LE VOCI IMPROPRIE DELLA COSCIENZA Sulle tracce della propria identità smarrita e dubbi sulla consistenza di quest’ultima in conseguenza dell’alienazione psichica ed altri discorsi manicomiali
- Decio Livio, noi non siamo noi. - No? - No. - Traseo Nera, ma se noi non siamo noi, allora di grazia chi siamo? - Siamo “altro” da noi. - Non ho capito, amico, spiegati meglio. - Le voci. - Quali voci? - Quelle che ci raggiungono dal silenzio. - Traseo Nera. - Eh? - Ma che cosa stai dicendo? Forse hai perduto l’orientamento e non riesci più a tenere un discorso lineare, scosso come sei nel tuo equilibrio, quello psichico, intendo. - Ti ricordi di Jung? - E come no? Anzi, ti dirò, mi è sembrato vederlo passare poco fa, mentre si affrettava su questa Bellerivestrasse di Zurigo, verosimilmente diretto al Burghölzli. - Il suo pensiero, dicevo, non la sua ombra, quest’ultima nel senso però di figura fantasmatica, tanto per non confonderci con il concetto di “Ombra” da lui elaborato nella sua psicologia del profondo. - È un po’ di tempo che stiamo dietro a quest’autore, ottimo amico: un nostro discorrere su storie di malati di nervi, nella “invenzione”, nel senso di “rinvenimento” e “scoperta” del testo: “Giorni di pioggia”. Non è così? - Certo, è così. E come ben vedi, Livio, se non proprio le voci, almeno gli echi, quelli ritornano. - Un flusso di pensieri che ci sovrasta… - … ed avvolge. - È proprio così, Nera. Forse, se mi dispongo ad essere più attento, riesco a capire il tuo discorso; ma, ora, sono distratto da quella bionda svizzera, alta e slanciata, che incede verso di noi, nei suoi attillati jeans e camicetta bianca. Non la vedi anche tu? - Sì, certo; ma in questo modo, Livio, attirando la mia attenzione sulle figure del mondo, finisci per far perdere la sobrietà del ragionare anche a me. - Non io, quella giovane donna, Traseo Nera. - La verità del bene intellegibile, svelata dalla bellezza sensibile, che come insegna Platone nel Fedro è la manifestazione, l’apparire degli dèi noumenici nascosti e delle virtù, quali la temperanza e la giustizia. - Definisci la bellezza come vuoi, platonico Nera; intanto perdersi nella sua scia è forse il nostro modo di alienarci, divenire altro da noi, come tu avevi esordito in questo nostro chiacchierare, quando abbiamo lasciato i giardini della Spielplatz Blatterwiese. Intendevi dire questo, forse?
- Non proprio, Decio Livio, anzi per niente; seguivo tutto un altro piano del discorso. - E quale, allora, amico, smarrito tra le nuvole? - In verità, nel cielo brilla il sole, almeno oggi; comunque sul nostro alienarci e perdere l’identità di noi stessi altro era il mio intendere e domandare. - Sciogli i tuoi insoluti dubbi, dunque, filosofico Nera, o almeno prova a farlo. - Il nostro non essere noi è uno straniamento che ci piove dall’alto, ma non travolge la nostra psiche, perché integra, invero, rimane la nostra struttura mentale. Infatti, se diamo voce ad altri personaggi, per volere “altrui”, e tu sai, amico Livio, di chi parlo, sai bene chi è questo fantomatico signore “altrui”, ebbene noi non perdiamo la nostra identità, perché in quanto creature letterarie scaturite dalle obnubilate fantasie di questo “altrui”, siamo finti, quindi degli alienati certo, ma finti, in definitiva pazzi finti, non veri. - Traseo Nera, non ho capito bene quello che hai detto, anche se il tuo ragionamento (noi siamo pazzi “finti” e quindi mai “veri” e propri alienati mentali) sembra non faccia una grinza e risulti molto ben stirato; in verità tu giochi sul doppio registro della finzione, perché una cosa è fingersi malati di mente nella realtà, altro dirsi tali, finti alienati, in quanto soggetti, creature, personaggi del mondo della finzione artistica, quella che copia