“Il pensiero è l’agire in ciò che vi è di più proprio, se agire (handeln) significa prestare la mano (Hand) all’essenza dell’essere, cioè preparare (costruire) per l’essenza dell’essere nel mezzo dell’ente il dominio in cui l’essere si porta e porta la sua essenza alla lingua. La lingua sola è ciò che dona via e passaggio a ogni volontà di pensare.” Jacques Derrida, “La mano di Heidegger”. È la citazione che l’autore ha messo in epigrafe alla trascrizione della sua Conferenza sul tema, pronunciata nel marzo 1985 a Chicago (Loyola University), in occasione di un convegno organizzato da John Sallis (1987).
INTRODUZIONE Il nostro breve studio sul testo di Derrida s’innesta sul suo più ampio lavoro di esegesi delle opere e del pensiero di Heidegger. Ed egli stesso avverte che Geschlecht, parola intraducibile, come subito dopo chiariremo, appartiene al suo modo di seguire il cammino di pensiero di Heidegger. In tal senso, si può parlare di Geschlecht I, Geschlecht II, (“La mano di Heidegger”) e di Geschlecht III, relativo al saggio sulla poesia di Georg Trakl. Possiamo, però, già anticipare che il lavoro di esegesi di Derrida dei testi heideggeriani, secondo il metodo di decostruzione proprio della sua speculazione filosofica, non cela la critica al nazionalismo di Heidegger, una valenza più politica che metafisica del suo pensiero. Scrive Derrida: “Nella lettera indirizzata nel novembre 1945 al Rettorato Albert-Ludwig, Heidegger chiarisce il proprio atteggiamento durante il periodo nazista. Aveva creduto di poter distinguere, dice, tra il nazionale e il nazionalismo, cioè tra il nazionale e un’ideologia biologista e razzista: “Credevo che Hitler, dopo aver preso nel 1933 la responsabilità dell’insieme del popolo, avrebbe osato liberarsi del Partito e della sua dottrina, e che il tutto si sarebbe accordato sul terreno di un rinnovamento e di un raccoglimento in vista di una responsabilità dell’Occidente. Questa convinzione fu un errore che riconobbi a partire dagli avvenimenti del 30 giugno 1934. Ero intervenuto nel 1933 per dire sì al nazionale e al sociale (e non al nazionalismo) e non ai fondamenti intellettuali e metafisici su cui poggiava il biologismo della dottrina del Partito, perché il sociale e il nazionale, come li vedevo io, non erano essenzialmente legati a una ideologia biologista e razzista.” La condanna del biologismo e del razzismo, come di tutto il discorso ideologico di Rosenberg, ispira molti testi di Heidegger” commenta Derrida, che più avanti aggiunge: “Non riaprirò oggi il dossier sulla “politica” di Heidegger. L’avevo fatto in altri seminari e adesso disponiamo di un numero di testi in maniera sufficientemente ampia, per decifrare le dimensioni classiche e ormai un po' troppo accademiche del problema. Tutto ciò che tenterò ora manterrà un rapporto indiretto con un’altra dimensione, forse meno visibile, dello stesso dramma. Oggi, dunque, comincerò col parlare di questa mostruosità, che ho appena annunciato. Sarà un’altra deviazione, attraverso la questione dell’uomo (Mensch o homo) e del “noi”, che dà a un Geschelecht il suo enigmatico contenuto.”
1. GESCHLECHT Subito all’inizio, Derrida avverte che per seguire quello che dirà, si rende necessario conoscere e rifarsi a un suo precedente saggio su Heidegger: “Geschlecht. Differenza sessuale, differenza ontologica”. Infatti, nel suo piano di stesura di entrambi i testi, egli si è ispirato al progetto di abbozzare, in modo appena preliminare, una futura interpretazione, tramite cui situare Geschlecht nel cammino di pensiero di Heidegger. E precisa: “Questa parola, la lascio qui nella sua lingua per ragioni che dovrebbero imporsi nel corso di questa lettura. E si tratta proprio di “Geschlecht” (della parola per sesso, razza, famiglia, generazione, linguaggio, specie, genere) e non del Geschlecht: non si farà passare così facilmente verso la cosa stessa (il Geschlecht) la marca della parola (“Geschlecht”) in cui Heidegger, molto più tardi, noterà l’impronta del battere o del colpo (Schlag). Lo farà in un testo di cui non parleremo qui, ma verso cui proseguirà questa lettura, che già – lo so – ne è calamitata: “Die Sprache im Gedicht (1952). Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht.” [“Il linguaggio nella poesia. Un’analisi della poesia di Georg Trakl.”] L’autore si riferisce appunto al saggio allora in progetto: “La mano di Heidegger”, nella cui seconda parte parlerà dell’analisi heideggeriana del linguaggio della poesia di Trakl. Nella prima parte farà riferimento ad un altro testo di Heidegger: “Was heißt Denken?” [“Che cosa significa pensare?”] “Sì, lo si nota facilmente: Heidegger parla il meno possibile del sesso, e forse non ne ha mai parlato. Forse non ha mai detto nulla sotto questo nome, sotto i nomi che ci sono consueti, di “rapporto sessuale”, di “differenza sessuale”, perfino di “uomo-e-donna”. Questo silenzio, dunque, lo si nota facilmente.” Così esordisce Derrida nel suo primo saggio, e poi s’interroga: “È imprudente fidarsi dell’apparente silenzio di Heidegger?” Quindi prosegue con una ipotesi: “Quando una macchina da lettura, nel rastrellare l’edizione completa di Heidegger, saprà stanare la cosa e la preda del giorno, la constatazione sarà forse disturbata nella sua bella sicurezza filologica da un determinato passo, conosciuto o inedito?” Ma deve concludere negativamente su questa ipotizzata ricerca e ritrovamento: “La statistica confermerà il verdetto: su ciò che chiamiamo pacificamente la sessualità, Heidegger ha taciuto.” Allora, cambiando prospettiva, Derrida prova una lettura cosiddetta moderna: “un investigare catafratto di psicoanalisi, un’inchiesta giustificata da tutta una cultura antropologica”, e comincia da “Sein und Zeit”, ponendo l’interrogativo: L’analitica esistenziale del Dasein [Esserci] non era forse tanto vicina a un’antropologia fondamentale da aver dato luogo a tanti equivoci e malintesi sulla pretesa réalité-humaine, come si traduceva in Francia?” Ed anche qui non trova la traccia desiderata: “Ora, anche nelle analisi dell’essere-nel-mondo come essere-con-altro, della cura in sé e come Fürsorge si cercherebbe invano, a quanto sembra, un abbozzo di discorso sul desiderio e sulla sessualità. […] Il caso è definitivamente chiuso, si potrebbe dire… tuttavia il problema era così poco o così malchiuso che presto Heidegger dovette darne spiegazione, e dovette farlo in margine a “Sein und Zeit”. L’analitica esistenziale del Dasein non può avvenire che nella prospettiva di un’ontologia fondamentale. Ecco perché non si tratta né di una “antropologia” né di una “etica”. Una tale “analitica” è solo “preparatoria” e la “metafisica del Dasein” non è ancora “al centro dell’impresa”. […] Perché mai chiamare Dasein l’ente che forma il tema di quest’analitica? Perché il Dasein “intitola” questa tematica?
