PROLOGO La conferenza era stata organizzata dall’Università della Sorbona, nel luglio del 2024, ricordo bene quell’anno, anche se da allora sono passati quasi cinquant’anni. La lezione magistrale del professor Luigi Rosiello si tenne nell’aula magna della Faculté de droit, quella con l’entrata in Place du Panthéon, anche se per i contenuti della materia, la lezione era di carattere non giuridico, ma scientifico: “Il sillogismo nella logica matematica”. Rosiello era un filosofo e matematico di fama internazionale, teorico di logica e matematica, disciplina quest’ultima in cui non aveva ricevuto il Nobel, perché ai suoi tempi non era stato ancora istituito il Nobel per la matematica, com’è in verità anche adesso. Era titolare della cattedra di “Scienza della logica e della matematica” all’Università Federico II di Napoli, lucasiano di Cambridge ad honorem, teneva corsi di Teoria della Logica all’Istituto filosofico della nostra città partenopea. Esprimo questa appartenenza, perché avevo seguito in via telematica diverse lezioni del Magister Rosiello sulla Teoria della Logica. Fu una giornata memorabile, almeno per me, infatti la ricordo ancora con estrema chiarezza. Sapevo che nel periodo estivo la Sorbona organizzava queste conferenze dedicate agli studenti Erasmus e aperte a tutti, e quando scoprii che una di queste era tenuta dal professor Rosiello, mi affrettai a recarmi sul luogo all’ora prefissata. Devo dire che in quel tempo mi trovavo a Parigi in vacanza, con pochi soldi, ma con un gran desiderio di conoscere e fare esperienza delle avventure del mondo, oh, che desiderio e amore di conoscenza avevo! E chi incontrai alla Sorbona? Giuseppina Lamarca. Era una ragazza originaria del luogo, si chiamava Josephine, ma i genitori erano italiani emigrati in Francia per lavoro. Aveva qualche anno meno di me, io mi vantavo di essere del millennio scorso, perché sono nato a ottobre del 2000 d.C., il XXI secolo è iniziato il primo gennaio del 2001. Si capiva subito dai tratti somatici che Giuseppina non era celtica o gallica, io volevo sottrarmi alla sua compagnia, ma dovetti accettare la situazione. Si sedette accanto a me sui banchi in alto, e quando scesi giù, mi seguì.
Nell’aula gremitissima, c’era gente seduta per terra in ogni dove, molti parlavano, poi entrò Rosiello, preceduto da un giovane professore francese della Sorbona e seguito da Cannizzo, noto romanziere e letterato siciliano, autore di un apprezzato studio critico sul “Gattopardo” del principe Tommasi di Lampedusa. Cannizzo aveva tenuto, qualche giorno prima, una conferenza sulla letteratura italiana e in particolare sulla figura di Pirandello, a cui io non avevo assistito. Il giovane professore della Sorbona presentò al pubblico Rosiello, mi ricordo che era molto gioviale, e non so perché, ma sembrava provare una certa allegra simpatia per Cannizzo, almeno così traspariva da quel suo ridere nei suoi confronti. Il nostro letterato fortunatamente parlò poco, un linguaggio tipo i romanzi di Camilleri, molti presenti, moltissime le donne di qualsiasi età, mostravano segni di forte imbarazzo nel cercare di capire quello che diceva Cannizzo. Osservai una che si aggiustava all’orecchio l’auricolare, ma credo che anche l’interprete in cabina avesse difficoltà a tradurre le parole di Cannizzo. Stava parlando delle vacanze in Sicilia, menzionò la ìsula dî Cunigghi, ricordo questo particolare, perché l’immagine dei conigli mi ricordava i numeri di Fibonacci. Infine, prese la parola Rosiello, una liberazione rispetto a Cannizzo. Esordì in francese, capivo un po' tutto, citò Ionesco: “I gatti sono mortali, Socrate è mortale, dunque, Socrate è un gatto." Tutti risero, anche Josephine, anch’io. Quando iniziò la sua lectio magistralis, sul sillogismo logico matematico, cambiò lingua e cominciò a parlare in italiano. Registrai la lezione e in seguito la ricopiai, ma per circostanze che chiarirò dopo, persi sia la registrazione che la copia, e quindi, a distanza di tempo, dovetti riscriverla a memoria, con qualche lacuna o imprecisione, ma restando fedele al testo.
1. LECTIO MAGISTRALIS “Come sappiamo, nei “Primi Analitici”, Aristotele formula la sua teoria sul sillogismo, dandone una definizione generale: “Il sillogismo è un discorso, in cui posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistano.” Quindi distingue il sillogismo perfetto, dove non è necessario aggiungere altro per sviluppare la deduzione dai termini generali, da quello imperfetto, dove al contrario, per ottenere la deduzione, è necessaria l’aggiunta di uno o altri oggetti in premessa. Specifica inoltre che se un termine è contenuto nella totalità di un altro termine equivale a dire che questo termine si predica di ogni oggetto dell’altro. “Tutti i gatti sono mortali, Socrate è un mortale”: la premessa dice mortale, e quindi anche Socrate è predicato.” Vi fu un accenno di risata generale, che si spense subito, non appena Rosiello citò il motto latino: “Dictum de omni et nullo”. In questa sentenza, la filosofia medievale ha voluto riconoscere il principio dell’intera sillogistica aristotelica. La formula estesa dice così: “Quiddquid de omnibus valet, valet etiam de quibusdam et singulis. Quiddquid de nullo valet nec de quibusdam nec de singulis valet.” La locuzione latina possiamo tradurla in linguaggio logico matematico: quello che si dice di tutti gli elementi di un insieme corrisponde anche ad alcuni di essi, quello che non si dice di nessuno dei membri di un insieme non corrisponde ad alcuni di essi. Quello che si predica, per es., per un tutto A. dell’insieme, si estende anche ai singoli elementi: a1. a2. a3. … an… , e ad ogni elemento di esso. Sulla grande lavagna luminosa apparve una prima immagine, che rappresentava lo schema della premessa del sillogismo aristotelico. [IMMAGINE COPERTINA]
Quindi venne proiettata anche l’immagine della conversione della premessa, secondo le quattro indicazioni formulate da Aristotele:
1.1 Premessa universale negativa A. a1. a2. a3. … an… B. b1. b2. b3. … bn… Necessaria la conversione dei termini A-B. Nessuna A. a. corrisponde B. b., quindi nessuna B. b. corrisponde A. a.
1.2 Premessa universale positiva A. a1. a2. a3. … an… B. b1. b2. b3. … bn… Necessaria la conversione dei termini, ma in forma particolare.
2.1 Premessa particolare positiva A. a1. a2. a3. … an… B. b1. b2. b3. … bn… Necessaria la conversione dei termini, in forma particolare.
2.2 Premessa particolare negativa A. a1. a2. a3. … an… B. b1. b2. b3. … bn… Non necessaria la conversione.
“La conversione esaminata mette a confronto insiemi positivi con insiemi negativi. La moderna logica matematica ha contestato la validità della legge di conversione della premessa universale positiva (1.2.). Jan Łukasiewicz, logico polacco, ha osservato però che tale legge può essere contestata solo nel presupposto di termini vuoti e singolari, ma sta di fatto che tali termini non sono presi in esame da Aristotele. Ora, che cosa possiamo osservare guardando queste quattro proposizioni? Sono composte da due serie progressive, secondo l’ordine dei numeri naturali. Questa osservazione ci permette di passare così dal campo della logica a quello della matematica, avendo guadagnato dalla scomposizione (analisi) della sillogistica aristotelica due principi di fondo, traducibili nelle nozioni di “insieme” e “appartenenza”. Sono proprio questi i due fondamenti, su cui si basa la teoria degli insiemi infiniti elaborata dal matematico tedesco Georg Cantor. Un insieme è pensato come una collezione di oggetti, gli elementi appartenenti all’insieme, definiti in matematica anche come membri di una classe. La serie progressiva dei numeri naturali, dovuto all’esigenza del contare e calcolare, è stato l’insieme più semplice da configurare, e sin dall’inizio possiamo dire gli uomini si sono arrangiati con le dita, con i sassolini, o i segni per rappresentare i numeri. La serie dei numeri naturali è stata sempre pensata come un accrescimento progressivo dei numeri fino al numero sempre più grande. Ma qual è il numero più grande? Quello sempre successivo all’ultimo (+1) per una serie che non finisce mai, infinita, pensabile come potenzialmente in crescita. È l’infinito potenziale, quello che sembra unicamente ammissibile, come riteneva Aristotele.
“Poiché la scienza della natura studia le grandezze, il movimento e il tempo, ciascuna di queste cose deve essere necessariamente o infinita o limitata quando anche accade che non ogni cosa sottostà a questa alternativa di essere infinita o limitata, come ad esempio una affezione o un punto (poiché queste cose non sono necessariamente l’una o l’altra), sembra conveniente, per chi si occupa della natura, esaminare il problema dell’infinito, se esso è o non è; e se è, che cos’ è.” (Fisica, III, 202 b 30-36) Procedendo in avanti, così ragiona: “È chiaro, poi, che non si può ammettere che l’infinito esista come un essere in atto o come sostanza e principio. Infatti, qualsiasi parte desunta da esso sarebbe infinita, se esso fosse definibile in parti – invero, ciò che è all’infinito, è infinito esso stesso, se pur l’infinito è sostanza e non è in relazione a un sostrato. Ma che la medesima cosa sia molti infiniti, è impossibile – perché anzi, come una parte di aria è aria, così una parte di infinito è infinito, se l’infinito è sostanza e principio. Dunque esso è impartibile e indivisibile. Ma è impossibile che ciò che è in atto sia infinito, difatti è necessario che sia una quantità.” (Ivi, III, 204 a 22-28) Queste osservazioni però non escludevano l’opportunità di porsi il problema dell’infinito in atto come oggetto di studio di matematica: “Comunque, questo nostro discorso non intende sopprimere per nulla le ricerche dei matematici per il fatto che esso esclude che l’infinito per accrescimento sia tale da non essere percorso in atto. In realtà essi stessi, allo stato presente, non sentono il bisogno dell’infinito e non ne fanno uso, ma solo di grandezze così grandi quanto si vuole, ma limitate”. (Fisica, III, 207 b, 28-33). È significativo che Aristotele parli dell’infinito in atto, sia pure per respingerne se non la concezione, quanto meno la sua realtà.
