[N. d. B] Mi sono lasciato trasportare dall’ispirazione e ho trasformato l’incipit – “E adesso dovrei scrivere di questa signora dai capelli bianchi?” – nella stesura di un racconto, “Il graffio”, che può essere letto autonomamente come storia a sé, anche se poi deve avere necessariamente un seguito, nella prospettiva della signora dei capelli bianchi.
“Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro.” (Eugenio Montale, “I limoni”)
IL GRAFFIO “Veniva a Roma dalla provincia e camminava dal piazzale della Stazione Tiburtina in direzione della zona di San Lorenzo. Era appena arrivata in Viale Ippocrate, quando fu raggiunta sul telefonino da un messaggio della sua amica Palmina: “Ciao Giovanna, ci vediamo, alle 10.00, all’ingresso dell’Università, in piazzale Aldo Moro.” Mandò l’ok di conferma all’amica, e poco dopo raggiunse l’ingresso della “Sapienza”, quello all’altezza di viale Regina Elena, ed entrò nella cinta universitaria. C’era una grande confusione, un vociare altissimo, e numerosi assembramenti di studenti. Siamo negli anni ’80,e benché allora non fossero ancora diffusi i telefonini, il narratore si serve della finzione narrativa, per rendere più fluido il suo racconto. In questo senso si risparmia di descrivere tutta la maniera di prendere contatto fra loro delle due amiche Giovanna e Palmina, l’una proveniente da Sulmona, l’altra dalla Calabria. Si erano conosciute l’anno prima ed erano diventate amiche, e adesso che cominciava il nuovo anno accademico, si erano date appuntamento alla “Sapienza”. Palmina era già da qualche giorno a Roma, e quella mattina era arrivata anche Giovanna. Palmina guardava impaziente verso il cancello d’entrata di piazzale Aldo Moro, dando le spalle al monumento allo statista scomparso al centro della piazza (in verità il monumento non c’è mai stato, al centro si trova soltanto un’aiuola). Scrutava tra le frotte di studenti che le sfilavano davanti, qualcuno si fermava subito al caffè a destra appena entrati, ma la sua amica non si vedeva ancora. Giovanna era sbucata alle spalle della Minerva, il monumento che simboleggia la Sapienza, e che sta là dal secolo scorso (21 aprile 1935), mi sono documentato, ma l’ho sempre trovata là, da quando l’ho visto la prima volta, più o meno ai tempi di questo rendez-vous tra le due studentesse amiche, che vado raccontando. Ad un certo momento, quello che a Roma si indica con l’espressione: “A ‘na certa”, che forse non è tradotta bene con “al momento opportuno”, Palmina entrò nel cancello, imboccando il viale di destra, l’uscita era a sinistra. Nello stesso momento, prese il telefonino e chiamò l’amica, ma l’altra non rispondeva, allora affrettò il passo. Nel piazzale della Minerva c’era uno sbarramento di poliziotti in tenuta anti-sommossa con caschi e scudi. Non era possibile, la polizia non può entrare all’interno della città universitaria, soprattutto schierando i reparti. E allora? Guardò meglio. C’era molta gente assiepata, ma non la polizia, se l’era immaginata, anzi no, la polizia c’era, ma gli agenti non erano in divisa. C’erano cartelli, bandiere, grandi schiamazzi, la massa ondeggiava, premeva. Dove voleva entrare? Voleva salire sulla scalinata di sinistra ed arrivare al corridoio che conduce al rettorato? La porta d’accesso era chiusa, poi all’improvviso si spalancò, ed alcuni giovani si precipitarono fuori urlando, scendendo di corsa le scale, inseguiti da altri che li colpivano con manganelli. La massa ai piedi della scalinata ondeggiava. Un giovane era fermo, immobile a metà delle scale, e teneva le braccia conserte, non stava opponendo resistenza. Infatti, gli agenti non lo colpirono, ecco, bisognava mantenere la calma, aveva un atteggiamento politico, chissà magari un domani poteva diventare un’autorità pubblica, un avversario, non un nemico. Ma chi pensava questi pensieri, in quella confusione?
