domenica 21 aprile 2024

Filosofia

 

       

         La solitudine del pensiero




25 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

[N. d. B]
Riporto un mio commento al saggio di Hanna Arendt sulla figura politica di Socrate, già pubblicato sul Blog qualche tempo fa. Essendo il commento precedente all’ultimo scritto su Socrate, pubblicato ieri, è comprensibile si trovino delle ridondanze o ripetizioni rispetto ad esso.

Silvio Minieri ha detto...

LA SOLITUDINE DEL PENSIERO
Lineamenti di filosofia politica nella riflessione di Hannah Arendt.

“Noi che abbiamo fatto esperienza delle organizzazioni totalitarie di massa, il cui primo interesse è eliminare qualunque possibilità di solitudine – eccetto la forma inumana del confino – possiamo facilmente testimoniare come non solo le forme secolari di coscienza, ma anche quelle religiose vengano eliminate, quando non è più garantito lo stare un po' da soli con sé stessi. Si può spiegare a partire da queste premesse il fatto, di frequente osservato, che in certe condizioni di organizzazione politica, la coscienza non funziona più, e questo in modo abbastanza indipendente dalla paura di punizioni. Un essere umano non può mantenere intatta la propria coscienza, se non può mettere in atto il dialogo con sé stesso, cioè se perde la possibilità della solitudine, che è necessaria per ogni forma di pensiero.”
(Hannah Arendt, “Socrate”, Lezioni presso la University of Notre Dame, Usa, 1954.)

1. La distruzione della ragione
Il passo citato in epigrafe è tratto da un testo edito in Italia (Cortina Editore) nel 2015: “Socrate”, a cura di Ilaria Possenti. Si tratta della traduzione e commento di un dattiloscritto in lingua inglese, riferito alla terza parte di un corso di lezioni americane, tenuto da Hanna Arendt, ebrea tedesca naturalizzata statunitense. Come avverte in nota la curatrice, il passo è la sovrapposizione, sostanzialmente una interpolazione, inserita nel quarto paragrafo (ai fini della pubblicazione, il saggio è stato diviso in cinque paragrafi tematici), intitolato: “La sconfitta di Socrate”.
Riportiamo ora il testo sostituito, riprodotto nella nota, in cui coerentemente il discorso segue l’argomentazione, iniziata nel paragrafo.
“Dobbiamo nuovamente rivolgerci ad Aristotele, se vogliamo trovare un’eco, per quanto indebolita, di Socrate. Replicando chiaramente sia al progetto antrophos metron panton chrematon (“L’uomo è la misura di tutte le cose umane”, o letteralmente, di tutte le cose utilizzate dagli uomini) sia al ripudio di questa tesi da parte di Platone, per il quale la misura di tutte le cose umane è Theos (un dio, il divino che appare nelle idee), Aristotele dice: Estin hekastou metron he arete kai agathos “La misura per tutti è la virtù e l’uomo buono” [1], ovvero: la misura è ciò che gli uomini stessi sono in quanto agiscono, non qualcosa di esterno, come le leggi, o sovrumano, come le idee. Senza dubbio un simile insegnamento era e sarà sempre in conflitto con la polis, che dovrebbe richiedere rispetto per le proprie leggi a prescindere dalla coscienza personale; e Socrate, quando chiamò sé stesso “tafano” riconobbe perfettamente la natura di questo conflitto. D’altra parte noi che abbiamo fatto esperienza delle organizzazioni totalitarie…”

[1] Nella puntuale citazione della “Etica Nicomachea” 1176a 15 seg. (in particolare 17-18)”, la Arendt mostra di avere portato particolare attenzione al testo aristotelico. È da rilevare che nell’edizione italiana dell’Etica, Armando Plebe traduce εκάστου (ekastou) con “ciascuna cosa”.

Silvio Minieri ha detto...

Ecco, a questo punto, abbiamo l’interpolazione, segnalata dalla traduttrice e curatrice italiana del dattiloscritto originario della Arendt, che nella parte omessa, così seguiva:
“Insegnare agli Ateniesi come pensare in modo indipendente da una particolare dottrina era dunque, per Socrate, un compito eminentemente politico. Ai suoi occhi, quello che lo distingueva dai suoi concittadini era il fatto che lui non aveva una propria doxa (a questo si riferiva quando parlava della propria sterilità), e che perciò era meglio preparato a riconoscere la verità, cioè a portare in luce la verità proveniente dalla doxa di ogni altro. Inoltre, quello che lo distingueva dai filosofi che sarebbero venuti dopo di lui era il fatto che solo lui poteva vedere la verità ovunque, in ogni opinione, mentre loro, che si erano separati dal mondo delle opinioni, sarebbero riusciti a vederla soltanto, qualora si fosse rivelata nella loro doxa, nelle loro opinioni, e in nessun’altra parte del mondo. Quel che invece lo distingueva dai filosofi precedenti, e che insieme a lui avrebbe contraddistinto quelli dopo di lui, è il fatto che Socrate fu il primo a occuparsi principalmente della verità.”
Riallacciatosi, all’argomentazione precedente che era quella del conflitto tra Socrate e la polis, agli occhi della Arendt il conflitto tra la coscienza del singolo e lo Stato totalitario, a cui ha accennato, per averlo vissuto storicamente, il testo così prosegue.
“Socrate entrò in conflitto con la polis anche in un altro modo, meno ovvio, e di questo aspetto della questione sembra non essersi reso conto. La ricerca della verità nella doxa può condurre al risultato catastrofico che la doxa venga completamente distrutta, oppure ciò che “mi pare” si riveli un’illusione.” E qui la Arendt richiama il tragico destino dell’Edipo Re, che scoprendo la realtà del suo mondo, la realtà del suo essere Re, ebbe la tragica visione della Verità, quella che lo portò all’accecamento in Edipo a Colono. Per lei, la visione tragica era la catastrofe della Germania nazista e dello sterminio degli Ebrei, di cui aveva illustrato la genealogia nella sua opera principale di pensatrice politica: “Origini del totalitarismo” (1951).
“Dopo avere scoperto la verità, Edipo restò privo di una doxa, nel suo molteplice significato di opinione, splendore, fama e di mondo “tutto suo” – ossia di mondo particolare, in cui il mondo appariva a lui. La verità può dunque distruggere la doxa; può distruggere la specifica realtà politica dei cittadini.”
La distruzione di cui la Arendt parla è la “distruzione della ragione”, quella teorizzata da un’altra contrastante prospettiva ideologica nell’opera (1934) del filosofo marxista ungherese di lingua tedesca, György Lukás. L’irrazionalismo diffusosi nel pensiero del ‘900 in Occidente ha origine dall’idealismo tedesco di Schelling fino all’irrazionalismo di Nietzsche e si sviluppa nella successiva filosofia della vita in Germania, espressione della crisi della classe borghese che tentava di giustificare così la sua volontà di potenza e la politica imperialista. Ed infatti non poche critiche aveva ricevuto l’opera della Arendt, che dalla prospettiva della democrazia liberale americana, nel mondo diviso in due blocchi, aveva condannato anche il totalitarismo dei regimi comunisti.
Nel contesto appena illustrato, si può capire la doppia stesura del testo, “unico caso in cui sono presenti due versioni nella medesima pagina”, come rileva ed evidenzia la curatrice del dattiloscritto arendtiano. Dovendo rivolgersi a studenti americani, la filosofa non poteva ignorare la propria esperienza della tragedia europea appena trascorsa ed ha annotato la riflessione – confluita nel testo – sulla storia del suo tempo presente rispetto a quello antico della polis greca, paradigmatico nel campo della filosofia politica.

Silvio Minieri ha detto...