In “Sein und Zeit”, Heidegger aveva giustificato la scelta di questo “ente esemplare” per la lettura del senso dell’essere. “In quale ente dovrà essere letto il senso dell’essere?” In ultima istanza , la risposta conduce ai “modi d’essere di un ente determinato, di quest’ente, che noi stessi, gli interroganti, siamo.” Così, se la scelta di questo ente esemplare nel suo “privilegio” è oggetto di una giustificazione, in compenso Heidegger sembra procedere dogmaticamente, almeno nel passo in questione, quando si tratta di nominare questo ente esemplare, dargli una volta per tutte il suo titolo terminologico: “Questo ente che siamo noi stessi e che peraltro altro dispone nel suo essere del potere di interrogare lo designiamo esserci.” […] Ora, il primo tratto sottolineato da Heidegger è la neutralità. Primo principio direttivo: “Per l’ente che costituisce il tema di questa analitica, non si è scelto il titolo “uomo” (Mensch), ma il titolo neutro das Dasein.” […] E tuttavia l’esplicitazione di questa neutralità si spinge di colpo, senza transizione, sin dall’item seguente (secondo principio direttivo), verso la neutralità sessuale e anche verso una certa asessualità (Geschlechtlosigkeit) dell’esserci.” […] Se la neutralizzazione del titolo “Dasein” è essenziale, è proprio perché l’interpretazione di questo ente – che noi siamo – deve essere impegnata prima e al di fuori di una concrezione di questo tipo [la differenza sessuale]. Il primo esempio di “concrezione” sarebbe dunque l’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Heidegger non mette in dubbio che siano due: “Neutralità significa anche che il Dasein non è nessuno dei due sessi (keines von beiden Geschlechtern ist).” Il primo passo per la decostruzione delle strutture di pensiero e quindi della filosofia di Heidegger, attraverso l’analisi dei suoi testi, riguarda dunque il Geschlecht, inteso come sesso, vale a dire differenza sessuale, tra maschio e femmina – sia Heidegger che Derrida nella sua scia tralasciano il sesso dell’ermafrodito, di cui peraltro si occupa Platone nel “Simposio” [vedi il post del 29 settembre “Rhetor Magister”. Postille.] – “Heidegger non mette in dubbio che siano due.” La neutralità infatti non è un terzo sesso, ma nessuno dei due sessi. Ebbene, per Derrida, Geschlecht inizia nel linguaggio di Heidegger con il significato di “differenza sessuale”, tra i due generi maschile e femminile: “Molto più tardi, e comunque dopo trent’anni, la parola “Geschlecht” si caricherà di tutta la sua ricchezza polisemica: sesso, genere, famiglia, stirpe, razza, linguaggio, generazione. Heidegger seguirà nella lingua, lungo percorsi insurrogabili, nel senso di inaccessibili a una traduzione corrente, attraverso via labirintiche, seducenti, inquietanti, la traccia di sentieri spesso interrotti.” Su questa via si pone Derrida, nel suo lavoro di decostruzione del pensiero metafisico e del linguaggio di Heidegger, seguendo la traccia segnata all’inizio con “Geschlecht”.
2. LA MANO DI HEIDEGGER In questo secondo saggio, collegato al primo, l’autore riparte dalla parola Geschlecht, e dal suo significato polisemico: “A seconda dei contesti che lo determinano, questo termine può lasciarsi tradurre con sesso, razza, specie, genere, stirpe, famiglia, generazione o genealogia , comunità. […] Abbiamo incontrato la parola Geschlecht in un primissimo tentativo di lettura di Fichte: “Was an Geistigkeit und Freiheit dieser Geistigkeit glaubt und die ewige Fortbildung dieser Geistigkeit durch Freiheit will, das, wo es auch geboren sei, und in welcher Sprache es rede, ist unseres Geschlechts, es gehört uns an und es wird sich zu uns tun.” La versione francese omette di tradurre il termine Geschlecht, senza dubbio perché fatta da S. Jankélévitch in un momento – credo durante o subito dopo la guerra – e in condizioni che rendevano la parola razza particolarmente pericolosa e comunque non pertinente per tradurre Fichte. Ma che cosa vuol dire Fichte, quando sviluppa in questo modo ciò che chiama il proprio principio fondamentale, ossia quello di un circolo o di un’alleanza, di un impegno che costituisce precisamente l’appartenenza al “nostro Geschlecht”? “Tutto ciò che crede nella spiritualità e nella libertà di questa spiritualità e vuole la formazione eterna di questa spiritualità attraverso la libertà, ovunque sia nato, qualsiasi lingua parli, è del nostro Geschlecht, ci appartiene e ha a che fare con noi.” (“Discorsi alla nazione tedesca”, VII) . Questo Geschlecht, dunque, non è determinato dalla nascita, dal suolo natio o dalla razza, non ha nulla di naturale né di linguistico, perlomeno nel senso corrente del termine – giacché abbiamo potuto riconoscere in Fichte una sorta di rivendicazione dell’idioma, l’idioma dell’idioma tedesco. Questo idioma dell’idioma può restare estraneo a certi cittadini tedeschi di nascita, ed essere accessibile a certi non tedeschi, qualora impegnandosi in questo circolo o in quest’alleanza della libertà spirituale e del suo progresso infinito, appartenessero al “nostro Geschlecht”. La sola determinazione analitica e irrecusabile del Geschlecht in questo contesto è il “noi” che ci parliamo in questo momento, nel momento in cui Fichte si rivolge a questa comunità presupposta, ma ancora da costituire, comunità che stricto sensu non è né politica, né razziale, né linguistica, ma che può ricevere la sua allocuzione, il suo appello o la sua apostrofe e pensare con lui, dire “noi” in qualsiasi lingua e a partire da qualsiasi luogo di nascita. Il Geschlect è un insieme, un’accolita, una comunità organica, in senso non naturale, ma spirituale, che crede al progresso infinito dello spirito attraverso la libertà. Si tratta dunque di un “noi” infinito, che si annuncia a sé stesso in base all’infinità di un telos di libertà e spiritualità, e si promette, e si impegna o si allea seguendo il circolo di questa volontà infinita. Come tradurre “Geschelecht”, in queste condizioni? […] Si può arretrare di fronte al rischio e tralasciare il termine, come ha fatto il traduttore francese, Si può anche giudicare che a questo punto sia talmente aperto e indeterminato dal concetto che designa, ossia un “noi” come libertà spirituale impegnata verso l’infinità del suo progresso, che omettendolo non si perde nulla. Il “noi” pertiene in ultima istanza all’umanità dell’uomo, all’essenza teleologica di una umanità che si annuncia per eccellenza nella Deutschheit [quel che è tedesco].