Palmina si era spinta fin dentro la massa di studenti e altre persone, forse erano più le altre persone che gli studenti, e cercava di districarsi in quel groviglio. Ma dove voleva andare? Incontro a Giovanna. Ma la sua amica dove si trovava? Giovanna non era molto distante, Palmina sembrò riconoscere la chioma bionda e fluente dell’amica fra tutta quella massa di gente, ma forse si sbagliava, immaginava e riteneva reale l’immagine, non si capiva bene. Sta di fatto che ora la pressione di certi cordoni di persone, verosimilmente agenti di polizia in abiti civili, sospingeva la massa verso sinistra, in direzione dell’uscita laterale della cinta universitaria. E tra le frange più esterne era finita Giovanna, ora quasi vicino al cancello, sentì come un graffio, una specie di leggero strappo, all’altezza dell’anca destra, e come una sensazione di umido sui pantaloni. Giovanna indossava dei pantaloni nuovi, un piccolo suo vanto, un capo di abbigliamento che le disegnava alla perfezione la silhouette. Poi tra spintoni e strattoni, si ritrovò quasi in strada, ma fu sospinta violentemente dal gruppo al centro della carreggiata, proprio mentre passava un’automobile. Ma chi dava spinte, maledizione! Si sentì una frenata e un botto: la giovane cadde e fu investita di colpo dall’autovettura, rimanendo esanime sull’asfalto, tra grida di sgomento delle persone circostanti. Un destino? Scrive il filosofo Emanuele Severino, nel secondo paragrafo, “la volontà del destino” del capitolo finale del suo testo, “Destino della Necessità”: “Ma proprio perché ciò che appare è il destino, la volontà che vuole il destino non è la volontà indecisa e impotente dell’isolamento della terra – la volontà che non riesce ad essere volontà – ma è la volontà che ha già da sempre ottenuto ciò che essa vuole.” Ora, bisogna scendere dagli astratti cieli della filosofia, dove si spiega che la volontà e il destino coincidono, o forse non abbiamo capito, leggiamo meglio: “Giacché, qui, il “volere” è l’apparire, e l’ “ottenere” è lo stesso stare del destino nell’apparire: quello stare che invece non può apparire alla terra isolata dal destino.” A quanto abbiamo capito, l’incidente in cui Giovanni viene investita dall’automobile è l’apparire dell’incidente voluto dal destino, uno stare del destino nell’apparire. Ma – attenzione! – questo stare, lo stare del destino nell’apparire, non può convenire alla terra isolata dal destino. E allora lo stare diventa instabile, “l’instabilità della terra sicura”, e pertanto quell’incidente stradale, ci domandiamo, è uno stare del destino, un destino, qualcosa di fatale, oppure no? Un volere della terra isolata che impedisce alla volontà di essere volontà. Come? Il volere della terra isolata? Che significa? Subito dopo, sul posto dell’incidente, era presente il commissario Ciro Manara, con alcuni tra i suoi più stretti collaboratori. La ragazza distesa sull’asfalto con gli occhi chiusi respirava ancora. Forzando la ressa tutta intorno, fu fatto un po' di largo, “fatela respirare”, “un incidente” e altre voci discordanti, quasi ci fosse un nesso tra i tumulti repressi e l’investimento della ragazza. All’indomani, alcune testate giornalistiche e certi media, allora il web e i social non erano in atto, era destino che non fossero ancora in atto, collegarono alla repressioni dei disordini studenteschi il grave incidente, di cui era rimasta vittima la giovane universitaria Giovanna Santoro, ricoverata al Policlinico per trauma cranico e commozione cerebrale. Fu dagli organi di stampa e dai media che Palmina ebbe notizia dell’amica, quella mattina l’aveva cercata invano e anche il pomeriggio. Che fine aveva fatto? Era lei la ragazza vittima dell’incidente? Non era possibile, fra tante persone. E invece era lei. E di nuovo per noi si presenta l’interrogativo. Un destino?