E infatti la scoperta matematica di Cantor resta un discorso logico, ma fino a che punto realizzabile in concreto? Scoprire che aggiungere o sottrarre un elemento a un insieme infinito o dividerli, senza variare il risultato sono operazioni matematiche, che Aristotele aveva già presunto in linea di principio astratto, ma senza darvi concretezza reale: “Qualsiasi parte desunta da esso [infinito] sarebbe infinita, se esso fosse definibile in parti – invero, ciò che è all’infinito, è infinito esso stesso.” Quando Cantor formulò la sua teoria degli insiemi, andando oltre l’infinito potenziale aristotelico, ammettendo l’esistenza dell’infinito in atto, aveva posto le basi di una teoria fondamentale della matematica moderna, che resterà in seguito soltanto una branca della matematica, non il suo fondamento logico. Gli elementi della teoria degli insiemi servirono a Russell per il suo tentativo di ricondurre alla logica tutti i principi della matematica, iniziando dalla serie dei numeri naturali, ma il tentativo si rivelò illusorio proprio con la scoperta del paradosso da parte dello stesso Russell. L’esistenza della successione infinita dei numeri interi è un postulato necessario per l’esistenza della matematica stessa, senza il quale non sarebbe possibile neppure la semplice operazione logica del contare. Ora, se confrontiamo tra loro due insiemi di oggetti che hanno la stessa quantità e contandoli uno ad uno, annotiamo ogni volta la loro cifra, osserviamo alla fine una certa somiglianza tra loro. È la caratteristica che conosciamo come corrispondenza biunivoca tra due insiemi. Se poi associamo a questo confronto un terzo insieme formato dalla serie dei numeri naturali, avremo compiuto un’operazione logica, che ci porta a numerare insiemi simili. E possiamo pensare quindi che se vi è una corrispondenza biunivoca tra i due insiemi di oggetti, il numero di questi ultimi sia potenzialmente infinito come quello della serie dei numeri naturali, rispetto ai quali entrambi hanno la stessa corrispondenza biunivoca. Nell’operazione ultima compiuta, ci appare una contraddizione: la serie dei numeri naturali è (potenzialmente) infinita, non quella degli oggetti, che avvertiamo finita. E qui dobbiamo affrontare l’antico paradosso, formulato matematicamente da Zenone, che per un certo verso ci conduce alla scoperta dell’ammissibilità dell’infinito attuale di Cantor, e dall’altro alla sua ipotesi del continuo. Ma prima di affrontarlo, io proporrei di compiere una pausa caffè.” Poco dopo, la cattedra fu circondata da gruppi di studenti, perlopiù studentesse. Io guardai Josephine, ma capii che non era molto interessata al professore. Così andammo a prendere il caffè insieme.
INTERVALLO Parlavo il mio incerto francese, lei tentava di parlare in italiano, ma non le riusciva bene, allora mentre in corridoio facevamo la coda alla macchinetta del caffè, dissi: “Préférez-vous que je m'exprime en italien?” Josephine s’illuminò in volto: “Je adore quand vous parlez en italien.” Eh, già! Disse che la sua famiglia era originaria di Rocca di Papa, il padre era morto, e la madre si era sposata di nuovo con un mercante di Bordeaux, dove si era trasferita con il marito, lei invece era rimasta a Parigi. Io dissi che una mattina di primavera, era una domenica, ero andato a fare una passeggiata da Roma a Rocca di Papa, era ancora fresco nell’aria, e per strada eravamo soli, io e la mia amica, la mia bicicletta.” Accennai a ridere, Josephine mi guardò interdetta, chissà che cosa aveva capito! Lei era italiana, era francese, ma il suo intuito femminile non la tradiva. Mi raccontò che l’estate scorsa aveva fatto un viaggio in motocicletta con un amico in Inghilterra, fino in Scozia. Non le dissi di Melina, ma credo che a Josephine interessasse poco, almeno in quella situazione, questo lato della mia persona invisibile, quello che Jung chiama anima (modello femminile) nel maschio e animus (modello maschile) nella femmina, quella caratteristica che chiamiamo in genere anima gemella. E allora? Era già stata in Italia, ma non era riuscita a rintracciare un suo amico napoletano, che aveva conosciuto a Parigi. Stavamo rientrando in aula, mi feci dare il nome del suo amico e tramite ricerche sulla rubrica italiana del telefono, che avevo sul tablet, rintracciai il numero e lo inviai in e-mail sul suo iPhone, eravamo seduti ai banchi, lei controllò, era arrivato. Era rientrato in aula anche Rosiello, che riprese la sua lectio magistralis, eravamo rimasti al paradosso di Zenone e all’ipotesi del continuo di Cantor.
Ero così concentrato a contemplarla, contemplazione è la parola esatta per esprimere lo stato d’animo stupefatto suscitato in me dall’apparizione di quella cinquina, che sentivo risuonare le parole dell’accademico in cattedra come nella lontananza di un sogno. Era vero! aveva ragione Platone, la conoscenza è reminiscenza. Nella sua vita precedente, la mia anima levatasi in alto nell’oltre-celeste regno delle Idee, aveva contemplato l’eterna verità e bellezza di quella formula matematica, e ora vivente in me, la riconosceva ovvero la ricordava. È la scomposizione del passaggio dall’ 1 al 2, che rivela l’infinita distanza tra i primi (allora mancava lo zero) due numeri interi, e in quest’analisi (dal greco ἀνάλυσις, derivato da ἀναλύω «scomporre, risolvere nei suoi elementi») la formula di Zenone precorre l’infinito in atto di Cantor. Il professore illustrava la formula: “La cinquina, non quella del gioco del lotto, per “La Smorfia” la mano …” Rosiello tacque, sorridendo, mentre il suo vicino, il professore francese della Sorbona, spiegava in francese all’uditorio le parole dell’accademico italiano, che nel contesto risultavano un po' enigmatiche. Io, ancora in estasi, avvertii soltanto l’eco della frase: “… Le livre napolitain de l'interprétation des rêves.” Vi fu un breve coro di risa, quindi Rosiello proseguì la sua spiegazione, io intanto ricominciavo a rientrare nella realtà dal mio viaggio ideale. Che cosa avevo visto? La progressione numerica mi ricordava qualcosa. Ma che cosa? Teodoro, il matematico dell’accademia di geometria, era stato lui a parlare di una serie di numeri simile, ma in un diverso contesto discorsivo, o lo stesso Rosiello nelle sue lezioni telematiche? Intanto, ebbi come la percezione che Josephine, approfittando del mio stato estatico, avesse in certo modo trafficato con il mio tablet, la guardai, mi sorrise. “L’antica formula matematica di Zenone dimostra che il numero 1 è uguale alla somma di 1/2 elevato alla potenza uno più 1/2 elevato alla seconda, più 1/2 elevato alla terza, poi alla quarta, alla quinta, e così via di seguito in progressione all’infinito. Guardando la formula scritta, possiamo osservare come la serie progressiva delle potenze corrisponde alla serie dei numeri naturali e che entrambe sono insiemi infiniti in corrispondenza biunivoca. Cantor numerò la serie dei numeri cardinali interi con l’aleph ebraico e il suffisso o, per distinguerlo dagli altri infiniti più grandi, che avranno altri suffissi. Quindi, il nome del più piccolo infinito cardinale è No. Mettendo a confronto la serie infinita dei numeri naturali con quella infinita della frazione 1/2 elevata a potenza, nella progressione dei numeri interi degli esponenti, scopriamo che i due insiemi infiniti sono equipotenti, secondo la definizione di Cantor.”
Rosiello illustrava la formula di Zenone e le sue parole mi giungevano come soffuse, essendo io ancora sotto l’impressione della visione estatica da cui mi ero appena riavuto. Mi sembrava di vedere l’equazione di Cardano (5 +√-15) (5 -√+15), da dove mi giungeva questa immagine? Adesso l’accademico stava spiegando come accanto ai due infiniti equipotenti aleph zero, Cantor ne aveva collocati altri, sempre a livello di aleph-0: gli insiemi dei numeri pari, dei numeri dispari, dei numeri razionali, allo stesso livello aleph zero. Quindi parlò di Galilei, che riflettendo sul problema dell’infinito, si era imbattuto nel paradosso della parte uguale al tutto. Infatti, confrontando la progressione dei numeri naturali N e quella dei quadrati, nel loro progresso ad infinitum, entrambe risultano sempre uguali di numero tra loro. Galilei, rilevando il paradosso, come matematico si rifiutò di indagare oltre, non avendo necessità nei suoi calcoli della dimensione dell’infinito, come a suo tempo aveva rilevato Aristotele: “Essi stessi [i matematici], allo stato presente, non sentono il bisogno dell’infinito e non ne fanno uso, ma solo di grandezze così grandi quanto si vuole, ma limitate…” (Fisica, III, 207 b). “Il paradosso oltre il quale Galilei non volle andare, fu risolto quindi da Cantor con l’equivalenza o equipotenza degli insiemi infiniti, attraverso lo strumento della corrispondenza biunivoca tra i termini dell’uno con i termini dell’altro. Ecco perché le operazioni aritmetiche non influiscono sul risultato degli infiniti, che rimangono sempre invariati se ad essi si aggiunge o toglie qualcuno dei loro termini. E così anche una parte può risultare equivalente con il tutto. In tema di infiniti, dice Russell, se non di eguaglianza vera e propria, si può parlare di equivalenza. Ma il 12 dicembre 1873, si verificò un fatto straordinario: Cantor scoprì che esiste un infinito più potente dell’infinito numerabile, un infinito che non si poteva enumerare. La serie dei numeri interi, per quanto infinita, non era così potente da numerare questo nuovo tipo di infinito. Siamo arrivati al secondo versante del nostro discorso iniziato con la formula di Zenone: l’ipotesi del continuo. Dato un segmento minimo, diciamo il raggio di protone, R = 7 x 10-14, quello al di sotto del quale inizia la Fisica Subnucleare, anche in tale infinitesima frazione di segmento, è possibile immaginare un numero infinito di punti, che costituiscono un Insieme Infinito di punti superiore all’Insieme Infinito Numerabile. Questa ipotesi del continuo può più facilmente essere intesa con la figurazione della regressio ad infinitum della sezione aurea, numericamente espressa da un numero irrazionale: φ = 1,6180339887... Il numero aureo è dato dal rapporto tra due lati di un rettangolo che abbia una proporzione tale per cui, eliminata la parte quadrata del rettangolo, rimane un rettangolo minore a quello dato, che a sua volta costituisce un rettangolo aureo. Questa caratteristica di una successione telescopica senza fine del rettangolo aureo, che rivela la dimensione dell’infinito, è configurabile anche con la stella pitagorica, il pentagramma, inscritto in un pentagono, che evidenzia un altro pentagono al suo centro e così via nell’infinitamente piccolo.
