IL GRAFFIO (15 ottobre 2024) . . . La svolta dell’inchiesta avvenne qualche tempo dopo, grazie anche all’attivismo dell’avvocato del conducente la autovettura investitrice. Questi era stato incriminato per lesioni colpose e la prova del tentato omicidio lo scagionava. Il suo legale aveva preso contatto con Palmina, ed aveva scoperto di certe registrazioni di telefonate dal contenuto minatorio fatte dallo Iannaccone all’amica Giovanna. In una si parlava dei pericoli di una grande città come Roma, dove potevano capitare incidenti stradali improvvisi o altri fatti del genere, tipo finire sotto le ruote di un tram o dei convogli della metro. “Allontanarsi dalla linea gialla!” ridacchiava minaccioso lo Iannaccone, ripetendo l’avviso all’arrivo dei treni. Tutti gli indizi messi insieme fanno una prova? La prova si raggiunge in aula. “Ciro, devi arrestare il colpevole.” Manara convinse la Monteleone, che firmò l’ordine di cattura. Il commissario aveva ottenuto la testimonianza di un maresciallo in pensione, che aveva visto quel giovane dare una spinta violenta alla schiena della ragazza e lo aveva riconosciuto. Era sicuro che fosse Iannaccone? Sì, senza dubbio. Al momento aveva anche cercato di fermarlo, ma l’aveva perso nella calca, e quando si era saputo del “graffio” non aveva esitato ed era andato a fare la sua deposizione agli inquirenti. In aula, al processo, la sua deposizione non bastò come prova. E se la spinta non era stata volontaria? Magari voleva afferrarla per tirarla indietro, azzardò in ipotesi la difesa dello Iannaccone. Il giudice monocratico ritenne le prove non sufficienti per la condanna. Iannaccone fu assolto. Giovanna Santoro sparì da Roma e dall’Italia.
LA PALINODIA (RITRATTAZIONE) Quando Iannaccone uscì dal carcere, dopo la sentenza di assoluzione, che ne aveva disposto l’immediata liberazione, andò subito a cercare Giovanna Santoro – allora non c’era il codice rosso né tanto meno il braccialetto elettronico – ma non la trovò. Il suo avvocato gli aveva altamente sconsigliato di farlo, in quanto ragionava come il magistrato che aveva rappresentato l’accusa: se ancora non era previsto il reato di stalking, atti persecutori – oggi, art. 612 bis C. p. – questo non significava che un tale comportamento poteva essere denunciato alla polizia. E in un certo senso Giovanna l’aveva fatto, confidando il suo disagio a Francesco. Iannaccone riuscì a rintracciare Palmina, e quest’ultima non fece nulla per evitarlo, diciamo che ne attendeva la venuta con aria di sfida. Ma non aveva paura? Sì, l’aveva, ma questo non le impediva di sfidare Iannaccone, e la sua scelta coraggiosa pagò. Se un uomo cerca una donna, chiedendo all’amica, finisce nella rete di quest’ultima, e bisogna provare per crederlo, anche se non è necessario. Intendiamoci, stiamo parlando di sentimenti profondi, nel senso di passioni dei sensi e dell’anima, quindi per catturare Iannaccone, Palmina dovette porre in atto tutte le sue arti e le sue grazie femminili, ed in capo ad alcune settimane, in verità qualche mese e anche più, ci riuscì. Voleva salvare l’amica sparita, sconfiggere il maschio, sindrome della crocerossina, oppure si era invaghita? Questo guazzabuglio del cuore umano, dice Manzoni. Giovanna, bionda, alta e prosperosa, era più avvenente di Palmina, una brunetta magrolina. Ma Iannaccone non riuscì a sottrarsi, il suo piano era quello di sedurre Palmina per ritrovare l’amica, e non capiva – e come avrebbe potuto? – che non era il cacciatore, ma la selvaggina. Almeno questo è il quadro, la scena che appare allo sguardo del narratore, nello specchio dello sguardo del destino. Non dimentichiamo la volontà del destino, che da sempre vuole e sempre ottiene nel suo stare quello che all’apparire sembrano scelte della volontà, dell’azione degli uomini e dei popoli. Bon! Vorrei insistere su quest’ultimo aspetto dell’inganno della libera volontà degli uomini e delle donne. Proviamo a comporre una frase con questi tre termini: campo, cacciatore e selvaggina, mettendoli in ordine. La selvaggina insegue il cacciatore nel campo. Questa prima composizione non sembra corretta, eppure era quella la scena che si rispecchiava nello sguardo del destino, così come viene colta dal narratore, che ne deve descrivere gli aspetti, come dire il suo scorrere nel tempo. Iannaccone sedusse (o, nello sguardo del destino, “credette” di sedurre) Palmina, ma aveva sempre in mente Giovanna, e Palmina lo sapeva, e allora (spogliandosi delle vesti di Diana cacciatrice) si consegnò interamente all’uomo, anima e corpo, ne era follemente innamorata. Ma come? Come spiega Platone nel “Fedro”.
“Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; per questo, la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. (246b) […] Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero di essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato.”(254a) Era questa la passione che Palmina aveva scatenato nell’anima di Iannaccone. Questi, secondo la dottrina della tripartizione dell’anima di Platone, con il suo intelletto, in metafora l’auriga, ovvero la parte razionale dell’anima, non era riuscito a controllare il cavallo buono, la parte dell’anima impulsiva (il cuore), lasciando a briglia sciolta il cavallo contrario, la parte dell’anima concupiscibile, sfrenatezza e desiderio. Ma il gioco di Palmina era estremamente rischioso, perché consisteva nel mettere in gioco la sua vita. E se quindi, all’inizio dell’avventura, aveva per così dire celiato, quasi a voler sostituire la sua immagine a quella di Giovanna, prestandosi allo sguardo e al desiderio di Iannaccone, nel seguito della storia, il gioco era divenuto il mettere in gioco sé stessa e la sua vita, alla mercé degli appetiti concupiscibili di Iannaccone. L’anima di costui, infatti, se vogliamo stare, come subito vedremo, alla narrazione (mythos) platonica, aveva natura sanguinaria – ed è qualcosa di più di quanto, per esempio, diciamo di uno che è un tipo sanguigno. Come è stato rilevato da Giovanni Reale, interprete di Platone, “In greco mito (μύθος) deve intendersi in senso generico, appunto narrazione priva di rigore e di saldezza dialettica, che fa ampio uso di immagini. Non c’è però bisogno di calcare la mano sul termine, intendendolo e traducendolo come – finzione – [fiction].” (“Fedro”, Nota 48) E allora, onde comprendere la sorte dell’anima di Iannaccone, dobbiamo rifarci all’immagine platonica del corteo di anime che volano in cielo al seguito del dio: “Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima è nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti, l'invidia sta fuori del coro divino.” (“Fedro”, 247a)
Questa è la visione di quello che accade lassù. Nella nostra storia invece, che sulla scia della narrazione (μύθος) platonica non possiamo accontentarci di definire come una mera finzione, che cosa dobbiamo dire che accadeva quaggiù? E dobbiamo ancora riferirci al testo del “Fedro”, il dialogo che contiene quasi tutte per intere le dottrine di Platone – l’Iperuranio, le eterne Idee, l’immortalità dell’anima, la metempsicosi, la reminiscenza, la dottrina dell’Eros e la dialettica. Atteniamoci, quindi, alla descrizione dell’Amore, inteso come forma di divina follia: “Questo, dunque, è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza [di lassù] mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di pazzia: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. (249 d-e) […] L’anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. (251 d-e) […] Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare sé stessi e il proprio amore.” (252 c) Dobbiamo pertanto credere che l’anima di Iannaccone lo portava a comportarsi così come quando essa era al seguito del dio nel corteo celeste, vale a dire Ares, il dio della guerra. Infatti, Platone così continua: “In tal modo, ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone.” (252 d) Ma se il carattere e il temperamento di Iannaccone era assuefatto allo spirito della guerra e del sangue, così diciamo traducendo in nostre parole il linguaggio platonico, la sua vittima virtuale, nell’occasione Palmina, perché e come si offriva al sacrificio? Quale sentimento la spingeva a una tale situazione di vittima sacrificale di un amore folle e sanguinario? Era forse lei l’immagine, il simulacro di Giovanna, e colpendo lei, Palmina, Iannaccone colpiva nelle sue intenzioni il suo vero amore, per il torto subito. Anche qui, per spiegare l’agire della donna, nel nostro racconto Palmina, dobbiamo ricorrere ancora una volta a Platone e al suo dialogo, il “Fedro”. (242e -243b)
“SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti di Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì. Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: “Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.” E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate.” Qui, ci sembra, dobbiamo dare delle doverose spiegazioni al lettore, e le andiamo a ricercare nei commenti sulla fonte. Stesicoro, poeta lirico corale, (VI sec. a. C.), stando a una leggenda, perse la vista per aver diffamato Elena, accusandola di infedeltà in un carme omonimo, e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (“Ritrattazione”), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze, mito ripreso da Euripide nell'Elena. Omero, invece, non avendo fatto lo stesso, rimase cieco. Così Socrate pronuncerà la ritrattazione del discorso fatto prima su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso.” Orbene, mentre scrivevo che Palmina si era consegnata anima e corpo a Iannaccone, non so come, ma è come fosse scomparsa la luce, ed io non riuscivo a vedere più nulla; allora, ripensando a quanto scrivere sul comportamento di Palmina, che era stato in verità del tutto differente da quello da me descritto, ho deciso di pronunciare la mia palinodia ovvero la ritrattazione di quanto ho detto su di lei. Ed ecco che al contrario di Omero, i miei occhi hanno riacquistato la luce, e posso ora raccontare il vero, ringraziando la sapienza del dio, nel cui sguardo si rispecchia la mia narrazione. Ebbene, quella da me presunta offerta completa di sé di Palmina allo Iannaccone, onde suscitarne le bramosie d’amore, più che reali atteggiamenti della giovane, erano immagini suscitate nella mente di costui dalle incontrollate passioni della sua anima. Non dimentichiamo che nel corteo celeste, la sua anima era al seguito del dio Ares (Ἄρης), nel cui nome risuona la radice semantica della areté (ἀρετή), la virtù. In età omerica, la virtù era rappresentata dal coraggio e dall’onore sui campi di battaglia, come era tipico delle società guerriere, mentre nell’Atene dell’età di Pericle già assumeva una diversa connotazione: la dialettica, vale a dire l’abilità oratoria e la capacità politica del buon governo , come traspare nei dialoghi platonici “Protagora” e “Menone”. E nella “Repubblica”, libro IV, vengono elencate le quattro virtù, su cui si fonda il bene della Città: sapienza, coraggio, temperanza e giustizia.