In verità, un altro pensiero si era affacciato alla mente del commissario Manara, non un interrogativo, ma un dubbio che si rivelò sempre più come certezza, quando ebbe contezza del “graffio” all’anca della giovane ricoverata e raccolse altri elementi su quell’episodio. Si trattava del collegamento tra la leggera ferita da taglio, il graffio, e un’altra subita da un giovane presente tra la folla degli studenti quella mattina, refertata come ferita lacero contusa al gluteo sinistro per arma da punta e taglio, guaribile in sette giorni salvo complicazioni. Tra la massa di gente che veniva sospinta verso l’uscita laterale del comprensorio universitario, che dava su viale dell’Università, si annidava un accoltellatore. Chi era? Un provocatore? “Ciro, devi arrestare il colpevole.” L’ordine al dirigente del Commissariato veniva dalla Questura, meglio ancora dal Ministero. Ma chi era il colpevole? Un agit-prop, agitatore e propaganda della sovversione dell’ordine costituito o un criminale comune? E quest’ultima ipotesi avrebbe fugato ogni dubbio su responsabilità più generali riguardo al grave incidente occorso alla giovane studentessa, collegabile ad eccessi delle forze dell’ordine nel reprimere libere manifestazioni studentesche. Il colpevole si chiamava Emilio Iannaccone. Come aveva fatto il commissario Ciro Manara a scoprirlo? Era andato, insieme con il magistrato, Eleonora Monteleone, ad interrogare la degente al Policlinico, quando ebbe modo di riprendersi dal trauma e poter rispondere alle domande degli investigatori. Il graffio? Non sapeva spiegarlo, o forse sì, ma era un sospetto. Chi? Iannaccone, un suo compaesano, la perseguitava da anni. Manari, osservando la giovane, capiva, anche la Monteleone capiva, infatti domandò: “Ha subito molestie?” Tantissime, pensò la ragazza, ma disse: “Qualche volta, poi sono venuta a Roma.” “E lui l’ha seguita?” domandò la Monteleone. Si riferivano a circostanze dell’anno precedente. “Si è fatto vedere molte volte, lo conosceva anche Palmina.” Giovanna Santoro riferì della vera e propria persecuzione subita da quell’uomo – adesso parlava più liberamente – e di come aveva cercato di sottrarsi, anche con l’aiuto dell’amica. Ma ogni volta era punto e daccapo. “E perché non l’ha denunciato per stalking?” interrogò la Monteleone. “Ma non è ancora un reato!” esclamò la giovane. Il magistrato accusò il colpo – siamo negli anni Ottanta, ricordiamoci – il reato di "atti persecutori", che configurano le condotte tipiche dello stalking, è stato introdotto dalla legge 23 aprile 2009, n. 38. Comunque non si scompose e replicò: “Va bene, ma anche se non è ancora reato, lei perché non l’ha denunciato?” Come dare torto al magistrato? Ti perseguitano? Denuncia il fatto alla polizia. Manara si era fatto attento a quanto si diceva. Ma come dare torto alla vittima? Denunciare, poteva essere peggio. “Avevo parlato con un amico,” mormorò la giovane. Ecco, pensò Manara, ci siamo. “E chi era?” La domanda del magistrato fu puntuale. “Francesco” disse la ragazza. E adesso l’indagine si spostava su Francesco, di cui non sappiamo nulla, anzi sappiamo tutto. Chi era questo Francesco? La ragazza taceva, ogni tanto guardava il commissario. Il magistrato osservava e capiva che non avrebbe ricavato altro da lei, comunque domandò: “Un poliziotto?” Giovanna non rispondeva. Eleonora Monteleone insistette: “Allora, chi è Francesco?” “Un amico” replicò debolmente la giovane, chiuse gli occhi e si voltò dall’altra parte, posando la guancia destra sul cuscino. Era la vittima, perché insistere?