Un modo per comprendere la scoperta di Cantor consiste nella riflessione sui numeri irrazionali a confronto con quelli razionali. Questi ultimi, dopo la virgola presentano un numero di decimali che a un certo punto finisce o si ripete con qualche regolarità (numeri periodici). Ora, nella serie dei numeri razionali, tra un numero e un altro, vi saranno infiniti numeri interi e razionali, tutti infiniti con la stessa potenza degli Infiniti Numerabili. Diversamente, i numeri irrazionali sono caratterizzati dal fatto di avere, dopo la virgola, una serie infinita di numeri, che non rende possibile specificarli. Ora, tra due numeri irrazionali vicini tra loro, vi è un’infinità di numeri irrazionali, tale che non basta l’Infinito dei numeri interi per contarla e quindi numerarla. Se contiamo con la serie dei numeri interi e razionali, le progressioni sono “quantizzate”, si succedono per “quanti”, tra un numero e l’altro; se invece contiamo con tutti i numeri reali, quindi compresi gli irrazionali, incontreremo una successione all’infinito di numeri non quantizzabile, ma progressiva solo di “continuo”, come la progressione dei punti immanenti su una linea. Cantor ritenne questo Infinito di potenza superiore a ogni Infinito Numerico e chiamò ”potenza del continuo” l’infinità dei suoi elementi, inoltre assegnò a questo Infinito il livello aleph-1 superiore a quello numerico. L’ipotesi del continuo, come la definirono i matematici del tempo, divenne uno dei problemi da risolvere della lista stilata da David Hilbert, quando in occasione dell’Expo del 1900, tutti i matematici si riunirono qui, nella ville lumière, per un congresso internazionale. Il problema appariva insolubile, come era accaduto a Galilei. “L’infinito è per sé solo da noi incomprensibile, come anco gl’indivisibili; or pensate quel che saranno congiunti insieme: e pur se vogliamo compor la linea di punti indivisibili, bisogna fargli infiniti; e così conviene apprender nel medesimo tempo l’infinito e l’indivisibile […] Qui nasce il dubbio, che mi pare insolubile: ed è, che essendo noi sicuri trovarsi linee una maggior dell’altra, tutta volta che ambedue contenghino punti infiniti bisogna confessare trovarsi nel medesimo genere una cosa maggiore dell’infinito, perché la infinità de i punti della linea maggiore eccederà l’infinità de i punti della minore.” (“Discorsi e dimostrazioni matematiche”, 1638) Sugli indivisibili e l’immanenza dei punti sulla linea, così si era espresso Aristotele: “Orbene, come i punti non sono contigui gli uni agli altri, così pure gli avvenimenti passati lo sono: in entrambi i casi si tratta di oggetti indivisibili. In tal caso, neppure ciò che diviene risulta contiguo a ciò che è divenuto per la stessa ragione: in realtà, ciò che diviene è divisibile, mentre ciò che è divenuto risulta indivisibile. Ed allora il rapporto che sussiste tra la linea e il punto è lo stesso che sussiste tra ciò che diviene e ciò che è divenuto: all’oggetto che diviene sono infatti immanenti infiniti oggetti che sono divenuti.” (Secondi Analitici, 95 b 5-10) Ora, sulla base che la potenza infinita dei numeri interi è il primo livello d’Infinito (aleph-0), e la potenza del Continuo è il secondo (aleph-1), è legittimo domandarsi se esistono uno o più livelli di potenza superiore e così all’infinito.
Cantor intuì l’esistenza di Insiemi Infiniti sempre più potenti fino all’Infinito assoluto inattingibile dall’infinito attuale, ma la sua intuizione fu assiomatizzata trentacinque anni dopo da Zermelo: “L’assioma della scelta”. Nella collezione di un numero infinito di insiemi non vuoti, si può sempre costruire un nuovo insieme, "scegliendo" un singolo elemento da uno degli insiemi infiniti della collezione. L’ipotesi del continuo era stata assiomatizzata, ma non dimostrata come richiesto da Hilbert. Soltanto, nel 1940, il grande logico austriaco, Kurt Gödel, riuscì a dimostrare che per Insiemi Infiniti “costruibili”, l’ipotesi del Continuo intuita da Cantor era vera. E con Gödel siamo arrivati al cuore del nostro discorso logico matematico.” A questo punto, lo ricordo bene, oh, sì! come lo ricordo! Josephine si volse a guardarmi e io dissi: “L'Italie au coeur”. “Un’affermazione o un teorema o è vero o è falso. Non è dimostrabile che sia vero e falso, dire “Vero = Falso” è contraddittorio. Gödel scoprì (1931) che nell’ambito della Logica, su cui si costruisce l’Aritmetica, esistono Affermazioni o Teoremi indecidibili, non si può decidere se sono veri o falsi. – I gatti sono mortali, Socrate è mortale, dunque, Socrate è un gatto. – Il sillogismo di Ionesco è vero o falso?” L’interrogativo di Rosiello colse di sorpresa l’uditorio, tutti aspettavamo la risposta, che arrivò presto. “È vero e falso” disse. L’accademico fece scorrere il suo sguardo su tutta l’ampia Aula Magna della “Faculté de droit” della Sorbona, dai banchi su in alto fino alle prime fila in basso più vicine alla cattedra. La sua affermazione ultima era in contraddizione alla sua immediatamente precedente. E quindi? “Il criterio logico per decidere la contraddizione tra le mie due affermazioni: [A (Vero = Falso) è contraddittorio] [B (Vero ≠ Falso) non è contraddittorio], può ottenersi mettendo a confronto le due proposizioni A e B come termini del primo membro di un’equazione, il cui secondo membro si presenta nei termini di Vero/Falso. A (Vero = Falso) ∩ B (Vero ≠ Falso) = Vero ∩ Falso. La soluzione prevede quattro ipotesi: 1. [A = Vero]; 2. [A = Falso]; 3. [B = Vero]; 4. [B = Falso].
Eliminando i due risultati “Falso”, rimangono i due “Vero”: la “falsità” di A e la “verità” di B. Il risultato dell’equazione conferma l’assunto che la contraddittorietà dice il falso, la non-contraddittorietà dice il vero, quindi A = Falso, B = Vero. Abbandoniamo, allora, le strade della ragione ed entriamo nel teatro dell’assurdo, un luogo dove forse noi logici siamo di casa…” Rosiello tacque, in attesa della reazione dell’uditorio, un momento soltanto per la traduzione simultanea (che simultanea non è mai, ma sempre consecutiva), quindi arrivò l’approvazione con risa e applausi, poi l’oratore riprese a parlare. “Ammettiamo, senza voler evocare la dialettica hegeliana, che la contraddittorietà non sia un assurdo, ma un risultato logico, e scriviamo A = Vero, B = Falso. E così scrivendo, abbiamo commesso un peccato mortale contro la Logica, e quindi ci tocca espiare la pena all’Inferno, dove il diavolo ci ha condotto con sé, ammonendoci:
“Ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch’io loico fossi!"
Rosiello aveva estratto un foglietto dalla tasca e l’aveva passato al suo collega della Sorbona, che lesse i versi danteschi (la traduzione era stata già scritta) a beneficio dell’uditorio di lingua francese, che all’ascolto approvò calorosamente. Intanto sulla lavagna luminosa era apparsa una nuova immagine:
“G (g1. g2. g3. … gn…) = M ; S = M ; S = G. “P (p1. p2. p3. … pn…) = V ; A = P(t) ; A = V(t)
“Quindi il sillogismo di Ionesco è falso e vero: “I gatti sono mortali, Socrate è mortale, dunque, Socrate è un gatto." Le componenti del termine medio M-mortali, S-Socrate sono predicate nella premessa G-gatti , M-mortali, quindi S=G, Socrate è un gatto. Ionesco portava a spasso per Parigi un gatto, a cui aveva dato il nome “Socrate”. Ma il gatto di Ionesco a spasso per i boulevard non è lo stesso del sillogismo, che l’autore romeno portò in scena all’Odeon con la commedia “Il rinoceronte” nella prima del 22 gennaio 1960.” Rosiello ci teneva a far sapere che era ben informato, d’altronde era un Logico Matematico, come Russell e Wittgenstein, che pure parlavano di “Socrate” e “rinoceronti”. In una lettera (1911) a Ottoline Morrell, Russell scrive: “Credo che il mio ingegnere tedesco sia pazzo, ritiene che nulla sia empiricamente conoscibile. Ho chiesto di fargli ammettere che non c’era un rinoceronte nella stanza, ma si è rifiutato.” Si riferiva a Wittgenstein, il quale non riconosceva esistente nulla tranne le proposizioni linguistiche. Nell’occasione, sembra che Russell avesse guardato un po' dappertutto nella stanza, dove conversava con l’autore del Tractatus, anche dietro il divano e le poltrone, ma non era riuscito a rintracciare il rinoceronte. Nella prima parte dei “Principia Mathematica”, quella dedicata alla Logica, “Gli indefinibili della matematica” Russell ricorre più volte a “Socrate”, indicato prima come una costante logica: “Una costante è qualcosa di definito in modo assoluto, nei cui riguardi non esiste ambiguità alcuna. Quindi 1,2, 3… Socrate sono costanti; e così uomo, e la razza umana, passato, presente, futuro, considerati insieme. Proposizione, implicazione, classe etc. sono costanti; ma una proposizione, ogni proposizione, alcune proposizioni non sono costanti; queste frasi, infatti, non denotano un oggetto definito.” Il distinguo riguarda “una”, “ogni”, “alcune”, i. e. gli aggettivi indefiniti che appunto rendono indefinita la proposizione. Più avanti, riferendosi alla deduzione di una proposizione da un’altra proposizione, scrive: “È chiaro che quando deduciamo giustamente una proposizione da un’altra, lo facciamo in virtù di una relazione valida tra le due proposizioni, e questo sia se lo avvertiamo o no; la nostra mente, difatti, nell’atto della deduzione è tanto puramente ricettiva quanto il senso comune ritiene che sia nella percezione degli oggetti sensibili. La relazione in virtù della quale è possibile la validità della nostra deduzione è quella che io chiamo implicazione materiale. […] La relazione in realtà vale quando deve valere, senza riferimento alcuno alla verità o alla falsità delle proposizioni implicate. […] Non si potrebbe certo sostenere che la proposizione “2 + 2 = 4” può essere dedotta da “Socrate è un uomo”, senza uscire dal senso comune. […] Nelle deduzioni ottenute da “Socrate è un uomo” è normale non considerare il filosofo che diede tanti grattacapi agli Ateniesi, ma considerare Socrate semplicemente come un simbolo valido per significare qualsiasi uomo; e solo un volgare pregiudizio in favore delle proposizioni vere impedisce la sostituzione di Socrate con un numero, una tavola o una torta.”