2. La luce della doxa
Siamo entrati nel testo della Arendt su “Socrate” in medias res, senza tracciare uno schizzo generale per delinearne il contenuto, ed è quello che facciamo ora.
“L’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate, che nella storia del pensiero politico rappresenta un punto di vista analogo a quello rappresentato dal processo e dalla condanna di Gesù nella storia della religione. La nostra tradizione di pensiero politico ha inizio, quando con la morte di Socrate, Platone perde ogni speranza nella vita della polis e giunge a mettere in dubbio anche i fondamenti dell’insegnamento socratico.”
Questo è il preambolo con cui la Arendt apre il suo discorso sulla figura di Socrate, che interpreta come l’iniziatore e l’unico interprete, nel tempo antico, della filosofia politica, tracciando in tal senso (direzione) un particolare profilo del personaggio, che nella storia del pensiero greco è considerato l’iniziatore della filosofia morale. In questo modo genera l’interrogativo su quali siano i veri confini tra etica e politica, soprattutto quando vediamo che nei riferimenti ad Aristotele, si avvale dei pensieri tratti dall’Etica Nicomachea. Ma a guardar bene, nel testo in esame, la riflessione della Arendt si muove proprio sui confini tra atteggiamenti della coscienza privata, quindi di carattere etico, e azioni individuali della vita pubblica, i tratti della sua filosofia politica che traccerà compiutamente nell’opera successiva: “Vita activa” (1958).
La distinzione tra il pensiero di Socrate e quello di Platone consiste, a suo modo di vedere, nella diversa configurazione che essi danno alla doxa, e qui la docente di filosofia bene evidenzia i diversi significati che la parola possiede nella lingua greca: “La parola doxa non significa soltanto “opinione”, ma anche “splendore” e “fama” [2]. In quanto tale si riferisce al campo politico, che è la sfera pubblica in cui ciascuno può vedere, nella diversa configurazione che essi danno alla doxa, e qui la docente di filosofia bene evidenzia i diversi significati che la parola possiede nella lingua greca: “La parola doxa non significa soltanto “opinione”, ma anche “splendore” e “fama” [2]. In quanto tale si riferisce al campo politico, che è la sfera pubblica in cui ciascuno può apparire e mostrare chi egli sia”. Con l’esprimere in pubblico la propria doxa, si tenta di dare risonanza al proprio giudizio, per riscuotere “fama” ed “onore” nella polis. È quello che nelle moderne democrazie occidentali significa fare politica, ovvero acquistare notorietà e popolarità nella comunità sociale, al fine di ricoprire ruoli di rappresentanza e governo nella vita pubblica.
Nell’insieme delle opere platoniche, si è soliti distinguere un gruppo di dialoghi c.d. giovanili, in cui prevale l’insegnamento socratico, rispetto agli altri in cui si va affermando il pensiero proprio di Platone, soprattutto la sua teoria delle eterne Idee, con la svalutazione del mondo sensibile rispetto alla sfera intellettiva. Questa distinzione viene chiaramente evidenziata dalla Arendt, che in questo discrimine individua la differenza di atteggiamento e di pensiero fra le due figure di Socrate, il maestro, e Platone il suo discepolo. apparire e mostrare chi egli sia”. Con l’esprimere in pubblico la propria doxa, si tenta di dare risonanza al proprio giudizio, per riscuotere “fama” ed “onore” nella polis. È quello che nelle moderne democrazie occidentali significa fare politica, ovvero acquistare notorietà e popolarità nella comunità sociale, al fine di ricoprire ruoli di rappresentanza e governo nella vita pubblica.

[2] Sulla diversità di significati del termine doxa rimando all’estratto di un mio scritto: “L’uomo e il suo destino”, dove questi significati sono illustrati, con riferimento alla gloria.

Silvio Minieri ha detto...

Nell’insieme delle opere platoniche, si è soliti distinguere un gruppo di dialoghi c.d. giovanili, in cui prevale l’insegnamento socratico, rispetto agli altri in cui si va affermando il pensiero proprio di Platone, soprattutto la sua teoria delle eterne Idee, con la svalutazione del mondo sensibile rispetto alla sfera intellettiva. Questa distinzione viene chiaramente evidenziata dalla Arendt, che in questo discrimine individua la differenza di atteggiamento e di pensiero fra le due figure di Socrate, il maestro, e Platone il suo discepolo.
La dialettica platonica, l’arte di interrogare e interloquire, al fine di raggiungere la verità nel dialogo, corrisponde al metodo socratico di intavolare discorsi con i propri concittadini e nel suo modo di porre gli interrogativi. Socrate, rileva la Arendt, in questo suo dialeghestai, non cercava di imporre un proprio punto di vista, ma aveva lo scopo di aiutare l’interlocutore a partorire la verità della sua doxa, il concetto. La sua era un’arte, che richiamava l’attività di ostetrica della madre Fenarete, ma essendo sterile, aveva ricevuto dal dio il dono della maieutica.
Non scendiamo nella vicenda della condanna di Socrate, che peraltro l’Arendt appena sfiora, affermando che il filosofo nel corso del suo processo, non riuscì a “persuadere” i concittadini della sua innocenza. Sottolinea però, con la sua particolare acribia, che la parola “persuasione” male traduce il verbo greco “peithein”, “la cui rilevanza politica è indicata dal fatto che Peitho, la dea della persuasione, aveva un tempio ad Atene.” In tale prospettiva, scrive la Arendt: “Per gli ateniesi la persuasione, pethein, era la forma specificamente politica del discorso. Essi andavano fieri del fatto che, diversamente dai barbari, sbrigavano gli affari politici in forma discorsiva e senza costrizione, e in questo senso consideravano la retorica, l’arte della persuasione, come l’arte più elevata e più autenticamente politica.”
Platone, sostiene la Arendt, osservando l’esito del processo, in cui l’oratoria non era servita a Socrate ad evitargli la condanna, disprezzava l’opinione, contrapponendo alla doxa la verità. Ma la separazione della filosofia dalla politica, il mondo ideale della verità da quello reale della doxa spiega l’impossibilità di Platone ad attuare il suo modello politico ideale nella realtà della politica. Socrate non cercava di convincere gli altri, ma cercava di rivelare nella doxa altrui la luce della verità, secondo l’etimo proprio di doxa come splendore. È questo il motivo per cui i primi dialoghi di Platone, quelli giovanili, hanno carattere aporetico, vale a dire non raggiungono una conclusione, non definiscono la verità nella ricerca del bello, del giusto, del coraggio, della temperanza, delle virtù dell’anima, l’aspetto etico dell’uomo. È la prova, per la Arendt, dell’atteggiamento politico di Socrate: “Il compito del filosofo, allora, non è quello di governare la città, ma è quello di essere il suo “tafano”, di rendere i cittadini più veritieri”. Di conseguenza il fine di Socrate non è quello di distruggere la doxa, l’opinione, ma di rivelarne la sua luce di verità.

Silvio Minieri ha detto...

3. Il dialogo silenzioso
È un percorso particolare quello della Arendt, nel voler assegnare a Socrate il ruolo di iniziatore della filosofia politica, perché incrocia necessariamente l’aspetto etico del suo insegnamento. Il motto delfico “Conosci te stesso”, ricorrente in diversi dialoghi platonici [3], viene indicato come una regola guida di Socrate: “Soltanto se conosco quel che appare a me e solo a me, e che resta quindi legato alla mia esistenza concreta, posso comprendere la verità. Una verità assoluta, quella verità che sarebbe sempre la stessa per tutti gli uomini, e che resterebbe sempre slegata e indipendente dall’esistenza di ciascuno, non può esistere per i mortali.”
In questo passaggio, la Arendt ci mostra, attraverso la figura di Socrate, il senso ultimo della filosofia greca, che è aspirazione alla sapienza, inattingibile ai mortali e mai raggiunta, perché la sapienza appartiene esclusivamente al dio.
Ecco che cosa scrive sul tema Giovanni Reale: “Sul preciso significato del messaggio che il motto “Conosci te stesso” comunicava a chi entrava nel tempio per avere rapporto con Apollo e con il suo Oracolo, si può ben dire che gli studiosi – malgrado alcune divergenze – hanno raggiunto un accordo di fondo. Apollo invitava l’uomo a riconoscere la propria limitatezza e finitezza, e quindi a mettersi in rapporto con il dio, che è completamente diverso da lui, sulla base di questa precisa consapevolezza. Dunque, a chi entrava nel tempio di Delfi veniva detto con quel motto quanto segue: “Uomo, ricordati che sei un mortale e che, come tale, ti avvicini al dio immortale.”
(Giovanni Reale, “Socrate”, Milano, 2000, p. 49)
Su questa impossibilità per l’uomo di “scalare il cielo inflessibile”, secondo una massima simile, che ci ricorda il pericolo della hybris, e quindi rimanda al giudizio dell’uomo il suo sapere, soltanto dunque è doxa. Ecco perché Socrate proclama: “So di non sapere”, volendo rendere manifesto che non era in possesso di una verità valida per tutti. Al massimo, attraverso il suo continuo interrogare i concittadini, gli era consentito di conoscere la doxa, ossia come la verità si rivelava per ognuno in maniera diversa dagli altri. Scrive la Arendt: “L’oracolo delfico onorò Socrate del titolo di “più sapiente di tutti gli uomini”, perché aveva accettato i limiti della verità per i mortali, cioè i limiti posti dal dokein, dall’apparire; e perché aveva scoperto, in opposizione ai Sofisti, che la doxa non è un’illusione soggettiva né una distorsione arbitraria, che la verità vi aderisce anzi immancabilmente. […] Socrate è il più grande di tutti i Sofisti, poiché pensava che ci fossero o almeno ci dovessero essere tanti logoi diversi quanti sono gli uomini – e che è l’insieme di tutti questi logoi a formare il mondo umano, dal momento che gli uomini vivono insieme in modo discorsivo.” [4]

Silvio Minieri ha detto...

[3] Carmide, 164d3-165a5; Alcibiade maggiore, 124ab, 129a, 130e; Fedro 229e4-5.

[4] “In effetti, proprio dal responso dell’oracolo di Delfi, che lo giudicò il più sapiente dei Greci, Socrate ha fatto iniziare la propria attività in modo costante e sistematico. In secondo luogo, va messa in rilievo la dimensione sociale che il “Conosci te stesso” assunse con Socrate. Infatti egli pone ad esame “sé stesso e gli altri”. […] Anche il dialogo platonico “Alcibiade maggiore” contiene pagine essenziali su tale argomento […] in quanto in esse viene dimostrato come l’uomo sia la sua anima e come il compito principale dell’uomo sia la cura dell’anima. Qui ci limitiamo a rilevare il richiamo al motto del tempio di Delfi: “Orsù, mio caro, dai retta a me e all’iscrizione di Delfi: “Conosci te stesso” (Alcibiade maggiore, 124ab) “Ma è forse facile conoscere sé stessi ed era un buono a nulla colui che ha posto quella iscrizione sul tempio di Delfi, oppure si tratta di una cosa difficile e non alla portata di tutti?” (Ivi, 129a) “L’anima ci ordina di conoscere colui che comanda “Conosci te stesso” (Ivi, 130e). È bene inoltre rilevare che la soluzione del problema della conoscenza e della cura di sé viene presentata come cura essenziale per una preparazione adeguata del vero uomo politico, capace di mettere in atto nella polis ciò che permette di “ben governarla e salvarla”. Dunque, la conoscenza e la cura di sé stesso hanno un valore sociale e politico, che per il Greco classico coincide con il valore morale.” (Reale, op. cit., pp. 58-59)

Silvio Minieri ha detto...