Si dice spesso “Menschengeschleicht” per “genere umano”, “specie umana”, “razza umana”. […] “Il mostro [1] di cui vi parlerò viene da un famoso poema di Hölderlin, Mnemosyne, su cui Heidegger medita, che interroga e interpreta sovente. Nella seconda delle sue tre versioni, quella che Heidegger cita in was Denken heißt ? [Che cosa significa pensare?], si legge la famosa strofa:
Ein Zeichen sind wir, deutungslos, Schmerzlos sind wir und haben fast Die Sprache in der Fremde verloren.
Fra le tre versioni francesi di questa poesia, c’è quella dei traduttori di Was Denken heißt? Aloys Becker e Gérard Granel. Traducendo Hölderlin in Heidegger, questa versione utilizza il termine monstre (per Zeichen), in uno stile che m’era parso un po' troppo prezioso e gallicizzante, ma riflettendoci mi sembra dia comunque a pensare.
Nous sommes un monstre privé de sens Nous sommes hors douleur Et nous avons perdu Presque la langue à l’etranger.
[Un segno noi siamo, che nulla indica, Senza dolore noi siamo e abbiamo quasi La lingua dimenticato in terra straniera.]
[…] La traduzione di Zeichen con monstre ha una triplice virtù. Rievoca un motivo operante sin da Sein und Zeit: il legame tra Zeichen e zeigen o Aufzeigung, tra il segno e la mostrazione. […] La seconda virtù della traduzione francese con “monstre” ha valore solo nell’idioma latino […] mostra l’assenza di senso e annuncia la perdita della lingua. Terza virtù di questa traduzione, pone la questione dell’uomo. […] Il “noi” di “Ein Zeichen sind wir” [“Un segno siamo noi”] è proprio un “noi uomini”? […] L’interpretazione heideggeriana che prepara e orienta questa citazione di Hölderlin dice qualcosa dell’uomo, e dunque anche di Geschlecht […] dirò che si tratta della mano, della mano dell’uomo, del rapporto della mano con la parola e con il pensiero. […] La mano sarebbe la mostruosità, il proprio dell’uomo come essere che mostra. Lo distinguerebbe da qualsiasi altro Geschlecht, e innanzitutto dalla scimmia. Non si può parlare della mano senza parlare della tecnica. […] Mestiere si dice in tedesco Handwerk, lavoro della mano, opera della mano, se non addirittura manovra. Quando il francese deve tradurre Handwerk con métier , può darsi che sia legittimo ed inevitabile, ma è una manovra arrischiata, nell’artigianato della traduzione , perché ci si lascia prendere la mano, e la si perde. E si reintroduce ciò che Heidegger vuole evitare, il servizio reso, l’utilità, l’ufficio, il ministerium – da cui forse deriva la parola mestiere. Handerk, il mestiere nobile, è un mestiere manuale che non è ordinato, come un’altra professione, all’utilità pubblica o alla ricerca del profitto. Questo nobile mestiere, come Handwerk, sarà anche quello del pensatore o dell’ensigneur che insegna il pensiero (l’enseigneur non è necessariamente l’insegnante, il professore di filosofia). […] Pensare dice Heidegger è un lavoro della mano.” [1]
[1] Jacques Derrida scrive il suo testo nella sua lingua francese, e quindi può giocare sul termine “mostro”, nelle diverse sfumature del vocabolo, che sfuggono al lessico italiano. Ed è proprio il significato di orologio (montre), che sfugge alla lingua italiana. Per farmi indicare l’ora, io punto l’indice sul polso sinistro, e al mio interlocutore in genere chiedo: “Che ore sono?”, non dico “mostra”. Se invece compio lo stesso gesto, e mi esprimo in lingua francese, dico : “montre”, e nel dialetto piemontese: “mustra”. In tal modo, sul termine “mostro”, Derrida può impostare il discorso su Heidegger, per giungere alla “mano” e al “linguaggio”, proprio attraverso la parola “mostro”. “Che cosa è che si chiama mostro? Conoscete la natura polisemica di questa parola, gli usi che se ne possono fare, per esempio nei confronti norme e forme, di specie e genere: dunque di Geschlecht. Qui comincerò con il privilegiare un’altra direzione. Va in un senso meno conosciuto, poiché in francese la monstre (cambiamento di genere, sesso o di Geschlecht) ha il senso poetico-musicale di un diagramma che mostra in un pezzo di musica il numero di versi e il numero di sillabe assegnate al poeta. Monstrer è mostrare, e una monstre è un orologio [montre]. Sono già insediato nell’idioma intraducibile della mia lingua, dal momento che è proprio della traduzione che voglio parlarvi. La monstre, dunque, prescrive le pause del verso per una melodia. Il mostro [le monstre] o la monstre è ciò che mostra per avvertire o per mettere in guardia. Una volta la montre [l’orologio], in francese si scriveva la monstre.”
