ai quali divento all'istante più venerabile; poiché mi sembra che anche loro siano presi dallo stesso sentimento verso di me e verso il resto della città, di ritenere che sia più meravigliosa di prima, persuasi da chi parla. E lo stesso sentimento di venerabilità rimane in me per più di tre giorni; il discorso flautato e il suono della voce di chi parla penetra nelle orecchie, tanto che a stento il quarto o il quinto giorno mi ricordo di me e mi rendo conto di essere sulla terra, mentre fino ad allora poco mancava che pensassi di abitare nelle Isole dei Beati, tanto sono abili i nostri oratori. (Platone, “Menesseno”, 234c-235c)

[3] https://www.academia.edu/19455509/Aspasia_maestro_di_retorica_
CARMINE PISANO, Università Federico II, Napoli. Aspasia «maestro di retorica», Mètis, Dossier Aitia, Anthropologie des mondes grecs et romains. Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, Daedalus, Paris, Athènes, 2015.

Silvio Minieri ha detto...

Noi possiamo dire che nel “Menesseno”, si ripropone il giuoco drammaturgico di Platone, che come in altri dialoghi si nasconde dietro alcune maschere, per portare avanti i suoi discorsi, come rilevato da Giovanni Reale, studioso e profondo conoscitore di Platone. Ed ecco quello che egli scrive sulla figura di Aspasia, il personaggio che indirettamente, attraverso la voce di Socrate, viene evocato nel dialogo. “Aspasia non è fisicamente presente nell’opera, ma come già detto, di lei Socrate riferisce un celebre epitafio, dal momento che il giovane Menesseno lo invita a farlo. Nata a Mileto da illustre famiglia, aprì la sua casa di Atene ai sapienti del tempo e andò famosa per la sua bellezza e la sua cultura. Fu amica di Socrate e Platone, che in questo dialogo non fa mistero dell’ammirazione nei suoi confronti. Di lei si innamorò Pericle, che divorziò dalla moglie per sposarla, ed ebbe anche una grossa influenza sulla politica dell’epoca. Quello di attribuire a questo celebre personaggio l’epitafio è un espediente che non solo risponde ad una tecnica platonica abbastanza frequente (basti pensare all’anonimo personaggio dell’Ippia Maggiore, della sacerdotessa Diotima del Simposio, al discorso sull’amore attribuito al Lisia), ma pare ispirato, in questo caso, anche dalla commedia antica e dai suoi scherzi relativi alla figura della bella e colta etera, presentata dai comici come maestra e ispiratrice dello stesso Pericle. Che l’elogio sia opera dello stesso Platone e che esso, nel suo genere, costituisca, con pochi altri, un vero capolavoro è fatto di cui nessuno dubita. Quanto a Socrate, al quale viene affidato il compito di recitare l’epitaffio, esce ingrandito, forse anche nobilitato dalla lunga celebrazione di Atene, in cui la realtà storica viene letta nella prospettiva dello stato ideale platonico e non si può certo negare, anche in questo dialogo, la presenza di un intento apologetico nei suoi confronti.”
(Giovanni Reale, Presentazione del Menesseno, “Platone. Tutti gli scritti”, 1991)
Anche in quest’ultimo giudizio, avvertiamo la distanza tra la figura del Socrate storico rispetto a quella del Socrate platonico, il maestro di virtù, che l’allievo nobilita, ben conoscendo il giudizio negativo degli ateniesi e il malanimo nei suoi confronti, di cui lo stesso Socrate non fa mistero, nella difesa di sé contro accuse e accusatori.
“Prima di tutto, dunque, è giusto che io mi difenda, o cittadini ateniesi, dalle prime false accuse e dai primi falsi accusatori, e poi delle accuse successive e degli accusatori successivi.” (“Apologia di Socrate”, 18b)
Le accuse ufficiali contro Socrate erano: corruzione dei giovani e asebeia (empietà). Nella sua difesa, egli premette una più antica accusa contro di lui, quella di essersi occupato delle cose che stanno sotto terra e nel cielo.
“Infatti, ci sono stati molti che mi hanno accusato davanti a voi, già da tempo e per parecchi anni e senza che dicessero niente di vero. E io temo questi accusatori molto più di Anito e dei suoi amici, anche se pure questi sono terribili. Però quelli che sono più terribili, o cittadini, ossia quei primi i quali, prendendo la maggior parte di voi fin da fanciulli, vi hanno persuaso e hanno raccolto contro di me accuse per niente vere. C’è un certo Socrate, uomo sapiente, che fa indagini sulle cose celesti e fa ricerca su tutte le cose che sono sotto terra, e che rende più forte il ragionamento più debole. Questi che hanno diffuso tali voci, o cittadini ateniesi, sono gli accusatori terribili. Infatti, chi li ascolta ritiene che i ricercatori di tali cose non credano all’esistenza degli dèi. Inoltre, questi accusatori sono numerosi e mi hanno rivolto accuse già da molto tempo. E per giunta, parlavano a voi in quell’età, nella quale eravate particolarmente disposti a credere, cioè quando alcuni di voi erano fanciulli e giovinetti, accusandomi in contumacia, senza nessuno che mi difendesse. E la cosa più strana di tutte è che di costoro non si possono sapere né dire i nomi, fatta eccezione di un commediografo.”