La Monteleone guardò Manara, l’espressione severa nascondeva l’irritazione. Il commissario estrasse un foglio dalla tasca e lo porse al magistrato. L’investigatrice lesse rapidamente il documento: era la relazione di servizio dell’agente di polizia Francesco De Giorgi, che riferiva dello stalking, di cui aveva avuto notizia confidenziale da Giovanna Santoro, atti persecutori. E perché non l’avete mandata all’autorità giudiziaria? La domanda la pensò, ma non la espresse, prevedendo la risposta: lo stalking non è ancora reato. Ma non per questo… avrebbe replicato, come aveva obiettato precedentemente. Si fermò: non era per questo, ossia perché lo stalking non era ancora reato, un cavillo. E per che cosa? Proteggere la fonte, o ancora meglio la denunciante non denunciante, che si era limitata a confidarsi con un amico. Il magistrato guardò la data recente della relazione di servizio, quindi disse rivolta a Manara: “Ma i fatti sono dell’anno scorso?” Anche prima, molto prima, stava per rispondere il commissario, poi rifletté che la confidenza poteva essere stata fatta, ed era stata fatta, l’anno prima. Disse: “La relazione era nella memoria del computer.” “Poteva essere stampata prima,” replicò la Monteleone. “Gli eventi sono soltanto di qualche giorno fa.” Il magistrato tacque e riconsegnò il foglio al commissario, guardò la degente: dormiva o sembrava che dormisse. Si alzò dalla sedia accostata al letto, anche Manara si alzò dalla sua sedia. “Non abbiamo prove, solo indizi di porto abusivo d’arma e lesioni,” disse la giudice inquirente, mentre entrambi si avviavano all’uscita. La perquisizione a casa di Iannaccone, soggiornava a pensione presso un casa in affitto assieme ad altri due studenti dalla parte di piazza Bologna, aveva portato al sequestro di un coltellino a serramanico, la cui lama superava comunque il limite consentito dalla legge per il porto fuori dell’abitazione. La presa del coltellino, tra il medio e l’anulare, con il pugno chiuso, faceva spuntare la lama quanto bastava a non renderla immediatamente visibile, ma efficace per colpire. Ma c’erano i testimoni? No.
Il magistrato e il commissario si recarono nel vicino ufficio di polizia, e Manara poté mostrare alla Monteleone il filmato della telecamera esterna della cinta universitaria, che aveva ripreso la scena del gruppo sospinto fuori il giorno della manifestazione. Si vedeva, anche se non bene, un giovane di profilo, che dava una violenta spinta alla Santoro Giovanna. La ragazza perdeva l’equilibrio e cadendo sulla strada veniva investita dall’automobile sopraggiunta in quel momento. Chiaramente, l’imputazione cambiava: tentato omicidio. Ma il giovane visto di profilo era Iannaccone? Nella calca non era facilmente riconoscibile, e non c’erano testimoni della sua presenza sul luogo. Erano stati interrogati i giovani che condividevano l’appartamento con Iannaccone, ed entrambi avevano confermato di essere andati quel giorno alla Sapienza, ma si trovavano in un altro punto, lontano da piazza della Minerva. Avevano dichiarato di essere andati insieme a Iannaccone, ma poi si erano divisi e si erano persi di vista. Non sapevano altro, la conoscenza con Emilio era datata qualche settimana prima, quando avevano affittato l’appartamento, ritrovandosi lì insieme nel cercare casa. La svolta dell’inchiesta avvenne qualche tempo dopo, grazie anche all’attivismo dell’avvocato del conducente della autovettura investitrice. Questi era stato incriminato per lesioni colpose e la prova del tentato omicidio lo scagionava. Il suo legale aveva preso contatto con Palmina, ed aveva scoperto di certe registrazioni di telefonate dal contenuto minatorio fatte dallo Iannaccone all’amica Giovanna. In una si parlava dei pericoli di una grande città come Roma, dove potevano capitare incidenti stradali improvvisi o altri fatti del genere, tipo finire sotto le ruote di un tram o dei convogli della metro. “Allontanarsi dalla linea gialla!” ridacchiava minaccioso lo Iannaccone, ripetendo l’avviso all’arrivo dei treni. Tutti gli indizi messi insieme fanno una prova? La prova si raggiunge in aula. “Ciro, devi arrestare il colpevole.” Manara convinse la Monteleone, che firmò l’ordine di cattura. Il commissario aveva ottenuto la testimonianza di un maresciallo in pensione, che aveva visto quel giovane dare una spinta violenta alla schiena della ragazza e lo aveva riconosciuto. Era sicuro che fosse Iannaccone? Sì, senza dubbio. Al momento aveva anche cercato di fermarlo, ma l’aveva perso nella calca, e quando si era saputo del “graffio” non aveva esitato ed era andato a fare la sua deposizione agli inquirenti. In aula, al processo, la sua deposizione non bastò come prova. E se la spinta non era stata volontaria? Magari voleva afferrarla per tirarla indietro, azzardò in ipotesi la difesa dello Iannaccone. Il giudice monocratico ritenne le prove non sufficienti per la condanna. Iannaccone fu assolto. Giovanna Santoro sparì da Roma e dall’Italia.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
6 commenti:
[N. d. B]
Mi sono lasciato trasportare dall’ispirazione e ho trasformato l’incipit – “E adesso dovrei scrivere di questa signora dai capelli bianchi?” – nella stesura di un racconto, “Il graffio”, che può essere letto autonomamente come storia a sé, anche se poi deve avere necessariamente un seguito, nella prospettiva della signora dei capelli bianchi.