“Ma l’opera della mano è più ricca di quanto non pensiamo abitualmente. La mano non tocca e non afferra soltanto, non stringe e non urta soltanto. La mano offre e riceve, e non soltanto le cose, perché essa stessa si offre e riceve nell’altra. La mano trattiene. La mano regge. La mano traccia dei segni [mostra, zeichnet], perché probabilmente l’uomo è un segno [mostro, Zeichen]. Due mani si congiungono quando questo gesto dell’uomo deve condurre alla grande semplicità. Tutto ciò è la mano ed è il vero lavoro della mano. Ma i gesti della mano attraversano ovunque il linguaggio, e proprio nel modo più puro quando l’uomo parla tacendo. Infatti è solo in quanto parla, che l’uomo pensa: non il contrario, come crede la metafisica. Ogni movimento della mano in ciascuno delle sue opere si compie attraverso l’elemento del pensiero, in esso si mostra come gesto. Ogni opera della mano poggia sul pensiero. Per questa ragione il pensiero è la più semplice, e quindi la più difficile, delle opere della mano dell’uomo, quando è il momento di portarla a termine.” Questo passo di “Was heißt Denken?” [“Che cosa significa pensare?”], che serviva a Derrida per la sua particolare traduzione in francese del termine tedesco “Zeichen” con “monstre” (“mostro”), da cui trapela l’equivocità dell’orrido dell’uomo – “perché probabilmente l’uomo è un mostro” –, non esaurisce l’interpretazione del citato testo di Heidegger, costituente “Geschlecht II”, ma era invece abbastanza esauriente per il nostro studio. Quel che ci interessava, infatti, era mettere in rilievo la relazione tra pensare ed agire, attraverso la riflessione heideggeriana sulla “mano”. E vogliamo concludere, chiosando l’ultima frase della dicitura in epigrafe: “La lingua sola è ciò che dona via e passaggio a ogni volontà di pensare.” È il rilievo e il privilegio che Heidegger riserva al linguaggio rispetto al pensiero, quando afferma: “È solo perché l’uomo parla che pensa, e non il contrario, come crede ancora la Metafisica.” Da questa riflessione sulla centralità del linguaggio trarrà spunto Gadamer, nella sua conclusione sull’aspetto universale dell’ermeneutica (“Verità e Metodo”): “La struttura speculativa del linguaggio consiste nel non essere il riflesso di qualcosa di fissato, ma un venire all’espressione in cui si annuncia una totalità di senso. Proprio per questa via ci siamo trovati vicino alla dialettica antica, perché anch’essa non teorizzava un’attività metodica del soggetto, ma un agire della cosa stessa rispetto al quale il soggetto è piuttosto passivo. Questo agire della cosa stessa è l’autentico movimento speculativo, che afferra e trasporta il soggetto parlante. Abbiamo studiato il suo riflesso soggettivo nel parlare. Ora ci risulta chiaro che questo agire della cosa stessa, questo venire ad espressione del senso, indica una struttura ontologica universale, cioè la struttura fondamentale di tutto ciò che in generale può essere oggetto del comprendere. L’essere che può venir compreso è il linguaggio. Il fenomeno ermeneutico riflette per così dire la propria universalità sulla struttura stessa del compreso, qualificandola in senso universale come linguaggio e qualificando il proprio rapporto all’ente come interpretazione. Così non parliamo solo di un linguaggio dell’arte, ma anche di un linguaggio della natura, o più in generale di un linguaggio che le stesse cose parlano.”
[N. d. B.] NOTA esplicativa della citazione in epigrafe. “Il pensiero è l’agire in ciò che vi è di più proprio, se agire (handeln) significa prestare la mano (Hand) all’essenza dell’essere, cioè preparare (costruire) per l’essenza dell’essere nel mezzo dell’ente il dominio in cui l’essere si porta e porta la sua essenza alla lingua. La lingua sola è ciò che dona via e passaggio a ogni volontà di pensare.” È la risposta all’interrogativo: “Was heißt Denken?” “Che cosa significa pensare?” Pensare significa agire [con la mente] in ciò che vi è di più proprio nell’agire, come dire consiste in quello che è il più puro agire, ossia prestare la mano, pensare come mestiere assimilato al lavoro “manuale” l’essenza dell’essere. [Qui, H. si riferisce al problema dell’Essere, che costituisce il problema filosofico principale dall’inizio della metafisica – meta-physica, al di là del mondo fisico –, come dire dall’inizio della storia della filosofia occidentale]. E questo significa preparare, – come dire non risolvere, ma preparare la risoluzione del problema dell’essere – nel mezzo dell’ente [stando nel mondo fisico], il luogo proprio [dominio], in cui l’essere emerge, ossia il linguaggio. Ed è questa l’unica via [il linguaggio] che conduce alla volontà di pensare. Ecco perché H. dice che il linguaggio precede il pensiero, e non il contrario, come fino ad allora aveva pensato la metafisica. Su questa strada della centralità del linguaggio lo segue Gadamer, che nella sua opera “Verità e Metodo”, delinea la sua dottrina ermeneutica, fenomeno di interpretazione non solo del linguaggio della natura e dell’arte, ma strumento di comprensione universale del tutto, il linguaggio stesso dell’essere. Se quindi è il linguaggio dell’essere a farci pensare, allora per H., il mestiere del filosofo è quello di pensare, o quanto meno imparare a pensare che cosa è che una cosa è, pensare l’essere della cosa, l’essere dell’ente. In tal senso risuonano le sue parole sull’identità di pensare ed essere, un richiamo a Parmenide: “Der Anspruch der Identitaet spricht aus dem Sein des Seienden. Wo nun aber das Sein des Seienden im abendlaendischen Denken am fruehesten und eigens zur Sprache kommt, naemlich bei Parmenides, da spricht to autò, das Identische, in einem fast uebermaessigen Sinne. Einer der Saetze des Parmenides lautet: to gar autò noein estin te kai einai. 'Das naemlich Selbe ist vernehmen (d.h. Denken) sowohl als auch Sein'.” “L'appello dell'identità parla a partire dall'essere dell'essente. Ora, però, là dove l'essere dell'essente per la prima volta e in modo proprio giunge nel pensiero occidentale al linguaggio, e cioè in Parmenide, là dove dice to autò, l'identico, parla in un senso che quasi supera la misura. Una delle sentenze di Parmenide dice: to gar autò noein estin te kai einai. 'Lo stesso è infatti percepire (pensare) e altrettanto anche l'essere'.”