Silvio Minieri ha detto...

LA COMMEDIA
Si tratta di Aristofane, che fu il principale detrattore di Socrate, ed altri commediografi dell’epoca. Nelle “Nuvole” (423 a. C.), Aristofane presenta l’immagine di un Socrate amico dei sofisti, sofista egli stesso, che dava lezioni a pagamento, e insegnava l'eloquenza e la retorica indispensabili per prevalere nelle dispute pubbliche e private.
Il ritratto di Socrate appariva deformato, come si conveniva ad una rappresentazione comica, ma non tanto da renderlo irriconoscibile ad un pubblico che ben conosceva il personaggio, avendo a che fare con lui in carne e ossa nella realtà di tutti i giorni. Per il commediografo, Socrate era un simbolo di quella nuova cultura ateniese che egli avversava, ed a cui imputava quelle due accuse, che poi furono portate al processo. Una prima accusa di carattere religioso era costituita dal fatto che secondo Aristofane, Socrate adorando nuovi dèi quali “Il Caos, Le Nuvole e La Ragione” era un naturalista ed ignorava gli dèi tradizionali della Polis, e in tal senso l’accusa era di ateismo, quella stessa rivolto otto anni prima contro il filosofo Anassagora.
La commedia si svolge nella sua prima parte come un monologo del vecchio Strepsiade, poi prende forma di dialogo con Socrate, che appare in una cesta sospeso per aria, Il Pensatoio”, per poter osservare meglio i corpi celesti, e distanziarsi dal suolo, per evitare che la terra gli attraesse l’essenza del pensiero. In alcune scene, le battute del dialogo rivelano, nella caricatura di Aristotele, il materialismo di Socrate. Ad una frase rivoltagli dal vecchio Strepsiade, risponde: “Su chi vuoi giurare? Sugli dèi? Sappi, in primo luogo che gli dèi non sono moneta corrente fra di noi”. Egli intende “iniziare” il vecchio suo interlocutore ai misteri della filosofia: “Vuoi conoscere la vera natura delle cose divine? E conversare con le Nuvole, nostre divinità?” Poi gli cosparge il capo di farina ed invoca le forze della natura: “O Nuvole molto venerate, venite, mostratevi a costui. Sia che sediate sulle sacre cime dell’Olimpo battute dalla neve, sia che nei giardini del padre Oceano guidiate il sacro coro per le Ninfe, sia che alle foci del Nilo attingiate acqua con anfore d’oro, sia che abitiate la palude Meotica o la rupe nevosa del Mimante, datemi ascolto: accettate il sacrificio; vi sia gradito il rito.” Nella preghiera sono indicati i luoghi che fanno riferimento all’Asia Minore, da dove venivano la maggior parte dei filosofi naturalisti, come Anassagora. Quindi l’empio Socrate continua con la sua lezione scientifica a Strepsiade, che domanda: “Allora chi farebbe piovere? Se Zeus non esiste?” Il filosofo senza esitare indica Le Nuvole e risponde come segue al vecchio: “Dimmi, hai mai visto piovere senza nuvole? Eppure se fosse lui (cioè Zeus) l’artefice dovrebbe piovere a ciel sereno” Poi spiega il fenomeno dei tuoni: “Quando sono piene d’acqua (Le nuvole) e sono costrette a muoversi, piene di pioggia, per necessità pendendo verso il basso, e pesantemente scontrandosi l’una con l’altra, scoppiano ed esplodono” E questo succede grazie al vortice d’aria. Il “Vortice” (Caos), uno trai nuovi dèi socratici, era ritenuto anche dagli atomisti contemporanei di Socrate, Democrito o Leucippo, all’origine dell’Universo.

Silvio Minieri ha detto...