Come narratore, non posso dilungarmi in una disamina sulla definizione della virtù, alla luce delle dottrine platoniche (e aristoteliche), e lascio il compito agli studiosi di filosofia, tra cui annovero me stesso, diciamo in maniera un po' velleitaria. Qui posso soltanto registrare che l’eroe negativo del mio racconto, il suddetto Iannaccone Emilio, uno stalker, si era costruito un’immagine fantasma, un simulacro di Palmina. Quindi non era la vera Palmina con cui egli aveva una relazione d’amore, ma una creatura di fantasia con le sembianze di Palmina. Non era una giovane donna reale, ma soltanto immaginaria, uno spirito. Noi siamo in una favola, ma non dilunghiamoci sugli spiriti nelle favole, altrimenti chissà dove andiamo a finire. Limitiamoci soltanto ad enunciare alcune affermazioni di Jung a proposito degli eventi psichici. “Anche se si ritiene che un’automanifestazione dello spirito, esempio, un’apparizione di spettri, non sia altro che allucinazione, questa è purtuttavia un evento psichico spontaneo, non soggetto alla nostra volontà. […] L’apparizione psichica dello spirito denota senz’altro la sua natura di archetipo; il fenomeno che si chiama spirito si fonda cioè sull’esistenza di un’immagine primordiale autonoma preconscia, che è presente universalmente nella psiche umana. (“Fenomenologia dello spirito nella fiaba”, 1946) Ora io mi sono permesso questa breve digressione sulla filosofia platonica e psicologia junghiana, in memoria del Maestro Takehiro Nagatomo, lo studioso venuto dal Giappone in Europa a studiare la filosofia occidentale, e del suo colloquio ultimo con il discepolo Adimanto, avvenuto nel corso di “una passeggiata novembrina”. “In questo nostro andare, mio caro giovane amico, ti vorrei spiegare il perché dei miei interessi ultimi di fiabistica e narratologia, in brevi passaggi.” Così diceva il maestro rivolto al suo discepolo in quello che poteva apparire, ed in effetti sostanzialmente era, il suo lascito spirituale. E noi sappiamo dal destino, nel cui sguardo abbiamo scrutato, come in uno specchio, la verità dell’essere. Quale? La signora dai capelli bianchi. “Ora, per cogliere la trasparenza veritativa di una narrazione, non ci resta che confrontarci con il motto di Lutero, rilevato da Gadamer: “Qui non intelligit res, non potest ex verbis sensum elicere.” Non era stato questo l’explicit della storia e del destino del maestro Takehiro Nagatomo, al termine della sua passeggiata novembrina e del suo ultimo percorso nel viale della sua esistenza? Che cosa era successo, quando egli aveva reclinato il capo, rimanendo immobile sulla panchina del parco? Quando il Maestro sulla panchina reclinava il capo senza più rispondere al discepolo, all’esterno del parco, in una strada adiacente abbastanza isolata, passeggiava una signora con i capelli bianchi; di colpo si è voltata a guardare in alto, dove “tra i rami degli alberi, in un lieve ondeggiare delle fronde, le gazzarre degli uccelli sembravano smarrirsi nel volo verso il cielo.” Ecco, la verità in fondo alla coscienza della realtà. Ora, noi abbiamo così tradotto il motto di Lutero: “Chi non conosce la cosa, non può ricavare il senso dal linguaggio”. Qui, conoscere significa comprendere. In che cosa consiste questa comprensione della cosa? Quale cosa?
Registriamo, intanto, la traduzione e l’interpretazione di Gadamer della sentenza di Lutero, poi spieghiamo il nostro pensiero, verosimilmente lontano, ma non tanto, da quanto interpreta Gadamer. Nella sua opera principale “Verità e Metodo”, il padre dell’Ermeneutica moderna cita in epigrafe il motto di Lutero, che così traduce nel suo pensiero, quando si tratta di concludere sull’aspetto universale dell’ermeneutica: «Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache», «l’Essere che può essere compreso è linguaggio». Diciamo in sintesi che per Gadamer la cosa orienta il linguaggio: “Il linguaggio è un mezzo in cui io e mondo di congiungono, o meglio si presentano nella loro originaria congenerità. […] In tutti i casi analizzati, sia nel linguaggio del dialogo come in quello della poesia e anche in quello dell’interpretazione, ci è apparsa la struttura relativa del linguaggio, che consiste nel non essere un riflesso di qualcosa di fissato, ma un venire all’espressione in cui si annuncia una totalità di senso. […] Questo agire della cosa stessa è l’autentico movimento speculativo, che afferra e trasporta il soggetto parlante. […] Ora ci risulta chiaro che questo agire della cosa stessa, questo venire ad espressione del senso, indica una struttura ontologica universale, ossia la struttura fondamentale di tutto ciò che in generale può essere oggetto del comprendere. – L’Essere che può essere compreso è Linguaggio.” Chiariamo che storicamente il problema ermeneutico discende dall’esegesi biblica, e in tal senso il motto di Lutero deve intendersi riferito alle Sacre Scritture, e quindi chi non ha [Fede] conoscenza della Verità divina, non può ricavare il senso del messaggio biblico dalla sola lettura, che sollecita dunque un’interpretazione. Ricordiamo che il Nuovo Testamento fu tradotto da Lutero in tedesco [1519] dal testo greco curato da Erasmo da Rotterdam. Per la traduzione dell’'Antico Testamento [1527-8], egli si avvalse del testo ebraico, la Bibbia di Berlino, con l’ausilio della Vulgata latina. Scrive Gadamer: “Presupposto dell’ermeneutica biblica – almeno nella misura in cui essa ci interessa qui come preistoria dell’ermeneutica moderna connessa con le scienze dello spirito – è il principio scritturale dei Riformatori. Il punto di vista di Lutero è all’incirca questo: La Sacra Scrittura è sui ipsius interpres. Non c’è bisogno della Tradizione per arrivare alla retta comprensione di essa, e nemmeno dei principi interpretativi dell’antica dottrina dei quattro sensi della Scrittura; la lettera della Scrittura ha un senso univoco, che si manifesta da sé stesso, il sensus literalis.” Non ci addentriamo nel discorso, ma osserviamo che se la storia dell’ermeneutica biblica allarga i suoi orizzonti e diventa poi il metodo dell’ermeneutica universale, quella di Gadamer, noi ne restringiamo i confini, limitati alla scrittura della nostra favola.
In tal senso dovremmo interpretare, risalendo all’indietro, la verità storica degli eventi che si verificarono negli anni antecedenti a quella giornata novembrina, nel momento in cui il Maestro Takehiro Nagatomo, venuto in Italia a studiare la filosofia occidentale, sulla panchina del parco, reclinava il capo senza più rispondere al suo discepolo, mentre in una strada adiacente abbastanza isolata, passeggiava una signora con i capelli bianchi, che in quello stesso istante di colpo si era voltata a guardare in alto, dove tra i rami degli alberi, in un lieve ondeggiare delle fronde, le gazzarre degli uccelli sembravano smarrirsi nel volo verso il cielo. E quindi, sul filo della narrazione, siamo giunti al tempo di Giovanna, Palmina e Iannaccone, quando sulla scia socratica del “Fedro” di Platone, ho compiuto il rito della mia purificazione, la palinodia. Ed ora? È chiaro che non possiamo interpretare i fatti, se prima non li raccontiamo. E come? Guardando nello specchio, che riflette lo sguardo del Destino, lo stare che non può non stare (se sta, come può non stare?), quindi senza cedere, nec-caedere, ovvero per Necessità. Ma se questo stare del destino sta per necessità, “Destino della Necessità”, domandiamoci in quale Storia si muovono (non stanno) invece i destini di Giovanna, Palmina, Iannaccone, la signora dei capelli bianchi e su tutti quello del Maestro Takehiro Nagatomo, la cui figura ha un ruolo altamente significativo, in questa nostra fiaba. È lo stesso ruolo di paradigma principale, che alla figura del “vecchio saggio” assegna Jung, nel citato saggio: “Fenomenologia dello spirito nella fiaba” . La Storia registra i fatti accaduti, res gestae, quindi noi passiamo a raccontare le gesta dei nostri eroi, ricominciando da Iannaccone, ma non dimentichiamo l’altro senso della Storia, che consegniamo ad altri pensieri e ad altre espressioni di pensiero. Qui ci limitiamo a enunciarne alcune linee: “La storia, si pensa, è res gestae. Ma il gesto ha un senso e una fine. E invece solo gli eterni hanno Storia. Che non ha termine nemmeno con la loro morte. Solo essi possono morire. Anzi, è con la morte degli eterni che all’interno della loro Storia va mostrandosi la Gioia. La Storia non è soltanto il comparire e scomparire degli eterni: è l’ordine di questa vicenda. […] La Storia quindi precede e segue la morte. E appare all’interno della Gioia della totalità degli eterni: all’interno dell’Infinito che va mostrandosi nella Storia, e inesauribile ne rende possibile l’infinito dispiegarsi.” (Emanuele Severino, “Storia, Gioia”, 2016) Anche nella non verità, quella dei mortali è la Storia degli eterni, dice Severino. Noi raccontiamo questa non verità della nostra storia di mortali.