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
8 commenti:
L’AGIRE DEL PENSIERO
“Il pensiero è l’agire in ciò che vi è di più proprio, se agire (handeln) significa prestare la mano (Hand) all’essenza dell’essere, cioè preparare (costruire) per l’essenza dell’essere nel mezzo dell’ente il dominio in cui l’essere si porta e porta la sua essenza alla lingua. La lingua sola è ciò che dona via e passaggio a ogni volontà di pensare.” Jacques Derrida, “La mano di Heidegger”.
È la citazione che l’autore ha messo in epigrafe alla trascrizione della sua Conferenza sul tema, pronunciata nel marzo 1985 a Chicago (Loyola University), in occasione di un convegno organizzato da John Sallis (1987).
INTRODUZIONE
Il nostro breve studio sul testo di Derrida s’innesta sul suo più ampio lavoro di esegesi delle opere e del pensiero di Heidegger. Ed egli stesso avverte che Geschlecht, parola intraducibile, come subito dopo chiariremo, appartiene al suo modo di seguire il cammino di pensiero di Heidegger. In tal senso, si può parlare di Geschlecht I, Geschlecht II, (“La mano di Heidegger”) e di Geschlecht III, relativo al saggio sulla poesia di Georg Trakl. Possiamo, però, già anticipare che il lavoro di esegesi di Derrida dei testi heideggeriani, secondo il metodo di decostruzione proprio della sua speculazione filosofica, non cela la critica al nazionalismo di Heidegger, una valenza più politica che metafisica del suo pensiero. Scrive Derrida: “Nella lettera indirizzata nel novembre 1945 al Rettorato Albert-Ludwig, Heidegger chiarisce il proprio atteggiamento durante il periodo nazista. Aveva creduto di poter distinguere, dice, tra il nazionale e il nazionalismo, cioè tra il nazionale e un’ideologia biologista e razzista: “Credevo che Hitler, dopo aver preso nel 1933 la responsabilità dell’insieme del popolo, avrebbe osato liberarsi del Partito e della sua dottrina, e che il tutto si sarebbe accordato sul terreno di un rinnovamento e di un raccoglimento in vista di una responsabilità dell’Occidente. Questa convinzione fu un errore che riconobbi a partire dagli avvenimenti del 30 giugno 1934. Ero intervenuto nel 1933 per dire sì al nazionale e al sociale (e non al nazionalismo) e non ai fondamenti intellettuali e metafisici su cui poggiava il biologismo della dottrina del Partito, perché il sociale e il nazionale, come li vedevo io, non erano essenzialmente legati a una ideologia biologista e razzista.” La condanna del biologismo e del razzismo, come di tutto il discorso ideologico di Rosenberg, ispira molti testi di Heidegger” commenta Derrida, che più avanti aggiunge: “Non riaprirò oggi il dossier sulla “politica” di Heidegger. L’avevo fatto in altri seminari e adesso disponiamo di un numero di testi in maniera sufficientemente ampia, per decifrare le dimensioni classiche e ormai un po' troppo accademiche del problema. Tutto ciò che tenterò ora manterrà un rapporto indiretto con un’altra dimensione, forse meno visibile, dello stesso dramma. Oggi, dunque, comincerò col parlare di questa mostruosità, che ho appena annunciato. Sarà un’altra deviazione, attraverso la questione dell’uomo (Mensch o homo) e del “noi”, che dà a un Geschelecht il suo enigmatico contenuto.”
1. GESCHLECHT
Subito all’inizio, Derrida avverte che per seguire quello che dirà, si rende necessario conoscere e rifarsi a un suo precedente saggio su Heidegger: “Geschlecht. Differenza sessuale, differenza ontologica”. Infatti, nel suo piano di stesura di entrambi i testi, egli si è ispirato al progetto di abbozzare, in modo appena preliminare, una futura interpretazione, tramite cui situare Geschlecht nel cammino di pensiero di Heidegger. E precisa: “Questa parola, la lascio qui nella sua lingua per ragioni che dovrebbero imporsi nel corso di questa lettura. E si tratta proprio di “Geschlecht” (della parola per sesso, razza, famiglia, generazione, linguaggio, specie, genere) e non del Geschlecht: non si farà passare così facilmente verso la cosa stessa (il Geschlecht) la marca della parola (“Geschlecht”) in cui Heidegger, molto più tardi, noterà l’impronta del battere o del colpo (Schlag). Lo farà in un testo di cui non parleremo qui, ma verso cui proseguirà questa lettura, che già – lo so – ne è calamitata: “Die Sprache im Gedicht (1952). Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht.” [“Il linguaggio nella poesia. Un’analisi della poesia di Georg Trakl.”] L’autore si riferisce appunto al saggio allora in progetto: “La mano di Heidegger”, nella cui seconda parte parlerà dell’analisi heideggeriana del linguaggio della poesia di Trakl. Nella prima parte farà riferimento ad un altro testo di Heidegger: “Was heißt Denken?” [“Che cosa significa pensare?”]
“Sì, lo si nota facilmente: Heidegger parla il meno possibile del sesso, e forse non ne ha mai parlato. Forse non ha mai detto nulla sotto questo nome, sotto i nomi che ci sono consueti, di “rapporto sessuale”, di “differenza sessuale”, perfino di “uomo-e-donna”. Questo silenzio, dunque, lo si nota facilmente.” Così esordisce Derrida nel suo primo saggio, e poi s’interroga: “È imprudente fidarsi dell’apparente silenzio di Heidegger?” Quindi prosegue con una ipotesi: “Quando una macchina da lettura, nel rastrellare l’edizione completa di Heidegger, saprà stanare la cosa e la preda del giorno, la constatazione sarà forse disturbata nella sua bella sicurezza filologica da un determinato passo, conosciuto o inedito?” Ma deve concludere negativamente su questa ipotizzata ricerca e ritrovamento: “La statistica confermerà il verdetto: su ciò che chiamiamo pacificamente la sessualità, Heidegger ha taciuto.”