Perché proprio “Socrate” scelto come oggetto logico? Russell ripeteva Aristotele, che è stato il primo a fare di Socrate un oggetto logico: “Se il dire “Socrate è sano” risulta il contrario del dire: “Socrate è ammalato”, e se d’altro canto non è possibile che queste due determinazioni appartengano simultaneamente al medesimo oggetto, non potrà dirsi allora che sussistendo uno dei due contrari, sussista anche l’altro. In effetti, quando sussista la proposizione: “Socrate è sano”, non potrà sussistere la proposizione: “Socrate è ammalato.” (Categorie, 11, 14a). Appare chiaro che il paradosso di Ionesco, come ogni paradosso, è una conclusione rigorosamente logica, anche se contrasta con il nostro modo abituale di vedere le cose. L’antinomia invece è un’autentica contraddizione, un qualcosa che partendo da un sì volge al no, e partendo dal no volge al sì, una contraddizione. Penso che stiamo avviandoci al termine del nostro discorso, cari ascoltatori, ma prima di congedarmi da voi, vorrei proporvi un sillogismo parallelo a quello del “Socrate-gatto”, proponendovi un “Aristotele-tiranno “. Ormai abbiamo tutti gli strumenti e scivoliamo verso la conclusione molto rapidamente. Nel “Parmenide” di Platone, all’inizio del dialogo, tra gli altri personaggi compare Aristotele: “Presso Pitodoro, fuori delle mura, nel Ceramico, era giunto Socrate, e insieme a lui molte altre persone, tutte desiderose di ascoltare la lettura dell'opera di Zenone […]. In quel tempo Socrate era assai giovane, fu lo stesso Zenone a leggere il libro, mentre Parmenide, per caso, si trovava fuori di casa: mancavano ancora poche righe al termine della lettura, quando lo stesso Pitodoro disse di essere entrato in casa da fuori, e con lui Parmenide e Aristotele, quello che aveva fatto parte dei Trenta Tiranni e ascoltarono ancora poche righe del libro.” In una nota al dialogo, riportato sulla Blogosfera, ho letto queste righe: “Si allude al grande filosofo Aristotele (384-322 a.C.), assai giovane nel periodo in cui si svolge il dialogo. Come ricorda Platone, egli fece parte del governo dei Trenta Tiranni, personaggi politici di tendenze oligarchiche, che nel 404 si erano impadroniti del potere ad Atene, rovesciando la democrazia.” Ora, se controlliamo le date, il regime dei Trenta Tiranni risale a 20 anni prima della nascita di Aristotele, in quanto fu rovesciato nel 403 dai democratici di Trasibulo. Sul personaggio del dialogo, così scrive un autorevole commentatore di Platone: “C’è un nome che fa sobbalzare tutti i lettori, il giovane Aristotele, che quasi a prevenire illazioni, viene subito presentato come “quello che fu uno dei Trenta Tiranni”. È quindi certamente un personaggio storico, si tratta probabilmente dell’Aristotele “statista ateniese, autore di graziosi discorsi forensi, di cui parla Diogene Laerzio, V, 35. […] Tuttavia , i numerosi riferimenti allo Stagirita e il fatto che questi, da parte sua , non cita mai il “Parmenide”, consente ai vari critici di ipotizzare che qui Platone abbia voluto ironizzare nei confronti del suo allievo.” Veniamo, allora al nostro sillogismo: “P (p1. p2. p3. … pn…) = V ; A = P(t) ; A = V(t). P = personaggi dialoghi; V = veri; A = Aristotele; (t) tiranno. I personaggi dei dialoghi sono veri, Aristotele è un personaggio tiranno, Aristotele è un vero tiranno. Confrontando il nostro sillogismo su Aristotele con quello di Ionesco, dobbiamo dedurre che i filosofi sono tutti gatti e tiranni. Ha scritto il mio amico Giorgio Piovesani in esergo al suo libro “I segreti della Logica”: “Che la logica sia sempre stata illogica non è un mistero, il mistero sta nel “perché” la logica è illogica.” È attorno alla risoluzione di questo mistero, per il logico non un mistero, ma un problema, che i logici e matematici continueranno sempre a lavorare. Buon lavoro, ragazzi, e auguri!” Al gesto di saluto con la mano dell’illustre accademico italiano, nell’Aula Magna, scrosciò l’applauso finale dell’uditorio. La lectio magistralis era finita.
Quando ci avviammo all’uscita, sentii che dalla folla di ragazzi, uno chiamò Josephine. Lei si voltò, fermandosi, pensai di approfittarne per sganciarmi, allungai il passo e fui subito all’aperto, sulla Place du Panthéon. “Marius, je t’accompagne”, Josephine mi aveva raggiunto, non voleva mollarmi, si voltò e fece un gesto d’intesa all’amico, come a dire di aspettarla, almeno così mi sembrò. Cominciammo a scendere per la Rue Sufflot, nella luce incerta del vespro, si vedeva sullo sfondo in linea retta la Tour Eiffel, eravamo arrivati quasi ai Giardini Lussemburgo, lei mi trattenne per il braccio: “Marius, aspettate me”, (Marius, attendez-moi). Stava telefonando al suo amico in Italia, voleva il mio aiuto, in fondo che diamine! Eravamo ai Giardini di Lussemburgo, non eravamo mica ai Giardini di marzo. Come? “Camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti "Tu muori" "Se mi aiuti, son certa che io ne verrò fuori" Ma non una parola chiarì i miei pensieri Continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri.” Che cosa significa? I giardini di marzo, cantava Lucio Battisti: “Che anno è, che giorno è? Questo è il tempo di vivere con te Le mie mani come vedi non tremano più E ho nell'anima In fondo all'anima cieli immensi E immenso amore E poi ancora, ancora amore, amor per te Fiumi azzurri e colline e praterie Dove corrono dolcissime le mie malinconie L'universo trova spazio dentro me Ma il coraggio di vivere quello ancora non c'è I giardini di marzo si vestono di nuovi colori E le giovani donne in quei mesi vivono nuovi amori “Camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti "Tu muori" "Se mi aiuti, son certa che io ne verrò fuori" Ma non una parola chiarì i miei pensieri Continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri.” Mogol spiega quest’ultima strofa, “non molto chiara”: “Questa è una parte che probabilmente non è stata colta da nessuno e non è molto chiara: ho immaginato una donna che chiede aiuto, perché si sta innamorando di un altro, ma che al tempo stesso ha bisogno di un supporto per uscire da questa situazione, lei si è confessata, lui invece l'ha ignorata per un fatto di orgoglio." Non era il mio caso, il caso di un Marius che non ero io, io sono Mario, Mariolino detto Lino, Linuccio, così mi chiamava allora Melina, non ora, ora è tutta un’altra cosa. Non era comunque marzo, era fine luglio, Melina aspettava alla finestra, no, è più corretto dire aspettava, prima che si chiudesse la finestra, e mi avrebbe ingiunto di tornare a Roma, quella sera stessa. Ma che cosa accadde quella sera? Avevamo ripreso a camminare, svoltando in Boulevard Saint-Michel, Josephine aveva smesso di parlare al telefono e chiuso la comunicazione con l’Italia, ma restava in silenzio. Dopo aver percorso un altro tratto di strada, all’altezza di Place de la Sorbonne, mi voltai verso destra ed ebbi modo di notare l’espressione contrariata di Giuseppina Lamarca. Aveva mormorato un’imprecazione ed era rossa in viso, visibilmente irata. Victor Hugo, rievocando la battaglia di Waterloo, così scrive del famoso episodio di Cambronne: “Un generale inglese, Coleville secondo alcuni, Maitland secondo altri, gridò loro [alla vecchia guardia]: Bravi Francesi, arrendetevi! Cambronne rispose…” In quel frangente ebbi come la sensazione che qualcuno, anzi no, il suo amico dall’Italia le avesse intimato qualcosa sul genere di quanto gridato da Coleville o forse Maitland ai Francesi, o magari parlato di un congedo o un addio alla loro amicizia.
Hugo scrive: “Il lettore francese vuole essere rispettato, la più bella parola forse che un francese abbia mai detto non gli può essere ripetuta. Divieto di depositare del sublime nella storia. A nostro rischio e pericolo, noi infrangiamo questo divieto.” Lamartine ha espresso riprovazione per la presenza della parola di Cambronne nei “Miserabili”: “È la demagogia grammaticale.” Nota Hugo a tal proposito: “È entrata di diritto nel mio libro. È la “miserabile” delle parole.” Giuseppina, anzi Josephine, mi camminava a fianco e guardava davanti a sé, era rossa in viso. Proposi di svoltare in Rue des Écoles, per andare alla statua di Dante, che si trova all’angolo con il College de France, un po' prima Le Champo – l’espace Jacques Tati, una sala per cinema d’autore, a sinistra i giardinetti con la statua della Lupa capitolina, e il busto di Montaigne di fronte alla facciata principale della Sorbona. Nel frattempo, avevo svoltato, lei mi aveva seguito macchinalmente. Eravamo giunti lì davanti, smisi di parlare a vuoto, tacqui e la guardai. Mi disse: “No, continua.” Era inutile proseguire, mi voltai e tornammo indietro verso il Boulevard Saint-Michel. Mentre risalivamo il viale, vedemmo scendere il suo amico francese, fece un cenno, Josephine si voltò verso di me, ci sfiorammo le gote: “Au revoir, Marius.” Voltai le spalle e ripresi a scendere verso la Senna e Notre-Dame, al Museo del Medioevo, pensai di andare a prendere il metrò, alla stazione Cluny-Sorbonne, la linea dieci per Sèvres-Babylon, dove c’era il mio albergo. Si udì una fortissima esplosione, un boato spaventoso, panico generale, urla, gente che gridava, gruppi che correvano da tutte le parti, fui investito da una fiumana, in fuga dalla contigua stazione del metrò, Saint-Michel, collegata sotto terra con Cluny-Sorbonne. Si era levata una grossa colonna di fumo e vedevo il rosso delle fiamme verso l’alto. Mi ritrovai sul Boulevard Saint-Germain sospinto nella corrente umana che si allontanava dal luogo dell’incendio. Si sentirono le prime sirene dei sapeurs-pompiers, delle ambulanze e delle autoradio della polizia. Proseguii a piedi e man mano la folla si diradava. Giunsi in hotel a sera inoltrata, mi telefonò Melina e disse che dovevo immediatamente rientrare a Roma, si stava per chiudere la finestra. E allora? Ripartii all’indomani, e sbarcai a Fiumicino, iniziava un’altra storia, la mia, che poi vi racconterò.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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GATTI E TIRANNI
PROLOGO
La conferenza era stata organizzata dall’Università della Sorbona, nel luglio del 2024, ricordo bene quell’anno, anche se da allora sono passati quasi cinquant’anni. La lezione magistrale del professor Luigi Rosiello si tenne nell’aula magna della Faculté de droit, quella con l’entrata in Place du Panthéon, anche se per i contenuti della materia, la lezione era di carattere non giuridico, ma scientifico: “Il sillogismo nella logica matematica”. Rosiello era un filosofo e matematico di fama internazionale, teorico di logica e matematica, disciplina quest’ultima in cui non aveva ricevuto il Nobel, perché ai suoi tempi non era stato ancora istituito il Nobel per la matematica, com’è in verità anche adesso. Era titolare della cattedra di “Scienza della logica e della matematica” all’Università Federico II di Napoli, lucasiano di Cambridge ad honorem, teneva corsi di Teoria della Logica all’Istituto filosofico della nostra città partenopea. Esprimo questa appartenenza, perché avevo seguito in via telematica diverse lezioni del Magister Rosiello sulla Teoria della Logica.