LO SCHIANTO DELLA PARETE “Il grido. Sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra. Il grido di caccia, di guerra, d’amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. Ma anche gli animali gridano; e per l’uomo primitivo grida anche il vento e la terra, la nube e il mare, l’albero, la pietra, il fiume.” (Emanuele Severino, “Il parricidio mancato”, Cap. 2, I, Il grido, 1985) Il corpo insanguinato e semisvestito di Palmina, steso immobile sul pavimento del salotto della casa, ebbe un fremito, la donna gridò. Un grido di terrore o un grido di resurrezione? Ma chi era la donna che aveva gridato? O era stato un animale a gridare? Voi avete mai sentito un animale gridare? Io, non mi ricordo. Chi aveva gridato, dunque? Uno spettro si aggirava in quel salotto, un invisibile. “Il grido indica in modo semplice e potente che l’inflessibilità del mondo ha ceduto in un punto. Il nemico ucciso, l’animale catturato e divorato, la donna posseduta, ma anche l’incombenza della morte e lo scacco subito e il corpo e l’anima dilaniati sono, da che i mortali si affacciano sulla terra, i punti cardinali dove l’inflessibilità del mondo cede.” (Severino, op. cit., 2, II, “La casa natale della parola”) Chi aveva aggredito Palmina in maniera così brutale, riducendola in quelle condizioni? Sembrava morta, e invece era in fin di vita, come d’improvviso il fremito dell’agonia aveva rivelato, suscitando il terrore e il grido, un grido di terrore, dunque? Il grido è uno schianto della parete che s’incrina. In che senso? “Sino a quel momento [quando l’inflessibilità del mondo ha ceduto] l’ordine inflessibile del mondo è una parete che non si lascia scalfire o si spera non venga scalfita: i punti dove l’inflessibile è piegato, flesso, stanno al di fuori, sia all’interno del gridante. Il grido è lo schianto della parete che si incrina, come il tuono è lo schianto del lampo che incrina il cristallo del cielo. L’incrinatura – la flessione dell’inflessibile – strappa il grido al mortale come il lampo strappa il tuono al cielo.” (Op. cit., ivi) Prima di riprendere il discorso narrativo o la narrazione tout court del corpo straziato di Palmina disteso immobile sul pavimento di quella casa e del grido suscitato da quel suo fremito di vita (ma non potevano accertare se respirava ancora? No, giaceva a terra esanime, senza vita. Ah! Allora, va bene), prima di continuare a raccontare la non verità di questa storia dei mortali, avverto l’obbligo di chiarire brevemente il pensiero di Severino sulla flessibilità dell’inflessibile, ricominciando ancora dalle sue parole: “L’incrinatura degli inflessibili è il divenire del mondo. La flessione è “l’opera” che genera il mondo. I punti della flessione sono i vari modi in cui il mondo diviene. Il grido indica il divenire del mondo. […] I mortali rievocano il grido… e affinché la rievocazione non sia ambigua , gli evocatori tendono a rendere simili le loro voci, cioè il grido tende a diventare un unisono. La musica appare. Guida la festa e attraverso la festa, la vita intera della comunità arcaica. Come rievocazione del grido, la musica non ha bisogno di parole: sta nella casa natale della parola e abitandola indica la flessione degli inflessibili, il divenire del mondo.” (Op. cit., ivi)
“Qui jubilat, non verba dicit, sed sonus quidem est laetitiae sine verbis.” (“Chi giubila non dice parole, ma è un suono di letizia senza parole”). Severino cita Agostino, che commenta il Salmo 90. Poi prosegue nella sua disamina sul linguaggio e i due timbri contrastanti del flessibile e dell’inflessibile, riscontrando nella radice “ar”, formata su una consonante liquida, la base di molte parole che nominano l’ar-te degli uomini e degli dèi, espressione della volontà che guida l’azione, il fenomeno in cui consiste il timbro del flessibile e della flessione delle cose. “Per contro, esiste tutto un altro insieme di radici costruite su consonanti occlusive e spiranti, che pronunciano il termine per ciò che non si lascia dominare, l’angoscia per la strettoia in cui gli inflessibili delimitano la vita del mortale, lo splendore della luce irraggiungibile da ogni arte, la fuga , il mostrarsi delle cose, la lontananza che respinge, l’essere stesso del mondo, l’essere sopraffatti ed uccisi, il nascondersi e il sottrarsi delle cose, il legame, lo stare di ciò che non si lascia flettere.” (Op. cit., ivi) Questo contrasto tra flessibile e inflessibile viene così giudicato da Severino: “L’uomo ha oggi ormai spinto al tramonto ogni inflessibile e crede che ogni cosa sia oggetto della sua volontà. Ma questo tramonto incomincia già all’inizio della storia del nostro linguaggio. Quando le stesse parole che originariamente nominano l’inviolabile accadimento del mondo … sono spinte a indicare l’arte (techné), la “tecnica” appunto, con cui l’uomo si fa padrone del mondo e interpreta il mondo stesso come l’opera di un’arte suprema, di cui si deve scoprire la chiave.” (Op. cit., ivi) In queste ultime parole, non si può non riconoscere una critica distruttiva di quel mondo platonico-cristiano creato da un Dio, di cui peraltro già Nietzsche aveva annunciato la morte. Questa convinzione, la filosofia di Severino, di ripercorrere l’intero cammino percorso dalla civiltà occidentale, per giungere all’inizio e tentare una strada intentata rispetto a quella che ha portato al costituirsi della civiltà odierna, oggi dominante sul pianeta, viene esplicitata nella sua opera principale: “Destino della Necessità”. Ed ecco alcune illuminanti parole conclusive dell’Introduzione: “Al di fuori dell’abisso dell’alienazione, in cui accade l’essere mortale del mortale e la storia dell’Occidente, già da sempre appare il senso inaudito del destino della necessità. Il destino non è la semplice negazione della libertà: è una regione diversa da quella in cui la necessità e la libertà coincidono. Nessuna interpretazione dell’Occidente può raggiungerla, e tuttavia è il cerchio all’interno del quale l’Occidente appare ed è destinato alla propria alienazione. Il linguaggio che rispecchia il destino della necessità si riporta al bivio per oltrepassarlo lungo il sentiero intentato.”
Il destino, di cui il linguaggio di Severino, è il testimone, è lo stare per necessità, lo ripetiamo per l’ennesima volta, lo stare che non può non stare, e che nessun divenire, il divenire altro delle cose può travolgere. [Questo testo che il lettore sta leggendo come fa ad essere stato se non è da sempre (eterno) stato? Soltanto è entrato nel cerchio dell’apparire e uscirà dal cerchio dell’apparire.] Se una cosa, per es. questo “testo in lettura”, diviene vuol dire che prima c’era e poi non c’è più. Sorge dal nulla e finisce nel nulla. E questa è una contraddizione, perché significa che l’essere è niente. Ma se l’essere “è” come fa a non essere, “non è”? Parmenide, e così via. “L’alienazione essenziale, la follia estrema è la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono. La filosofia, nascendo, porta al culmine questa fede, affermando che l’evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano. All’interno di tale fede cresce la storia dell’Occidente, e ormai la storia del Pianeta: non solo la storia delle sapienze, ma anche delle istituzioni, delle opere. E si giunge alla negazione inevitabile di ogni dimensione immutabile, quindi di ogni verità innegabile.” (Severino, “Testimoniando il destino”, 2019) Se il corpo straziato di Palmina giaceva sul pavimento, come faceva a non giacere sul pavimento? Palmina aprì gli occhi – ma questo è il racconto nella non Verità, la Fede nel divenire – seguì un grido (il grido, la festa arcaica, che apre la storia dell’Occidente, come abbiamo visto, anche se non abbiamo capito bene). Il grido fu contemporaneo allo spalancarsi degli occhi della morta, al fremito che contagiò il grido. Che cosa era accaduto? Era il grido del mare o la crepa sul muro? Lo schianto della parete.
Il telefono del Pronto Intervento squillò nella Sala Operativa della Questura di Napoli, era domenica pomeriggio. L’agente di turno, che stava controllando sulla schedina i risultati delle partite di calcio, smise subito, sollevò il telefono e con calma disse: “Polizia.” Sentì dall’altra parte un suono indistinto, un lamento. “Qui jubilat, non verba dicit, sed sonus quidem est laetitiae sine verbis.” (“Chi giubila non dice parole, ma è un suono di letizia senza parole”). Il giubilo come il lamento, che ne è il risvolto, aveva commentato Severino, aggiungendo: “Nel giubilo del Salmo 90, Davide ha in Dio il suo rifugio, ma anche in questo rifugio è nella tribolazione.” L’agente ripeté con calma: “Polizia”. Il suono sine verbis di lamento, l’aveva colto di sorpreso, ma non tanto, era abituato all’emergenza e alla concitazione. Seguì un silenzio, poi sentì una voce fievole, un mormorio, aveva capito bene? Un delitto? “Un omicidio?” disse. Dall’altra parte, la voce femminile ora divenne forte e chiara: “Villa Garofano, chiamate D’Alterio.” L’agente ripensò a una frase che aveva sentito ripetere spesso nel loro ambiente, un vero e proprio mantra: “Se succede qualcosa di serio, dovete chiamare Luigi D’Alterio.” “Arriviamo subito, signora,” disse al telefono. “Fate presto,” disse l’altra. In verità aveva parlato in dialetto: “Facite 'ambresse”, e subito aveva aggiunto: “Spicciatevi.” Quindi aveva chiuso la comunicazione. L’agente consultò sul tavolo un foglio plastificato con i numeri per le emergenze, c’era anche quello di D’Alterio. Telefonò: “Ispettore D’Alterio?” “Sì?” “Giovannetti dalla Sala Operativa.” “Che vuoi, Giovannetti?” “Villa Garofano, un omicidio, ispettore.” “Un omicidio? Aspetta, sto a Fuorigrotta.” L’ispettore D’Alterio tacque un istante: “Giovannetti, ti richiamo.” L’agente chiuse, allontanò il foglio plastificato, riprese la schedina: il Napoli aveva perso in casa, non c’era ancora Maradona, qualche anno dopo, tutto sarebbe stato diverso. Controllò gli altri risultati: ne aveva sbagliati quattro, no, cinque. Niente tredici, come al solito, neppure dodici. Squillò il telefono: “Sto uscendo dal “San Paolo”, Giovannetti, c’è traffico. Tu, intanto, manda la volante, Capo Posillipo, lo “Scoglione” di Marechiaro, vado subito. Avverti il commissario.” Orbene, gli amanti della musica napoletana, conoscono la canzone, versi di Salvatore Di Giacomo, il cui ritornello recita: “A Marechiare ce sta 'na fenesta.” In quel tempo, il tempo del nostro racconto, nel borgo di Marechiaro c’era Villa Garofano: una casa a due piani. Ovvio è che non era quella della “Fenestella”, in verità non è tanto ovvio, ma non era quella, era una villetta un po' distante e più appartata, e però c’era un vaso con un garofano sul davanzale del primo piano.