Una seconda accusa era che Socrate, con i suoi insegnamenti corrompeva la gioventù, incitando i giovani alla ribellione sociale e creando in loro l’ostilità verso i genitori: “Fidippide: [...] Ritengo di poter dimostrare che è giusto punire il proprio padre. [...] Per prima cosa ti chiedo: quando ero bambino, me le davi? Strepsiade: Certo, per il tuo bene; lo facevo per te. Fidippide: Dimmi non è giusto che anch’io mi preoccupi parimenti del tuo bene e ti picchi, dal momento che preoccuparsi del bene di uno significa picchiarlo? Allora perché il tuo corpo dovrebbe essere esente da botte, e il mio no?” È la scena del finale, in cui Strepsiade viene picchiato dal figlio Filippide, che egli aveva condotto da Socrate per farlo educarle. E questa segue l’insegnamento di Socrate, rappresentato con un dibattito tra il Discorso migliore e il Discorso Peggiore, metafora della dottrina dei Sofisti. Secondo questo nuovo modello di educazione, la verità era intesa come una forma di conoscenza sempre relativa, insegnata non più nelle scuole, ma per le strade o in privato. I discorsi servivano soltanto a difendersi ed a confutare gli argomenti dell’avversario, secondo la nuova tecnica retorica. Nella commedia prevale il Discorso peggiore, con la negativa conseguenza del figlio che picchia il padre. “Socrate, affermava l’accusatore, insegnava ai figli a maltrattare i genitori, sia convincendo chi lo frequentava che lo avrebbe reso più saggio del padre, sia dicendo che secondo la legge era possibile, purché lo si fosse fatto condannare per demenza, anche incatenare il padre, e si serviva di questa argomentazione come prova, che era secondo legge che il più stolto fosse tenuto in prigione dal più saggio.” Questa è la testimonianza di Senofonte nei “Memorabili”.
Oltre ad Aristofane con le sue “Nuvole”, altri due commediografi, Amipsia in “Conno” (423 a.C.) ed Eupoli , con “Adulatori” (421 a.C.), contribuirono a denunciare Socrate per ateismo, e ad accusarlo di sobillare i giovani al disordine sociale e di essere un corrotto e avido educatore. Nel “Conno”, che porta il nome del maestro di musica di Socrate, il filosofo compariva miseramente vestito, e al suo apparire sulla scena il coro, composto dai pensatori, lo salutava con parole malevoli.
Ora, “per quanto deformata e simbolica possa essere stata la raffigurazione di Socrate” (Giannantoni) nella commedia, non si può liquidarla come una stravaganza allegorica, negandone il valore storico. Per oltre un ventennio, a causa dei suoi discorsi ironici tenuti per le strade di Atene, egli fu ritenuto un sofista ed esposto a quelle critiche, che trovarono il loro eco nella commedia. E di questa cattiva fama, come dimostrano le sue parole riferite nell’Apologia, a proposito dei commediografi, Socrate era pienamente cosciente, soprattutto in ragione del fatto che nella Polis, in quel tempo, la diffusione delle idee avveniva prevalentemente per via orale, e quindi queste e le critiche che le avversavano si rinnovavano continuamente.

Silvio Minieri ha detto...

LA POLITICA
Il processo contro Socrate si tenne oltre vent’anni dopo la rappresentazione delle commedie, in cui la sua figura veniva ritratta in maniera caricaturale e socialmente dannosa sotto il profilo educativo dei giovani. La società era cambiata, non era più un personaggio come Filippide il simbolo di quella gioventù, che i discorsi di Socrate corrompevano. Egli era stato il maestro di Crizia e Alcibiade, due personaggi ritenuti nemici della Polis, in quel momento governata dalla fazione democratica, ritornata da poco al potere. L’aristocratico Crizia era stato il principale esponente del regime dei Trenta Tiranni, imposto da Sparta alla fine della Guerra del Peloponneso. Alcibiade, invece, fu il più intemperante e tracotante dei democratici, a cui veniva imputata la disastrosa spedizione di Atene in Sicilia. E pertanto, nell’opinione comune, a causa di quelle sue amicizie detestate e dei suoi discorsi corrosivi ed ironici, Socrate era considerato un personaggio ostile e un pericolo per il governo democratico appena restaurato. Approfittando di questa situazione, Anito, suo nemico, come traspare dalla disputa con lui, registrata da Platone nel “Menone” [4], lo trascinò in tribunale, istigando Meleto e Licone a formulare le accuse di empietà e di corrompere i giovani.
Ma l’accusa più terribile sostenuta contro di lui, a parere di Socrate, era questa sua cattiva fama dovuta ad accuse calunniose di oltre vent’anni prima, trascinatesi negli anni, in cui erano cresciuti e si erano formati quelli tenuti a giudicarlo ora in tribunale. “Però quelli che sono più terribili, o cittadini, ossia quei primi i quali, prendendo la maggior parte di voi fin da fanciulli, vi hanno persuaso e hanno raccolto contro di me accuse per niente vere. […] sono numerosi e mi hanno rivolto accuse già da molto tempo. E per giunta, parlavano a voi in quell’età, nella quale eravate particolarmente disposti a credere, cioè quando alcuni di voi erano fanciulli e giovinetti, accusandomi in contumacia, senza nessuno che mi difendesse.”
Erano questi i preliminari di un giudizio della maggioranza dei cittadini della Polis, che si volsero in accuse processuali ben definite e passibili di condanna a morte. Contro questo giudizio ostile e crescente di una comunità di invisibili, e che si autoalimenta da solo, Socrate afferma di non potersi difendere: “Ma quanti, mossi da invidia e servendosi di calunnie, vi persuasero – persone che si sentivano esse stesse persuase, persuadendo gli altri – ebbene tutti costoro sono del tutto irraggiungibili. Infatti, non è possibile portare qui sulla tribuna alcuno di loro a testimoniare, né confutarli; ma mi trovo davvero nella necessità di difendermi come combattendo con delle ombre, e di confutarli senza che ci sia nessuno che mi risponda.”
Socrate capisce di essere stato trascinato in tribunale, prima ancora che per le accuse formulate processualmente, per quel pregiudizio degli ateniesi nei suoi confronti, cresciuto e consolidatosi negli anni, che egli definisce falso e calunnioso e contro il quale la sua difesa appare improponibile. Un tale pregiudizio gli preclude ormai la difesa contro le accuse rivoltegli dopo, e che a quella diffamazione precedente si ricollegavano, e quindi è necessario difendersi in giudizio, come imposto dalle leggi, affidando la propria sorte al dio. “Bene! Allora devo difendermi, cittadini ateniesi, e devo cercare di rimuovere da voi, in così poco tempo, quella calunnia che vi tenete dentro da molto tempo. E desidererei proprio che questo si verificasse, se così è il meglio per me e per voi, e che col difendermi traessi qualche vantaggio. Però ritengo che ciò sia difficile, e non mi sfugge affatto quale sia tale difficoltà. In ogni caso, vada come è caro al dio, bisogna ubbidire alla legge e difendersi.”

