NOTA (per la riedizione) Questo testo, collegato al precedente “Filosofia e Poesia” di ieri 31 ottobre, relativo al pensiero di Emanuele Severino, ne riassume alcuni contenuti, e pertanto può apparire ridondante o chiarificatore rispetto all’altro, a seconda della loro reciproca più o meno facile comprensione. Per quanto riguarda il tema di quel che appare dopo la morte, che fa capolino nella citazione in epigrafe, oltre al post di ieri, si rimanda a quello dell’11 dicembre 2023: “Le cose ultime”, e all’altro del 9 dicembre: “L’uomo e il suo destino”.
“L’istante che appare dopo la morte” è “l’albeggiare della Gioia non più contrastata dalla terra isolata” (Emanuele Severino, La morte e la terra)
Per chi non è abituato alla filosofia (linguaggio) di Emanuele Severino, l’affermazione riportata in epigrafe può apparire quanto meno singolare, se non enigmaticamente oracolare. Ed invero che cosa significa questo albeggiare della Gioia? E che cosa ancora il contrasto con la terra isolata? Dileguandosi dalla vita, l’anima, il soffio vitale che sfugge all’humus (uomo) della terra vede forse nell’orizzonte oscuro della notte (morte) il sorgere della luce della Gioia? Quest’ultimo interrogativo, che propone una risposta interpretativa dell’espressione di Severino è quanto di più lontano vi sia rispetto al pensiero del filosofo e al significato della sua filosofia. E allora che cosa la Gioia? Questa domanda già contiene un errore, nella prospettiva di quel pensiero, di cui diremo. Intanto facciamo un accostamento tra poesia e filosofia, una volta accertato che anche il linguaggio discorsivo rispetto a quello poetico narrativo ha bisogno di immagini per esprimersi. Se nella coscienza comune, la luce e il buio, il giorno e la notte, possono in metafora rappresentare la vita e la morte, questa metafora è valida anche e soprattutto per poeti e filosofi, che per primi l’hanno inventata e adottata. Beatrice, accompagnando Dante nell’Empireo, il più alto dei cieli, così commenta: “Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch'è pura luce: / luce intellettüal, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore.” È questa “pura luce”, la luce intellettuale piena d’amore, l’amore del vero bene la “Gioia” di Severino? Nulla di più lontano dal suo pensiero. E allora? Nei versi del “Paradiso”, nella pura luce è il “vero” “bene”, una letizia che si sublima oltre ogni dolcezza (“dolzore”, i.e. dolciore”). “Solo l’idea del “bene” conferisce la “verità”, si dice nella “Repubblica” (509a). Dante era un platonico, Severino è un parmenideo, e di fronte al parricidio di Parmenide, tentato da Platone nel “Sofista”, per ammettere che in un certo modo “il niente è”, così si esprime: “Il padre è stato colpito, ma la sua agonia può durare all’infinito.” Quello che qui è in questione è la questione del Nulla, quello stesso indirettamente evocato da Parmenide: “Si deve dire e pensare che l’essere è: infatti l’essere è / il nulla non è…” (fr. 6, vv.1,2) Proibendo di seguire la via dell’illusione, quella del nulla, nello stesso tempo la indica. Popper ha avanzato l’ipotesi che il filosofo eleate, nel descrivere l’unicità e immobilità dell’Essere, si sia ispirato all’illusorietà della luce lunare, che lascia apparire un ingannevole e progressivo accrescere e diminuirsi delle dimensioni dell’astro d’argento, il divenire.