ovvero imita la realtà. - Ascolta, Livio, riprendiamo il filo del discorso da Jung, altrimenti finiamo per perderci all’interno di questo nostro chiuso universo di sciocchezze e confuse argomentazioni, senza capo né coda. - E senza neppure corpo o struttura centrale, direi. - Un vero e proprio manicomio di parole; quindi, visto che siamo in argomento (storture mentali), riprendiamo dall’illustre medico svizzero, curatore di anime e studioso insigne. - Certo. - Nella sua biografia, a quanto pare, Jung riferisce un certo accadimento, a lui occorso. Un giorno, mentre stava dipingendo e scrivendo le sue fantasie, si domandò: “Cosa sto facendo realmente?... Al che una voce in me disse: “È arte”. Fui sorpreso, non mi era mai passato per la testa che le mie fantasie potessero avere a che fare con l’arte. Allora pensai: “Forse il mio inconscio ha dato forma ad una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute”. Sapevo per certo che la voce proveniva da una donna, e vi riconoscevo la voce di una paziente, una intelligente psicopatica che aveva per me un forte transfert…” - Il transfert, chiamalo pure amore o meglio innamoramento. - Livio, atteniamoci alla terminologia scientifica. - E come no!
- Allora, nel nostro caso, tragico e comico a un tempo, l’artista, signore e creatore delle nostre inconsistenti ed effimere vite, quando una voce risuona nel silenzio della sua coscienza, sa bene a quale identità appartiene, nevvero? - Questo velleitario imitatore di ben altri grandi artisti, certo. - Poi, siccome è in ogni caso anche lui un “fingitore”, creatore di “finzioni” artistiche, estranea da sé le voci della sua coscienza, nel senso che le esteriorizza, attraverso il nostro parlare, questo discorrere tra me e te, Decio Livio. Non è così? - Sì, è così. - Pertanto quelle voci, che non appartengono al nostro artista, risuonanti nella sua coscienza da un “altrove”, di cui non sappiamo, ma che sospettiamo esista, non sono affatto “sue” e quindi neppure “nostre”, ammesso il nostro stato di creature ipostatizzate, rappresentazioni “figurate” delle sue emozioni ed interiori sentimenti. Non sembra anche a te che la situazione stia in questo modo, vero? - Sì, mi sembra. - Quindi, in questo senso, come conseguenza dello smarrimento della sua anima in sogni altrui, anche noi, Decio Livio, finiamo per perdere la nostra vera identità, nevvero? - È vero. - Noi, dèmoni della sua coscienza, veniamo ad alienarci nell’identità di altri sconosciuti dèmoni, estranei alla nostra esistenza, pur restando, tu, Decio Livio, ed io, Traseo Nera, integri nella nostra struttura ontologica, se così si può dire. - Ma, allora, Nera, noi deprivati della nostra identità, chi siamo veramente? - Anime perdute nella coscienza folle di un dio impazzito, che ha smarrito la sapienza, Sofia, e parla con le voci dell’alienazione mentale. - Alla stessa guisa della psicopatica intelligente, la cui voce risuonò nella coscienza dell’illustre medico, attuale spettro dell’inconscio di questa graziosa cittadina, allora pur sempre un uomo con tutta la sua sensibilità e come tale soggetto al contro transfert. - Adesso, non esageriamo. - “Amor che a nullo amato amar perdona.” - Qui amant ipsi sibi somnia fingunt. - Gli innamorati creano (fingunt, “fingono”) da sé i propri sogni.
[N. d. B.] Domani o posdomani o il terzo giorno, verrà pubblicato un commento al presente mimo, di cui anticipiamo la Nota a suo tempo apposta al mimo. Questa però non chiarisce con la luce dell’obiettività, ossia la luce che si sprigiona da un obiettivo fotografico (ovviamente dopo averla catturata e raccolta in sé), la “soggettività” del mimo, ossia il senso intimo della mente e fantasia dell’autore. Comunque ecco La Nota e l’incipit del prossimo Commento.