LE GAZZARRE DEGLI UCCELLI
“Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro.”
(Eugenio Montale, “I limoni”)
IL GRAFFIO
“Veniva a Roma dalla provincia e camminava dal piazzale della Stazione Tiburtina in direzione della zona di San Lorenzo. Era appena arrivata in Viale Ippocrate, quando fu raggiunta sul telefonino da un messaggio della sua amica Palmina: “Ciao Giovanna, ci vediamo, alle 10.00, all’ingresso dell’Università, in piazzale Aldo Moro.” Mandò l’ok di conferma all’amica, e poco dopo raggiunse l’ingresso della “Sapienza”, quello all’altezza di viale Regina Elena, ed entrò nella cinta universitaria. C’era una grande confusione, un vociare altissimo, e numerosi assembramenti di studenti.
Siamo negli anni ’80,e benché allora non fossero ancora diffusi i telefonini, il narratore si serve della finzione narrativa, per rendere più fluido il suo racconto. In questo senso si risparmia di descrivere tutta la maniera di prendere contatto fra loro delle due amiche Giovanna e Palmina, l’una proveniente da Sulmona, l’altra dalla Calabria. Si erano conosciute l’anno prima ed erano diventate amiche, e adesso che cominciava il nuovo anno accademico, si erano date appuntamento alla “Sapienza”. Palmina era già da qualche giorno a Roma, e quella mattina era arrivata anche Giovanna.
Palmina guardava impaziente verso il cancello d’entrata di piazzale Aldo Moro, dando le spalle al monumento allo statista scomparso al centro della piazza (in verità il monumento non c’è mai stato, al centro si trova soltanto un’aiuola). Scrutava tra le frotte di studenti che le sfilavano davanti, qualcuno si fermava subito al caffè a destra appena entrati, ma la sua amica non si vedeva ancora.
Giovanna era sbucata alle spalle della Minerva, il monumento che simboleggia la Sapienza, e che sta là dal secolo scorso (21 aprile 1935), mi sono documentato, ma l’ho sempre trovata là, da quando l’ho visto la prima volta, più o meno ai tempi di questo rendez-vous tra le due studentesse amiche, che vado raccontando. Ad un certo momento, quello che a Roma si indica con l’espressione: “A ‘na certa”, che forse non è tradotta bene con “al momento opportuno”, Palmina entrò nel cancello, imboccando il viale di destra, l’uscita era a sinistra. Nello stesso momento, prese il telefonino e chiamò l’amica, ma l’altra non rispondeva, allora affrettò il passo. Nel piazzale della Minerva c’era uno sbarramento di poliziotti in tenuta anti-sommossa con caschi e scudi. Non era possibile, la polizia non può entrare all’interno della città universitaria, soprattutto schierando i reparti. E allora? Guardò meglio. C’era molta gente assiepata, ma non la polizia, se l’era immaginata, anzi no, la polizia c’era, ma gli agenti non erano in divisa. C’erano cartelli, bandiere, grandi schiamazzi, la massa ondeggiava, premeva. Dove voleva entrare? Voleva salire sulla scalinata di sinistra ed arrivare al corridoio che conduce al rettorato? La porta d’accesso era chiusa, poi all’improvviso si spalancò, ed alcuni giovani si precipitarono fuori urlando, scendendo di corsa le scale, inseguiti da altri che li colpivano con manganelli. La massa ai piedi della scalinata ondeggiava. Un giovane era fermo, immobile a metà delle scale, e teneva le braccia conserte, non stava opponendo resistenza. Infatti, gli agenti non lo colpirono, ecco, bisognava mantenere la calma, aveva un atteggiamento politico, chissà magari un domani poteva diventare un’autorità pubblica, un avversario, non un nemico. Ma chi pensava questi pensieri, in quella confusione?
Palmina si era spinta fin dentro la massa di studenti e altre persone, forse erano più le altre persone che gli studenti, e cercava di districarsi in quel groviglio. Ma dove voleva andare? Incontro a Giovanna. Ma la sua amica dove si trovava?