Silvio Minieri ha detto...

A Socrate appariva chiaro e lo affermava apertamente che si trattava dunque di un processo politico, dove egli veniva accusato e giudicato non per le sue azioni, ma per le sue convinzioni. Si trattava di vedere se la sua condotta sociale e civile era stata conforme o meno alle Leggi della Città. E questo l’avrebbe stabilito il verdetto, risultante dalla maggioranza dell’assemblea giudicante. L’accusa di empietà, a suo tempo formulata anche contro Anassagora, prevedeva la pena di morte, e pertanto l’affermare e il propagandare idee contrarie alla religione patria era da considerarsi un delitto contro lo Stato, la Polis, di cui veniva messa in discussione la stabilità e la sopravvivenza, una legge introdotta come strumento di lotta politica. [5]
Occupandoci della vicenda politica di Socrate, non possiamo comunque fare a meno di ricordare due episodi della sua vita, che hanno certamente avuto entrambi un riflesso sulla sua sorte: Il primo nella coscienza collettiva dell’assemblea della Polis, il secondo nella faziosità politica , all’ombra della quale si possono consumare vendette politiche. Entrambi gli episodi furono rievocati da Socrate nella sua difesa, come riferito nella “Apologia di Socrate” (32be), scritta da Platone.
“Io non ho mai tenuto nella città, o Ateniesi, nessuna Magistratura: fui solamente membro del Consiglio. Avvenne che la mia tribù Antiochide si trovasse a tenere la Pritania quando voi volevate sottoporre a giudizio tutti insieme i dieci strateghi che non avevano recuperato i naufraghi e i morti della battaglia navale. Ciò era illegale, e voi stessi in seguito l’avete riconosciuto. Tuttavia, allora, io solo dei Pritani mi opposi perché non fosse violata la legge; e votai contro. E già gli oratori erano pronti ad accusarmi, a farmi arrestare, e voi stessi li incoraggiavate con i vostri schiamazzi. Ciononostante, io stimai che era mio dovere affrontare il pericolo standomene dalla parte della legge e della giustizia piuttosto che associarmi a voi nell’ingiustizia per timore del carcere e della morte. Ciò avvenne al tempo in cui la Città era ancora governata dalla democrazia.” [6]
Quindi prosegue, riferendo il secondo episodio: “Allorché vi si stabilì l’oligarchia, i Trenta tiranni mi mandarono a chiamare nella Tolo insieme con altri quattro e ci ordinarono di andare ad arrestare a Salamina Leonte il Salaminio perché fosse messo a morte; e simili ordini essi dettero a molti altri ancora con l’intendimento di associare ai loro crimini più cittadini che fosse possibile. In tale circostanza io dimostrai, non con parole ma con fatti, che della morte non m’importa proprio un bel nulla - scusatemi l’espressione alquanto grossolana; ma ciò che maggiormente m’importa è di non commettere cosa ingiusta ed empia. Né quel governo, per quanto violento fosse, riuscì ad incutermi tanta paura da farmi commettere un delitto. Infatti, quando uscimmo dalla sala del Tolo, i quattro miei compagni andarono a Salamina e condussero via Leonte; io invece me n’andai a casa. E forse avrei pagato con la vita un tale gesto se quel governo non fosse stato rovesciato di lì a poco. E di questi fatti molti sono i testimoni. [7]

Silvio Minieri ha detto...