NOTA In questo mimo, quasi a complemento del precedente, Sophia non viene investita sotto il profilo cosmogonico e cosmologico, come Sapienza dogmatica di Fede, ma di essa viene evidenziata la luce di razionalità, che si oppone alla follia, di cui era caduta preda, finendo intrappolata nell’oscurità della materia. Ecco perché nel finale del mimo, nella metafora della creazione letteraria di un cosmo, i due protagonisti si interrogano sul loro essere: “ - Ma, allora, Nera, noi deprivati della nostra identità, chi siamo veramente? - Anime perdute nella coscienza folle di un dio impazzito, che ha smarrito la sapienza, Sofia, e parla con le voci dell’alienazione mentale.”
COMMENTO La stesura e pubblicazione del testo del mimo risale al tempo di un mio viaggio a Zurigo, secondo una certa mia consuetudine di affidare le mie riflessioni a questa modalità di espressione letteraria, quando avevo tempo per riflettere, lontano da pensieri professionali o domestici, durante un viaggio di svago, come appunto quello mio a Zurigo, oppure anche di lavoro, in genere in Italia. E il mimo riflette ovviamente le mie letture o gli orientamenti di interesse letterario, comprensivi soprattutto di filosofia, ma anche di psicologia o critica letteraria, del momento. Era una maniera di affrontare questi temi del pensiero, concomitanti con la lettura, nonché la mia diretta composizione di opere letterarie, consistenti in romanzi, racconti e saggi letterari e filosofici, più che altro studi, prima ancora che vere opere di saggistica. Nell’esaminare quindi il mimo – “Le voci improprie della coscienza. – Sulle tracce della propria identità smarrita e dubbi sulla consistenza di quest’ultima in conseguenza dell’alienazione psichica ed altri discorsi manicomiali.” – seguiremo il metodo di frazionare il testo in componenti successive, che verranno illustrate progressivamente una alla volta, a cominciare dal titolo qui riportato. Allora la prima domanda, che ci rivolgiamo è la seguente: quali sono le voci della coscienza, e perché le definiamo improprie? L’improprietà delle voci può essere definita in relazione al suo contrario ossia la loro proprietà, ovvero la corrispondenza e l’identità tra le voci e la coscienza del soggetto sorpreso ad ascoltarle. Ma è proprio così? Ora però ci coglie questo dubbio. Come fare allora per scioglierlo? Andiamoci a leggere il passo dove viene citato l’episodio riferito da Jung. . . . (Segue)
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
4 commenti:
LE VOCI IMPROPRIE DELLA COSCIENZA
Sulle tracce della propria identità smarrita e dubbi sulla consistenza di quest’ultima in conseguenza dell’alienazione psichica ed altri discorsi manicomiali
- Decio Livio, noi non siamo noi.
- No?
- No.
- Traseo Nera, ma se noi non siamo noi, allora di grazia chi siamo?
- Siamo “altro” da noi.
- Non ho capito, amico, spiegati meglio.
- Le voci.
- Quali voci?
- Quelle che ci raggiungono dal silenzio.
- Traseo Nera.
- Eh?
- Ma che cosa stai dicendo? Forse hai perduto l’orientamento e non riesci più a tenere un discorso lineare, scosso come sei nel tuo equilibrio, quello psichico, intendo.
- Ti ricordi di Jung?
- E come no? Anzi, ti dirò, mi è sembrato vederlo passare poco fa, mentre si affrettava su questa Bellerivestrasse di Zurigo, verosimilmente diretto al Burghölzli.
- Il suo pensiero, dicevo, non la sua ombra, quest’ultima nel senso però di figura fantasmatica, tanto per non confonderci con il concetto di “Ombra” da lui elaborato nella sua psicologia del profondo.
- È un po’ di tempo che stiamo dietro a quest’autore, ottimo amico: un nostro discorrere su storie di malati di nervi, nella “invenzione”, nel senso di “rinvenimento” e “scoperta” del testo: “Giorni di pioggia”. Non è così?