Fu una giornata memorabile, almeno per me, infatti la ricordo ancora con estrema chiarezza. Sapevo che nel periodo estivo la Sorbona organizzava queste conferenze dedicate agli studenti Erasmus e aperte a tutti, e quando scoprii che una di queste era tenuta dal professor Rosiello, mi affrettai a recarmi sul luogo all’ora prefissata. Devo dire che in quel tempo mi trovavo a Parigi in vacanza, con pochi soldi, ma con un gran desiderio di conoscere e fare esperienza delle avventure del mondo, oh, che desiderio e amore di conoscenza avevo! E chi incontrai alla Sorbona? Giuseppina Lamarca. Era una ragazza originaria del luogo, si chiamava Josephine, ma i genitori erano italiani emigrati in Francia per lavoro. Aveva qualche anno meno di me, io mi vantavo di essere del millennio scorso, perché sono nato a ottobre del 2000 d.C., il XXI secolo è iniziato il primo gennaio del 2001. Si capiva subito dai tratti somatici che Giuseppina non era celtica o gallica, io volevo sottrarmi alla sua compagnia, ma dovetti accettare la situazione. Si sedette accanto a me sui banchi in alto, e quando scesi giù, mi seguì.
Nell’aula gremitissima, c’era gente seduta per terra in ogni dove, molti parlavano, poi entrò Rosiello, preceduto da un giovane professore francese della Sorbona e seguito da Cannizzo, noto romanziere e letterato siciliano, autore di un apprezzato studio critico sul “Gattopardo” del principe Tommasi di Lampedusa. Cannizzo aveva tenuto, qualche giorno prima, una conferenza sulla letteratura italiana e in particolare sulla figura di Pirandello, a cui io non avevo assistito. Il giovane professore della Sorbona presentò al pubblico Rosiello, mi ricordo che era molto gioviale, e non so perché, ma sembrava provare una certa allegra simpatia per Cannizzo, almeno così traspariva da quel suo ridere nei suoi confronti. Il nostro letterato fortunatamente parlò poco, un linguaggio tipo i romanzi di Camilleri, molti presenti, moltissime le donne di qualsiasi età, mostravano segni di forte imbarazzo nel cercare di capire quello che diceva Cannizzo. Osservai una che si aggiustava all’orecchio l’auricolare, ma credo che anche l’interprete in cabina avesse difficoltà a tradurre le parole di Cannizzo. Stava parlando delle vacanze in Sicilia, menzionò la ìsula dî Cunigghi, ricordo questo particolare, perché l’immagine dei conigli mi ricordava i numeri di Fibonacci.
Infine, prese la parola Rosiello, una liberazione rispetto a Cannizzo. Esordì in francese, capivo un po' tutto, citò Ionesco: “I gatti sono mortali, Socrate è mortale, dunque, Socrate è un gatto." Tutti risero, anche Josephine, anch’io. Quando iniziò la sua lectio magistralis, sul sillogismo logico matematico, cambiò lingua e cominciò a parlare in italiano. Registrai la lezione e in seguito la ricopiai, ma per circostanze che chiarirò dopo, persi sia la registrazione che la copia, e quindi, a distanza di tempo, dovetti riscriverla a memoria, con qualche lacuna o imprecisione, ma restando fedele al testo.
1. LECTIO MAGISTRALIS
“Come sappiamo, nei “Primi Analitici”, Aristotele formula la sua teoria sul sillogismo, dandone una definizione generale: “Il sillogismo è un discorso, in cui posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistano.” Quindi distingue il sillogismo perfetto, dove non è necessario aggiungere altro per sviluppare la deduzione dai termini generali, da quello imperfetto, dove al contrario, per ottenere la deduzione, è necessaria l’aggiunta di uno o altri oggetti in premessa. Specifica inoltre che se un termine è contenuto nella totalità di un altro termine equivale a dire che questo termine si predica di ogni oggetto dell’altro. “Tutti i gatti sono mortali, Socrate è un mortale”: la premessa dice mortale, e quindi anche Socrate è predicato.” Vi fu un accenno di risata generale, che si spense subito, non appena Rosiello citò il motto latino: “Dictum de omni et nullo”. In questa sentenza, la filosofia medievale ha voluto riconoscere il principio dell’intera sillogistica aristotelica. La formula estesa dice così: “Quiddquid de omnibus valet, valet etiam de quibusdam et singulis. Quiddquid de nullo valet nec de quibusdam nec de singulis valet.” La locuzione latina possiamo tradurla in linguaggio logico matematico: quello che si dice di tutti gli elementi di un insieme corrisponde anche ad alcuni di essi, quello che non si dice di nessuno dei membri di un insieme non corrisponde ad alcuni di essi. Quello che si predica, per es., per un tutto A. dell’insieme, si estende anche ai singoli elementi: a1. a2. a3. … an… , e ad ogni elemento di esso.
Sulla grande lavagna luminosa apparve una prima immagine, che rappresentava lo schema della premessa del sillogismo aristotelico. [IMMAGINE COPERTINA]
Quindi venne proiettata anche l’immagine della conversione della premessa, secondo le quattro indicazioni formulate da Aristotele:
1.1 Premessa universale negativa
A. a1. a2. a3. … an…
B. b1. b2. b3. … bn…
Necessaria la conversione dei termini A-B. Nessuna A. a. corrisponde B. b., quindi nessuna B. b. corrisponde A. a.
1.2 Premessa universale positiva
A. a1. a2. a3. … an…
B. b1. b2. b3. … bn…
Necessaria la conversione dei termini, ma in forma particolare.
2.1 Premessa particolare positiva
A. a1. a2. a3. … an…
B. b1. b2. b3. … bn…
Necessaria la conversione dei termini, in forma particolare.
2.2 Premessa particolare negativa
A. a1. a2. a3. … an…
B. b1. b2. b3. … bn…
Non necessaria la conversione.
“La conversione esaminata mette a confronto insiemi positivi con insiemi negativi. La moderna logica matematica ha contestato la validità della legge di conversione della premessa universale positiva (1.2.). Jan Łukasiewicz, logico polacco, ha osservato però che tale legge può essere contestata solo nel presupposto di termini vuoti e singolari, ma sta di fatto che tali termini non sono presi in esame da Aristotele. Ora, che cosa possiamo osservare guardando queste quattro proposizioni? Sono composte da due serie progressive, secondo l’ordine dei numeri naturali. Questa osservazione ci permette di passare così dal campo della logica a quello della matematica, avendo guadagnato dalla scomposizione (analisi) della sillogistica aristotelica due principi di fondo, traducibili nelle nozioni di “insieme” e “appartenenza”. Sono proprio questi i due fondamenti, su cui si basa la teoria degli insiemi infiniti elaborata dal matematico tedesco Georg Cantor. Un insieme è pensato come una collezione di oggetti, gli elementi appartenenti all’insieme, definiti in matematica anche come membri di una classe. La serie progressiva dei numeri naturali, dovuto all’esigenza del contare e calcolare, è stato l’insieme più semplice da configurare, e sin dall’inizio possiamo dire gli uomini si sono arrangiati con le dita, con i sassolini, o i segni per rappresentare i numeri. La serie dei numeri naturali è stata sempre pensata come un accrescimento progressivo dei numeri fino al numero sempre più grande. Ma qual è il numero più grande? Quello sempre successivo all’ultimo (+1) per una serie che non finisce mai, infinita, pensabile come potenzialmente in crescita. È l’infinito potenziale, quello che sembra unicamente ammissibile, come riteneva Aristotele.
“Poiché la scienza della natura studia le grandezze, il movimento e il tempo, ciascuna di queste cose deve essere necessariamente o infinita o limitata quando anche accade che non ogni cosa sottostà a questa alternativa di essere infinita o limitata, come ad esempio una affezione o un punto (poiché queste cose non sono necessariamente l’una o l’altra), sembra conveniente, per chi si occupa della natura, esaminare il problema dell’infinito, se esso è o non è; e se è, che cos’ è.” (Fisica, III, 202 b 30-36)
Procedendo in avanti, così ragiona: “È chiaro, poi, che non si può ammettere che l’infinito esista come un essere in atto o come sostanza e principio. Infatti, qualsiasi parte desunta da esso sarebbe infinita, se esso fosse definibile in parti – invero, ciò che è all’infinito, è infinito esso stesso, se pur l’infinito è sostanza e non è in relazione a un sostrato. Ma che la medesima cosa sia molti infiniti, è impossibile – perché anzi, come una parte di aria è aria, così una parte di infinito è infinito, se l’infinito è sostanza e principio. Dunque esso è impartibile e indivisibile. Ma è impossibile che ciò che è in atto sia infinito, difatti è necessario che sia una quantità.” (Ivi, III, 204 a 22-28)
Queste osservazioni però non escludevano l’opportunità di porsi il problema dell’infinito in atto come oggetto di studio di matematica: “Comunque, questo nostro discorso non intende sopprimere per nulla le ricerche dei matematici per il fatto che esso esclude che l’infinito per accrescimento sia tale da non essere percorso in atto. In realtà essi stessi, allo stato presente, non sentono il bisogno dell’infinito e non ne fanno uso, ma solo di grandezze così grandi quanto si vuole, ma limitate”. (Fisica, III, 207 b, 28-33). È significativo che Aristotele parli dell’infinito in atto, sia pure per respingerne se non la concezione, quanto meno la sua realtà.
E infatti la scoperta matematica di Cantor resta un discorso logico, ma fino a che punto realizzabile in concreto? Scoprire che aggiungere o sottrarre un elemento a un insieme infinito o dividerli, senza variare il risultato sono operazioni matematiche, che Aristotele aveva già presunto in linea di principio astratto, ma senza darvi concretezza reale: “Qualsiasi parte desunta da esso [infinito] sarebbe infinita, se esso fosse definibile in parti – invero, ciò che è all’infinito, è infinito esso stesso.”