Ora, quello che Socrate dice, e che Platone celebra dopo la sua morte, come esempio di drittura morale, senza nessuna paura della morte, alle orecchie dei suoi nemici politici, i molti testimoni di quei fatti, la maggioranza dei partecipanti all’assemblea che lo sta giudicando, suona come una confessione di tradimento, non certo della Legge morale (daimonion) di Socrate, ma delle Leggi dello Stato, di cui loro in quel momento propizio (kairos) sono i difensori e gli interpreti, e di conseguenza lo condannarono a morte, come la Legge prevedeva e imponeva.
L’accusa di Meleto è la seguente: Σωκράτη φησὶν ἀδικεῖν τούς τε νέους διαφθείροντα καὶ θεοὺς οὓς ἡ πόλις νομίζει οὐ νομίζοντα, ἕτερα δὲ δαιμόνια καινά (‘Socrate è colpevole, in quanto corrompe i giovani, non crede negli dèi della Città, ma in divinità diverse e nuove’, Platone, “Apologia”,24b-c). Il decreto di Diopite condanna τοὺς τὰ θεῖα μὴ νομίζοντας ἢ λόγους περὶ τῶν μεταρσίων διδάσκοντας (‘quelli che non credono agli dèi o insegnano dottrine su argomenti celesti’, Plutarco, “Pericle”, 32.2). Quindi, per evitare di essere precipitato nel baratro, una delle modalità di esecuzione della pena di morte, il condannato fu costretto a bere la cicuta.
Ora, per stabilire come si svolsero realmente i fatti, dopo la condanna a morte, si potrebbe seguire un “paradigma quantico”, una sorta di prova scientifica, ripresa dalla fisica quantistica, in particolare il principio di indeterminazione. Non potendo conoscere quale sia stata la vera sorte di Socrate, in quanto la nostra interpretazione modifica la realtà, al di sotto di una certa soglia di conoscenza dei fatti, in questo caso costituita dalla sua morte, dobbiamo ritenere che vi siano state forze di costrizione tali, non dimostrabili “visibilmente”, che hanno condotto a quel risultato.
In proposito, il matematico Bertrand Russel, Nobel per la Letteratura (1950), nella sua “Storia della filosofia occidentale”, così scrive: “Socrate è argomento di trattazione molto difficile per lo storico. Vi sono uomini a proposito dei quali si è certi di saperne molto poco, e altri uomini a proposito dei quali si è certi di saperne molto; ma nel caso di Socrate, l’incertezza è se ne sappiamo pochissimo o moltissimo. Era senza dubbio un cittadino ateniese di mezzi modesti, che passava il suo tempo in dispute e insegnava la filosofia ai giovani, ma non per denaro come i sofisti. Fu senza dubbio processato, condannato a morte e giustiziato nel 399 a.C., a circa settant’anni.” I punti fermi della conoscenza della vicenda storica di Socrate sono questi, le fonti principali sono Platone e Senofonte, che discordano tra loro, e quando concordano forse Senofonte copia Platone, quindi Russell conclude così la sua introduzione su Socrate: “In una discussione così perigliosa, non mi avventurerò a prender partito, ma esporrò brevemente i vari punti di vista.” Sulla figura di Socrate, intanto, qui rimandiamo ad uno scritto di Hanna Arendt e al ritratto in negativo di Nietzsche.
L’unico giudizio che possiamo esprimere su Socrate è quello di una morte tragica, che nobilita in retrospettiva la sua figura, oscurando il destino dei suoi accusatori.

Silvio Minieri ha detto...

[4] SOCRATE: Certo è che nella continua ricerca di qualcuno che sia maestro di virtù, pur facendo di tutto, non riesco a trovarne. Eppure cerco insieme a molti, e soprattutto con coloro che ritengo particolarmente esperti in materia. Ma ecco, Menone, al momento opportuno ci si è venuto a sedere accanto Anito qui presente: rendiamolo partecipe della ricerca. […] Ora, dunque, puoi decidere con me riguardo al nostro ospite Menone. Costui infatti, o Anito, da tempo mi dice che desidera questa sapienza e virtù, grazie alle quali gli uomini governano bene le case e le città, si prendono cura dei loro genitori, sanno accogliere e congedare cittadini e stranieri in modo degno di un uomo perbene. Perché apprenda questa virtù, dunque, esamina da chi faremmo bene a mandarlo. Non è chiaro, in base al ragionamento che abbiamo fatto poco fa, che dovremmo mandarlo da coloro che pretendono di essere maestri di virtù e che si proclamano maestri comuni dei Greci, per chiunque voglia imparare, avendo per questo stabilito un compenso e facendosi pagare? ANITO: E chi sono costoro di cui parli, o Socrate? SOCRATE: Sicuramente anche tu sai che essi sono coloro che la gente chiama sofisti. ANITO: Per Eracle, non dire parole di cattivo augurio, Socrate! Nessuno, né tra i miei familiari né tra i miei amici, né cittadino né straniero, incorra in tal follia da andare a farsi rovinare da costoro, dato che essi sono un'evidente rovina e sciagura per coloro che li frequentano. SOCRATE: Come dici, Anito? Questi soltanto, tra coloro che pretendono di saper in qualche modo rendere servigi, si distinguono tanto dagli altri che non soltanto non sono utili, come gli altri, in ciò che venga loro affidato, ma anzi, al contrario, ne provocano la rovina? E per questo ritengono giusto esigere apertamente denaro? Ebbene, io non posso crederti. So infatti che un uomo solo, Protagora, ha guadagnato da questa sapienza più denaro di Fidia, che pure era l'autore di opere così splendidamente belle, e di altri dieci scultori. […] E in questo modo dobbiamo pensare che siano pazzi costoro, che alcuni dicono essere i più saggi degli uomini? ANITO: Sono ben lungi dall'essere pazzi, o Socrate, ma molto più pazzi sono quei giovani che danno loro denaro, ma ancora di più le persone che li affidano a loro, i parenti, ma più di tutti le città, che permettono loro di entrare e non li cacciano, stranieri o cittadini, se tentano di fare un mestiere del genere. SOCRATE: Qualche sofista ti ha fatto un torto, Anito, o perché sei così ostile nei loro confronti? ANITO: Per Zeus, io non ho mai frequentato nessuno di loro né permetterò di farlo a nessuno dei miei. SOCRATE: Allora sei assolutamente inesperto di questi uomini? ANITO: E voglia il cielo che io sia così! SOCRATE: Come potresti dunque, o divino, sapere di questa cosa, se ha in sé qualcosa di buono o di cattivo, se ne sei completamente inesperto? ANITO: Facile! Costoro infatti io so chi sono, che io abbia o non abbia esperienza di loro.