- Certo, è così. E come ben vedi, Livio, se non proprio le voci, almeno gli echi, quelli ritornano.
- Un flusso di pensieri che ci sovrasta…
- … ed avvolge.
- È proprio così, Nera. Forse, se mi dispongo ad essere più attento, riesco a capire il tuo discorso; ma, ora, sono distratto da quella bionda svizzera, alta e slanciata, che incede verso di noi, nei suoi attillati jeans e camicetta bianca. Non la vedi anche tu?
- Sì, certo; ma in questo modo, Livio, attirando la mia attenzione sulle figure del mondo, finisci per far perdere la sobrietà del ragionare anche a me.
- Non io, quella giovane donna, Traseo Nera.
- La verità del bene intellegibile, svelata dalla bellezza sensibile, che come insegna Platone nel Fedro è la manifestazione, l’apparire degli dèi noumenici nascosti e delle virtù, quali la temperanza e la giustizia.
- Definisci la bellezza come vuoi, platonico Nera; intanto perdersi nella sua scia è forse il nostro modo di alienarci, divenire altro da noi, come tu avevi esordito in questo nostro chiacchierare, quando abbiamo lasciato i giardini della Spielplatz Blatterwiese. Intendevi dire questo, forse?
- Non proprio, Decio Livio, anzi per niente; seguivo tutto un altro piano del discorso.
- E quale, allora, amico, smarrito tra le nuvole?
- In verità, nel cielo brilla il sole, almeno oggi; comunque sul nostro alienarci e perdere l’identità di noi stessi altro era il mio intendere e domandare.
- Sciogli i tuoi insoluti dubbi, dunque, filosofico Nera, o almeno prova a farlo.
- Il nostro non essere noi è uno straniamento che ci piove dall’alto, ma non travolge la nostra psiche, perché integra, invero, rimane la nostra struttura mentale. Infatti, se diamo voce ad altri personaggi, per volere “altrui”, e tu sai, amico Livio, di chi parlo, sai bene chi è questo fantomatico signore “altrui”, ebbene noi non perdiamo la nostra identità, perché in quanto creature letterarie scaturite dalle obnubilate fantasie di questo “altrui”, siamo finti, quindi degli alienati certo, ma finti, in definitiva pazzi finti, non veri.
- Traseo Nera, non ho capito bene quello che hai detto, anche se il tuo ragionamento (noi siamo pazzi “finti” e quindi mai “veri” e propri alienati mentali) sembra non faccia una grinza e risulti molto ben stirato; in verità tu giochi sul doppio registro della finzione, perché una cosa è fingersi malati di mente nella realtà, altro dirsi tali, finti alienati, in quanto soggetti, creature, personaggi del mondo della finzione artistica, quella che copia ovvero imita la realtà.
- Ascolta, Livio, riprendiamo il filo del discorso da Jung, altrimenti finiamo per perderci all’interno di questo nostro chiuso universo di sciocchezze e confuse argomentazioni, senza capo né coda.
- E senza neppure corpo o struttura centrale, direi.
- Un vero e proprio manicomio di parole; quindi, visto che siamo in argomento (storture mentali), riprendiamo dall’illustre medico svizzero, curatore di anime e studioso insigne.
- Certo.
- Nella sua biografia, a quanto pare, Jung riferisce un certo accadimento, a lui occorso. Un giorno, mentre stava dipingendo e scrivendo le sue fantasie, si domandò: “Cosa sto facendo realmente?... Al che una voce in me disse: “È arte”. Fui sorpreso, non mi era mai passato per la testa che le mie fantasie potessero avere a che fare con l’arte. Allora pensai: “Forse il mio inconscio ha dato forma ad una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimersi con le sue proprie vedute”. Sapevo per certo che la voce proveniva da una donna, e vi riconoscevo la voce di una paziente, una intelligente psicopatica che aveva per me un forte transfert…”
- Il transfert, chiamalo pure amore o meglio innamoramento.
- Livio, atteniamoci alla terminologia scientifica.
- E come no!