A Marechiare ce sta 'na fenesta, La passiona mia ce tuzzulea. 'Nu garofano addora 'int'a 'na testa, Passa ll'acqua pe' sotto e murmulea. A Marechiare ce sta 'na fenesta. A Marechiaro c'è una finestra, La mia passione ci bussa. Un garofano odora in un vaso, Sotto passa l'acqua e mormora. A Marechiaro c'è una finestra.
Sembra che Salvatore Di Giacomo, vedendo un garofano sul davanzale della finestra, abbia avuto l’ispirazione per la sua poesia. Oggi è un luogo turistico, c’è sempre un garofano fresco sul davanzale della finestra, oltre ad una lapide celebrativa in marmo bianco con sopra inciso parte dello spartito della canzone e il nome del suo autore. Villa Garofano era un’imitazione, stava in un luogo più appartato, che sfuggiva allo sguardo dei turisti, ma era conosciuta da quelli del posto e anche da altri frequentatori e certamente da D’Alterio. Nel salotto a piano terra di quella casa giaceva il corpo esanime di Palmina Serratore, ma a quanto abbiamo capito non era morta. E allora perché la titolare della casa aveva mormorato la parola “delitto”, e l’agente aveva sentito e poi detto “omicidio”? Lo ius murmurandi? No, che c’entra! Non era un mugugno, piuttosto un lamento, abbiamo citato anche Agostino, forse a sproposito. Noi abbiamo parlato di grido, avevamo anche detto, se ricordo bene, il grido del mare, ma adesso spieghiamo, l’abbiamo tirata troppo per le lunghe. Prima arrivarono gli agenti, Alessandra Laganà li aspettava davanti alla sporgenza di una roccia, e fece segno da lontano. Gli agenti si avvicinarono, la donna li guidò fino alla villetta e li fece entrare a piano terra. Quindi spalancò la porta del salotto e i due agenti si affacciarono sulla soglia, diedero uno sguardo, si ritrassero, e subito di scatto l’agente Maria Minieri richiuse la porta. Poi entrambi si misero di guardia lì davanti, in attesa del commissario. La padrona di casa diede un’occhiata a quei due ragazzi in divisa e disse: “Vado ad aspettare D’Alterio”, poi uscì di casa. Il commissario D’Ambrosio giunse un po' di tempo dopo in compagnia del magistrato, Paola Mancinelli, e un ispettore della Scientifica. Entrarono in salotto, la stanza era in leggera penombra, l’ispettore scattò una fotografia, il lampo del flash destò la morta. Ebbe un tremito, aprì gli occhi, la Mancinelli emise un grido. Ecco chi aveva gridato. O meglio, arrivando sul posto, la donna giudice aveva respirato l’aria di mare, il suo grido era un grido di spavento che rispecchiava il grido del mare. Fu sollecitato l’urgente arrivo di un’ambulanza, che sopraggiunse a sirena spiegata un minuto dopo. In verità, l’invio era stato richiesto un po' dopo la prima telefonata alla Sala Operativa della Laganà. Quando Sandy era stata chiamata da D’Alterio, subito avvertito del delitto, Luigi le aveva chiesto: “Ma è morta?”, aveva risposto: “Mi sembra morta.” Ah, ecco! Giunse sul posto, mentre i portantini stavano caricando la barella su cui giaceva Palmina moribonda (non morì, sopravvisse), D’Alterio salutò il commissario e il magistrato, che assistevano all’operazione di soccorso sul piazzale antistante la casa, poi andò subito da Sandy. Entrarono in casa, e dopo un’occhiata in salotto, salirono al primo piano, dove c’era il suo appartamento, il piano terra lo dava in affitto. Uscirono quasi subito, D’Alterio corse dal commissario con un foglietto su cui aveva scritto un numero di targa.
IL GRIDO DI MORTE D’Ambrosio aveva preso il foglietto, gli diede una rapida occhiata e disse a D’Alterio di diramare le ricerche. L’ispettore rispose che era già stato fatto prima, si trattava di un’automobile di grossa cilindrata, una volvo grigio metallizzata targata Roma, e che era stata intercettata sulla Domiziana subito dopo Castel Volturno. D’Alterio, sempre più veloce del vento, pensò D’Ambrosio, e guardò in direzione della Laganà, che stava un po' più distante da loro. La Mancinelli seguì lo sguardo di D’Ambrosio e si voltò anche lei verso la Laganà. Il commissario disse: “L’hanno fermata?” “È in fuga,” rispose D’Alterio, “viene inseguita da una pattuglia della Stradale.” Erano informazioni in diretta. Il magistrato si mosse e disse: “Andiamo a fare il sopralluogo in casa.” Squillò il telefonino di D’Alterio. – Questa narrazione, come avevamo detto, per rendere più fluido il racconto, anticipa un po' i tempi del tempo narrato. Infatti, se dovevamo rispettare la realtà storica, avremmo dovuto dire che era squillato il telefono in casa, che Sandy aveva risposto, aveva chiamato D’Alterio, questi aveva appreso la notizia e poi l’aveva comunicata al commissario e al magistrato. Tutta una perdita di tempo nell’azione narrata. – “La volvo si è schiantata in curva contro un muro, nei pressi di Mondragone”, annunciò l’ispettore. Il gruppetto si avviò verso la casa. “Il conducente è morto,” disse D’Alterio. Il commissario disse all’agente Minieri di andare a mettersi in ascolto radio e di riferire le novità. “Emilio Iannaccone, stalker della vittima, Palmina Serratore” disse D’Alterio. Entrarono in casa per compiere il sopralluogo sulla scena del crimine e raccogliere le prove. L’ispettore mostrò una chiavetta usb, dove era registrata l’aggressione. “Se succede qualcosa di serio, dovete chiamare Luigi D’Alterio.” Anche D’Ambrosio conosceva il mantra. In un certo senso, possiamo dire che D’Alterio si avvaleva di tecnologie avanzate, inesistenti in quel tempo, il tempo della narrazione, ma il segreto dei suoi successi non erano in codeste tecnologie, come sapevano un po' tutti compreso il magistrato Mancinelli, che però non era molto d’accordo su certe procedure, indipendentemente dalle tecnologie avanzate. Dobbiamo spiegare come erano andati i fatti? Palmina era fuggita da Roma a Napoli, Iannaccone l’aveva rintracciata, e come avesse fatto non lo so, e l’aveva aggredita, riducendola in fin di vita. Il resto lo sappiamo. No, un attimo, Sandy aveva installato una telecamera a piano terra e dal video del suo appartamento soprastante poteva controllare e registrare tutti i movimenti dei suoi ospiti. Non c’è bisogno di aggiungere che Sandy era una conoscente e buon’amica dell’Ispettore D’Alterio. Lo schianto contro il muro della Volvo in fuga era il grido di morte, e bisogna ripartire dal grido, se vogliamo conoscere quale fu il destino di Palmina. Abbiamo detto che nell’occasione non morì. Quando si riprese, ci volle un po' di tempo, due anni circa, partì per il Giappone, Kobe, dove andò a raggiungere la sua amica Giovanna. E qui si presume che la ragazza abbia conosciuto il futuro Maestro Takehiro Nagatomo.
EVOCARE L’ORIENTE Questa storia che andiamo narrando parte da lontano, gli anni ’80 del secolo scorso, ed ha inizio a Roma, una delle capitali dell’Occidente. Ma per comprenderla meglio, dobbiamo partire molto più da lontano, una lontananza tale che quella distanza di cui abbiamo detto, di fronte a codesta lontananza, si riduce ad un battere di ciglia o quasi. Se dobbiamo dare seguito alla nostra storia di Giovanna e Palmina, localizzate a Kobe, in Giappone, non possiamo fare a meno di evocare l’Oriente. E come? Da un punto di vista narrativo, la storia di Giovanna (e di Palmina) si ricollega a quella narrata nel racconto: “Una passeggiata novembrina”. In tale racconto si dice che il Maestro Takehiro Nagatomo era venuto in Italia a studiare la filosofia occidentale, e noi lo immaginiamo in questo suo ultimo atto, in età veneranda. Ma sorge un dubbio: il Maestro viene dall’Estremo Oriente a studiare i saperi dell’Occidente, ma solo per questo motivo? O dietro quest’apparenza, si cela un intrigo? Io credo che non sia solo la filosofia la motivazione del viaggio del Maestro, e quale altra allora? Quando il Maestro sulla panchina reclinava il capo senza più rispondere al suo discepolo, all’esterno del parco, in una strada adiacente abbastanza isolata, passeggiava una signora con i capelli bianchi; di colpo si è voltata a guardare in alto, dove “tra i rami degli alberi, in un lieve ondeggiare delle fronde, le gazzarre degli uccelli sembravano smarrirsi nel volo verso il cielo.” Diciamo subito che quella signora dai capelli bianchi è Giovanna Santoro, che noi abbiamo conosciuto quando ventenne frequentava l’Università di Roma. Sono passati oltre quarant’anni da allora, e in quella giornata novembrina di tepore autunnale, Giovanna non poteva sapere di questa estrema vicinanza con un’antica conoscenza (amore?), ma poi di colpo aveva avvertito come una vibrazione nell’aria, voltandosi a guardare in alto, tra i rami degli alberi.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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IL GRAFFIO (15 ottobre 2024)
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La svolta dell’inchiesta avvenne qualche tempo dopo, grazie anche all’attivismo dell’avvocato del conducente la autovettura investitrice. Questi era stato incriminato per lesioni colpose e la prova del tentato omicidio lo scagionava. Il suo legale aveva preso contatto con Palmina, ed aveva scoperto di certe registrazioni di telefonate dal contenuto minatorio fatte dallo Iannaccone all’amica Giovanna. In una si parlava dei pericoli di una grande città come Roma, dove potevano capitare incidenti stradali improvvisi o altri fatti del genere, tipo finire sotto le ruote di un tram o dei convogli della metro. “Allontanarsi dalla linea gialla!” ridacchiava minaccioso lo Iannaccone, ripetendo l’avviso all’arrivo dei treni. Tutti gli indizi messi insieme fanno una prova? La prova si raggiunge in aula. “Ciro, devi arrestare il colpevole.” Manara convinse la Monteleone, che firmò l’ordine di cattura. Il commissario aveva ottenuto la testimonianza di un maresciallo in pensione, che aveva visto quel giovane dare una spinta violenta alla schiena della ragazza e lo aveva riconosciuto. Era sicuro che fosse Iannaccone? Sì, senza dubbio. Al momento aveva anche cercato di fermarlo, ma l’aveva perso nella calca, e quando si era saputo del “graffio” non aveva esitato ed era andato a fare la sua deposizione agli inquirenti.