Giovanna non era molto distante, Palmina sembrò riconoscere la chioma bionda e fluente dell’amica fra tutta quella massa di gente, ma forse si sbagliava, immaginava e riteneva reale l’immagine, non si capiva bene. Sta di fatto che ora la pressione di certi cordoni di persone, verosimilmente agenti di polizia in abiti civili, sospingeva la massa verso sinistra, in direzione dell’uscita laterale della cinta universitaria. E tra le frange più esterne era finita Giovanna, ora quasi vicino al cancello, sentì come un graffio, una specie di leggero strappo, all’altezza dell’anca destra, e come una sensazione di umido sui pantaloni. Giovanna indossava dei pantaloni nuovi, un piccolo suo vanto, un capo di abbigliamento che le disegnava alla perfezione la silhouette. Poi tra spintoni e strattoni, si ritrovò quasi in strada, ma fu sospinta violentemente dal gruppo al centro della carreggiata, proprio mentre passava un’automobile. Ma chi dava spinte, maledizione! Si sentì una frenata e un botto: la giovane cadde e fu investita di colpo dall’autovettura, rimanendo esanime sull’asfalto, tra grida di sgomento delle persone circostanti. Un destino?
Scrive il filosofo Emanuele Severino, nel secondo paragrafo, “la volontà del destino” del capitolo finale del suo testo, “Destino della Necessità”: “Ma proprio perché ciò che appare è il destino, la volontà che vuole il destino non è la volontà indecisa e impotente dell’isolamento della terra – la volontà che non riesce ad essere volontà – ma è la volontà che ha già da sempre ottenuto ciò che essa vuole.”
Ora, bisogna scendere dagli astratti cieli della filosofia, dove si spiega che la volontà e il destino coincidono, o forse non abbiamo capito, leggiamo meglio: “Giacché, qui, il “volere” è l’apparire, e l’ “ottenere” è lo stesso stare del destino nell’apparire: quello stare che invece non può apparire alla terra isolata dal destino.”
A quanto abbiamo capito, l’incidente in cui Giovanni viene investita dall’automobile è l’apparire dell’incidente voluto dal destino, uno stare del destino nell’apparire. Ma – attenzione! – questo stare, lo stare del destino nell’apparire, non può convenire alla terra isolata dal destino. E allora lo stare diventa instabile, “l’instabilità della terra sicura”, e pertanto quell’incidente stradale, ci domandiamo, è uno stare del destino, un destino, qualcosa di fatale, oppure no? Un volere della terra isolata che impedisce alla volontà di essere volontà. Come? Il volere della terra isolata? Che significa?
Subito dopo, sul posto dell’incidente, era presente il commissario Ciro Manara, con alcuni tra i suoi più stretti collaboratori. La ragazza distesa sull’asfalto con gli occhi chiusi respirava ancora. Forzando la ressa tutta intorno, fu fatto un po' di largo, “fatela respirare”, “un incidente” e altre voci discordanti, quasi ci fosse un nesso tra i tumulti repressi e l’investimento della ragazza. All’indomani, alcune testate giornalistiche e certi media, allora il web e i social non erano in atto, era destino che non fossero ancora in atto, collegarono alla repressioni dei disordini studenteschi il grave incidente, di cui era rimasta vittima la giovane universitaria Giovanna Santoro, ricoverata al Policlinico per trauma cranico e commozione cerebrale. Fu dagli organi di stampa e dai media che Palmina ebbe notizia dell’amica, quella mattina l’aveva cercata invano e anche il pomeriggio. Che fine aveva fatto? Era lei la ragazza vittima dell’incidente? Non era possibile, fra tante persone. E invece era lei. E di nuovo per noi si presenta l’interrogativo. Un destino?
In verità, un altro pensiero si era affacciato alla mente del commissario Manara, non un interrogativo, ma un dubbio che si rivelò sempre più come certezza, quando ebbe contezza del “graffio” all’anca della giovane ricoverata e raccolse altri elementi su quell’episodio. Si trattava del collegamento tra la leggera ferita da taglio, il graffio, e un’altra subita da un giovane presente tra la folla degli studenti quella mattina, refertata come ferita lacero contusa al gluteo sinistro per arma da punta e taglio, guaribile in sette giorni salvo complicazioni. Tra la massa di gente che veniva sospinta verso l’uscita laterale del comprensorio universitario, che dava su viale dell’Università, si annidava un accoltellatore. Chi era? Un provocatore?