Se la morte non è la notte del nulla, una meravigliosa notte senza sogni, o la visione della pura luce del paradiso dantesco, che cosa è la Gioia di Severino? Abbiamo già detto che la domanda, alla luce del pensiero di questo filosofo, contiene un errore. Quale? Come fa rilevare lo stesso autore, domandare “che cosa” significa domandare “quale cosa tra le cose”. Orbene, la Gioia non è una cosa tra le cose, anzi per Severino la “cosa”, l’ente, evocato dal pensiero greco, rappresenta il massimo della follia, perché evocando l’ente si evoca il niente. Infatti, affermando che l’ente viene all’essere dal nulla, per poi ritornare nel nulla, significa dire la contraddizione estrema ossia che l’essere è il niente, l’ente è il non-ente. Il testo dove l’autore espone il suo pensiero più significativo è “Destino della Necessità”. Che cosa significa quest’espressione? “Destino” deriva dal verbo “de-stinare”, come dire un rafforzativo di “stare”, uno stare che non può non stare; mentre “Necessità” si costruisce sulla radice del verbo “caedere”, quindi nec-caedere sta a significare un cedere che non può cedere in nessun caso. Destino della Necessità è lo stare indissolubile dell’insieme del Tutto, uomini, piante, animali, la terra, il cielo, gli astri, l’eternità del Tutto, l’impossibilità del suo non “stare”. Alla luce di queste riflessioni, cerchiamo di capire il senso della Gioia. Nelle pagine finali di “Destino della Necessità”, l’autore scrive: “Come oltrepassamento della totalità delle contraddizioni del finito, il Tutto è la Gioia.” Le contraddizioni del finito sono rappresentate da quella fede nel divenire, il sorgere dal nulla e sparirvi, evocata dal pensiero greco, l’ente che oscilla tra l’essere e il nulla: “L’isolamento della terra, e l’Occidente che lo testimonia, accadono nel cerchio dell’apparire del destino.” Poi arriva la conclusione: “L’isolamento del destino dal proprio essere la Gioia del Tutto – il suo nascondere il proprio essere l’infinito illuminarsi del Tutto – è il fondamento dell’isolamento della Terra dal destino. Solo all’interno dell’apparire finito del Tutto la terra può essere isolata e il mortale accadere.” Quindi, ecco l’interrogativo finale: “Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nell’apparire del cerchio del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine o all’oltrepassamento della solitudine?” La domanda posta da Severino, noi la riproponiamo, parafrasando il suo linguaggio: “Vi è un passo, in cui la terra, nel suo inoltrarsi nell’apparire del cerchio del destino, vada oltre (oltrepassi) la solitudine che separa sé stessa, la terra isolata, dalla Gioia del Tutto?” Ecco la risposta: “L’istante che appare dopo la morte” è “l’albeggiare della Gioia non più contrastata dalla terra isolata.”
[N. d. B.] Per dovere di cronaca, la cronaca di questo Blog – La Nota del Blogger è sempre sospetta, e va presa con le molle, in quanto in bilico tra il serio e il faceto – per dovere di cronaca, dunque, si comunica la scomparsa dalla volta di questo Blog del post: “Il ragno e la luna” (L’uomo differito, 4). E nel senso (linguaggio) del testo appena pubblicato (“Il sorgere della Terra”), l’stante che appare dopo la scomparsa di “Il ragno e la luna” è l’albeggiare della luce (gioia) del Blog non più contrastata dal post isolato, nel suo inoltrarsi e uscire dal cerchio finito dell’apparire infinito del Blog.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
4 commenti:
NOTA (per la riedizione)
Questo testo, collegato al precedente “Filosofia e Poesia” di ieri 31 ottobre, relativo al pensiero di Emanuele Severino, ne riassume alcuni contenuti, e pertanto può apparire ridondante o chiarificatore rispetto all’altro, a seconda della loro reciproca più o meno facile comprensione. Per quanto riguarda il tema di quel che appare dopo la morte, che fa capolino nella citazione in epigrafe, oltre al post di ieri, si rimanda a quello dell’11 dicembre 2023: “Le cose ultime”, e all’altro del 9 dicembre: “L’uomo e il suo destino”.
IL SORGERE DELLA TERRA
“L’istante che appare dopo la morte” è “l’albeggiare della Gioia non più contrastata dalla terra isolata” (Emanuele Severino, La morte e la terra)
Per chi non è abituato alla filosofia (linguaggio) di Emanuele Severino, l’affermazione riportata in epigrafe può apparire quanto meno singolare, se non enigmaticamente oracolare. Ed invero che cosa significa questo albeggiare della Gioia? E che cosa ancora il contrasto con la terra isolata? Dileguandosi dalla vita, l’anima, il soffio vitale che sfugge all’humus (uomo) della terra vede forse nell’orizzonte oscuro della notte (morte) il sorgere della luce della Gioia?
Quest’ultimo interrogativo, che propone una risposta interpretativa dell’espressione di Severino è quanto di più lontano vi sia rispetto al pensiero del filosofo e al significato della sua filosofia. E allora che cosa la Gioia? Questa domanda già contiene un errore, nella prospettiva di quel pensiero, di cui diremo.
Intanto facciamo un accostamento tra poesia e filosofia, una volta accertato che anche il linguaggio discorsivo rispetto a quello poetico narrativo ha bisogno di immagini per esprimersi. Se nella coscienza comune, la luce e il buio, il giorno e la notte, possono in metafora rappresentare la vita e la morte, questa metafora è valida anche e soprattutto per poeti e filosofi, che per primi l’hanno inventata e adottata.
Beatrice, accompagnando Dante nell’Empireo, il più alto dei cieli, così commenta: “Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch'è pura luce: / luce intellettüal, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore.”
È questa “pura luce”, la luce intellettuale piena d’amore, l’amore del vero bene la “Gioia” di Severino? Nulla di più lontano dal suo pensiero. E allora?