In aula, al processo, la sua deposizione non bastò come prova. E se la spinta non era stata volontaria? Magari voleva afferrarla per tirarla indietro, azzardò in ipotesi la difesa dello Iannaccone. Il giudice monocratico ritenne le prove non sufficienti per la condanna. Iannaccone fu assolto. Giovanna Santoro sparì da Roma e dall’Italia.
LA PALINODIA (RITRATTAZIONE)
Quando Iannaccone uscì dal carcere, dopo la sentenza di assoluzione, che ne aveva disposto l’immediata liberazione, andò subito a cercare Giovanna Santoro – allora non c’era il codice rosso né tanto meno il braccialetto elettronico – ma non la trovò. Il suo avvocato gli aveva altamente sconsigliato di farlo, in quanto ragionava come il magistrato che aveva rappresentato l’accusa: se ancora non era previsto il reato di stalking, atti persecutori – oggi, art. 612 bis C. p. – questo non significava che un tale comportamento poteva essere denunciato alla polizia. E in un certo senso Giovanna l’aveva fatto, confidando il suo disagio a Francesco.
Iannaccone riuscì a rintracciare Palmina, e quest’ultima non fece nulla per evitarlo, diciamo che ne attendeva la venuta con aria di sfida. Ma non aveva paura? Sì, l’aveva, ma questo non le impediva di sfidare Iannaccone, e la sua scelta coraggiosa pagò.
Se un uomo cerca una donna, chiedendo all’amica, finisce nella rete di quest’ultima, e bisogna provare per crederlo, anche se non è necessario. Intendiamoci, stiamo parlando di sentimenti profondi, nel senso di passioni dei sensi e dell’anima, quindi per catturare Iannaccone, Palmina dovette porre in atto tutte le sue arti e le sue grazie femminili, ed in capo ad alcune settimane, in verità qualche mese e anche più, ci riuscì. Voleva salvare l’amica sparita, sconfiggere il maschio, sindrome della crocerossina, oppure si era invaghita? Questo guazzabuglio del cuore umano, dice Manzoni.
Giovanna, bionda, alta e prosperosa, era più avvenente di Palmina, una brunetta magrolina. Ma Iannaccone non riuscì a sottrarsi, il suo piano era quello di sedurre Palmina per ritrovare l’amica, e non capiva – e come avrebbe potuto? – che non era il cacciatore, ma la selvaggina. Almeno questo è il quadro, la scena che appare allo sguardo del narratore, nello specchio dello sguardo del destino. Non dimentichiamo la volontà del destino, che da sempre vuole e sempre ottiene nel suo stare quello che all’apparire sembrano scelte della volontà, dell’azione degli uomini e dei popoli. Bon!
Vorrei insistere su quest’ultimo aspetto dell’inganno della libera volontà degli uomini e delle donne. Proviamo a comporre una frase con questi tre termini: campo, cacciatore e selvaggina, mettendoli in ordine. La selvaggina insegue il cacciatore nel campo. Questa prima composizione non sembra corretta, eppure era quella la scena che si rispecchiava nello sguardo del destino, così come viene colta dal narratore, che ne deve descrivere gli aspetti, come dire il suo scorrere nel tempo.
Iannaccone sedusse (o, nello sguardo del destino, “credette” di sedurre) Palmina, ma aveva sempre in mente Giovanna, e Palmina lo sapeva, e allora (spogliandosi delle vesti di Diana cacciatrice) si consegnò interamente all’uomo, anima e corpo, ne era follemente innamorata. Ma come? Come spiega Platone nel “Fedro”.
“Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; per questo, la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. (246b) […] Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero di essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato.”(254a)
Era questa la passione che Palmina aveva scatenato nell’anima di Iannaccone. Questi, secondo la dottrina della tripartizione dell’anima di Platone, con il suo intelletto, in metafora l’auriga, ovvero la parte razionale dell’anima, non era riuscito a controllare il cavallo buono, la parte dell’anima impulsiva (il cuore), lasciando a briglia sciolta il cavallo contrario, la parte dell’anima concupiscibile, sfrenatezza e desiderio.
Ma il gioco di Palmina era estremamente rischioso, perché consisteva nel mettere in gioco la sua vita. E se quindi, all’inizio dell’avventura, aveva per così dire celiato, quasi a voler sostituire la sua immagine a quella di Giovanna, prestandosi allo sguardo e al desiderio di Iannaccone, nel seguito della storia, il gioco era divenuto il mettere in gioco sé stessa e la sua vita, alla mercé degli appetiti concupiscibili di Iannaccone.
L’anima di costui, infatti, se vogliamo stare, come subito vedremo, alla narrazione (mythos) platonica, aveva natura sanguinaria – ed è qualcosa di più di quanto, per esempio, diciamo di uno che è un tipo sanguigno. Come è stato rilevato da Giovanni Reale, interprete di Platone, “In greco mito (μύθος) deve intendersi in senso generico, appunto narrazione priva di rigore e di saldezza dialettica, che fa ampio uso di immagini. Non c’è però bisogno di calcare la mano sul termine, intendendolo e traducendolo come – finzione – [fiction].” (“Fedro”, Nota 48)
E allora, onde comprendere la sorte dell’anima di Iannaccone, dobbiamo rifarci all’immagine platonica del corteo di anime che volano in cielo al seguito del dio: “Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima è nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti, l'invidia sta fuori del coro divino.” (“Fedro”, 247a)
Questa è la visione di quello che accade lassù. Nella nostra storia invece, che sulla scia della narrazione (μύθος) platonica non possiamo accontentarci di definire come una mera finzione, che cosa dobbiamo dire che accadeva quaggiù? E dobbiamo ancora riferirci al testo del “Fedro”, il dialogo che contiene quasi tutte per intere le dottrine di Platone – l’Iperuranio, le eterne Idee, l’immortalità dell’anima, la metempsicosi, la reminiscenza, la dottrina dell’Eros e la dialettica.
Atteniamoci, quindi, alla descrizione dell’Amore, inteso come forma di divina follia: “Questo, dunque, è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza [di lassù] mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di pazzia: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. (249 d-e) […] L’anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. (251 d-e) […] Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare sé stessi e il proprio amore.” (252 c)
Dobbiamo pertanto credere che l’anima di Iannaccone lo portava a comportarsi così come quando essa era al seguito del dio nel corteo celeste, vale a dire Ares, il dio della guerra. Infatti, Platone così continua: “In tal modo, ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone.” (252 d)
Ma se il carattere e il temperamento di Iannaccone era assuefatto allo spirito della guerra e del sangue, così diciamo traducendo in nostre parole il linguaggio platonico, la sua vittima virtuale, nell’occasione Palmina, perché e come si offriva al sacrificio? Quale sentimento la spingeva a una tale situazione di vittima sacrificale di un amore folle e sanguinario? Era forse lei l’immagine, il simulacro di Giovanna, e colpendo lei, Palmina, Iannaccone colpiva nelle sue intenzioni il suo vero amore, per il torto subito. Anche qui, per spiegare l’agire della donna, nel nostro racconto Palmina, dobbiamo ricorrere ancora una volta a Platone e al suo dialogo, il “Fedro”. (242e -243b)
“SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti di Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì. Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: “Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.” E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate.”
Qui, ci sembra, dobbiamo dare delle doverose spiegazioni al lettore, e le andiamo a ricercare nei commenti sulla fonte. Stesicoro, poeta lirico corale, (VI sec. a. C.), stando a una leggenda, perse la vista per aver diffamato Elena, accusandola di infedeltà in un carme omonimo, e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (“Ritrattazione”), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze, mito ripreso da Euripide nell'Elena. Omero, invece, non avendo fatto lo stesso, rimase cieco. Così Socrate pronuncerà la ritrattazione del discorso fatto prima su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso.”
Orbene, mentre scrivevo che Palmina si era consegnata anima e corpo a Iannaccone, non so come, ma è come fosse scomparsa la luce, ed io non riuscivo a vedere più nulla; allora, ripensando a quanto scrivere sul comportamento di Palmina, che era stato in verità del tutto differente da quello da me descritto, ho deciso di pronunciare la mia palinodia ovvero la ritrattazione di quanto ho detto su di lei. Ed ecco che al contrario di Omero, i miei occhi hanno riacquistato la luce, e posso ora raccontare il vero, ringraziando la sapienza del dio, nel cui sguardo si rispecchia la mia narrazione.