Allora, cambiando prospettiva, Derrida prova una lettura cosiddetta moderna: “un investigare catafratto di psicoanalisi, un’inchiesta giustificata da tutta una cultura antropologica”, e comincia da “Sein und Zeit”, ponendo l’interrogativo: L’analitica esistenziale del Dasein [Esserci] non era forse tanto vicina a un’antropologia fondamentale da aver dato luogo a tanti equivoci e malintesi sulla pretesa réalité-humaine, come si traduceva in Francia?” Ed anche qui non trova la traccia desiderata: “Ora, anche nelle analisi dell’essere-nel-mondo come essere-con-altro, della cura in sé e come Fürsorge si cercherebbe invano, a quanto sembra, un abbozzo di discorso sul desiderio e sulla sessualità. […] Il caso è definitivamente chiuso, si potrebbe dire… tuttavia il problema era così poco o così malchiuso che presto Heidegger dovette darne spiegazione, e dovette farlo in margine a “Sein und Zeit”. L’analitica esistenziale del Dasein non può avvenire che nella prospettiva di un’ontologia fondamentale. Ecco perché non si tratta né di una “antropologia” né di una “etica”. Una tale “analitica” è solo “preparatoria” e la “metafisica del Dasein” non è ancora “al centro dell’impresa”. […] Perché mai chiamare Dasein l’ente che forma il tema di quest’analitica? Perché il Dasein “intitola” questa tematica?
In “Sein und Zeit”, Heidegger aveva giustificato la scelta di questo “ente esemplare” per la lettura del senso dell’essere. “In quale ente dovrà essere letto il senso dell’essere?” In ultima istanza , la risposta conduce ai “modi d’essere di un ente determinato, di quest’ente, che noi stessi, gli interroganti, siamo.” Così, se la scelta di questo ente esemplare nel suo “privilegio” è oggetto di una giustificazione, in compenso Heidegger sembra procedere dogmaticamente, almeno nel passo in questione, quando si tratta di nominare questo ente esemplare, dargli una volta per tutte il suo titolo terminologico: “Questo ente che siamo noi stessi e che peraltro altro dispone nel suo essere del potere di interrogare lo designiamo esserci.” […] Ora, il primo tratto sottolineato da Heidegger è la neutralità. Primo principio direttivo: “Per l’ente che costituisce il tema di questa analitica, non si è scelto il titolo “uomo” (Mensch), ma il titolo neutro das Dasein.” […] E tuttavia l’esplicitazione di questa neutralità si spinge di colpo, senza transizione, sin dall’item seguente (secondo principio direttivo), verso la neutralità sessuale e anche verso una certa asessualità (Geschlechtlosigkeit) dell’esserci.” […] Se la neutralizzazione del titolo “Dasein” è essenziale, è proprio perché l’interpretazione di questo ente – che noi siamo – deve essere impegnata prima e al di fuori di una concrezione di questo tipo [la differenza sessuale]. Il primo esempio di “concrezione” sarebbe dunque l’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Heidegger non mette in dubbio che siano due: “Neutralità significa anche che il Dasein non è nessuno dei due sessi (keines von beiden Geschlechtern ist).”
Il primo passo per la decostruzione delle strutture di pensiero e quindi della filosofia di Heidegger, attraverso l’analisi dei suoi testi, riguarda dunque il Geschlecht, inteso come sesso, vale a dire differenza sessuale, tra maschio e femmina – sia Heidegger che Derrida nella sua scia tralasciano il sesso dell’ermafrodito, di cui peraltro si occupa Platone nel “Simposio” [vedi il post del 29 settembre “Rhetor Magister”. Postille.] – “Heidegger non mette in dubbio che siano due.” La neutralità infatti non è un terzo sesso, ma nessuno dei due sessi. Ebbene, per Derrida, Geschlecht inizia nel linguaggio di Heidegger con il significato di “differenza sessuale”, tra i due generi maschile e femminile: “Molto più tardi, e comunque dopo trent’anni, la parola “Geschlecht” si caricherà di tutta la sua ricchezza polisemica: sesso, genere, famiglia, stirpe, razza, linguaggio, generazione. Heidegger seguirà nella lingua, lungo percorsi insurrogabili, nel senso di inaccessibili a una traduzione corrente, attraverso via labirintiche, seducenti, inquietanti, la traccia di sentieri spesso interrotti.” Su questa via si pone Derrida, nel suo lavoro di decostruzione del pensiero metafisico e del linguaggio di Heidegger, seguendo la traccia segnata all’inizio con “Geschlecht”.
2. LA MANO DI HEIDEGGER
In questo secondo saggio, collegato al primo, l’autore riparte dalla parola Geschlecht, e dal suo significato polisemico: “A seconda dei contesti che lo determinano, questo termine può lasciarsi tradurre con sesso, razza, specie, genere, stirpe, famiglia, generazione o genealogia , comunità. […] Abbiamo incontrato la parola Geschlecht in un primissimo tentativo di lettura di Fichte: “Was an Geistigkeit und Freiheit dieser Geistigkeit glaubt und die ewige Fortbildung dieser Geistigkeit durch Freiheit will, das, wo es auch geboren sei, und in welcher Sprache es rede, ist unseres Geschlechts, es gehört uns an und es wird sich zu uns tun.” La versione francese omette di tradurre il termine Geschlecht, senza dubbio perché fatta da S. Jankélévitch in un momento – credo durante o subito dopo la guerra – e in condizioni che rendevano la parola razza particolarmente pericolosa e comunque non pertinente per tradurre Fichte. Ma che cosa vuol dire Fichte, quando sviluppa in questo modo ciò che chiama il proprio principio fondamentale, ossia quello di un circolo o di un’alleanza, di un impegno che costituisce precisamente l’appartenenza al “nostro Geschlecht”? “Tutto ciò che crede nella spiritualità e nella libertà di questa spiritualità e vuole la formazione eterna di questa spiritualità attraverso la libertà, ovunque sia nato, qualsiasi lingua parli, è del nostro Geschlecht, ci appartiene e ha a che fare con noi.” (“Discorsi alla nazione tedesca”, VII) . Questo Geschlecht, dunque, non è determinato dalla nascita, dal suolo natio o dalla razza, non ha nulla di naturale né di linguistico, perlomeno nel senso corrente del termine – giacché abbiamo potuto riconoscere in Fichte una sorta di rivendicazione dell’idioma, l’idioma dell’idioma tedesco. Questo idioma dell’idioma può restare estraneo a certi cittadini tedeschi di nascita, ed essere accessibile a certi non tedeschi, qualora impegnandosi in questo circolo o in quest’alleanza della libertà spirituale e del suo progresso infinito, appartenessero al “nostro Geschlecht”. La sola determinazione analitica e irrecusabile del Geschlecht in questo contesto è il “noi” che ci parliamo in questo momento, nel momento in cui Fichte si rivolge a questa comunità presupposta, ma ancora da costituire, comunità che stricto sensu non è né politica, né razziale, né linguistica, ma che può ricevere la sua allocuzione, il suo appello o la sua apostrofe e pensare con lui, dire “noi” in qualsiasi lingua e a partire da qualsiasi luogo di nascita. Il Geschlect è un insieme, un’accolita, una comunità organica, in senso non naturale, ma spirituale, che crede al progresso infinito dello spirito attraverso la libertà. Si tratta dunque di un “noi” infinito, che si annuncia a sé stesso in base all’infinità di un telos di libertà e spiritualità, e si promette, e si impegna o si allea seguendo il circolo di questa volontà infinita. Come tradurre “Geschelecht”, in queste condizioni? […] Si può arretrare di fronte al rischio e tralasciare il termine, come ha fatto il traduttore francese, Si può anche giudicare che a questo punto sia talmente aperto e indeterminato dal concetto che designa, ossia un “noi” come libertà spirituale impegnata verso l’infinità del suo progresso, che omettendolo non si perde nulla. Il “noi” pertiene in ultima istanza all’umanità dell’uomo, all’essenza teleologica di una umanità che si annuncia per eccellenza nella Deutschheit [quel che è tedesco].