Nel famoso saggio, “La società aperta e i suoi nemici” (1944), Popper stabilisce una netta separazione tra Socrate e Platone, e presenta Socrate come un esponente «grande generazione» di Pericle e dei Sofisti, i quali furono in grado di porsi di fronte a una società in cambiamento come portatori di un pensiero critico e di confrontarsi politicamente con spirito di tolleranza, a garanzia dei valori di libertà e indipendenza, che consentono lo sviluppo autonomo di ognuno. In tale quadro, Socrate è raffigurato come il teorico della società aperta e il più grande dei Sofisti, a differenza di Platone, il suo discepolo, che ne tradisce l’insegnamento ed espone una dottrina tribale e totalitaria. Socrate, invece, è l’esponente di una filosofia umanitaria che pone l’uomo al centro della società e fonda la libertà individuale sulla razionalità. Per certi versi, il Socrate politico di Popper, rassomiglia molto a quello della Arendt, in relazione anche al tradimento del pensiero del maestro da parte del discepolo Platone, per cui non si può escludere la suggestione esercitata verosimilmente dalla lettura del testo di Popper [5]. Bisogna però dire che di Platone, che pure si allontana dal pensiero di Socrate, la Arendt traccia un diverso profilo, per quanto riguarda il disegno del suo modello politico, ispirato alla traduzione in Leggi delle Idee divine ed eterne.
“È molto meglio essere in disaccordo con il mondo intero, piuttosto che, essendo uno, essere in disaccordo con me stesso.” [6] Questa massima, osserva la Arendt costituisce “l’affermazione chiave del convincimento socratico che la virtù può essere insegnata e appresa.” In tal modo, l’atteggiamento etico interiore di Socrate viene a caratterizzare il suo profilo politico, quando egli nella polis esterna questo suo dialogo silenzioso con sé stesso nei discorsi con gli altri.
“Secondo Socrate, il principio guida per l’uomo che espone in modo veritiero la propria doxa è “essere d’accordo con sé stesso”, non contraddirsi e non dire cose contraddittorie. In realtà, la maggior parte delle persone fa proprio questo, anche se tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo paura di farlo.” Qui, un atteggiamento individuale della coscienza viene generalizzato, partendo dall’esempio socratico, e viene trovato anche un riferimento nella definizione aristotelica: έτερος γάρ αυτός ο φίλος εστίν, “eteros gar autos o philos estin”, l’amico è un altro sé stesso. (Etica Nicomachea, 1170b 6-7). La Arendt si spinge a rintracciare la genesi del principio di non-contraddizione, con cui Aristotele ha fondato la logica occidentale, nella scoperta di Socrate: “Essendo uno, io non mi contraddirò e al tempo stesso potrò contraddirmi, perché nel pensiero io sono due-in-uno e quindi non vivo soltanto con gli altri, per i quali sono uno, ma anche con me stesso. La paura della contraddizione è paura della scissione, del non poter restare uno; e questo spiega perché il principio di non contraddizione sia divenuto la regola fondamentale del pensiero.”

Silvio Minieri ha detto...

[5] Nel 1944, Karl Raimund Popper pubblica “La società aperta e i suoi nemici”, la cui stesura era iniziata nel 1938 e completata negli anni del conflitto mondiale, in Nuova Zelanda, dove era emigrato da Vienna, perché ebreo. Nel libro viene tracciato il tema della lotta perenne contro il totalitarismo, incarnata in quel periodo storico dallo scontro delle democrazie occidentali contro fascismo e nazismo, ma oltre a questi anche contro il comunismo sovietico.
La tesi generale di Popper è costituita da due opposte visioni della società. Da una parte, vi è il modello di una società chiusa e tribale, in cui la personalità individuale viene annullata dal ruolo fisso occupato da ognuno nella società. A questo modello, Popper associa l’ideologia dello storicismo, vale a dire l’idea che la storia sia governata
da leggi universali determinate, a cui l’individuo è completamente assoggettato. I principali rappresentanti dello storicismo sono, a suo parere, Platone, Hegel e Marx. Al polo opposto, vi è il modello della società aperta, sorto in Grecia intorno al V secolo grazie alle possibilità di scambio di culture attraverso le comunicazioni marittime e il commercio. In questo tipo dii società, l’individuo è libero e pienamente responsabile delle sue azioni. Al totalitarismo della società chiusa viene quindi a contrapporsi l’umanitarismo della società aperte. Questa fonda i suoi principi sull’eliminazione di ogni privilegio e il libero agire dei singoli, allo stato spetta il compito di proteggere la libertà dei suoi cittadini. Il modello di società aperta di Popper disegnato da Popper non fa altro che ripercorrere il liberalismo tipico della società anglosassone, sorto all’inizio grazie alla libertà di rapporti commerciali e marittimi.
Nell’analisi fatta da Popper, risulta inoltre una diversa interpretazione che egli dà del pensiero socratico rispetto a quello di Platone. Socrate viene associato a Protagora e presentato come una delle grandi figure dei Sofisti, ai tempi della democrazia di Pericle, che seppero porsi di fronte al cambiamento con indipendenza di giudizio e pensiero critico. La libertà era la garanzia per i singoli di svilupparsi in via autonoma e la politica un campo di confronto aperto e tollerante. Nell’ottica popperiana, Socrate è il più grande di tutti i sofisti, il teorico della società aperta, fondata sul dialogo e il dibattito libero e razionale tra cittadini; Platone, il suo grande discepolo, ne tradisce completamente il pensiero. L’utopia platonica di idealizzazione del passato, che deve contrastare il cambiamento e la decadenza, per tornare allo stato ideale dell’età dell’oro, finisce per bloccare ogni spinta verso il nuovo e ogni iniziativa di progresso. È la stessa lettura del Platone totalitario e reazionario, data nei decenni precedenti in Germania, ma di cui Popper rovescia le conclusioni, in consonanza con certe critiche di matrice liberale, delineatesi nello stesso periodo.

[6] Come viene notato dalla curatrice del testo, la massima riferita della Arendt è in realtà la sintesi di un passo del “Gorgia” (482 b7-c3) di Platone: “E invece io credo, o carissimo, che assai meglio sarebbe per me suonare una lira scordata e che stonato fosse il coro da me istruito, e che la maggior parte degli uomini non fosse d’accordo con me e che dicesse il contrario di ciò che dico io, piuttosto che essere io, che pure sono uno solo, in disaccordo e in contraddizione con me stesso.”

Silvio Minieri ha detto...

È questo il nodo fondamentale della riflessione filosofico- politica di Hannah Arendt, la cui origine deve farsi risalire al momento formativo dei suoi anni giovanili, quando studentessa diciottenne si recò all’Università di Marburgo, per studiare filosofia, ascoltando l’insegnamento di Heidegger, diplomandosi poi ad Heidelberg con Jaspers, con la tesi di dottorato su “Il concetto di amore in Agostino.” Non approfondiamo qui l’esame della trattazione dei temi agostiniani da parte della giovane ricercatrice, ma ci limitiamo ad osservare come la filosofia neoplatonica del santo vescovo d’Ippona sottolinea la scissura, nell’amore di Dio, tra la città degli uomini e la Gerusalemme celeste. Allo sguardo della Arendt, una tale diversione si rivela come una fuga dalla realtà, la cui prima impronta deve ricercarsi nella dottrina delle Idee di Platone, il mondo intellettivo in contrapposizione a quello sensibile, che è poi la scena reale del mondo, in cui trascorriamo la nostra vita. Ecco perché, lei vede nella filosofia di Platone, che radica le realtà politiche nelle cose divine, un abbondono e tradimento dell’insegnamento socratico che si svolgeva quotidianamente nella piazze di Atene.
Nel dialogo silenzioso con sé stesso, in cui si realizza la solitudine del pensiero come atteggiamento della coscienza, che poi si rivela nel discorso, l’uomo non è mai del tutto “separato da quella pluralità, che in fondo è il mondo umano, ciò che nel senso più generale del termine siamo soliti chiamare “umanità”. […] Gli uomini non soltanto esistono al plurale, come tutto ciò che è terreno, ma portano in sé un indizio di questa pluralità.” Tutto l’insieme di dubbi che accompagnano la mia coscienza, dice la Arendt, rappresentano tutti gli uomini, l’umanità degli uomini nella mia solitudine. Solo Dio è solo davvero. “Essere soli significa essere senza uguali: “uno è uno, tutto solo, e così sempre sarà”, recita un’antica filastrocca inglese, che ha l’audacia di far comprendere alla mente umana quella che può essere solo la suprema tragedia di Dio.” In queste parole, tratte da una riflessione della Arendt “americana” sulla natura del totalitarismo (1952-53), a noi sembra rispecchiarsi, nella sua scelta delle fonti inglesi, quasi un subconscio allontanamento dalla sua formazione culturale tedesca.