Ebbene, quella da me presunta offerta completa di sé di Palmina allo Iannaccone, onde suscitarne le bramosie d’amore, più che reali atteggiamenti della giovane, erano immagini suscitate nella mente di costui dalle incontrollate passioni della sua anima. Non dimentichiamo che nel corteo celeste, la sua anima era al seguito del dio Ares (Ἄρης), nel cui nome risuona la radice semantica della areté (ἀρετή), la virtù. In età omerica, la virtù era rappresentata dal coraggio e dall’onore sui campi di battaglia, come era tipico delle società guerriere, mentre nell’Atene dell’età di Pericle già assumeva una diversa connotazione: la dialettica, vale a dire l’abilità oratoria e la capacità politica del buon governo , come traspare nei dialoghi platonici “Protagora” e “Menone”. E nella “Repubblica”, libro IV, vengono elencate le quattro virtù, su cui si fonda il bene della Città: sapienza, coraggio, temperanza e giustizia.
Come narratore, non posso dilungarmi in una disamina sulla definizione della virtù, alla luce delle dottrine platoniche (e aristoteliche), e lascio il compito agli studiosi di filosofia, tra cui annovero me stesso, diciamo in maniera un po' velleitaria. Qui posso soltanto registrare che l’eroe negativo del mio racconto, il suddetto Iannaccone Emilio, uno stalker, si era costruito un’immagine fantasma, un simulacro di Palmina. Quindi non era la vera Palmina con cui egli aveva una relazione d’amore, ma una creatura di fantasia con le sembianze di Palmina. Non era una giovane donna reale, ma soltanto immaginaria, uno spirito. Noi siamo in una favola, ma non dilunghiamoci sugli spiriti nelle favole, altrimenti chissà dove andiamo a finire. Limitiamoci soltanto ad enunciare alcune affermazioni di Jung a proposito degli eventi psichici.
“Anche se si ritiene che un’automanifestazione dello spirito, esempio, un’apparizione di spettri, non sia altro che allucinazione, questa è purtuttavia un evento psichico spontaneo, non soggetto alla nostra volontà. […] L’apparizione psichica dello spirito denota senz’altro la sua natura di archetipo; il fenomeno che si chiama spirito si fonda cioè sull’esistenza di un’immagine primordiale autonoma preconscia, che è presente universalmente nella psiche umana. (“Fenomenologia dello spirito nella fiaba”, 1946)
Ora io mi sono permesso questa breve digressione sulla filosofia platonica e psicologia junghiana, in memoria del Maestro Takehiro Nagatomo, lo studioso venuto dal Giappone in Europa a studiare la filosofia occidentale, e del suo colloquio ultimo con il discepolo Adimanto, avvenuto nel corso di “una passeggiata novembrina”.
“In questo nostro andare, mio caro giovane amico, ti vorrei spiegare il perché dei miei interessi ultimi di fiabistica e narratologia, in brevi passaggi.” Così diceva il maestro rivolto al suo discepolo in quello che poteva apparire, ed in effetti sostanzialmente era, il suo lascito spirituale. E noi sappiamo dal destino, nel cui sguardo abbiamo scrutato, come in uno specchio, la verità dell’essere. Quale? La signora dai capelli bianchi. “Ora, per cogliere la trasparenza veritativa di una narrazione, non ci resta che confrontarci con il motto di Lutero, rilevato da Gadamer: “Qui non intelligit res, non potest ex verbis sensum elicere.” Non era stato questo l’explicit della storia e del destino del maestro Takehiro Nagatomo, al termine della sua passeggiata novembrina e del suo ultimo percorso nel viale della sua esistenza? Che cosa era successo, quando egli aveva reclinato il capo, rimanendo immobile sulla panchina del parco?
Quando il Maestro sulla panchina reclinava il capo senza più rispondere al discepolo, all’esterno del parco, in una strada adiacente abbastanza isolata, passeggiava una signora con i capelli bianchi; di colpo si è voltata a guardare in alto, dove “tra i rami degli alberi, in un lieve ondeggiare delle fronde, le gazzarre degli uccelli sembravano smarrirsi nel volo verso il cielo.” Ecco, la verità in fondo alla coscienza della realtà.
Ora, noi abbiamo così tradotto il motto di Lutero: “Chi non conosce la cosa, non può ricavare il senso dal linguaggio”. Qui, conoscere significa comprendere. In che cosa consiste questa comprensione della cosa? Quale cosa?
Registriamo, intanto, la traduzione e l’interpretazione di Gadamer della sentenza di Lutero, poi spieghiamo il nostro pensiero, verosimilmente lontano, ma non tanto, da quanto interpreta Gadamer. Nella sua opera principale “Verità e Metodo”, il padre dell’Ermeneutica moderna cita in epigrafe il motto di Lutero, che così traduce nel suo pensiero, quando si tratta di concludere sull’aspetto universale dell’ermeneutica: «Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache», «l’Essere che può essere compreso è linguaggio». Diciamo in sintesi che per Gadamer la cosa orienta il linguaggio: “Il linguaggio è un mezzo in cui io e mondo di congiungono, o meglio si presentano nella loro originaria congenerità. […] In tutti i casi analizzati, sia nel linguaggio del dialogo come in quello della poesia e anche in quello dell’interpretazione, ci è apparsa la struttura relativa del linguaggio, che consiste nel non essere un riflesso di qualcosa di fissato, ma un venire all’espressione in cui si annuncia una totalità di senso. […] Questo agire della cosa stessa è l’autentico movimento speculativo, che afferra e trasporta il soggetto parlante. […] Ora ci risulta chiaro che questo agire della cosa stessa, questo venire ad espressione del senso, indica una struttura ontologica universale, ossia la struttura fondamentale di tutto ciò che in generale può essere oggetto del comprendere. – L’Essere che può essere compreso è Linguaggio.”
Chiariamo che storicamente il problema ermeneutico discende dall’esegesi biblica, e in tal senso il motto di Lutero deve intendersi riferito alle Sacre Scritture, e quindi chi non ha [Fede] conoscenza della Verità divina, non può ricavare il senso del messaggio biblico dalla sola lettura, che sollecita dunque un’interpretazione. Ricordiamo che il Nuovo Testamento fu tradotto da Lutero in tedesco [1519] dal testo greco curato da Erasmo da Rotterdam. Per la traduzione dell’'Antico Testamento [1527-8], egli si avvalse del testo ebraico, la Bibbia di Berlino, con l’ausilio della Vulgata latina.
Scrive Gadamer: “Presupposto dell’ermeneutica biblica – almeno nella misura in cui essa ci interessa qui come preistoria dell’ermeneutica moderna connessa con le scienze dello spirito – è il principio scritturale dei Riformatori. Il punto di vista di Lutero è all’incirca questo: La Sacra Scrittura è sui ipsius interpres. Non c’è bisogno della Tradizione per arrivare alla retta comprensione di essa, e nemmeno dei principi interpretativi dell’antica dottrina dei quattro sensi della Scrittura; la lettera della Scrittura ha un senso univoco, che si manifesta da sé stesso, il sensus literalis.” Non ci addentriamo nel discorso, ma osserviamo che se la storia dell’ermeneutica biblica allarga i suoi orizzonti e diventa poi il metodo dell’ermeneutica universale, quella di Gadamer, noi ne restringiamo i confini, limitati alla scrittura della nostra favola.
In tal senso dovremmo interpretare, risalendo all’indietro, la verità storica degli eventi che si verificarono negli anni antecedenti a quella giornata novembrina, nel momento in cui il Maestro Takehiro Nagatomo, venuto in Italia a studiare la filosofia occidentale, sulla panchina del parco, reclinava il capo senza più rispondere al suo discepolo, mentre in una strada adiacente abbastanza isolata, passeggiava una signora con i capelli bianchi, che in quello stesso istante di colpo si era voltata a guardare in alto, dove tra i rami degli alberi, in un lieve ondeggiare delle fronde, le gazzarre degli uccelli sembravano smarrirsi nel volo verso il cielo. E quindi, sul filo della narrazione, siamo giunti al tempo di Giovanna, Palmina e Iannaccone, quando sulla scia socratica del “Fedro” di Platone, ho compiuto il rito della mia purificazione, la palinodia. Ed ora? È chiaro che non possiamo interpretare i fatti, se prima non li raccontiamo. E come? Guardando nello specchio, che riflette lo sguardo del Destino, lo stare che non può non stare (se sta, come può non stare?), quindi senza cedere, nec-caedere, ovvero per Necessità. Ma se questo stare del destino sta per necessità, “Destino della Necessità”, domandiamoci in quale Storia si muovono (non stanno) invece i destini di Giovanna, Palmina, Iannaccone, la signora dei capelli bianchi e su tutti quello del Maestro Takehiro Nagatomo, la cui figura ha un ruolo altamente significativo, in questa nostra fiaba. È lo stesso ruolo di paradigma principale, che alla figura del “vecchio saggio” assegna Jung, nel citato saggio: “Fenomenologia dello spirito nella fiaba” .
La Storia registra i fatti accaduti, res gestae, quindi noi passiamo a raccontare le gesta dei nostri eroi, ricominciando da Iannaccone, ma non dimentichiamo l’altro senso della Storia, che consegniamo ad altri pensieri e ad altre espressioni di pensiero. Qui ci limitiamo a enunciarne alcune linee: “La storia, si pensa, è res gestae. Ma il gesto ha un senso e una fine. E invece solo gli eterni hanno Storia. Che non ha termine nemmeno con la loro morte. Solo essi possono morire. Anzi, è con la morte degli eterni che all’interno della loro Storia va mostrandosi la Gioia. La Storia non è soltanto il comparire e scomparire degli eterni: è l’ordine di questa vicenda. […] La Storia quindi precede e segue la morte. E appare all’interno della Gioia della totalità degli eterni: all’interno dell’Infinito che va mostrandosi nella Storia, e inesauribile ne rende possibile l’infinito dispiegarsi.” (Emanuele Severino, “Storia, Gioia”, 2016)
Anche nella non verità, quella dei mortali è la Storia degli eterni, dice Severino. Noi raccontiamo questa non verità della nostra storia di mortali.