Si dice spesso “Menschengeschleicht” per “genere umano”, “specie umana”, “razza umana”. […] “Il mostro [1] di cui vi parlerò viene da un famoso poema di Hölderlin, Mnemosyne, su cui Heidegger medita, che interroga e interpreta sovente. Nella seconda delle sue tre versioni, quella che Heidegger cita in was Denken heißt ? [Che cosa significa pensare?], si legge la famosa strofa:
Ein Zeichen sind wir, deutungslos,
Schmerzlos sind wir und haben fast
Die Sprache in der Fremde verloren.
Fra le tre versioni francesi di questa poesia, c’è quella dei traduttori di Was Denken heißt? Aloys Becker e Gérard Granel. Traducendo Hölderlin in Heidegger, questa versione utilizza il termine monstre (per Zeichen), in uno stile che m’era parso un po' troppo prezioso e gallicizzante, ma riflettendoci mi sembra dia comunque a pensare.
Nous sommes un monstre privé de sens
Nous sommes hors douleur
Et nous avons perdu
Presque la langue à l’etranger.
[Un segno noi siamo, che nulla indica,
Senza dolore noi siamo e abbiamo quasi
La lingua dimenticato in terra straniera.]
[…] La traduzione di Zeichen con monstre ha una triplice virtù. Rievoca un motivo operante sin da Sein und Zeit: il legame tra Zeichen e zeigen o Aufzeigung, tra il segno e la mostrazione. […] La seconda virtù della traduzione francese con “monstre” ha valore solo nell’idioma latino […] mostra l’assenza di senso e annuncia la perdita della lingua. Terza virtù di questa traduzione, pone la questione dell’uomo. […] Il “noi” di “Ein Zeichen sind wir” [“Un segno siamo noi”] è proprio un “noi uomini”? […] L’interpretazione heideggeriana che prepara e orienta questa citazione di Hölderlin dice qualcosa dell’uomo, e dunque anche di Geschlecht […] dirò che si tratta della mano, della mano dell’uomo, del rapporto della mano con la parola e con il pensiero.
[…] La mano sarebbe la mostruosità, il proprio dell’uomo come essere che mostra. Lo distinguerebbe da qualsiasi altro Geschlecht, e innanzitutto dalla scimmia. Non si può parlare della mano senza parlare della tecnica. […] Mestiere si dice in tedesco Handwerk, lavoro della mano, opera della mano, se non addirittura manovra. Quando il francese deve tradurre Handwerk con métier , può darsi che sia legittimo ed inevitabile, ma è una manovra arrischiata, nell’artigianato della traduzione , perché ci si lascia prendere la mano, e la si perde. E si reintroduce ciò che Heidegger vuole evitare, il servizio reso, l’utilità, l’ufficio, il ministerium – da cui forse deriva la parola mestiere. Handerk, il mestiere nobile, è un mestiere manuale che non è ordinato, come un’altra professione, all’utilità pubblica o alla ricerca del profitto. Questo nobile mestiere, come Handwerk, sarà anche quello del pensatore o dell’ensigneur che insegna il pensiero (l’enseigneur non è necessariamente l’insegnante, il professore di filosofia). […] Pensare dice Heidegger è un lavoro della mano.” [1]
[1] Jacques Derrida scrive il suo testo nella sua lingua francese, e quindi può giocare sul termine “mostro”, nelle diverse sfumature del vocabolo, che sfuggono al lessico italiano. Ed è proprio il significato di orologio (montre), che sfugge alla lingua italiana.
Per farmi indicare l’ora, io punto l’indice sul polso sinistro, e al mio interlocutore in genere chiedo: “Che ore sono?”, non dico “mostra”. Se invece compio lo stesso gesto, e mi esprimo in lingua francese, dico : “montre”, e nel dialetto piemontese: “mustra”.
In tal modo, sul termine “mostro”, Derrida può impostare il discorso su Heidegger, per giungere alla “mano” e al “linguaggio”, proprio attraverso la parola “mostro”.
“Che cosa è che si chiama mostro? Conoscete la natura polisemica di questa parola, gli usi che se ne possono fare, per esempio nei confronti norme e forme, di specie e genere: dunque di Geschlecht. Qui comincerò con il privilegiare un’altra direzione. Va in un senso meno conosciuto, poiché in francese la monstre (cambiamento di genere, sesso o di Geschlecht) ha il senso poetico-musicale di un diagramma che mostra in un pezzo di musica il numero di versi e il numero di sillabe assegnate al poeta. Monstrer è mostrare, e una monstre è un orologio [montre]. Sono già insediato nell’idioma intraducibile della mia lingua, dal momento che è proprio della traduzione che voglio parlarvi. La monstre, dunque, prescrive le pause del verso per una melodia. Il mostro [le monstre] o la monstre è ciò che mostra per avvertire o per mettere in guardia. Una volta la montre [l’orologio], in francese si scriveva la monstre.”