Silvio Minieri ha detto...

SOCRATE: Forse sei un indovino, o Anito; poiché mi chiederei meravigliato, da ciò che tu stesso dici, come tu possa sapere di loro altrimenti. Ma infatti non cerchiamo chi siano questi che, se li frequentasse, potrebbero guastare Menone - e costoro, se lo desideri, siano pure i sofisti - ma dicci invece gli altri e rendi un servigio a questo amico di famiglia, dicendogli da chi andare in questa città tanto grande per diventare famoso nella virtù che ti ho esposto or ora. ANITO: Perché non glielo hai detto tu? SOCRATE: Ebbene, io gli indicai coloro che credevo maestri di queste cose, ma si dà il caso che io dica sciocchezze, come tu affermi, e forse hai ragione. Allora di' tu, per parte tua, da quali Ateniesi deve andare: fa' il nome di chi vuoi. ANITO: Perché deve sentire il nome di un solo uomo? Infatti con chiunque si imbatta tra gli Ateniesi galantuomini non ce n'è nessuno che non lo renderà migliore di quanto potrebbero i sofisti, se vuole prestare ascolto. SOCRATE: Questi galantuomini diventarono tali per caso, senza aver imparato da nessuno, ed essendo nonostante ciò in grado di insegnare agli altri queste cose che essi stessi non impararono? ANITO: Essi, io penso, hanno imparato dai predecessori, che erano dei galantuomini: o forse tu non pensi che in questa città ci siano stati molti uomini perbene? SOCRATE: Io per parte mio credo, o Anito, che qui ci siano buoni politici e ce ne sono stati in passato non meno che nel presente. Ma sono forse stati anche buoni maestri della loro virtù? Questo è infatti il problema intorno al quale si sta svolgendo il nostro discorso: noi stiamo esaminando non se qui vi siano o non vi siano uomini virtuosi e neppure se siano esistiti in passato, ma se la virtù possa essere insegnata. Nel fare questa ricerca indaghiamo se gli uomini virtuosi, sia tra quelli di adesso sia tra quelli del passato, conoscevano questa virtù della quale essi stessi erano dotati e se sapevano trasmetterla ad altri, oppure se questa virtù non possa essere trasmessa ad un uomo né essere ricevuta da altri”. (“Menone” 90a-92e)
Quindi, vengono a scontrarsi due tesi: quella di Anito, per il quale tutti gli onesti Ateniesi sono maestri di virtù politica; quella contraria di Socrate, per il quale neppure i migliori politici ateniesi hanno saputo essere maestri della loro virtù. Quest’ultima tesi suscita la vivace e adirata reazione di Anito: “ANITO: O Socrate, mi sembra che tu abbia una certa facilità a parlar male della gente. Quindi io ti consiglierei, se vuoi prestarmi fede, di stare attento: forse anche in un'altra città è facile fare del male o del bene alla gente, ma in questa è addirittura facilissimo e penso che lo sappia anche tu.” E con questo ammonimento, di carattere decisamente intimidatorio, il dialogo fra i due ha termine: “SOCRATE: Menone, ho l'impressione che Anito sia adirato e non me ne meraviglio: per prima cosa pensa che io stia parlando male di costoro, poi ritiene di essere anche lui uno di essi. Ma se mai saprà cosa vuol dire parlar male, smetterà la sua irritazione; ora però lo ignora.”

Silvio Minieri ha detto...

[5] Socrate viene accusato di empietà sulla base di un decreto di epoca periclea, approvato su proposta dell'indovino Diopite. Se dobbiamo credere a Plutarco (Pericle, 32.1) il decreto recitava quanto segue: “Sono passibili di denuncia e vanno processati coloro che non credono negli dèi e insegnano dottrine sulle entità celesti.” Il decreto era pensato per colpire il filosofo naturale Anassagora e indirettamente il suo allievo Pericle, il quale ritenne opportuno far fuggire il maestro per sottrarlo al processo. Dal momento che non era stato fissato un canone di ortodossia, la dike asebeias (procedimento per empietà) può essere considerata un vero e proprio processo "politico". https://btfp.sp.unipi.it/dida/apologia/ar01s02.xhtml

Anassagora nacque a Clazomene , nella Ionia , e sappiamo che nel 462 a.c. abbandonò la sua città per stabilirsi in Atene . Qui visse per circa 30 anni , stringendo amicizia con il famoso Pericle . Ma nel 438 un indovino di nome Diopite fa approvare un decreto in base al quale sono perseguibili dalla legge tutti coloro che insegnano e divulgano cose empie a riguardo dei fenomeni celesti: Anassagora viene processato per aver sostenuto che il sole è una pietra incandescente e la luna un corpo terroso . Possiamo cogliere in questo processo non tanto un processo contro ciò che effettivamente affermava Anassagora, quanto piuttosto una condanna a carattere politico - sociale rivolta a tutti i conoscenti di Pericle . Tuttavia le dottrine fisiche di Anassagora erano un esplicito attacco a credenze e pratiche religiose . Se infatti si accettavano le sue tesi , i fenomeni celesti non potevano più essere considerati segni inviati dalle divinità agli uomini . Va poi detto che il libro in cui Anassagora esponeva le sue dottrine fisiche ("Perì physeos"), si era sparso a macchia d'olio per via del suo basso costo nella città di Atene, che si stava progressivamente alfabetizzando. Così Anassagora fu sottoposto ad un processo e dovette abbandonare Atene per rifugiarsi a Lampsaco, nella Ionia , dove morì nel 428 a.C. https://www.filosofico.net/anassag.htm