LO SCHIANTO DELLA PARETE
“Il grido. Sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra. Il grido di caccia, di guerra, d’amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. Ma anche gli animali gridano; e per l’uomo primitivo grida anche il vento e la terra, la nube e il mare, l’albero, la pietra, il fiume.” (Emanuele Severino, “Il parricidio mancato”, Cap. 2, I, Il grido, 1985)
Il corpo insanguinato e semisvestito di Palmina, steso immobile sul pavimento del salotto della casa, ebbe un fremito, la donna gridò. Un grido di terrore o un grido di resurrezione? Ma chi era la donna che aveva gridato? O era stato un animale a gridare? Voi avete mai sentito un animale gridare? Io, non mi ricordo. Chi aveva gridato, dunque? Uno spettro si aggirava in quel salotto, un invisibile.
“Il grido indica in modo semplice e potente che l’inflessibilità del mondo ha ceduto in un punto. Il nemico ucciso, l’animale catturato e divorato, la donna posseduta, ma anche l’incombenza della morte e lo scacco subito e il corpo e l’anima dilaniati sono, da che i mortali si affacciano sulla terra, i punti cardinali dove l’inflessibilità del mondo cede.” (Severino, op. cit., 2, II, “La casa natale della parola”)
Chi aveva aggredito Palmina in maniera così brutale, riducendola in quelle condizioni? Sembrava morta, e invece era in fin di vita, come d’improvviso il fremito dell’agonia aveva rivelato, suscitando il terrore e il grido, un grido di terrore, dunque? Il grido è uno schianto della parete che s’incrina. In che senso?
“Sino a quel momento [quando l’inflessibilità del mondo ha ceduto] l’ordine inflessibile del mondo è una parete che non si lascia scalfire o si spera non venga scalfita: i punti dove l’inflessibile è piegato, flesso, stanno al di fuori, sia all’interno del gridante. Il grido è lo schianto della parete che si incrina, come il tuono è lo schianto del lampo che incrina il cristallo del cielo. L’incrinatura – la flessione dell’inflessibile – strappa il grido al mortale come il lampo strappa il tuono al cielo.” (Op. cit., ivi)
Prima di riprendere il discorso narrativo o la narrazione tout court del corpo straziato di Palmina disteso immobile sul pavimento di quella casa e del grido suscitato da quel suo fremito di vita (ma non potevano accertare se respirava ancora? No, giaceva a terra esanime, senza vita. Ah! Allora, va bene), prima di continuare a raccontare la non verità di questa storia dei mortali, avverto l’obbligo di chiarire brevemente il pensiero di Severino sulla flessibilità dell’inflessibile, ricominciando ancora dalle sue parole: “L’incrinatura degli inflessibili è il divenire del mondo. La flessione è “l’opera” che genera il mondo. I punti della flessione sono i vari modi in cui il mondo diviene. Il grido indica il divenire del mondo. […] I mortali rievocano il grido… e affinché la rievocazione non sia ambigua , gli evocatori tendono a rendere simili le loro voci, cioè il grido tende a diventare un unisono. La musica appare. Guida la festa e attraverso la festa, la vita intera della comunità arcaica. Come rievocazione del grido, la musica non ha bisogno di parole: sta nella casa natale della parola e abitandola indica la flessione degli inflessibili, il divenire del mondo.” (Op. cit., ivi)
“Qui jubilat, non verba dicit, sed sonus quidem est laetitiae sine verbis.” (“Chi giubila non dice parole, ma è un suono di letizia senza parole”). Severino cita Agostino, che commenta il Salmo 90. Poi prosegue nella sua disamina sul linguaggio e i due timbri contrastanti del flessibile e dell’inflessibile, riscontrando nella radice “ar”, formata su una consonante liquida, la base di molte parole che nominano l’ar-te degli uomini e degli dèi, espressione della volontà che guida l’azione, il fenomeno in cui consiste il timbro del flessibile e della flessione delle cose. “Per contro, esiste tutto un altro insieme di radici costruite su consonanti occlusive e spiranti, che pronunciano il termine per ciò che non si lascia dominare, l’angoscia per la strettoia in cui gli inflessibili delimitano la vita del mortale, lo splendore della luce irraggiungibile da ogni arte, la fuga , il mostrarsi delle cose, la lontananza che respinge, l’essere stesso del mondo, l’essere sopraffatti ed uccisi, il nascondersi e il sottrarsi delle cose, il legame, lo stare di ciò che non si lascia flettere.” (Op. cit., ivi)
Questo contrasto tra flessibile e inflessibile viene così giudicato da Severino: “L’uomo ha oggi ormai spinto al tramonto ogni inflessibile e crede che ogni cosa sia oggetto della sua volontà. Ma questo tramonto incomincia già all’inizio della storia del nostro linguaggio. Quando le stesse parole che originariamente nominano l’inviolabile accadimento del mondo … sono spinte a indicare l’arte (techné), la “tecnica” appunto, con cui l’uomo si fa padrone del mondo e interpreta il mondo stesso come l’opera di un’arte suprema, di cui si deve scoprire la chiave.” (Op. cit., ivi)
In queste ultime parole, non si può non riconoscere una critica distruttiva di quel mondo platonico-cristiano creato da un Dio, di cui peraltro già Nietzsche aveva annunciato la morte. Questa convinzione, la filosofia di Severino, di ripercorrere l’intero cammino percorso dalla civiltà occidentale, per giungere all’inizio e tentare una strada intentata rispetto a quella che ha portato al costituirsi della civiltà odierna, oggi dominante sul pianeta, viene esplicitata nella sua opera principale: “Destino della Necessità”. Ed ecco alcune illuminanti parole conclusive dell’Introduzione: “Al di fuori dell’abisso dell’alienazione, in cui accade l’essere mortale del mortale e la storia dell’Occidente, già da sempre appare il senso inaudito del destino della necessità. Il destino non è la semplice negazione della libertà: è una regione diversa da quella in cui la necessità e la libertà coincidono. Nessuna interpretazione dell’Occidente può raggiungerla, e tuttavia è il cerchio all’interno del quale l’Occidente appare ed è destinato alla propria alienazione. Il linguaggio che rispecchia il destino della necessità si riporta al bivio per oltrepassarlo lungo il sentiero intentato.”
Il destino, di cui il linguaggio di Severino, è il testimone, è lo stare per necessità, lo ripetiamo per l’ennesima volta, lo stare che non può non stare, e che nessun divenire, il divenire altro delle cose può travolgere. [Questo testo che il lettore sta leggendo come fa ad essere stato se non è da sempre (eterno) stato? Soltanto è entrato nel cerchio dell’apparire e uscirà dal cerchio dell’apparire.] Se una cosa, per es. questo “testo in lettura”, diviene vuol dire che prima c’era e poi non c’è più. Sorge dal nulla e finisce nel nulla. E questa è una contraddizione, perché significa che l’essere è niente. Ma se l’essere “è” come fa a non essere, “non è”? Parmenide, e così via.
“L’alienazione essenziale, la follia estrema è la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono. La filosofia, nascendo, porta al culmine questa fede, affermando che l’evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano. All’interno di tale fede cresce la storia dell’Occidente, e ormai la storia del Pianeta: non solo la storia delle sapienze, ma anche delle istituzioni, delle opere. E si giunge alla negazione inevitabile di ogni dimensione immutabile, quindi di ogni verità innegabile.” (Severino, “Testimoniando il destino”, 2019)
Se il corpo straziato di Palmina giaceva sul pavimento, come faceva a non giacere sul pavimento? Palmina aprì gli occhi – ma questo è il racconto nella non Verità, la Fede nel divenire – seguì un grido (il grido, la festa arcaica, che apre la storia dell’Occidente, come abbiamo visto, anche se non abbiamo capito bene). Il grido fu contemporaneo allo spalancarsi degli occhi della morta, al fremito che contagiò il grido. Che cosa era accaduto? Era il grido del mare o la crepa sul muro? Lo schianto della parete.
IL GRIDO DEL MARE
Il telefono del Pronto Intervento squillò nella Sala Operativa della Questura di Napoli, era domenica pomeriggio. L’agente di turno, che stava controllando sulla schedina i risultati delle partite di calcio, smise subito, sollevò il telefono e con calma disse: “Polizia.” Sentì dall’altra parte un suono indistinto, un lamento.
“Qui jubilat, non verba dicit, sed sonus quidem est laetitiae sine verbis.” (“Chi giubila non dice parole, ma è un suono di letizia senza parole”). Il giubilo come il lamento, che ne è il risvolto, aveva commentato Severino, aggiungendo: “Nel giubilo del Salmo 90, Davide ha in Dio il suo rifugio, ma anche in questo rifugio è nella tribolazione.”
L’agente ripeté con calma: “Polizia”. Il suono sine verbis di lamento, l’aveva colto di sorpreso, ma non tanto, era abituato all’emergenza e alla concitazione. Seguì un silenzio, poi sentì una voce fievole, un mormorio, aveva capito bene? Un delitto? “Un omicidio?” disse. Dall’altra parte, la voce femminile ora divenne forte e chiara: “Villa Garofano, chiamate D’Alterio.” L’agente ripensò a una frase che aveva sentito ripetere spesso nel loro ambiente, un vero e proprio mantra: “Se succede qualcosa di serio, dovete chiamare Luigi D’Alterio.” “Arriviamo subito, signora,” disse al telefono. “Fate presto,” disse l’altra. In verità aveva parlato in dialetto: “Facite 'ambresse”, e subito aveva aggiunto: “Spicciatevi.” Quindi aveva chiuso la comunicazione.
L’agente consultò sul tavolo un foglio plastificato con i numeri per le emergenze, c’era anche quello di D’Alterio. Telefonò: “Ispettore D’Alterio?” “Sì?” “Giovannetti dalla Sala Operativa.” “Che vuoi, Giovannetti?” “Villa Garofano, un omicidio, ispettore.” “Un omicidio? Aspetta, sto a Fuorigrotta.” L’ispettore D’Alterio tacque un istante: “Giovannetti, ti richiamo.” L’agente chiuse, allontanò il foglio plastificato, riprese la schedina: il Napoli aveva perso in casa, non c’era ancora Maradona, qualche anno dopo, tutto sarebbe stato diverso. Controllò gli altri risultati: ne aveva sbagliati quattro, no, cinque. Niente tredici, come al solito, neppure dodici. Squillò il telefono: “Sto uscendo dal “San Paolo”, Giovannetti, c’è traffico. Tu, intanto, manda la volante, Capo Posillipo, lo “Scoglione” di Marechiaro, vado subito. Avverti il commissario.”