“Ma l’opera della mano è più ricca di quanto non pensiamo abitualmente. La mano non tocca e non afferra soltanto, non stringe e non urta soltanto. La mano offre e riceve, e non soltanto le cose, perché essa stessa si offre e riceve nell’altra. La mano trattiene. La mano regge. La mano traccia dei segni [mostra, zeichnet], perché probabilmente l’uomo è un segno [mostro, Zeichen]. Due mani si congiungono quando questo gesto dell’uomo deve condurre alla grande semplicità. Tutto ciò è la mano ed è il vero lavoro della mano. Ma i gesti della mano attraversano ovunque il linguaggio, e proprio nel modo più puro quando l’uomo parla tacendo. Infatti è solo in quanto parla, che l’uomo pensa: non il contrario, come crede la metafisica. Ogni movimento della mano in ciascuno delle sue opere si compie attraverso l’elemento del pensiero, in esso si mostra come gesto. Ogni opera della mano poggia sul pensiero. Per questa ragione il pensiero è la più semplice, e quindi la più difficile, delle opere della mano dell’uomo, quando è il momento di portarla a termine.”
Questo passo di “Was heißt Denken?” [“Che cosa significa pensare?”], che serviva a Derrida per la sua particolare traduzione in francese del termine tedesco “Zeichen” con “monstre” (“mostro”), da cui trapela l’equivocità dell’orrido dell’uomo – “perché probabilmente l’uomo è un mostro” –, non esaurisce l’interpretazione del citato testo di Heidegger, costituente “Geschlecht II”, ma era invece abbastanza esauriente per il nostro studio. Quel che ci interessava, infatti, era mettere in rilievo la relazione tra pensare ed agire, attraverso la riflessione heideggeriana sulla “mano”.
E vogliamo concludere, chiosando l’ultima frase della dicitura in epigrafe: “La lingua sola è ciò che dona via e passaggio a ogni volontà di pensare.” È il rilievo e il privilegio che Heidegger riserva al linguaggio rispetto al pensiero, quando afferma: “È solo perché l’uomo parla che pensa, e non il contrario, come crede ancora la Metafisica.” Da questa riflessione sulla centralità del linguaggio trarrà spunto Gadamer, nella sua conclusione sull’aspetto universale dell’ermeneutica (“Verità e Metodo”): “La struttura speculativa del linguaggio consiste nel non essere il riflesso di qualcosa di fissato, ma un venire all’espressione in cui si annuncia una totalità di senso. Proprio per questa via ci siamo trovati vicino alla dialettica antica, perché anch’essa non teorizzava un’attività metodica del soggetto, ma un agire della cosa stessa rispetto al quale il soggetto è piuttosto passivo. Questo agire della cosa stessa è l’autentico movimento speculativo, che afferra e trasporta il soggetto parlante. Abbiamo studiato il suo riflesso soggettivo nel parlare. Ora ci risulta chiaro che questo agire della cosa stessa, questo venire ad espressione del senso, indica una struttura ontologica universale, cioè la struttura fondamentale di tutto ciò che in generale può essere oggetto del comprendere. L’essere che può venir compreso è il linguaggio. Il fenomeno ermeneutico riflette per così dire la propria universalità sulla struttura stessa del compreso, qualificandola in senso universale come linguaggio e qualificando il proprio rapporto all’ente come interpretazione. Così non parliamo solo di un linguaggio dell’arte, ma anche di un linguaggio della natura, o più in generale di un linguaggio che le stesse cose parlano.”
[N. d. B.]
NOTA esplicativa della citazione in epigrafe.
“Il pensiero è l’agire in ciò che vi è di più proprio, se agire (handeln) significa prestare la mano (Hand) all’essenza dell’essere, cioè preparare (costruire) per l’essenza dell’essere nel mezzo dell’ente il dominio in cui l’essere si porta e porta la sua essenza alla lingua. La lingua sola è ciò che dona via e passaggio a ogni volontà di pensare.”
È la risposta all’interrogativo: “Was heißt Denken?” “Che cosa significa pensare?” Pensare significa agire [con la mente] in ciò che vi è di più proprio nell’agire, come dire consiste in quello che è il più puro agire, ossia prestare la mano, pensare come mestiere assimilato al lavoro “manuale” l’essenza dell’essere. [Qui, H. si riferisce al problema dell’Essere, che costituisce il problema filosofico principale dall’inizio della metafisica – meta-physica, al di là del mondo fisico –, come dire dall’inizio della storia della filosofia occidentale]. E questo significa preparare, – come dire non risolvere, ma preparare la risoluzione del problema dell’essere – nel mezzo dell’ente [stando nel mondo fisico], il luogo proprio [dominio], in cui l’essere emerge, ossia il linguaggio. Ed è questa l’unica via [il linguaggio] che conduce alla volontà di pensare. Ecco perché H. dice che il linguaggio precede il pensiero, e non il contrario, come fino ad allora aveva pensato la metafisica. Su questa strada della centralità del linguaggio lo segue Gadamer, che nella sua opera “Verità e Metodo”, delinea la sua dottrina ermeneutica, fenomeno di interpretazione non solo del linguaggio della natura e dell’arte, ma strumento di comprensione universale del tutto, il linguaggio stesso dell’essere.
Se quindi è il linguaggio dell’essere a farci pensare, allora per H., il mestiere del filosofo è quello di pensare, o quanto meno imparare a pensare che cosa è che una cosa è, pensare l’essere della cosa, l’essere dell’ente. In tal senso risuonano le sue parole sull’identità di pensare ed essere, un richiamo a Parmenide: “Der Anspruch der Identitaet spricht aus dem Sein des Seienden. Wo nun aber das Sein des Seienden im abendlaendischen Denken am fruehesten und eigens zur Sprache kommt, naemlich bei Parmenides, da spricht to autò, das Identische, in einem fast uebermaessigen Sinne. Einer der Saetze des Parmenides lautet: to gar autò noein estin te kai einai. 'Das naemlich Selbe ist vernehmen (d.h. Denken) sowohl als auch Sein'.”
“L'appello dell'identità parla a partire dall'essere dell'essente. Ora, però, là dove l'essere dell'essente per la prima volta e in modo proprio giunge nel pensiero occidentale al linguaggio, e cioè in Parmenide, là dove dice to autò, l'identico, parla in un senso che quasi supera la misura. Una delle sentenze di Parmenide dice: to gar autò noein estin te kai einai. 'Lo stesso è infatti percepire (pensare) e altrettanto anche l'essere'.”
Posta un commento