Silvio Minieri ha detto...

Vogliamo riferirci allo spiritualismo di Schiller, un poeta che pure lei aveva amato citare nella sua definizione di sé stessa:“Das Mädchen aus der Fremde”, “La fanciulla venuta da lontano”. È lo stesso Schiller, che canta la solitudine del gran Signore dei Mondi, i cui versi finali dell’ultima strofa del poema “Die Frendeshaft” ,“L’amicizia”, Hegel, leggermente variandoli, pone a sigillo della sua “Fenomenologia dello Spirito”.
“Era senza amici, il grande Signore dei Mondi:
sentì una mancanza e perciò creò gli Spiriti,
che fossero felici specchi della sua felicità.
L’ Essere supremo non trovò nulla che gli fosse uguale:
dal calice dell’ intero regno degli Esseri
sale spumeggiando verso di lui la sua infinità“.
“Il dialogo silenzioso è indice di pluralità , ma il modello è il dialogo con un altro. Soltanto per il fatto che posso parlare con gli altri, posso parlare anche con me stesso, ovvero pensare.” Questa possibilità comporta l’identità tra discorso e pensiero, che insieme formano il logos. Scrive la Arendt: “A tale identità Socrate aggiunse il dialogo “tra me e me”, inteso come condizione basilare del pensiero. E la rilevanza politica di questa scoperta sta nella tesi seguente: la solitudine, intesa prima e dopo Socrate come prerogativa e habitus professionale dei filosofi e chiaramente sospettata dalla polis di essere una condizione antipolitica, è al contrario la condizione necessaria per il buon fondamento della polis – una garanzia migliore delle regole di comportamento imposte con la legge e con la paura della punizione.” Socrate aveva scoperto la coscienza morale, anche se non era riuscito a darle un nome. Quel daimon che gli suggeriva il comportamento da tenere nelle sue azioni fu considerato dai suoi giudici una forma di introduzione di nuove divinità e disconoscimento di quelle tradizionali della Città e per tale motivo (asebeia) lo condannarono a morte.

Silvio Minieri ha detto...

VERITÀ E LIBERTÀ
La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario

1. IL LINGUAGGIO DEI FATTI
“Oggi tocca a noi, domani o dopodomani sarà un altro paese, perché l’imperialismo di Mosca non conosce limiti e sta solo cercando di prendere tempo.” Furono le ultime parole di un annuncio tristemente profetico arrivate in Occidente dall’Ungheria libera, pronunciate da radio Kossuth, alla fine della rivoluzione ungherese (23 ottobre – 11 novembre 1956), come ricordato da Hanna Arendt, nel suo saggio: “La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario”, Raffaello Cortina Editore, 2024.
Il testo della Arendt esamina i fatti di Ungheria in tre scansioni: 1. La Russia dopo la morte di Stalin; 2. La rivoluzione ungherese; 3. Il sistema dei satelliti.
Il nodo principale da sciogliere per cogliere l’essenza di quella spontanea ribellione di popolo, l’insurrezione popolare, che è stata la rivoluzione ungherese, consiste nella comprensione di un dato di fatto: “la capacità della gente di distinguere tra verità e menzogna a livello fattuale ed elementare.” E aggiunge la Arendt: “Fino a quando la situazione è questa, l’oppressione verrà avvertita per quel che è, mentre le ribellioni continueranno ad aver luogo in nome della libertà.” Quindi continua: “Consapevole di “star vivendo in mezzo alla menzogna”, il popolo ungherese, dai più giovani ai più anziani, domandò in tutti i manifesti e all’unanimità qualcosa che (a giudicare dalle parole dette durante la crisi di successione, che sono l’unico elemento su cui possiamo fare affidamento per un giudizio generale) persino l’intellighenzia russa dimenticò di sognare: la libertà di pensiero. Forse potrebbe essere sbagliato concludere che la libertà di pensiero, che mosse alla ribellione gli intellettuali, abbia trasformato questa stessa ribellione in una rivoluzione in grado di diffondersi come un incendio fino al punto che nessuno, tranne la polizia politica, sarebbe stato disposto a muovere un dito per il regime.” (RU, 2, 55-6) [1] Dopo aver segnalato questa interpretazione come un possibile errore, ossia la trasformazione della ribellione in rivoluzione, per la spinta alla rivolta data dalla manifestazione della libertà di pensiero degli intellettuali, la Arendt ne segnala un altro: “Un altro errore simile è pensare che la rivoluzione sia stata principalmente un affare interno al partito – una rivolta dei comunisti “veri” contro i comunisti “falsi” – soltanto perché si è scatenata in maniera prevalente tra i membri del Partito comunista. I fatti parlano un linguaggio completamente diverso. Ma quali sono i fatti?” Ecco, su questo interrogativo si fonda l’intera questione: la corretta narrazione di quello che accadde in quei giorni, senza dare interpretazioni ovvero seguendo il linguaggio dei fatti: “All’improvviso e in maniera del tutto spontanea, una manifestazione studentesca disarmata, innocua e nata da poche migliaia di persone, si è trasformata in un’enorme folla, che si è fatta carico di portare una delle richieste più urgenti degli studenti: il rovesciamento e la rimozione di una delle statue di Stalin in una delle piazze di Budapest.” (RU, 2, 56)

[1] RU “La rivoluzione ungherese”, i numeri indicano il paragrafo e le pagine di testo.

Silvio Minieri ha detto...

Si è trattato dell’accrescimento di una manifestazione “spontanea” di popolo, non un’azione collettiva, “guidata” da intellettuali ribelli, né tanto meno provocata da un conflitto di interessi di potere tra diverse fazioni di partito. Inoltre, all’autrice non sfugge il gesto altamente simbolico, proprio di ogni insurrezione popolare per rovesciare il regime: l’abbattimento dei simboli del potere, in genere la statua del dittatore. Questo fenomeno dell’impulso distruttivo di massa è stato ampiamente investigato e studiato da Elias Canetti, premio Nobel della letteratura 1980, nella sua voluminosa opera: “Massa e Potere”, Adelphi, 1981.
“Sarebbe però errato credere che l'elemento decisivo sia la facilità di rompere. Si sono aggredite delle statue di dura pietra e non ci si è dati pace, finché non sono state sfigurate, rese irriconoscibili. Da cristiani sono state distrutte teste e braccia di divinità greche. Da riformatori e da rivoluzionari sono state abbattute le immagini dei santi, a volte da luoghi altissimi, a rischio della propria vita; e spesso la pietra che si cercava di spezzare era talmente dura da costringere a lasciar l'opera a metà. La distruzione di immagini che raffigurino qualcosa è distruzione di una gerarchia che non si riconosce più. Si violano distanze stabilite in generale, che sono evidenti a tutti e valgono ovunque. La loro rigidità era l'espressione della loro permanenza; si crede che esistano da tempo, ritte e inamovibili; era impossibile avvicinarle con intenzione ostile. Ora sono travolte e giacciono in rovina. In quest'atto si è compiuta la scarica.” Con queste parole Canetti descrive quello che ai suoi occhi “vede” come il fenomeno di distruzione voluta da una massa di gente, descrive l’effetto generato dalla causa, individuata nella scarica. “Il principale avvenimento all'interno della massa è la "scarica". Prima, non si può dire che la massa davvero esista: essa si costituisce mediante la scarica. All'istante della scarica i componenti della massa si liberano delle loro differenze e si sentono uguali.”
Siamo alle prime battute del saggio, questo L’incipit: “LA MASSA – Capovolgimento del timore d'essere toccati. Nulla l'uomo teme di più che essere toccato dall'ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l'uomo evita d'essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall'essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell'aggredito. Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all'improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci.”