Quando Cantor formulò la sua teoria degli insiemi, andando oltre l’infinito potenziale aristotelico, ammettendo l’esistenza dell’infinito in atto, aveva posto le basi di una teoria fondamentale della matematica moderna, che resterà in seguito soltanto una branca della matematica, non il suo fondamento logico. Gli elementi della teoria degli insiemi servirono a Russell per il suo tentativo di ricondurre alla logica tutti i principi della matematica, iniziando dalla serie dei numeri naturali, ma il tentativo si rivelò illusorio proprio con la scoperta del paradosso da parte dello stesso Russell.
L’esistenza della successione infinita dei numeri interi è un postulato necessario per l’esistenza della matematica stessa, senza il quale non sarebbe possibile neppure la semplice operazione logica del contare. Ora, se confrontiamo tra loro due insiemi di oggetti che hanno la stessa quantità e contandoli uno ad uno, annotiamo ogni volta la loro cifra, osserviamo alla fine una certa somiglianza tra loro. È la caratteristica che conosciamo come corrispondenza biunivoca tra due insiemi. Se poi associamo a questo confronto un terzo insieme formato dalla serie dei numeri naturali, avremo compiuto un’operazione logica, che ci porta a numerare insiemi simili. E possiamo pensare quindi che se vi è una corrispondenza biunivoca tra i due insiemi di oggetti, il numero di questi ultimi sia potenzialmente infinito come quello della serie dei numeri naturali, rispetto ai quali entrambi hanno la stessa corrispondenza biunivoca.
Nell’operazione ultima compiuta, ci appare una contraddizione: la serie dei numeri naturali è (potenzialmente) infinita, non quella degli oggetti, che avvertiamo finita. E qui dobbiamo affrontare l’antico paradosso, formulato matematicamente da Zenone, che per un certo verso ci conduce alla scoperta dell’ammissibilità dell’infinito attuale di Cantor, e dall’altro alla sua ipotesi del continuo. Ma prima di affrontarlo, io proporrei di compiere una pausa caffè.” Poco dopo, la cattedra fu circondata da gruppi di studenti, perlopiù studentesse. Io guardai Josephine, ma capii che non era molto interessata al professore. Così andammo a prendere il caffè insieme.
INTERVALLO
Parlavo il mio incerto francese, lei tentava di parlare in italiano, ma non le riusciva bene, allora mentre in corridoio facevamo la coda alla macchinetta del caffè, dissi: “Préférez-vous que je m'exprime en italien?” Josephine s’illuminò in volto: “Je adore quand vous parlez en italien.” Eh, già! Disse che la sua famiglia era originaria di Rocca di Papa, il padre era morto, e la madre si era sposata di nuovo con un mercante di Bordeaux, dove si era trasferita con il marito, lei invece era rimasta a Parigi. Io dissi che una mattina di primavera, era una domenica, ero andato a fare una passeggiata da Roma a Rocca di Papa, era ancora fresco nell’aria, e per strada eravamo soli, io e la mia amica, la mia bicicletta.” Accennai a ridere, Josephine mi guardò interdetta, chissà che cosa aveva capito! Lei era italiana, era francese, ma il suo intuito femminile non la tradiva. Mi raccontò che l’estate scorsa aveva fatto un viaggio in motocicletta con un amico in Inghilterra, fino in Scozia. Non le dissi di Melina, ma credo che a Josephine interessasse poco, almeno in quella situazione, questo lato della mia persona invisibile, quello che Jung chiama anima (modello femminile) nel maschio e animus (modello maschile) nella femmina, quella caratteristica che chiamiamo in genere anima gemella. E allora? Era già stata in Italia, ma non era riuscita a rintracciare un suo amico napoletano, che aveva conosciuto a Parigi. Stavamo rientrando in aula, mi feci dare il nome del suo amico e tramite ricerche sulla rubrica italiana del telefono, che avevo sul tablet, rintracciai il numero e lo inviai in e-mail sul suo iPhone, eravamo seduti ai banchi, lei controllò, era arrivato. Era rientrato in aula anche Rosiello, che riprese la sua lectio magistralis, eravamo rimasti al paradosso di Zenone e all’ipotesi del continuo di Cantor.
2. LECTIO MAGISTRALIS
Sulla lavagna luminosa era apparsa una formula, che attirò subito la mia attenzione:
1 = (1/2)1 + (1/2)2 + (1/2)3 + (1/2)4 + (1/2)5 + … =
= 1/2 + 1/4 + 1/8 + 1/16 + 1/32 + … =
= 0,5 + 0,25 + 0,125 + 0,0625 + 0,03125 + …
Ero così concentrato a contemplarla, contemplazione è la parola esatta per esprimere lo stato d’animo stupefatto suscitato in me dall’apparizione di quella cinquina, che sentivo risuonare le parole dell’accademico in cattedra come nella lontananza di un sogno. Era vero! aveva ragione Platone, la conoscenza è reminiscenza. Nella sua vita precedente, la mia anima levatasi in alto nell’oltre-celeste regno delle Idee, aveva contemplato l’eterna verità e bellezza di quella formula matematica, e ora vivente in me, la riconosceva ovvero la ricordava. È la scomposizione del passaggio dall’ 1 al 2, che rivela l’infinita distanza tra i primi (allora mancava lo zero) due numeri interi, e in quest’analisi (dal greco ἀνάλυσις, derivato da ἀναλύω «scomporre, risolvere nei suoi elementi») la formula di Zenone precorre l’infinito in atto di Cantor.
Il professore illustrava la formula: “La cinquina, non quella del gioco del lotto, per “La Smorfia” la mano …” Rosiello tacque, sorridendo, mentre il suo vicino, il professore francese della Sorbona, spiegava in francese all’uditorio le parole dell’accademico italiano, che nel contesto risultavano un po' enigmatiche. Io, ancora in estasi, avvertii soltanto l’eco della frase: “… Le livre napolitain de l'interprétation des rêves.” Vi fu un breve coro di risa, quindi Rosiello proseguì la sua spiegazione, io intanto ricominciavo a rientrare nella realtà dal mio viaggio ideale. Che cosa avevo visto? La progressione numerica mi ricordava qualcosa. Ma che cosa? Teodoro, il matematico dell’accademia di geometria, era stato lui a parlare di una serie di numeri simile, ma in un diverso contesto discorsivo, o lo stesso Rosiello nelle sue lezioni telematiche? Intanto, ebbi come la percezione che Josephine, approfittando del mio stato estatico, avesse in certo modo trafficato con il mio tablet, la guardai, mi sorrise.
“L’antica formula matematica di Zenone dimostra che il numero 1 è uguale alla somma di 1/2 elevato alla potenza uno più 1/2 elevato alla seconda, più 1/2 elevato alla terza, poi alla quarta, alla quinta, e così via di seguito in progressione all’infinito. Guardando la formula scritta, possiamo osservare come la serie progressiva delle potenze corrisponde alla serie dei numeri naturali e che entrambe sono insiemi infiniti in corrispondenza biunivoca. Cantor numerò la serie dei numeri cardinali interi con l’aleph ebraico e il suffisso o, per distinguerlo dagli altri infiniti più grandi, che avranno altri suffissi. Quindi, il nome del più piccolo infinito cardinale è No. Mettendo a confronto la serie infinita dei numeri naturali con quella infinita della frazione 1/2 elevata a potenza, nella progressione dei numeri interi degli esponenti, scopriamo che i due insiemi infiniti sono equipotenti, secondo la definizione di Cantor.”
Rosiello illustrava la formula di Zenone e le sue parole mi giungevano come soffuse, essendo io ancora sotto l’impressione della visione estatica da cui mi ero appena riavuto. Mi sembrava di vedere l’equazione di Cardano (5 +√-15) (5 -√+15), da dove mi giungeva questa immagine?
Adesso l’accademico stava spiegando come accanto ai due infiniti equipotenti aleph zero, Cantor ne aveva collocati altri, sempre a livello di aleph-0: gli insiemi dei numeri pari, dei numeri dispari, dei numeri razionali, allo stesso livello aleph zero. Quindi parlò di Galilei, che riflettendo sul problema dell’infinito, si era imbattuto nel paradosso della parte uguale al tutto. Infatti, confrontando la progressione dei numeri naturali N e quella dei quadrati, nel loro progresso ad infinitum, entrambe risultano sempre uguali di numero tra loro. Galilei, rilevando il paradosso, come matematico si rifiutò di indagare oltre, non avendo necessità nei suoi calcoli della dimensione dell’infinito, come a suo tempo aveva rilevato Aristotele: “Essi stessi [i matematici], allo stato presente, non sentono il bisogno dell’infinito e non ne fanno uso, ma solo di grandezze così grandi quanto si vuole, ma limitate…” (Fisica, III, 207 b).
“Il paradosso oltre il quale Galilei non volle andare, fu risolto quindi da Cantor con l’equivalenza o equipotenza degli insiemi infiniti, attraverso lo strumento della corrispondenza biunivoca tra i termini dell’uno con i termini dell’altro. Ecco perché le operazioni aritmetiche non influiscono sul risultato degli infiniti, che rimangono sempre invariati se ad essi si aggiunge o toglie qualcuno dei loro termini. E così anche una parte può risultare equivalente con il tutto. In tema di infiniti, dice Russell, se non di eguaglianza vera e propria, si può parlare di equivalenza. Ma il 12 dicembre 1873, si verificò un fatto straordinario: Cantor scoprì che esiste un infinito più potente dell’infinito numerabile, un infinito che non si poteva enumerare. La serie dei numeri interi, per quanto infinita, non era così potente da numerare questo nuovo tipo di infinito. Siamo arrivati al secondo versante del nostro discorso iniziato con la formula di Zenone: l’ipotesi del continuo. Dato un segmento minimo, diciamo il raggio di protone, R = 7 x 10-14, quello al di sotto del quale inizia la Fisica Subnucleare, anche in tale infinitesima frazione di segmento, è possibile immaginare un numero infinito di punti, che costituiscono un Insieme Infinito di punti superiore all’Insieme Infinito Numerabile. Questa ipotesi del continuo può più facilmente essere intesa con la figurazione della regressio ad infinitum della sezione aurea, numericamente espressa da un numero irrazionale: φ = 1,6180339887... Il numero aureo è dato dal rapporto tra due lati di un rettangolo che abbia una proporzione tale per cui, eliminata la parte quadrata del rettangolo, rimane un rettangolo minore a quello dato, che a sua volta costituisce un rettangolo aureo. Questa caratteristica di una successione telescopica senza fine del rettangolo aureo, che rivela la dimensione dell’infinito, è configurabile anche con la stella pitagorica, il pentagramma, inscritto in un pentagono, che evidenzia un altro pentagono al suo centro e così via nell’infinitamente piccolo.