Quanto affermato sull’uso strumentale (politico) del delitto di empietà non esclude che il sentimento religioso fosse abbastanza radicato e discusso nell’ambito della Polis. Nel Libro X delle “Leggi”, Platone condanna fermamente l'ateismo, e attraverso la sua dottrina dell’anima, confuta le tesi di coloro che sostengono che gli dèi non esistono, o esistono ma non si prendono cura degli affari umani, e condanna inoltre coloro che pensano di poterli corrompere con doni votivi. Inoltre viene prevista espressamente la pena di morte, per i casi più gravi di empietà, quelli commessi contro la religione dello Stato. “E questa sia la legge: non si devono possedere cose sacre in onore degli dèi nelle case private, e quindi se uno risulta possederne e celebrare riti diversi da quelli dello stato, e chi ha compiuto il fatto, uomo o donna che sia, non ha commesso nessuna delle empietà gravi ed empie, chi se ne accorge lo denunci ai custodi delle leggi, e quelli gli dovranno intimare di trasportare gli oggetti privati nei pubblici templi, e se non obbedisce, lo puniscano finché non si decida a portarli; se invece uno risulta commettere atti empi non proprio da bambini, ma da uomini empi, sia costruendo templi nei luoghi privati, sia facendo sacrifici a qualsiasi divinità in pubblico, come se impuro facesse sacrifici, sia condannato a morte.”

Silvio Minieri ha detto...

[6] L’episodio è quello relativo alla battaglia presso le isole Arginuse (406 a.C.), tra Spartani e Ateniesi durante la guerra del Peloponneso. Abbiamo la testimonianza di Senofonte: “Gli strateghi della flotta ateniese schierarono le navi dalle isole dirette verso il mare (Senofonte, Elleniche, I, 6, 29), e una volta vinta la battaglia, tornarono alle Arginuse”, abbandonando, per il momento, i naufraghi di venticinque navi per lo più aggrappati ai relitti di queste. Poi, una volta tornati alle isole, “gli strateghi Ateniesi decisero quindi di inviare con quarantasette navi Teramene e Trasibulo, che erano trierarchi, con alcuni tassiarchi, in aiuto alle navi danneggiate e dei rispettivi equipaggi, mentre il resto della flotta avrebbe attaccato le unità al comando di Eteonico.” (Elleniche, I, 6, 35). Ma una forte tempesta impedì a loro di portare a termine la missione, e i circa cinquemila naufraghi ,venticinque triremi, con ciascuna duecento uomini circa, perirono. Degli otto strateghi che avevano diretto e vinto la battaglia, solo due non fecero ritorno, gli altri sei, una volta rientrati, fecero una relazione sulla battaglia davanti al Consiglio. Ma un certo Timocrate propose di arrestare tutti gli strateghi e di deferirli all’Assemblea, come avvenne. Nel corso del giudizio, per scolparsi del mancato recupero, Teramene esibì una lettera degli strateghi, che indicavano come unica causa la tempesta, lasciando così intendere che l’ordine di recuperare i naufraghi doveva essere dato appena conclusa la battaglia, quando il mare era calmo. Agli strateghi fu concesso di parlare brevemente, senza dare loro il tempo di difendersi, la seduta fu aggiornata per il sopraggiungere del buio della sera. Nella seduta successiva, tenutasi tre giorni dopo, la durata della festa delle Apaturie, durante la quale Teramene e i suoi raccolsero insieme molti uomini vestiti di nero e completamente rasati , da presentare come parenti dei morti. Convinsero, inoltre, un certo Calisseno ad accusare gli strateghi in Consiglio, e quando si riunì l’Assemblea, egli presentò una deliberazione, per la quale tutti i cittadini d’Atene, divisi per tribù, votassero per la colpevolezza o l’innocenza degli strateghi, e in caso di colpevolezza, la pena sarebbe stata la morte e la confisca dei beni. A questo punto “si presentò all’Assemblea un tale che sosteneva di essersi salvato sopra un barile di farina; in punto di morte, i naufraghi lo avevano incaricato, se fosse riuscito a salvarsi, di riferire all’Assemblea che gli strateghi non avevano raccolto quelli che erano stati i migliori difensori della patria.” (Elleniche I, 7, 11).

Silvio Minieri ha detto...