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Le parole di Canetti, che inaugurano il suo pensiero – trentotto anni di riflessione – sui rapporti tra massa e potere, non potevano descrivere meglio il “terrore” di un popolo oppresso dal potere totalitario, ed al potere si oppone la massa. Con la scarica, si realizza la liberazione della gente da quella notturna paura – “qualcosa che dal buio, d'improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci”. È quella paura da sempre sperimentata da chi vive in regimi totalitari, il bussare alla porta delle quattro mura di casa dalla polizia politica che viene a prenderti.
Scrive la Arendt: “La dominazione totale vince solo se riesce ad interrompere e ad annientare tutti i normali canali di dialogo, tra persona e persona nelle quattro mura della loro casa, fino ai rapporti pubblici, che nelle democrazie vengono salvaguardati dalla libertà di parola e di opinione.” (RU, 2, 54)
Quello che è un punto di arrivo del discorso, che porta alla “scarica”, è il punto d’inizio dell’analisi di Canetti, che avendo osservato il fenomeno della massa e avendolo “veduto” e “vissuto”, ha poi potuto, a distanza di anni, elaborare il suo pensiero e proporlo nella sua voluminosa opera. Nel 1922, a Francoforte, il giovane Canetti fu testimone diretto delle manifestazioni contro l’assassinio del ministro degli esteri della Repubblica di Weimar, Walther Rathenau, avvertendo una sorta di enigmatica attrazione. Nel 1927, a Vienna, partecipò al grande corteo del 15 luglio, quando fu incendiato il Palazzo di Giustizia, e la polizia sparò, con un esito di novanta morti. Nelle sue memorie, Canetti scriverà, a proposito della massa: «È un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita, e seppure sono arrivato a qualcosa, l’enigma nondimeno è restato tale».
“L’impatto della realtà dei fatti – scrive la Arendt – come tutte le altre esperienze umane, necessita del discorso per sopravvivere all’attimo dell’esperienza, ha bisogno della comunicazione con gli altri per rimanere sicuro di sé.” [RU, 2, 54) E allora si genera la necessità di aggregarsi e fare massa, l’unico modo per sfuggire alla paura e al terrore instaurato dalla dominazione totale, ed anche il mezzo che conduce allo “scoppio” e alla liberazione, come dire alla Rivoluzione.
“Direi di chiamare "scoppio" la trasformazione subitanea di una massa chiusa in massa aperta. Questo processo si ripete di frequente; non va però inteso troppo in senso spaziale. Spesso la massa sembra traboccare da uno spazio in cui si trovava al riparo nella piazza e nelle strade di una città, dove, attraendo tutto a sé ed essendo esposta a tutto, si espande liberamente. Più importante di questo processo esterno è tuttavia quello interno che gli corrisponde: la scontentezza per il numero limitato dei partecipanti, l'improvvisa voglia di "attrarre", la determinazione appassionata di raggiungere "tutti". Dalla Rivoluzione francese questi scoppi hanno acquistato una forma che sentiamo moderna.” Così descrive il fenomeno Elias Canetti, avendo di fronte a sé un quadro astratto, seppure elaborato dalle sue esperienze fondamentali, vissute come osservazione a Francoforte e partecipazione a Vienna.

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2. LA RIVOLUZIONE E LA REPRESSIONE
“Il giorno seguente [alla rimozione e al rovesciamento della statua di Stalin], alcuni di loro sono andati a Radio Budapest, per convincere la stazione a trasmettere i sedici punti del manifesto studentesco, e di nuovo, subito e dal nulla, si è formata una folla immensa, e appena l’AVH, la polizia politica che sorvegliava l’edificio della radio, ha tentato di disperdere i presenti con alcuni colpi di armi da fuoco, è scoppiata la rivoluzione. Le masse hanno attaccato la polizia, impossessandosi subito delle armi; i lavoratori, venuti a conoscenza della situazione, hanno lasciato le fabbriche per unirsi alla folla, l’esercito chiamato a sostenere la polizia, si è invece schierato con la rivoluzione e immediatamente ha messo le sue armi a disposizione del popolo. Ciò che all’inizio sembrava una manifestazione studentesca, in meno di ventiquattro ore, è diventato una potente rivolta armata.” (RU, 2, 56-57)
Riassumendo la realtà dei fatti di Ungheria, la Arendt descrive la concretezza degli avvenimenti, che la riflessione di Canetti aveva prefigurato in forma paradigmatica ed astratta, attraverso il meccanismo della trasformazione della massa chiusa in massa aperta. E se, come abbiamo visto, la trasformazione avviene in maniera improvvisa, essa provoca quello che Canetti definisce lo “scoppio”.
“La massa vera e propria è la massa "aperta", che si abbandona liberamente al suo impulso naturale di crescita. Una massa aperta non ha la chiara sensazione né l'immagine di quanto possa diventare grande. Non prende a modello alcun edificio che conosca e che dovrebbe riempire. La sua misura non è stabilita; vuole crescere all'infinito, e perciò le sono indispensabili sempre più uomini.”
Il modello e la dinamica di massa che l’autore descrive nei primi paragrafi della sua opera – “Massa aperta e chiusa”, “La scarica”, “Impulso di distruzione”, “Lo scoppio” – non contengono riferimenti concreti, ma la loro rappresentazione può ben adattarsi da un punto di vista fenomenologico al fatto storico della rivoluzione ungherese.
Questa viene seguita nel suo svolgersi dalla Arendt, che delinea nei giorni successivi allo scoppio una forma di strutturazione di sistemi consiliari, rimasta senza seguito, per l’intervenuta repressione militare dell’Armata rossa. Un tale esito conduce alla considerazione, anticipata dall’autrice alla fine dell’Introduzione al suo saggio: “Se è vero che come crede Hugh Seton-Watson [“The Hungarian Revolution”], “il 1984 di Orwell è soltanto un incubo e che “il totalitarismo è stato rovesciato una volta e può essere rovesciato di nuovo”, allora in breve possiamo dire: “la rivoluzione ungherese può rivelare di essere stata come … il 1905 del bolscevismo?”
Nell’analisi di quei giorni rivoluzionari, quello che sorprende è la rapidità con cui si disgrega il regime: “Il rapido disgregamento dell’intera struttura di potere del paese – partito, esercito e uffici governativi – e l’assenza di conflitti interni negli sviluppi che si sono susseguiti, è tanto più notevole, se si considera che la rivolta è cominciata chiaramente a causa dei comunisti.” [RU 2, 58-59]

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L’abbattimento della statua di Stalin al culmine della manifestazione studentesca del primo giorno era stato il segnale collettivo, perché come scrive Canetti: “La distruzione di immagini che raffigurino qualcosa è distruzione di una gerarchia che non si riconosce più.” Quell’atto costituiva la “scarica”, come dire lo scoppio della Rivoluzione, che l’intero paese attendeva, per quella causa ormai maturata nell’anima del popolo e dovuta appunto allo stesso regime comunista, come la Arendt indica. Infatti la causa di quel sommovimento popolare in Ungheria, in contemporanea con disordini di piazza anche in Polonia, proveniva proprio dalla Russia, la madrepatria dei paesi satelliti. Il risvolto nazionale della rivoluzione ungherese sta proprio a indicare la decisione del satellite di voler uscire dall’orbita del pianeta di attrazione principale. In proposito, la Arendt è precisa: “Ciò che portò avanti la rivoluzione è stato il puro impeto di un intero popolo unito nell’agire insieme, le cui richieste erano così ovvie a tutti che a malapena c’è stato bisogno di qualche formulazione elaborata. Le truppe russe avrebbero dovuto lasciare il territorio subito e con libere elezioni si sarebbe dovuto mettere in piedi un nuovo governo. La questione non riguardava più come ci si sarebbe dovuti accostare alle varie libertà – di pensiero, di parola, di riunione, di agire e di votare – ma il modo in cui stabilizzare una libertà che ormai era un fatto compiuto, cioè trovare istituzioni politiche che le fossero adeguate.” [RU, 2, 57]
Intanto, vediamo perché l’Arendt dichiara che la causa della rivoluzione ungherese sia stata opera dei comunisti. In che senso essi ne sono stata la causa? Non certo, come detto, per una rivolta dei comunisti “veri” contro i comunisti “falsi”. Diciamo, invece, per quello che la Arendt indica come un “malinteso catastrofico”: la ricezione nei paesi satelliti del fenomeno del “disgelo”, a seguito del famoso discorso tenuto da Kruscev al XX Congresso del partito comunista dell'Unione Sovietica (PCUS), tenuto a Mosca dal 14 al 26 febbraio 1956, in cui denunciò il culto della personalità di Stalin, aprendo il processo alla destalinizzazione (“disgelo”).
“Senza ombra di dubbio è stato questo discorso a far esplodere la ribellione in Polonia e la rivolta in Ungheria”. Radio Varsavia aveva diffuso la notizia che il 28 giugno di quell’anno gli operai di Poznań scioperarono e insorsero contro il regime comunista mantenuto dall'Unione Sovietica. La rivolta, repressa con l’intervento dei carri armati, esprimeva il vivo fermento di libertà presente in tutta la Polonia, e si propagò anche in Ungheria, dove esplose nell’ insurrezione del 23 ottobre.

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Scrive la Arendt: “Se si considerano questi eventi alla luce di quel che è accaduto dopo la morte di Stalin, non si può fare a meno di domandarsi come tutto ciò sia stato possibile. È parso ovvio a tutti fin dall’inizio che un discorso tanto decisivo sarebbe stato recepito in maniera diversa dai paesi satelliti rispetto alla Russia. Il tutto a causa di un malinteso catastrofico nelle intenzioni dell’oratore. Quel che si è manifestato grazie a questa incomprensione, però, è una differenza di pensiero, che persiste tuttora nelle popolazioni dei paesi satelliti ed è anche piuttosto evidente al confronto con la popolazione dell’Unione Sovietica, ormai inquietantemente assuefatta alla mentalità totalitaria.” (RU 2, 45-46) Il giudizio della Arendt sulla differenza di pensiero, consistente nella diversa valutazione dei valori di Verità e Libertà, è datato 1958, ma resta attuale ancora oggi, quando, dopo la caduta del muro del 1989, tutti i paesi satelliti si sono sganciati dall’orbita russa e quelli baltici hanno riacquistato l’indipendenza. La guerra in Ucraina, iniziata con l’invasione del 24 febbraio 2022, e tuttora in corso, risale ad uno scontro dovuto a questo differente pensiero di libertà degli ucraini rispetto alla popolazione russa, evidenziato dalla Arendt quasi settant’anni fa. E non è un caso che esso, il pensiero della libertà, sia penetrato in quel paese, che ancora oggi i governanti russi vogliono considerare una provincia del loro impero, come indica il nome Ucraina, che vuol dire “Marca”, “Terra di confine”.
“La sconcertante ambiguità del discorso di Kruscev è andata persa per i lettori dei paesi satelliti, i quali l’hanno inteso proprio come l’avrebbe recepito un lettore medio nel mondo libero.” Siamo ancora nel mondo dei due blocchi separati dalla cortina di ferro, ed è in tale contesto che la Arendt scrive: “Kruscev ha confermato quella che è stata da sempre la principale accusa che il mondo libero ha rivolto al regime di Stalin: il governo stalinista non era comunista, ma un’amministrazione criminale che ha governato in modo antidemocratico e anticostituzionale , senza alcuna restrizione che ne vincolasse il potere attraverso la legge. Se, dopotutto, da questo momento in poi l’unico problema rimasto consiste nell’obiettivo, per cui l’Unione Sovietica vuole sviluppare un’economia socialista, mentre l’America vuole perseguire un’economia di libero mercato, allora nulla potrebbe impedire a entrambi di coesistere e cooperare pacificamente e in buona fede su tutte le questioni di politica mondiale, assieme ai loro rispettivi alleati.” [RU, 2, 46-47]