“Ciro, devi arrestare il colpevole.” L’ordine al dirigente del Commissariato veniva dalla Questura, meglio ancora dal Ministero. Ma chi era il colpevole? Un agit-prop, agitatore e propaganda della sovversione dell’ordine costituito o un criminale comune? E quest’ultima ipotesi avrebbe fugato ogni dubbio su responsabilità più generali riguardo al grave incidente occorso alla giovane studentessa, collegabile ad eccessi delle forze dell’ordine nel reprimere libere manifestazioni studentesche.
Il colpevole si chiamava Emilio Iannaccone. Come aveva fatto il commissario Ciro Manara a scoprirlo? Era andato, insieme con il magistrato, Eleonora Monteleone, ad interrogare la degente al Policlinico, quando ebbe modo di riprendersi dal trauma e poter rispondere alle domande degli investigatori. Il graffio? Non sapeva spiegarlo, o forse sì, ma era un sospetto. Chi? Iannaccone, un suo compaesano, la perseguitava da anni. Manari, osservando la giovane, capiva, anche la Monteleone capiva, infatti domandò: “Ha subito molestie?” Tantissime, pensò la ragazza, ma disse: “Qualche volta, poi sono venuta a Roma.” “E lui l’ha seguita?” domandò la Monteleone. Si riferivano a circostanze dell’anno precedente. “Si è fatto vedere molte volte, lo conosceva anche Palmina.” Giovanna Santoro riferì della vera e propria persecuzione subita da quell’uomo – adesso parlava più liberamente – e di come aveva cercato di sottrarsi, anche con l’aiuto dell’amica. Ma ogni volta era punto e daccapo. “E perché non l’ha denunciato per stalking?” interrogò la Monteleone. “Ma non è ancora un reato!” esclamò la giovane. Il magistrato accusò il colpo – siamo negli anni Ottanta, ricordiamoci – il reato di "atti persecutori", che configurano le condotte tipiche dello stalking, è stato introdotto dalla legge 23 aprile 2009, n. 38. Comunque non si scompose e replicò: “Va bene, ma anche se non è ancora reato, lei perché non l’ha denunciato?” Come dare torto al magistrato? Ti perseguitano? Denuncia il fatto alla polizia. Manara si era fatto attento a quanto si diceva. Ma come dare torto alla vittima? Denunciare, poteva essere peggio. “Avevo parlato con un amico,” mormorò la giovane. Ecco, pensò Manara, ci siamo. “E chi era?” La domanda del magistrato fu puntuale. “Francesco” disse la ragazza. E adesso l’indagine si spostava su Francesco, di cui non sappiamo nulla, anzi sappiamo tutto. Chi era questo Francesco? La ragazza taceva, ogni tanto guardava il commissario. Il magistrato osservava e capiva che non avrebbe ricavato altro da lei, comunque domandò: “Un poliziotto?” Giovanna non rispondeva. Eleonora Monteleone insistette: “Allora, chi è Francesco?” “Un amico” replicò debolmente la giovane, chiuse gli occhi e si voltò dall’altra parte, posando la guancia destra sul cuscino. Era la vittima, perché insistere?
La Monteleone guardò Manara, l’espressione severa nascondeva l’irritazione. Il commissario estrasse un foglio dalla tasca e lo porse al magistrato. L’investigatrice lesse rapidamente il documento: era la relazione di servizio dell’agente di polizia Francesco De Giorgi, che riferiva dello stalking, di cui aveva avuto notizia confidenziale da Giovanna Santoro, atti persecutori. E perché non l’avete mandata all’autorità giudiziaria? La domanda la pensò, ma non la espresse, prevedendo la risposta: lo stalking non è ancora reato. Ma non per questo… avrebbe replicato, come aveva obiettato precedentemente. Si fermò: non era per questo, ossia perché lo stalking non era ancora reato, un cavillo. E per che cosa? Proteggere la fonte, o ancora meglio la denunciante non denunciante, che si era limitata a confidarsi con un amico. Il magistrato guardò la data recente della relazione di servizio, quindi disse rivolta a Manara: “Ma i fatti sono dell’anno scorso?” Anche prima, molto prima, stava per rispondere il commissario, poi rifletté che la confidenza poteva essere stata fatta, ed era stata fatta, l’anno prima. Disse: “La relazione era nella memoria del computer.” “Poteva essere stampata prima,” replicò la Monteleone. “Gli eventi sono soltanto di qualche giorno fa.” Il magistrato tacque e riconsegnò il foglio al commissario, guardò la degente: dormiva o sembrava che dormisse. Si alzò dalla sedia accostata al letto, anche Manara si alzò dalla sua sedia. “Non abbiamo prove, solo indizi di porto abusivo d’arma e lesioni,” disse la giudice inquirente, mentre entrambi si avviavano all’uscita.