La testimonianza fu determinante, perché confermava che si trattava di recuperare dei vivi, i quali altrimenti sarebbero periti, e non dei morti per cui non c’era più nulla da fare, se non seppellirli. In seguito, Eurittolemo, difensore degli strateghi, ed altri citarono in giudizio Calisseno, perché aveva presentato una deliberazione illegale. Nel successivo discorso all’Assemblea, cita un decreto di Cannono, “a tutti gli effetti vigente; esso impone, per chi si renda colpevole verso il popolo d’Atene, di presentare la propria difesa separatamente davanti all’Assemblea, quindi, se riconosciuto colpevole, che sia messo a morte e poi gettato nel baratro e che siano confiscati i suoi beni, la cui decima deve essere versata alla dea.” (Elleniche, I, 7, 20). La procedura corretta da seguire era questa: “Ateniesi, giudicate gli imputati, ognuno individualmente, dividendo il giorno in tre parti: una per riunirvi e votare la procedura del giudizio sia in caso li riteniate colpevoli sia che no, un’altra per l’accusa e la terza per la difesa. Fatto questo, ai colpevoli infliggerete la massima pena, ma gli innocenti li assolverete, Ateniesi, e non li metterete a morte ingiustamente.” (Elleniche, I, 7, 23). Però, di fronte alla proposta di Calisseno di votare l’innocenza o la colpevolezza di tutti gli strateghi insieme, senza dare loro il diritto di difesa, se alcuni approvavano, la massa urlava che si stava contrastando la volontà popolare. Lisisco propose di giudicare anche Eurittolemo e quelli della sua opinione insieme con gli strateghi. Alcuni dei pritani, quelli che esercitavano la presidenza, si rifiutarono di proporre la votazione illegale, ma Calisseno minacciò anche loro. La folla si mise a gridare che bisognava citare in giudizio chi rifiutava la votazione. I pritani, spaventati, accettarono, ad eccezione di Socrate, il quale si rifiutò, come poi avrebbe ricordato al suo processo, una circostanza che gli sarebbe ritorta contro, guardando al suo verdetto di morte. Due anni dopo, Teramene si dovette difendere di fronte al Consiglio dei Cinquecento dalle accuse di Crizia (404 a. C.): “Crizia afferma che ho mandato a morte gli strateghi con le mie accuse. Ma non sono stato certo io a sollevare la questione contro di loro, bensì essi stessi, poiché hanno dichiarato che, malgrado l’ordine datomi, io non avevo raccolto quagli sventurati della battaglia di Lesbo, l’isola di grandi dimensioni di fronte alle Arginuse. Io allora mi difesi sostenendo che fu a causa della tempesta che non riuscii a prendere il largo né, tanto meno, a raccogliere gli uomini; e la Città ritenne giusta la mia difesa, mentre gli strateghi si stavano chiaramente accusando da soli. Pur asserendo, infatti, che era possibile salvare gli uomini, si allontanarono lasciandoli morire.” (Elleniche, II, 3, 35).

Silvio Minieri ha detto...

[7] Sull’episodio abbiamo una testimonianza di Platone: “Avvennero nel frattempo alcuni bruschi mutamenti nella situazione politica della città. Il governo di allora, attaccato da più parti, passò in altre mani, finendo in quelle di cinquantun uomini di cui undici erano in città e dieci al Pireo; ciascuno di questi aveva il compito di presiedere al mercato e aveva incarichi amministrativi. Al di sopra di tutti c’erano però trenta magistrati [324 d] che erano dotati di pieni poteri. Caso volle che fra questi si trovassero alcuni miei parenti e conoscenti che non esitarono a invitarmi nel governo, ritenendo questa un’esperienza adatta a me. Considerata la mia giovane età, non deve meravigliare il mio stato d’animo: ero convinto che avrebbero portato lo Stato da una condizione di illegalità ad una di giustizia. E così prestai la massima attenzione al loro operato. Mi resi conto, allora, che in breve tempo questi individui riuscirono a far sembrare l’età dell’oro il periodo precedente, e fra le altre scelleratezze di cui furono responsabili, mandarono, insieme ad altri, [324 e] il vecchio amico Socrate –una persona che non ho dubbi a definire l’uomo più giusto di allora- a rapire con la forza un certo cittadino al fine di sopprimerlo. E fecero questo [325 A] con l’intenzione di coinvolgerlo con le buone o con le cattive nelle loro losche imprese. Ma Socrate si guardò bene dall’obbedire, deciso ad esporsi a tutti i rischi, pur di non farsi complice delle loro malefatte. (Platone, “Settima Lettera”)
Socrate porta a suo merito il proprio rigore morale, che l’ha fatto rischiare con i Trenta, ma proprio quel rigore morale, agli occhi dei democratici, appare pericoloso. È un ostacolo ai loro fini politici, sebbene esercitato nei confronti di loro avversari, il cui regime era stato abbattuto, ma nel frattempo Socrate non era stato perseguito. E questa impunità non poteva non apparire sospetta a chi compie attività politica faziosa, quella che si considera libera nelle proprie azioni da ogni censura morale, come condannare o condurre a morte avversari politici, nel momento propizio, ossia quando si presenta l’occasione (kairos), il tempo opportuno.

Silvio Minieri ha detto...

IMMAGINE
Dal Pane Girolamo (1821-56) Dipinto a olio su tela, raffigurante Socrate in atto di bere la cicuta. – Museo d'Arte Moderna di Bologna, Via Don Giovanni Minzoni, 14, Bologna.