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3. L’IMPERIALISMO TOTALITARIO
“Per quanto spontanea sia stata la rivoluzione ungherese, non la si può comprendere al di fuori del contesto degli sviluppi successivi alla morte di Stalin. Come sappiamo oggi, la sua morte avvenne alla vigilia di una nuova gigantesca epurazione e il fatto che sia deceduto per cause naturali o per omicidio non ha inciso sull’atmosfera di intensa paura che circolava tra le alte gerarchie del partito. Non esistendo alcun successore nominato da Stalin, né qualcuno abbastanza veloce da prenderne il posto o che si sentisse all’altezza del compito, la lotta per la successione iniziò subito dopo, innescando una grave crisi nella Russia sovietica e nei paesi satelliti. Ancora adesso, quasi sei anni dopo la sua morte, non siamo sicuri se si sia arrivati a una soluzione definitiva.” [RU, 1, 15] La Arendt scrive a pochi anni dai fatti storici di cui parliamo, ma a distanza di quasi settant’anni quello che traspare dal suo giudizio sui paesi con dittature totalitarie non è cambiato. Infatti scrive: “Una cosa è certa: uno dei difetti più evidenti della dittatura totalitaria è la sua apparente incapacità di trovare una risposta al problema della successione.” Oggi, alla fine del 2024, se ci interroghiamo su chi sarà il successore di Putin, non sappiamo trovare una risposta. E quello che la Arendt scrive per Stalin, lo dà per scontato anche per Hitler.
In riferimento a quello che era avvenuto immediatamente alla morte di Stalin, la Arendt così commenta: “La paura è stata sì uno dei motivi più potenti per l’istituzione della “direzione collegiale” […] i candidati alla successione si temevano soltanto fra loro e certamente non temevano una qualche “controrivoluzione” del popolo. La preoccupazione condivisa non riguardava la ricerca di qualcosa che li proteggesse dalle masse, ma aveva a che fare con la creazione di una sorta di garanzia che non si sarebbero uccisi a vicenda.” [RU, 1,18] Chi ha buona memoria delle cronache di allora certamente ricorda che Kruscev non faceva ironicamente mistero del fatto che andasse alle riunioni del Politburo con la pistola in tasca.
Il suo discorso al XX Congresso del PCUS del 1956 sembrava invitare al “disgelo”, la destalinizzazione, ma la Arendt ne coglie l’inganno: “Il discorso di Kruscev agli intellettuali, in cui annunciava ufficialmente la fine del “disgelo” [completamento del processo di destalinizzazione], li informava che erano arrivati a “una comprensione errata dell’essenza della critica del partito attorno al culto della personalità di Stalin”, avevano sottovalutato la “immagine positiva di Stalin” e per tale ragione, sarebbero dovuti tornare al “realismo socialista… [insieme alle sue] illimitate opportunità per realizzare “i loro onorevoli talenti”. [RU, 1, 20] Un discorso che non era molto di più che una performance retorica, commenta la Arendt. “Mentre parlava, Kruscev ha reso nota anche l’istituzione di “sindacati creativi”, attraverso cui “la crescita creativa di ogni scrittore, artista, scultore etc.” sarebbe stata sottoposta “all’attenzione costante dei compagni”. [RU, 1, 20]

Silvio Minieri ha detto...

In sostanza, per la Arendt, con queste parole, Kruscev dichiarava finito il terrore poliziesco del regime di Stalin, ma lo rimpiazzava con la concessione del potere di controllo della polizia segreta a una specie di potere di massa altamente organizzato e istituzionalizzato. Era una concessione di fiducia alle persone di un controllo reciproco tra di loro, come dire assumere la funzione di poliziotti, pronti a consegnare all’occorrenza tutte le vittime necessarie e tenere soggiogata la popolazione al terrore. “È alquanto impressionante – nota la Arendt – che la sanguinosa repressione della rivoluzione ungherese non abbia rappresentato il solito metodo stalinista […] Stalin probabilmente avrebbe preferito un’operazione di polizia a una militare.” Subito dopo, però, chiarisce: “È troppo presto per dire se questo sorprendente cambiamento di metodo sarà un successo. […] Kruscev è tornato all’impiego sconsiderato dei metodi di Stalin, sigillando questo ritorno con l’uccisione di Nagy.” [RU, 1, 23-24] Si può capire questo passaggio del discorso, tenendo presente che l’esecuzione di Nagy è avvenuta circa due anni dopo la fine dell’insurrezione, e come afferma la Arendt: “perché è avvenuto subito dopo la promessa, enormemente pubblicizzata, fatta a Gomulka [Polonia] di risparmiargli la vita. Stalin, infatti, così amava dimostrare la propria determinazione a non piegarsi per il bene della legalità o della moralità: non semplicemente proclamandola , ma facendone fare esperienza diretta a tutti i suoi compagni.” [RU, 2, 24-25]
La repressione della rivoluzione ungherese ad opera dell’esercito sovietico mostrava il vero volto dell’imperialismo totalitario russo: “La stazione della radio libera e comunista Rajk aveva dichiarato che “non era stato Stalin il solo a usare il comunismo come pretesto per espandere l’imperialismo” e che tra gli obiettivi della rivoluzione ungherese vi era anche quello di “fornire un quadro chiaro del brutale dominio coloniale russo.” [RU, 3, 79]
Un giudizio storico sull’espansionismo sovietico del dopoguerra non può prescindere dai fatti di Budapest: “Lo sviluppo e l’espansione della Russia postbellica devono essere viste alla luce dello splendore ardente della rivoluzione ungherese. Questo chiarore però non è stabile, chi lo negherebbe? Brilla, tremola. Eppure non vedremmo nulla se non avessimo questa luminosità tanto vacillante. Se vogliamo conoscere la politica a partire da quel che accade nel mondo (e non c’è altro modo per comprenderla), i nostri occhi dovranno abituarsi a un tale crepuscolo.” (RU, 3, 79-80)
Che cosa vuol dire la Arendt con queste parole? Due verità, di cui l’una è corollario dell’altra: 1) la politica si può comprendere soltanto conoscendo “il linguaggio dei fatti”, ossia “quel che accade nel mondo”; 2) La rivoluzione ungherese, la sua luce crepuscolare, è quel chiarore instabile che ci dà la possibilità di vedere e giudicare gli avvenimenti politici della storia del mondo. Ed è questa la possibilità che consente alla Arendt di tracciare un quadro storico dell’imperialismo totalitario.

Silvio Minieri ha detto...