Un modo per comprendere la scoperta di Cantor consiste nella riflessione sui numeri irrazionali a confronto con quelli razionali. Questi ultimi, dopo la virgola presentano un numero di decimali che a un certo punto finisce o si ripete con qualche regolarità (numeri periodici). Ora, nella serie dei numeri razionali, tra un numero e un altro, vi saranno infiniti numeri interi e razionali, tutti infiniti con la stessa potenza degli Infiniti Numerabili. Diversamente, i numeri irrazionali sono caratterizzati dal fatto di avere, dopo la virgola, una serie infinita di numeri, che non rende possibile specificarli. Ora, tra due numeri irrazionali vicini tra loro, vi è un’infinità di numeri irrazionali, tale che non basta l’Infinito dei numeri interi per contarla e quindi numerarla. Se contiamo con la serie dei numeri interi e razionali, le progressioni sono “quantizzate”, si succedono per “quanti”, tra un numero e l’altro; se invece contiamo con tutti i numeri reali, quindi compresi gli irrazionali, incontreremo una successione all’infinito di numeri non quantizzabile, ma progressiva solo di “continuo”, come la progressione dei punti immanenti su una linea. Cantor ritenne questo Infinito di potenza superiore a ogni Infinito Numerico e chiamò ”potenza del continuo” l’infinità dei suoi elementi, inoltre assegnò a questo Infinito il livello aleph-1 superiore a quello numerico.
L’ipotesi del continuo, come la definirono i matematici del tempo, divenne uno dei problemi da risolvere della lista stilata da David Hilbert, quando in occasione dell’Expo del 1900, tutti i matematici si riunirono qui, nella ville lumière, per un congresso internazionale. Il problema appariva insolubile, come era accaduto a Galilei.
“L’infinito è per sé solo da noi incomprensibile, come anco gl’indivisibili; or pensate quel che saranno congiunti insieme: e pur se vogliamo compor la linea di punti indivisibili, bisogna fargli infiniti; e così conviene apprender nel medesimo tempo l’infinito e l’indivisibile […] Qui nasce il dubbio, che mi pare insolubile: ed è, che essendo noi sicuri trovarsi linee una maggior dell’altra, tutta volta che ambedue contenghino punti infiniti bisogna confessare trovarsi nel medesimo genere una cosa maggiore dell’infinito, perché la infinità de i punti della linea maggiore eccederà l’infinità de i punti della minore.” (“Discorsi e dimostrazioni matematiche”, 1638)
Sugli indivisibili e l’immanenza dei punti sulla linea, così si era espresso Aristotele: “Orbene, come i punti non sono contigui gli uni agli altri, così pure gli avvenimenti passati lo sono: in entrambi i casi si tratta di oggetti indivisibili. In tal caso, neppure ciò che diviene risulta contiguo a ciò che è divenuto per la stessa ragione: in realtà, ciò che diviene è divisibile, mentre ciò che è divenuto risulta indivisibile. Ed allora il rapporto che sussiste tra la linea e il punto è lo stesso che sussiste tra ciò che diviene e ciò che è divenuto: all’oggetto che diviene sono infatti immanenti infiniti oggetti che sono divenuti.” (Secondi Analitici, 95 b 5-10)
Ora, sulla base che la potenza infinita dei numeri interi è il primo livello d’Infinito (aleph-0), e la potenza del Continuo è il secondo (aleph-1), è legittimo domandarsi se esistono uno o più livelli di potenza superiore e così all’infinito.
Cantor intuì l’esistenza di Insiemi Infiniti sempre più potenti fino all’Infinito assoluto inattingibile dall’infinito attuale, ma la sua intuizione fu assiomatizzata trentacinque anni dopo da Zermelo: “L’assioma della scelta”. Nella collezione di un numero infinito di insiemi non vuoti, si può sempre costruire un nuovo insieme, "scegliendo" un singolo elemento da uno degli insiemi infiniti della collezione.
L’ipotesi del continuo era stata assiomatizzata, ma non dimostrata come richiesto da Hilbert. Soltanto, nel 1940, il grande logico austriaco, Kurt Gödel, riuscì a dimostrare che per Insiemi Infiniti “costruibili”, l’ipotesi del Continuo intuita da Cantor era vera. E con Gödel siamo arrivati al cuore del nostro discorso logico matematico.”
A questo punto, lo ricordo bene, oh, sì! come lo ricordo! Josephine si volse a guardarmi e io dissi: “L'Italie au coeur”.
“Un’affermazione o un teorema o è vero o è falso. Non è dimostrabile che sia vero e falso, dire “Vero = Falso” è contraddittorio. Gödel scoprì (1931) che nell’ambito della Logica, su cui si costruisce l’Aritmetica, esistono Affermazioni o Teoremi indecidibili, non si può decidere se sono veri o falsi. – I gatti sono mortali, Socrate è mortale, dunque, Socrate è un gatto. – Il sillogismo di Ionesco è vero o falso?”
L’interrogativo di Rosiello colse di sorpresa l’uditorio, tutti aspettavamo la risposta, che arrivò presto. “È vero e falso” disse. L’accademico fece scorrere il suo sguardo su tutta l’ampia Aula Magna della “Faculté de droit” della Sorbona, dai banchi su in alto fino alle prime fila in basso più vicine alla cattedra. La sua affermazione ultima era in contraddizione alla sua immediatamente precedente. E quindi?
“Il criterio logico per decidere la contraddizione tra le mie due affermazioni: [A (Vero = Falso) è contraddittorio] [B (Vero ≠ Falso) non è contraddittorio], può ottenersi mettendo a confronto le due proposizioni A e B come termini del primo membro di un’equazione, il cui secondo membro si presenta nei termini di Vero/Falso.
A (Vero = Falso) ∩ B (Vero ≠ Falso) = Vero ∩ Falso. La soluzione prevede quattro ipotesi: 1. [A = Vero]; 2. [A = Falso]; 3. [B = Vero]; 4. [B = Falso].
1. [A (vero = falso) = Vero] = Falso
2. [A (vero = falso) = Falso] = Vero
3. [B (vero ≠ falso) = Vero] = Vero
4. [B (vero ≠ falso) = Falso] = Falso
Eliminando i due risultati “Falso”, rimangono i due “Vero”: la “falsità” di A e la “verità” di B. Il risultato dell’equazione conferma l’assunto che la contraddittorietà dice il falso, la non-contraddittorietà dice il vero, quindi A = Falso, B = Vero. Abbandoniamo, allora, le strade della ragione ed entriamo nel teatro dell’assurdo, un luogo dove forse noi logici siamo di casa…”
Rosiello tacque, in attesa della reazione dell’uditorio, un momento soltanto per la traduzione simultanea (che simultanea non è mai, ma sempre consecutiva), quindi arrivò l’approvazione con risa e applausi, poi l’oratore riprese a parlare.
“Ammettiamo, senza voler evocare la dialettica hegeliana, che la contraddittorietà non sia un assurdo, ma un risultato logico, e scriviamo A = Vero, B = Falso. E così scrivendo, abbiamo commesso un peccato mortale contro la Logica, e quindi ci tocca espiare la pena all’Inferno, dove il diavolo ci ha condotto con sé, ammonendoci:
“Ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch’io loico fossi!"
(Inferno XXVII, v. 118-123)
Rosiello aveva estratto un foglietto dalla tasca e l’aveva passato al suo collega della Sorbona, che lesse i versi danteschi (la traduzione era stata già scritta) a beneficio dell’uditorio di lingua francese, che all’ascolto approvò calorosamente. Intanto sulla lavagna luminosa era apparsa una nuova immagine:
“G (g1. g2. g3. … gn…) = M ; S = M ; S = G.
“P (p1. p2. p3. … pn…) = V ; A = P(t) ; A = V(t)
“Quindi il sillogismo di Ionesco è falso e vero: “I gatti sono mortali, Socrate è mortale, dunque, Socrate è un gatto." Le componenti del termine medio M-mortali, S-Socrate sono predicate nella premessa G-gatti , M-mortali, quindi S=G, Socrate è un gatto.
Ionesco portava a spasso per Parigi un gatto, a cui aveva dato il nome “Socrate”. Ma il gatto di Ionesco a spasso per i boulevard non è lo stesso del sillogismo, che l’autore romeno portò in scena all’Odeon con la commedia “Il rinoceronte” nella prima del 22 gennaio 1960.” Rosiello ci teneva a far sapere che era ben informato, d’altronde era un Logico Matematico, come Russell e Wittgenstein, che pure parlavano di “Socrate” e “rinoceronti”. In una lettera (1911) a Ottoline Morrell, Russell scrive: “Credo che il mio ingegnere tedesco sia pazzo, ritiene che nulla sia empiricamente conoscibile. Ho chiesto di fargli ammettere che non c’era un rinoceronte nella stanza, ma si è rifiutato.” Si riferiva a Wittgenstein, il quale non riconosceva esistente nulla tranne le proposizioni linguistiche. Nell’occasione, sembra che Russell avesse guardato un po' dappertutto nella stanza, dove conversava con l’autore del Tractatus, anche dietro il divano e le poltrone, ma non era riuscito a rintracciare il rinoceronte.
Nella prima parte dei “Principia Mathematica”, quella dedicata alla Logica, “Gli indefinibili della matematica” Russell ricorre più volte a “Socrate”, indicato prima come una costante logica: “Una costante è qualcosa di definito in modo assoluto, nei cui riguardi non esiste ambiguità alcuna. Quindi 1,2, 3… Socrate sono costanti; e così uomo, e la razza umana, passato, presente, futuro, considerati insieme. Proposizione, implicazione, classe etc. sono costanti; ma una proposizione, ogni proposizione, alcune proposizioni non sono costanti; queste frasi, infatti, non denotano un oggetto definito.” Il distinguo riguarda “una”, “ogni”, “alcune”, i. e. gli aggettivi indefiniti che appunto rendono indefinita la proposizione. Più avanti, riferendosi alla deduzione di una proposizione da un’altra proposizione, scrive: “È chiaro che quando deduciamo giustamente una proposizione da un’altra, lo facciamo in virtù di una relazione valida tra le due proposizioni, e questo sia se lo avvertiamo o no; la nostra mente, difatti, nell’atto della deduzione è tanto puramente ricettiva quanto il senso comune ritiene che sia nella percezione degli oggetti sensibili. La relazione in virtù della quale è possibile la validità della nostra deduzione è quella che io chiamo implicazione materiale. […] La relazione in realtà vale quando deve valere, senza riferimento alcuno alla verità o alla falsità delle proposizioni implicate. […] Non si potrebbe certo sostenere che la proposizione “2 + 2 = 4” può essere dedotta da “Socrate è un uomo”, senza uscire dal senso comune. […] Nelle deduzioni ottenute da “Socrate è un uomo” è normale non considerare il filosofo che diede tanti grattacapi agli Ateniesi, ma considerare Socrate semplicemente come un simbolo valido per significare qualsiasi uomo; e solo un volgare pregiudizio in favore delle proposizioni vere impedisce la sostituzione di Socrate con un numero, una tavola o una torta.”