La perquisizione a casa di Iannaccone, soggiornava a pensione presso un casa in affitto assieme ad altri due studenti dalla parte di piazza Bologna, aveva portato al sequestro di un coltellino a serramanico, la cui lama superava comunque il limite consentito dalla legge per il porto fuori dell’abitazione. La presa del coltellino, tra il medio e l’anulare, con il pugno chiuso, faceva spuntare la lama quanto bastava a non renderla immediatamente visibile, ma efficace per colpire. Ma c’erano i testimoni? No.
Il magistrato e il commissario si recarono nel vicino ufficio di polizia, e Manara poté mostrare alla Monteleone il filmato della telecamera esterna della cinta universitaria, che aveva ripreso la scena del gruppo sospinto fuori il giorno della manifestazione. Si vedeva, anche se non bene, un giovane di profilo, che dava una violenta spinta alla Santoro Giovanna. La ragazza perdeva l’equilibrio e cadendo sulla strada veniva investita dall’automobile sopraggiunta in quel momento. Chiaramente, l’imputazione cambiava: tentato omicidio. Ma il giovane visto di profilo era Iannaccone? Nella calca non era facilmente riconoscibile, e non c’erano testimoni della sua presenza sul luogo. Erano stati interrogati i giovani che condividevano l’appartamento con Iannaccone, ed entrambi avevano confermato di essere andati quel giorno alla Sapienza, ma si trovavano in un altro punto, lontano da piazza della Minerva. Avevano dichiarato di essere andati insieme a Iannaccone, ma poi si erano divisi e si erano persi di vista. Non sapevano altro, la conoscenza con Emilio era datata qualche settimana prima, quando avevano affittato l’appartamento, ritrovandosi lì insieme nel cercare casa.
La svolta dell’inchiesta avvenne qualche tempo dopo, grazie anche all’attivismo dell’avvocato del conducente della autovettura investitrice. Questi era stato incriminato per lesioni colpose e la prova del tentato omicidio lo scagionava. Il suo legale aveva preso contatto con Palmina, ed aveva scoperto di certe registrazioni di telefonate dal contenuto minatorio fatte dallo Iannaccone all’amica Giovanna. In una si parlava dei pericoli di una grande città come Roma, dove potevano capitare incidenti stradali improvvisi o altri fatti del genere, tipo finire sotto le ruote di un tram o dei convogli della metro. “Allontanarsi dalla linea gialla!” ridacchiava minaccioso lo Iannaccone, ripetendo l’avviso all’arrivo dei treni. Tutti gli indizi messi insieme fanno una prova? La prova si raggiunge in aula. “Ciro, devi arrestare il colpevole.” Manara convinse la Monteleone, che firmò l’ordine di cattura. Il commissario aveva ottenuto la testimonianza di un maresciallo in pensione, che aveva visto quel giovane dare una spinta violenta alla schiena della ragazza e lo aveva riconosciuto. Era sicuro che fosse Iannaccone? Sì, senza dubbio. Al momento aveva anche cercato di fermarlo, ma l’aveva perso nella calca, e quando si era saputo del “graffio” non aveva esitato ed era andato a fare la sua deposizione agli inquirenti.
In aula, al processo, la sua deposizione non bastò come prova. E se la spinta non era stata volontaria? Magari voleva afferrarla per tirarla indietro, azzardò in ipotesi la difesa dello Iannaccone. Il giudice monocratico ritenne le prove non sufficienti per la condanna. Iannaccone fu assolto. Giovanna Santoro sparì da Roma e dall’Italia.
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