“Se nel fervore della battaglia, chi combatteva ha detto che ciò contro cui stava lottando era l’imperialismo, allora la scienza politica dovrà accettare questo termine, per quanto noi, per ragioni concettuali e storiche, avremmo preferito riservare la nozione di “imperialismo” all’epoca dell’espansione coloniale dell’Europa, cominciata nell’ultimo trentennio del XIX secolo, conclusasi poi con la liquidazione del dominio britannico dell’India. Pertanto, in questa sede, sarà nostro compito analizzare quale tipo di imperialismo è emerso dal governo totalitario.” (RU, 3, 80-81)
Dopo aver delineato la storia dell’imperialismo occidentale, indicandone le origini e le caratteristiche, e quindi gli elementi fondanti e contraddistintivi, la Arendt ne traccia la differenza con l’imperialismo totalitario.
“La conquista imperialista, infatti, difficilmente è mossa da motivi politici: è quasi sempre stimolata da ragioni economiche. […] L’imperialismo, quindi, fu il risultato del tentativo dello Stato-nazione di sopravvivere come entità politica, in modo da dimostrarsi all’altezza delle esigenze del mercato mondiale moderno nelle condizioni di una nuova economia industrializzata. Il problema dell’imperialismo fu, però, che gli interessi economici della nazione iniziarono a richiedere un tipo di espansione che non era più giustificabile soltanto nell’ottica del nazionalismo tradizionale, centrato sull’insistenza sull’identità storica di popolo, Stato e territorio.” (RU, 3, 81-82)
Quello che contraddistingue l’imperialismo dello Stato-nazione è l’aspetto coloniale, ovvero il colonialismo, un fenomeno che insieme al nazionalismo avrebbe generato anche varie forme di razzismo, rispetto alle popolazioni sottomesse. “Sollecitata dalla naturale solidarietà degli “uomini bianchi” in terre sconosciute, la coscienza nazionale europea venne pervertita in coscienza razziale.” Ed in tale situazione si venne a creare il rischio di un possibile effetto di ritorno, che portò al fallimento dell’imperialismo coloniale: “Il timore che i metodi imperialistici di dominazione potessero avere un effetto boomerang sulla madrepatria è stato abbastanza forte, tanto da fare in modo che i parlamenti nazionali diventassero, contro le amministrazioni coloniali, un baluardo di giustizia per i popoli oppressi. A causa della dicotomia tra il governo costituzionale della madrepatria e i metodi necessari per reprimere in maniera permanente gli altri popoli colonizzati, l’antico imperialismo d’oltremare ha fallito come forma di governo finalizzata a opprimere i popoli stranieri.” [RU, 3, 83] E la Arendt porta l’esempio dell’imperialismo britannico in India, ma soprattutto la situazione francese, attuale nel tempo in cui scrive: “Nella lotta franco-algerina, infatti è in gioco nientemeno che il rovesciamento del governo della Francia da parte del reggimento coloniale che ha devastato l’Algeria.” [RU, 3, 84]
L’analisi dell’imperialismo occidentale degli Stati nazione europei serve alla Arendt per tracciare la differenza con l’imperialismo russo: “La Russia non è mai stata uno Stato nazione: seppur dal centro del potere di Mosca, persino gli zar governarono un impero multinazionale. Il principio dell’autodeterminazione nazionale, l’incubo dei vecchi imperialisti, che dovevano negare ai propri sudditi quel medesimo principio su cui si basa la loro esistenza politica, non preoccupava minimamente i governanti moscoviti.” [RU, 3, 84]

Silvio Minieri ha detto...

L’imposizione dello studio della lingua russa ai paesi satelliti seguiva lo stesso dispositivo attuato con gli abitanti dell’Unione Sovietica, secondo un processo totalitario di bolscevizzazione. “Perciò, nessuna scissione o nessun conflitto tra il principio del governo centrale e quello del dominio coloniale ha la forza di imporre dei limiti all’imperialismo totalitario.” [RU, 3, 85] Anche il livellamento (peraltro verso il basso) del tenore di vita dei paesi satellitari con quello russo è una linea differenziale dall’imperialismo occidentale.
Ma non sono le differenze appena indicate, dice la Arendt, quelle che arrivano al “cuore del problema”. Queste vanno individuate nel fenomeno storico apparso in Europa prima e dopo la fine della Prima Guerra Mondiale: i pan-movimenti, quali il pangermanesimo e il panslavismo. “Una delle origini del totalitarismo risiede in questi pan-movimenti, e per quanto l’obiettivo totalitario di dominare il mondo vada ben oltre i limitati obiettivi dell’imperialismo continentale, le sue tattiche di espansione sono modellate sulla base delle politiche espansionistiche pan-nazionali.” (RU, 3, 89) E la Arendt coglie una differenza di base tra i due imperialismi, pur nella similitudine della linea di sviluppo di espansione da un potere centrale a una più vasta periferia, secondo un criterio di contiguità territoriale: “L’imperialismo continentale dei pan-movimenti intendeva fondare il suo impero nel cuore d’Europa, e il pensiero razziale che lo caratterizzava non era determinato dal colore della pelle. Si proponeva, invece, di trattare i popoli europei come coloni sottomessi a un governo di una razza padrona. L’imperialismo totalitario russo, invece, ha assunto da quello continentale soltanto la strategia della continua espansione geografica e non ha mai adottato nessun contenuto razziale ed etnico (völkisch). [RU, 3, 89-90]
Quelle più temute dal regime di Mosca sono le rivoluzioni comuniste indipendenti: “Visto che l’espansione parte dalla frontiera nazionale, il governo può facilmente nascondere i suoi scopi reali dietro a rivendicazioni nazionalistiche tradizionali. In tal senso, se a Jalta gli Stati alleati non avessero creduto che Stalin stesse chiedendo niente di più di quello che la politica mirava da secoli, difficilmente avrebbero accolto le sue richieste. Medesima strategia di cui approfittò anche Hitler a Monaco, dove proclamò di non volere altro che l’annessione del territorio tedesco dell’Austria e della Cecoslovacchia, insieme alla liberazione delle minoranze tedesche dal dominio straniero.” [RU, 3, 91-92] In definitiva, l’elemento comune tra l’imperialismo nazista e il modello russo, sottolinea la Arendt, è l’insistenza a una continua espansione. Ora, “conquistare nuovi territori con l’esercito e sperare di mantenerli con la sola forza militare non solo è un dispositivo di dominio antiquato e scomodo, ma è anche una grave battuta di arresto rispetto alle aspirazioni dei governi totalitari.” [RU, 3, 103].
In tal senso, per mantenere sotto la proprio influenza i paesi satelliti, alla Russia non resta altro che propagare l’ideologia del terrore. Questo il giudizio datato a due anni dall’insurrezione ungherese, che la Arendt ha potuto dare, ma non si è sottratta a ipotesi o previsioni, di cui noi possiamo verificarne oggi la validità.

Silvio Minieri ha detto...

4. LA RIVOLUZIONE E IL SISTEMA CONSILIARE
“Mi sembra che soltanto in relazione alla politica estera americana, può essere significativo porsi la domanda che tutti si fanno: il “mondo libero”, l’America in questo caso, avrebbe potuto essere di aiuto alla Rivoluzione ungherese?” L’interrogativo posto per l’Ungheria, in quel tempo di guerra fredda, porta la Arendt a una sua personale interpretazione storica e filosofica della libertà.
“La politica americana del dopoguerra ha diviso il mondo in paesi comunisti, alleati e neutrali, allo scopo di preservare l’equilibrio tra le due superpotenze, riconoscendo de facto, se non de jure, le rispettive sfere d’influenza e insistendo sulla genuina neutralità di tutti i paesi al di fuori delle due orbite.” [RU, 3, 90]
In una situazione del genere, intervenendo non in una zona neutrale, ma in territorio sotto l’egemonia riconosciuta de facto a Mosca, l’America sarebbe andata contro la sua dottrina in politica estera. Questo non toglie alla Arendt la possibilità di formulare una sua ipotesi: “Al di là di queste considerazioni tecnico politiche, che sono state probabilmente fondamentali per la decisione presa da Washington di stare a guardare in neutralità, dovremmo considerare anche quale impatto avrebbe avuto sulla rivoluzione in Ungheria. Con ogni probabilità, dal momento che l’azione di intervento sarebbe stata condotta da un governo [locale], avrebbe comportato prima di tutto il ripristino dello status quo che il popolo ungherese avrebbe respinto con insolita compattezza, e di seguito avrebbe represso i poteri politici che emersero solo durante la rivoluzione. L’Ungheria sarebbe potuta tornare nella sfera di influenza del mondo occidentale, quello che noi chiamiamo “mondo libero”, risparmiando al suo popolo delle terribili sofferenze, ma non avrebbe potuto preservare la libertà realizzata dalla rivoluzione nelle brevi settimane della sua esistenza: una libertà che è scaturita direttamente dall’azione comune.” [RU, 3, 95] Ecco il nodo centrale di tutto il discorso della Arendt sulla rivoluzione ungherese: la libertà che scaturisce dall’azione comune, la realtà che si ribella alla sovrastruttura dell’ideologia, “la capacità della gente di distinguere tra verità e menzogna a livello fattuale ed elementare”. E così la Arendt commenta: “In linea di principio, questa libertà positiva era addirittura superiore alla realtà del “mondo libero” (a cui appartiene ancora la Spagna di Franco), che si può dire libero solo se messo a confronto con il totalitarismo. Rispetto alla libertà dei rivoluzionari ungheresi e dei “combattenti per la libertà”, neanche questo mondo è libero per davvero.” [RU, 3, 95] Solo in questa prospettiva, la Arendt può parlare di “splendore ardente della rivoluzione ungherese”.
È stato lo spirito di libertà di una comunità nazionale oppressa, che si è ritrovata ad essere unita nella rivolta generale del Paese: “Ciò che portò avanti la rivoluzione è stato il puro impeto di un intero popolo unito nell’agire insieme.” Non vi è stato nessuno scontro di potere tra comunisti, nella disgregazione generale delle preesistenti istituzioni dello Stato: “La singolare assenza di scontri di partito, come di qualsiasi disputa ideologica, insieme all’altrettanto sorprendente mancanza di fanatismo, è dovuta soltanto al fatto che la sovrastruttura ideologica si è disgregata ancora più in fretta degli stessi organi della dittatura. Nel clima generale di fraternità (e qui la parola va intesa nel senso della fraternité della Rivoluzione francese) che si è creato con la prima manifestazione nelle strade, durata fino alla sua amara fine e anche oltre, tutte le ideologie e gli slogan di partito (non solo comunisti) sembravano dissolti nel nulla, così che gli intellettuali e i lavoratori di ogni fascia, comunisti e non comunisti, potevano davvero lottare insieme per la libertà.” [RU, 2, 59]

Silvio Minieri ha detto...