Nei versi del “Paradiso”, nella pura luce è il “vero” “bene”, una letizia che si sublima oltre ogni dolcezza (“dolzore”, i.e. dolciore”). “Solo l’idea del “bene” conferisce la “verità”, si dice nella “Repubblica” (509a). Dante era un platonico, Severino è un parmenideo, e di fronte al parricidio di Parmenide, tentato da Platone nel “Sofista”, per ammettere che in un certo modo “il niente è”, così si esprime: “Il padre è stato colpito, ma la sua agonia può durare all’infinito.” Quello che qui è in questione è la questione del Nulla, quello stesso indirettamente evocato da Parmenide: “Si deve dire e pensare che l’essere è: infatti l’essere è / il nulla non è…” (fr. 6, vv.1,2) Proibendo di seguire la via dell’illusione, quella del nulla, nello stesso tempo la indica. Popper ha avanzato l’ipotesi che il filosofo eleate, nel descrivere l’unicità e immobilità dell’Essere, si sia ispirato all’illusorietà della luce lunare, che lascia apparire un ingannevole e progressivo accrescere e diminuirsi delle dimensioni dell’astro d’argento, il divenire.
Se la morte non è la notte del nulla, una meravigliosa notte senza sogni, o la visione della pura luce del paradiso dantesco, che cosa è la Gioia di Severino?
Abbiamo già detto che la domanda, alla luce del pensiero di questo filosofo, contiene un errore. Quale? Come fa rilevare lo stesso autore, domandare “che cosa” significa domandare “quale cosa tra le cose”. Orbene, la Gioia non è una cosa tra le cose, anzi per Severino la “cosa”, l’ente, evocato dal pensiero greco, rappresenta il massimo della follia, perché evocando l’ente si evoca il niente. Infatti, affermando che l’ente viene all’essere dal nulla, per poi ritornare nel nulla, significa dire la contraddizione estrema ossia che l’essere è il niente, l’ente è il non-ente. Il testo dove l’autore espone il suo pensiero più significativo è “Destino della Necessità”. Che cosa significa quest’espressione?
“Destino” deriva dal verbo “de-stinare”, come dire un rafforzativo di “stare”, uno stare che non può non stare; mentre “Necessità” si costruisce sulla radice del verbo “caedere”, quindi nec-caedere sta a significare un cedere che non può cedere in nessun caso. Destino della Necessità è lo stare indissolubile dell’insieme del Tutto, uomini, piante, animali, la terra, il cielo, gli astri, l’eternità del Tutto, l’impossibilità del suo non “stare”. Alla luce di queste riflessioni, cerchiamo di capire il senso della Gioia.
Nelle pagine finali di “Destino della Necessità”, l’autore scrive: “Come oltrepassamento della totalità delle contraddizioni del finito, il Tutto è la Gioia.” Le contraddizioni del finito sono rappresentate da quella fede nel divenire, il sorgere dal nulla e sparirvi, evocata dal pensiero greco, l’ente che oscilla tra l’essere e il nulla: “L’isolamento della terra, e l’Occidente che lo testimonia, accadono nel cerchio dell’apparire del destino.”
Poi arriva la conclusione: “L’isolamento del destino dal proprio essere la Gioia del Tutto – il suo nascondere il proprio essere l’infinito illuminarsi del Tutto – è il fondamento dell’isolamento della Terra dal destino. Solo all’interno dell’apparire finito del Tutto la terra può essere isolata e il mortale accadere.” Quindi, ecco l’interrogativo finale: “Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nell’apparire del cerchio del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine o all’oltrepassamento della solitudine?”
La domanda posta da Severino, noi la riproponiamo, parafrasando il suo linguaggio: “Vi è un passo, in cui la terra, nel suo inoltrarsi nell’apparire del cerchio del destino, vada oltre (oltrepassi) la solitudine che separa sé stessa, la terra isolata, dalla Gioia del Tutto?”
Ecco la risposta: “L’istante che appare dopo la morte” è “l’albeggiare della Gioia non più contrastata dalla terra isolata.”
[N. d. B.]
Per dovere di cronaca, la cronaca di questo Blog – La Nota del Blogger è sempre sospetta, e va presa con le molle, in quanto in bilico tra il serio e il faceto – per dovere di cronaca, dunque, si comunica la scomparsa dalla volta di questo Blog del post: “Il ragno e la luna” (L’uomo differito, 4). E nel senso (linguaggio) del testo appena pubblicato (“Il sorgere della Terra”), l’stante che appare dopo la scomparsa di “Il ragno e la luna” è l’albeggiare della luce (gioia) del Blog non più contrastata dal post isolato, nel suo inoltrarsi e uscire dal cerchio finito dell’apparire infinito del Blog.
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