Orbene, gli amanti della musica napoletana, conoscono la canzone, versi di Salvatore Di Giacomo, il cui ritornello recita: “A Marechiare ce sta 'na fenesta.” In quel tempo, il tempo del nostro racconto, nel borgo di Marechiaro c’era Villa Garofano: una casa a due piani. Ovvio è che non era quella della “Fenestella”, in verità non è tanto ovvio, ma non era quella, era una villetta un po' distante e più appartata, e però c’era un vaso con un garofano sul davanzale del primo piano.
A Marechiare ce sta 'na fenesta,
La passiona mia ce tuzzulea.
'Nu garofano addora 'int'a 'na testa,
Passa ll'acqua pe' sotto e murmulea.
A Marechiare ce sta 'na fenesta.
A Marechiaro c'è una finestra,
La mia passione ci bussa.
Un garofano odora in un vaso,
Sotto passa l'acqua e mormora.
A Marechiaro c'è una finestra.
Sembra che Salvatore Di Giacomo, vedendo un garofano sul davanzale della finestra, abbia avuto l’ispirazione per la sua poesia. Oggi è un luogo turistico, c’è sempre un garofano fresco sul davanzale della finestra, oltre ad una lapide celebrativa in marmo bianco con sopra inciso parte dello spartito della canzone e il nome del suo autore.
Villa Garofano era un’imitazione, stava in un luogo più appartato, che sfuggiva allo sguardo dei turisti, ma era conosciuta da quelli del posto e anche da altri frequentatori e certamente da D’Alterio. Nel salotto a piano terra di quella casa giaceva il corpo esanime di Palmina Serratore, ma a quanto abbiamo capito non era morta. E allora perché la titolare della casa aveva mormorato la parola “delitto”, e l’agente aveva sentito e poi detto “omicidio”? Lo ius murmurandi? No, che c’entra! Non era un mugugno, piuttosto un lamento, abbiamo citato anche Agostino, forse a sproposito.
Noi abbiamo parlato di grido, avevamo anche detto, se ricordo bene, il grido del mare, ma adesso spieghiamo, l’abbiamo tirata troppo per le lunghe.
Prima arrivarono gli agenti, Alessandra Laganà li aspettava davanti alla sporgenza di una roccia, e fece segno da lontano. Gli agenti si avvicinarono, la donna li guidò fino alla villetta e li fece entrare a piano terra. Quindi spalancò la porta del salotto e i due agenti si affacciarono sulla soglia, diedero uno sguardo, si ritrassero, e subito di scatto l’agente Maria Minieri richiuse la porta. Poi entrambi si misero di guardia lì davanti, in attesa del commissario. La padrona di casa diede un’occhiata a quei due ragazzi in divisa e disse: “Vado ad aspettare D’Alterio”, poi uscì di casa.
Il commissario D’Ambrosio giunse un po' di tempo dopo in compagnia del magistrato, Paola Mancinelli, e un ispettore della Scientifica. Entrarono in salotto, la stanza era in leggera penombra, l’ispettore scattò una fotografia, il lampo del flash destò la morta. Ebbe un tremito, aprì gli occhi, la Mancinelli emise un grido. Ecco chi aveva gridato. O meglio, arrivando sul posto, la donna giudice aveva respirato l’aria di mare, il suo grido era un grido di spavento che rispecchiava il grido del mare. Fu sollecitato l’urgente arrivo di un’ambulanza, che sopraggiunse a sirena spiegata un minuto dopo. In verità, l’invio era stato richiesto un po' dopo la prima telefonata alla Sala Operativa della Laganà. Quando Sandy era stata chiamata da D’Alterio, subito avvertito del delitto, Luigi le aveva chiesto: “Ma è morta?”, aveva risposto: “Mi sembra morta.” Ah, ecco!
Giunse sul posto, mentre i portantini stavano caricando la barella su cui giaceva Palmina moribonda (non morì, sopravvisse), D’Alterio salutò il commissario e il magistrato, che assistevano all’operazione di soccorso sul piazzale antistante la casa, poi andò subito da Sandy. Entrarono in casa, e dopo un’occhiata in salotto, salirono al primo piano, dove c’era il suo appartamento, il piano terra lo dava in affitto.
Uscirono quasi subito, D’Alterio corse dal commissario con un foglietto su cui aveva scritto un numero di targa.
IL GRIDO DI MORTE
D’Ambrosio aveva preso il foglietto, gli diede una rapida occhiata e disse a D’Alterio di diramare le ricerche. L’ispettore rispose che era già stato fatto prima, si trattava di un’automobile di grossa cilindrata, una volvo grigio metallizzata targata Roma, e che era stata intercettata sulla Domiziana subito dopo Castel Volturno. D’Alterio, sempre più veloce del vento, pensò D’Ambrosio, e guardò in direzione della Laganà, che stava un po' più distante da loro. La Mancinelli seguì lo sguardo di D’Ambrosio e si voltò anche lei verso la Laganà. Il commissario disse: “L’hanno fermata?” “È in fuga,” rispose D’Alterio, “viene inseguita da una pattuglia della Stradale.” Erano informazioni in diretta. Il magistrato si mosse e disse: “Andiamo a fare il sopralluogo in casa.” Squillò il telefonino di D’Alterio. – Questa narrazione, come avevamo detto, per rendere più fluido il racconto, anticipa un po' i tempi del tempo narrato. Infatti, se dovevamo rispettare la realtà storica, avremmo dovuto dire che era squillato il telefono in casa, che Sandy aveva risposto, aveva chiamato D’Alterio, questi aveva appreso la notizia e poi l’aveva comunicata al commissario e al magistrato. Tutta una perdita di tempo nell’azione narrata. – “La volvo si è schiantata in curva contro un muro, nei pressi di Mondragone”, annunciò l’ispettore. Il gruppetto si avviò verso la casa. “Il conducente è morto,” disse D’Alterio. Il commissario disse all’agente Minieri di andare a mettersi in ascolto radio e di riferire le novità. “Emilio Iannaccone, stalker della vittima, Palmina Serratore” disse D’Alterio. Entrarono in casa per compiere il sopralluogo sulla scena del crimine e raccogliere le prove. L’ispettore mostrò una chiavetta usb, dove era registrata l’aggressione. “Se succede qualcosa di serio, dovete chiamare Luigi D’Alterio.” Anche D’Ambrosio conosceva il mantra. In un certo senso, possiamo dire che D’Alterio si avvaleva di tecnologie avanzate, inesistenti in quel tempo, il tempo della narrazione, ma il segreto dei suoi successi non erano in codeste tecnologie, come sapevano un po' tutti compreso il magistrato Mancinelli, che però non era molto d’accordo su certe procedure, indipendentemente dalle tecnologie avanzate.
Dobbiamo spiegare come erano andati i fatti? Palmina era fuggita da Roma a Napoli, Iannaccone l’aveva rintracciata, e come avesse fatto non lo so, e l’aveva aggredita, riducendola in fin di vita. Il resto lo sappiamo. No, un attimo, Sandy aveva installato una telecamera a piano terra e dal video del suo appartamento soprastante poteva controllare e registrare tutti i movimenti dei suoi ospiti. Non c’è bisogno di aggiungere che Sandy era una conoscente e buon’amica dell’Ispettore D’Alterio.
Lo schianto contro il muro della Volvo in fuga era il grido di morte, e bisogna ripartire dal grido, se vogliamo conoscere quale fu il destino di Palmina. Abbiamo detto che nell’occasione non morì. Quando si riprese, ci volle un po' di tempo, due anni circa, partì per il Giappone, Kobe, dove andò a raggiungere la sua amica Giovanna. E qui si presume che la ragazza abbia conosciuto il futuro Maestro Takehiro Nagatomo.
EVOCARE L’ORIENTE
Questa storia che andiamo narrando parte da lontano, gli anni ’80 del secolo scorso, ed ha inizio a Roma, una delle capitali dell’Occidente. Ma per comprenderla meglio, dobbiamo partire molto più da lontano, una lontananza tale che quella distanza di cui abbiamo detto, di fronte a codesta lontananza, si riduce ad un battere di ciglia o quasi.
Se dobbiamo dare seguito alla nostra storia di Giovanna e Palmina, localizzate a Kobe, in Giappone, non possiamo fare a meno di evocare l’Oriente. E come? Da un punto di vista narrativo, la storia di Giovanna (e di Palmina) si ricollega a quella narrata nel racconto: “Una passeggiata novembrina”. In tale racconto si dice che il Maestro Takehiro Nagatomo era venuto in Italia a studiare la filosofia occidentale, e noi lo immaginiamo in questo suo ultimo atto, in età veneranda. Ma sorge un dubbio: il Maestro viene dall’Estremo Oriente a studiare i saperi dell’Occidente, ma solo per questo motivo? O dietro quest’apparenza, si cela un intrigo? Io credo che non sia solo la filosofia la motivazione del viaggio del Maestro, e quale altra allora? Quando il Maestro sulla panchina reclinava il capo senza più rispondere al suo discepolo, all’esterno del parco, in una strada adiacente abbastanza isolata, passeggiava una signora con i capelli bianchi; di colpo si è voltata a guardare in alto, dove “tra i rami degli alberi, in un lieve ondeggiare delle fronde, le gazzarre degli uccelli sembravano smarrirsi nel volo verso il cielo.” Diciamo subito che quella signora dai capelli bianchi è Giovanna Santoro, che noi abbiamo conosciuto quando ventenne frequentava l’Università di Roma. Sono passati oltre quarant’anni da allora, e in quella giornata novembrina di tepore autunnale, Giovanna non poteva sapere di questa estrema vicinanza con un’antica conoscenza (amore?), ma poi di colpo aveva avvertito come una vibrazione nell’aria, voltandosi a guardare in alto, tra i rami degli alberi.
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