Quello descritto dalla Arendt è il momento rivoluzionario, in cui la realtà dei fatti si ribella alla menzogna, e la Verità si coniuga con la Libertà: il crollo delle sovrastrutture ideologiche avviene insieme con il riacquisto collettivo della libertà, dovuto al “puro impeto di un intero popolo unito nell’agire insieme”. Infatti, subito dopo commenta: “L’unico fattore portato alla luce dal crollo dell’ideologia è la realtà della rivoluzione in sé, e questo cambiamento immediato, in senso negativo, ha avuto lo stesso effetto sulle menti degli ungheresi di quel che ebbe l’improvvisa distruzione del regime di Hitler sull’animo dei tedeschi.” [RU, 2, 60] E qui la Arendt non si lascia sfuggire l’occasione di lanciare un monito: “Tale drammatico collasso delle ideologie innescato dalla realtà deve essere rievocato, qualora a qualcuno, in seguito a un’altra situazione di questo tipo, venisse voglia di “rieducare” il popolo per l’ennesima volta. Questo insegnamento proveniente dall’esterno non raggiunge mai lo stesso livello di shock creato dall’evento; quando è esterno o non ha alcun tipo di effetto o può addirittura paralizzare l’impatto della lezione appena impartita dalla realtà.” [RU, 2, 60]
Il monito della Arendt è rivolto contro tutte le dittature totalitarie o chi abbia voglia di ricostituirle dopo una insurrezione e rivoluzione popolare. E tutte le cadute delle dittature di questo tipo raccontano lo stesso crollo: la disgregazione delle menzogne ideologiche contro la realtà di quello che accade.
“Nel suo significato positivo, la caratteristica predominante della rivolta è stata che, pur essendo senza alcun leader o programmi prestabiliti, le azioni della gente non hanno prodotto caos o anarchia. […] Al posto del linciaggio e dell’instaurarsi di un governo di massa, come ci si sarebbe potuti aspettare, sono subito apparsi i consigli rivoluzionari degli operai e dei soldati, quasi in sincronia con le prime dimostrazioni armate.” [RU, 2, 60-61] E qui la Arendt descrive il fenomeno del sistema consiliare, indicando gli esempi dei moti popolari che scossero l’Europa nel 1848, la Comune di Parigi del 1871, la Rivoluzione russa del 1905 e la Rivoluzione di ottobre del 1917, nonché le rivoluzioni del dopoguerra in Germania (1918) e Austria (1919). Queste organizzazioni sono emerse, per alcuni giorni, settimane o mesi senza essere guidate da nessun partito o governo. Ma conclude la Arendt: “Per coloro che credono con Hegel che “la storia è l’ultimo tribunale del mondo”, il sistema consiliare è ormai del tutto esaurito. È stato sconfitto ogni volta e non sempre dalla ‘controrivoluzione’. Il regime bolscevico depose i consigli – soviet, come sono chiamati in russo – durante il governo di Lenin e ne attestò la popolarità, rubandone il nome per il proprio regime antisovietico. Infatti, per comprendere gli effetti della rivoluzione ungherese, come osservato da Ignazio Silone in un articolo sull’inverno del 1956, dobbiamo “prima riordinare il nostro linguaggio” e renderci conto che “i Soviet sparirono dalla Russia già nel 1920”. L’esercito russo non è “sovietico” e gli unici Soviet che esistono al mondo [all’inizio del 1957] sono i comitati rivoluzionari ungheresi.” [RU,2, 60-61]
Ed è stato questo il motivo della rapida e feroce repressione dell’esercito russo. “Non perché durante la rivoluzione ungherese stesse cercando di ripristinare qualcosa o per la sua natura “reazionaria“, ma perché con essa il sistema sovietico originale – il sistema consiliare nato durante la Rivoluzione di ottobre, poi abbattuto dal partito bolscevico nella rivolta di Kronstadt – è rientrato sul palcoscenico della storia. Si potrebbe pensare che oggi i sovrani totalitari russi abbiano più paura di queste “forme elementari e improvvisate di potere del popolo” che di ogni altra cosa.” [RU, 2, 62]

Silvio Minieri ha detto...

Nel sistema consiliare, sorto dalla Rivoluzione ungherese, la Arendt distingue tra i consigli rivoluzionari con funzioni politiche e i consigli operai che si occupavano della vita economica, dando rilievo ai primi e trascurando i secondi. I primi davano una risposta alla tirannia politica e mantenevano l’ordine e la sicurezza, i secondi si erano costituiti come reazione ai sindacati, che non facevano più gli interessi dei lavoratori. La richiesta di nuove elezioni generali e libere in tutto il paese, con il ripristino di una democrazia multipartitica, non è un aspetto tipico del sistema consiliare, ma era una reazione del popolo ungherese alla soppressione e allo sradicamento di tutti i partiti, che avevano preceduto la dittatura monopartitica.
Qui la Arendt traccia un breve quadro della differenza tra il sistema consiliare e quello partitico: “Al fine di comprendere il sistema consiliare è bene ricordare che è antico quanto il sistema partitico: è nato al suo fianco ed è stato sempre distrutto da quest’ultimo. Fino a oggi, i consigli hanno rappresentato l’unica alternativa al sistema dei partiti, ovvero la sola possibilità per un governo democratico nell’era moderna. […] Nella modernità noi conosciamo due alternative per il governo democratico: il sistema dei partiti, vittorioso per un centinaio d’anni, e il sistema dei consigli, nello stesso periodo ogni volta sconfitto.” [RU, 2, 66-67]
L’origine del sistema dei partiti risiede nel sistema parlamentare, quello consiliare “esclusivamente dall’azione comunitaria e dalle richieste spontanee del popolo emerse dall’agire insieme”. Si tratta di una sorte di sorgente popolare di democrazia non ispirata a ideologie, e i consigli nati in maniera spontanea non sono certo “ideati, per non dire concepiti, sulla base di qualche teoria politica sulla migliore forma di governo.” La Arendt sottolinea l’eccezionalità di tale sistema consiliare, avversato sia dai partiti di destra che di sinistra e disprezzati dagli scienziati e teorici politici, e si limita a descrivere il fenomeno, sottolineando la spontaneità dell’azione. Quindi insiste sulla distinzione tra consigli e partiti: i primi scelti dal basso con un voto diretto, mentre il partito suggerisce le nomine dall’alto, sia con la scelta tra varie persone che con i voti di lista. Queste impressioni sono state raccolte da testimonianze della breve rivoluzione ungherese: l’orgoglio degli eletti di essere stati scelti dagli operai stessi e non da un governo, e l’autoregolamentazione, nei brevi giorni dell’insurrezione, ha indicato la direzione verso cui poteva andare: “L’iniziativa di sostituire un governo normale con un consiglio supremo originato dagli stessi consigli locali proveniva dal Partito nazionale contadino rianimato di recente.” [RU, 2, 71] E la Arendt commenta che era l’ultimo gruppo da cui aspettarsi idee di estrema sinistra. I consigli rivoluzionari, che si attenevano all’azione politica, “nelle province si erano coordinati e progettavano di creare un comitato rivoluzionario nazionale con cui sostituire l’Assemblea parlamentare.” [RU, 2, 72] “Non sappiamo molto più di questi eventi, Qui, come in tutti gli altri casi, per un momento storico brevissimo, la voce del popolo è stata ascoltata, non alterata dalle grida della folla o dai litigi dei fanatici. […] l’unico sistema democratico in Europa che ha avuto il popolo dalla sua parte. […] Inoltre , è stata l’evoluzione spontanea del sistema consiliare, non i tentativi di ripristinare i vecchi partiti, ad apporre alla rivoluzione ungherese il sigillo dell’autentico vigore democratico e della lotta della libertà contro la tirannia.” [RU, 2, 71-72]
Ecco, in queste ultime parole risiede tutto il fascino della rivoluzione ungherese, che la Arendt ha voluto esaltare, ed in questo senso deve intendersi l’immagine della luce, lo “splendore ardente” della rivoluzione, che illumina la lotta popolare della libertà contro l’oscurità delle dittature e le tirannie.

Silvio Minieri ha detto...

POST SCRIPTUM
Deve aggiungersi, per completezza, che la Arendt avrebbe voluto dedicare il saggio “alla memoria di Rosa Luxemburg”, ma dovette desistere per le perplessità avanzate, il 9 settembre 1958, dal suo editore americano, a cui indirizzò una lettera di risposta.
“Se dobbiamo spiegare in bianco e nero ciò che intendiamo, dobbiamo togliere la dedica. Perché così non funzionerà; non si può spiegare nulla in una dedica. Povera Rosa! È morta ormai da quarant’anni e ancora sta tra l’incudine e il martello. Certo che capisco le tue ragioni. Mi sono avventurata a scriverla, anzitutto perché sono stata colpita dalla reazione del pubblico alla mia conferenza, che è stata decisamente una sorpresa anche per voi. Forse i giovani – gli unici che applaudivano! – sono di nuovo quelli che sanno ciò che è meglio fare. Perché siamo d’accordo sul fatto che non tutti potevano essere comunisti – forse erano proprio quelli che non applaudivano! La dedica non può essere riformulata , perché si dovrebbe spiegare che Luxemburg non fu socialista né comunista , ma solo una persona che difese la giustizia, la libertà e la rivoluzione, in quanto uniche possibilità per una nuova forma di società e di Stato.”