Perché proprio “Socrate” scelto come oggetto logico? Russell ripeteva Aristotele, che è stato il primo a fare di Socrate un oggetto logico: “Se il dire “Socrate è sano” risulta il contrario del dire: “Socrate è ammalato”, e se d’altro canto non è possibile che queste due determinazioni appartengano simultaneamente al medesimo oggetto, non potrà dirsi allora che sussistendo uno dei due contrari, sussista anche l’altro. In effetti, quando sussista la proposizione: “Socrate è sano”, non potrà sussistere la proposizione: “Socrate è ammalato.” (Categorie, 11, 14a).
Appare chiaro che il paradosso di Ionesco, come ogni paradosso, è una conclusione rigorosamente logica, anche se contrasta con il nostro modo abituale di vedere le cose. L’antinomia invece è un’autentica contraddizione, un qualcosa che partendo da un sì volge al no, e partendo dal no volge al sì, una contraddizione.
Penso che stiamo avviandoci al termine del nostro discorso, cari ascoltatori, ma prima di congedarmi da voi, vorrei proporvi un sillogismo parallelo a quello del “Socrate-gatto”, proponendovi un “Aristotele-tiranno “. Ormai abbiamo tutti gli strumenti e scivoliamo verso la conclusione molto rapidamente. Nel “Parmenide” di Platone, all’inizio del dialogo, tra gli altri personaggi compare Aristotele: “Presso Pitodoro, fuori delle mura, nel Ceramico, era giunto Socrate, e insieme a lui molte altre persone, tutte desiderose di ascoltare la lettura dell'opera di Zenone […]. In quel tempo Socrate era assai giovane, fu lo stesso Zenone a leggere il libro, mentre Parmenide, per caso, si trovava fuori di casa: mancavano ancora poche righe al termine della lettura, quando lo stesso Pitodoro disse di essere entrato in casa da fuori, e con lui Parmenide e Aristotele, quello che aveva fatto parte dei Trenta Tiranni e ascoltarono ancora poche righe del libro.” In una nota al dialogo, riportato sulla Blogosfera, ho letto queste righe: “Si allude al grande filosofo Aristotele (384-322 a.C.), assai giovane nel periodo in cui si svolge il dialogo. Come ricorda Platone, egli fece parte del governo dei Trenta Tiranni, personaggi politici di tendenze oligarchiche, che nel 404 si erano impadroniti del potere ad Atene, rovesciando la democrazia.” Ora, se controlliamo le date, il regime dei Trenta Tiranni risale a 20 anni prima della nascita di Aristotele, in quanto fu rovesciato nel 403 dai democratici di Trasibulo. Sul personaggio del dialogo, così scrive un autorevole commentatore di Platone: “C’è un nome che fa sobbalzare tutti i lettori, il giovane Aristotele, che quasi a prevenire illazioni, viene subito presentato come “quello che fu uno dei Trenta Tiranni”. È quindi certamente un personaggio storico, si tratta probabilmente dell’Aristotele “statista ateniese, autore di graziosi discorsi forensi, di cui parla Diogene Laerzio, V, 35. […] Tuttavia , i numerosi riferimenti allo Stagirita e il fatto che questi, da parte sua , non cita mai il “Parmenide”, consente ai vari critici di ipotizzare che qui Platone abbia voluto ironizzare nei confronti del suo allievo.”
Veniamo, allora al nostro sillogismo: “P (p1. p2. p3. … pn…) = V ; A = P(t) ; A = V(t).
P = personaggi dialoghi; V = veri; A = Aristotele; (t) tiranno. I personaggi dei dialoghi sono veri, Aristotele è un personaggio tiranno, Aristotele è un vero tiranno.
Confrontando il nostro sillogismo su Aristotele con quello di Ionesco, dobbiamo dedurre che i filosofi sono tutti gatti e tiranni. Ha scritto il mio amico Giorgio Piovesani in esergo al suo libro “I segreti della Logica”: “Che la logica sia sempre stata illogica non è un mistero, il mistero sta nel “perché” la logica è illogica.” È attorno alla risoluzione di questo mistero, per il logico non un mistero, ma un problema, che i logici e matematici continueranno sempre a lavorare. Buon lavoro, ragazzi, e auguri!”
Al gesto di saluto con la mano dell’illustre accademico italiano, nell’Aula Magna, scrosciò l’applauso finale dell’uditorio. La lectio magistralis era finita.
EPILOGO
Quando ci avviammo all’uscita, sentii che dalla folla di ragazzi, uno chiamò Josephine. Lei si voltò, fermandosi, pensai di approfittarne per sganciarmi, allungai il passo e fui subito all’aperto, sulla Place du Panthéon. “Marius, je t’accompagne”, Josephine mi aveva raggiunto, non voleva mollarmi, si voltò e fece un gesto d’intesa all’amico, come a dire di aspettarla, almeno così mi sembrò. Cominciammo a scendere per la Rue Sufflot, nella luce incerta del vespro, si vedeva sullo sfondo in linea retta la Tour Eiffel, eravamo arrivati quasi ai Giardini Lussemburgo, lei mi trattenne per il braccio: “Marius, aspettate me”, (Marius, attendez-moi). Stava telefonando al suo amico in Italia, voleva il mio aiuto, in fondo che diamine! Eravamo ai Giardini di Lussemburgo, non eravamo mica ai Giardini di marzo. Come?
“Camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti "Tu muori"
"Se mi aiuti, son certa che io ne verrò fuori"
Ma non una parola chiarì i miei pensieri
Continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri.”
Che cosa significa? I giardini di marzo, cantava Lucio Battisti:
“Che anno è, che giorno è?
Questo è il tempo di vivere con te
Le mie mani come vedi non tremano più
E ho nell'anima
In fondo all'anima cieli immensi
E immenso amore
E poi ancora, ancora amore, amor per te
Fiumi azzurri e colline e praterie
Dove corrono dolcissime le mie malinconie
L'universo trova spazio dentro me
Ma il coraggio di vivere quello ancora non c'è
I giardini di marzo si vestono di nuovi colori
E le giovani donne in quei mesi vivono nuovi amori
“Camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti "Tu muori"
"Se mi aiuti, son certa che io ne verrò fuori"
Ma non una parola chiarì i miei pensieri
Continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri.”
Mogol spiega quest’ultima strofa, “non molto chiara”: “Questa è una parte che probabilmente non è stata colta da nessuno e non è molto chiara: ho immaginato una donna che chiede aiuto, perché si sta innamorando di un altro, ma che al tempo stesso ha bisogno di un supporto per uscire da questa situazione, lei si è confessata, lui invece l'ha ignorata per un fatto di orgoglio."
Non era il mio caso, il caso di un Marius che non ero io, io sono Mario, Mariolino detto Lino, Linuccio, così mi chiamava allora Melina, non ora, ora è tutta un’altra cosa. Non era comunque marzo, era fine luglio, Melina aspettava alla finestra, no, è più corretto dire aspettava, prima che si chiudesse la finestra, e mi avrebbe ingiunto di tornare a Roma, quella sera stessa. Ma che cosa accadde quella sera? Avevamo ripreso a camminare, svoltando in Boulevard Saint-Michel, Josephine aveva smesso di parlare al telefono e chiuso la comunicazione con l’Italia, ma restava in silenzio. Dopo aver percorso un altro tratto di strada, all’altezza di Place de la Sorbonne, mi voltai verso destra ed ebbi modo di notare l’espressione contrariata di Giuseppina Lamarca. Aveva mormorato un’imprecazione ed era rossa in viso, visibilmente irata.
Victor Hugo, rievocando la battaglia di Waterloo, così scrive del famoso episodio di Cambronne: “Un generale inglese, Coleville secondo alcuni, Maitland secondo altri, gridò loro [alla vecchia guardia]: Bravi Francesi, arrendetevi! Cambronne rispose…”
In quel frangente ebbi come la sensazione che qualcuno, anzi no, il suo amico dall’Italia le avesse intimato qualcosa sul genere di quanto gridato da Coleville o forse Maitland ai Francesi, o magari parlato di un congedo o un addio alla loro amicizia.
Hugo scrive: “Il lettore francese vuole essere rispettato, la più bella parola forse che un francese abbia mai detto non gli può essere ripetuta. Divieto di depositare del sublime nella storia. A nostro rischio e pericolo, noi infrangiamo questo divieto.” Lamartine ha espresso riprovazione per la presenza della parola di Cambronne nei “Miserabili”: “È la demagogia grammaticale.” Nota Hugo a tal proposito: “È entrata di diritto nel mio libro. È la “miserabile” delle parole.”
Giuseppina, anzi Josephine, mi camminava a fianco e guardava davanti a sé, era rossa in viso. Proposi di svoltare in Rue des Écoles, per andare alla statua di Dante, che si trova all’angolo con il College de France, un po' prima Le Champo – l’espace Jacques Tati, una sala per cinema d’autore, a sinistra i giardinetti con la statua della Lupa capitolina, e il busto di Montaigne di fronte alla facciata principale della Sorbona. Nel frattempo, avevo svoltato, lei mi aveva seguito macchinalmente. Eravamo giunti lì davanti, smisi di parlare a vuoto, tacqui e la guardai. Mi disse: “No, continua.” Era inutile proseguire, mi voltai e tornammo indietro verso il Boulevard Saint-Michel. Mentre risalivamo il viale, vedemmo scendere il suo amico francese, fece un cenno, Josephine si voltò verso di me, ci sfiorammo le gote: “Au revoir, Marius.”
Voltai le spalle e ripresi a scendere verso la Senna e Notre-Dame, al Museo del Medioevo, pensai di andare a prendere il metrò, alla stazione Cluny-Sorbonne, la linea dieci per Sèvres-Babylon, dove c’era il mio albergo. Si udì una fortissima esplosione, un boato spaventoso, panico generale, urla, gente che gridava, gruppi che correvano da tutte le parti, fui investito da una fiumana, in fuga dalla contigua stazione del metrò, Saint-Michel, collegata sotto terra con Cluny-Sorbonne. Si era levata una grossa colonna di fumo e vedevo il rosso delle fiamme verso l’alto. Mi ritrovai sul Boulevard Saint-Germain sospinto nella corrente umana che si allontanava dal luogo dell’incendio. Si sentirono le prime sirene dei sapeurs-pompiers, delle ambulanze e delle autoradio della polizia. Proseguii a piedi e man mano la folla si diradava. Giunsi in hotel a sera inoltrata, mi telefonò Melina e disse che dovevo immediatamente rientrare a Roma, si stava per chiudere la finestra. E allora? Ripartii all’indomani, e sbarcai a Fiumicino, iniziava un’altra storia, la mia, che poi vi racconterò.
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