- Allora, nel nostro caso, tragico e comico a un tempo, l’artista, signore e creatore delle nostre inconsistenti ed effimere vite, quando una voce risuona nel silenzio della sua coscienza, sa bene a quale identità appartiene, nevvero?
- Questo velleitario imitatore di ben altri grandi artisti, certo.
- Poi, siccome è in ogni caso anche lui un “fingitore”, creatore di “finzioni” artistiche, estranea da sé le voci della sua coscienza, nel senso che le esteriorizza, attraverso il nostro parlare, questo discorrere tra me e te, Decio Livio. Non è così?
- Sì, è così.
- Pertanto quelle voci, che non appartengono al nostro artista, risuonanti nella sua coscienza da un “altrove”, di cui non sappiamo, ma che sospettiamo esista, non sono affatto “sue” e quindi neppure “nostre”, ammesso il nostro stato di creature ipostatizzate, rappresentazioni “figurate” delle sue emozioni ed interiori sentimenti. Non sembra anche a te che la situazione stia in questo modo, vero?
- Sì, mi sembra.
- Quindi, in questo senso, come conseguenza dello smarrimento della sua anima in sogni altrui, anche noi, Decio Livio, finiamo per perdere la nostra vera identità, nevvero?
- È vero.
- Noi, dèmoni della sua coscienza, veniamo ad alienarci nell’identità di altri sconosciuti dèmoni, estranei alla nostra esistenza, pur restando, tu, Decio Livio, ed io, Traseo Nera, integri nella nostra struttura ontologica, se così si può dire.
- Ma, allora, Nera, noi deprivati della nostra identità, chi siamo veramente?
- Anime perdute nella coscienza folle di un dio impazzito, che ha smarrito la sapienza, Sofia, e parla con le voci dell’alienazione mentale.
- Alla stessa guisa della psicopatica intelligente, la cui voce risuonò nella coscienza dell’illustre medico, attuale spettro dell’inconscio di questa graziosa cittadina, allora pur sempre un uomo con tutta la sua sensibilità e come tale soggetto al contro transfert.
- Adesso, non esageriamo.
- “Amor che a nullo amato amar perdona.”
- Qui amant ipsi sibi somnia fingunt.
- Gli innamorati creano (fingunt, “fingono”) da sé i propri sogni.
[N. d. B.]
Domani o posdomani o il terzo giorno, verrà pubblicato un commento al presente mimo, di cui anticipiamo la Nota a suo tempo apposta al mimo. Questa però non chiarisce con la luce dell’obiettività, ossia la luce che si sprigiona da un obiettivo fotografico (ovviamente dopo averla catturata e raccolta in sé), la “soggettività” del mimo, ossia il senso intimo della mente e fantasia dell’autore. Comunque ecco La Nota e l’incipit del prossimo Commento.
NOTA
In questo mimo, quasi a complemento del precedente, Sophia non viene investita sotto il profilo cosmogonico e cosmologico, come Sapienza dogmatica di Fede, ma di essa viene evidenziata la luce di razionalità, che si oppone alla follia, di cui era caduta preda, finendo intrappolata nell’oscurità della materia. Ecco perché nel finale del mimo, nella metafora della creazione letteraria di un cosmo, i due protagonisti si interrogano sul loro essere: “ - Ma, allora, Nera, noi deprivati della nostra identità, chi siamo veramente? - Anime perdute nella coscienza folle di un dio impazzito, che ha smarrito la sapienza, Sofia, e parla con le voci dell’alienazione mentale.”
COMMENTO
La stesura e pubblicazione del testo del mimo risale al tempo di un mio viaggio a Zurigo, secondo una certa mia consuetudine di affidare le mie riflessioni a questa modalità di espressione letteraria, quando avevo tempo per riflettere, lontano da pensieri professionali o domestici, durante un viaggio di svago, come appunto quello mio a Zurigo, oppure anche di lavoro, in genere in Italia. E il mimo riflette ovviamente le mie letture o gli orientamenti di interesse letterario, comprensivi soprattutto di filosofia, ma anche di psicologia o critica letteraria, del momento. Era una maniera di affrontare questi temi del pensiero, concomitanti con la lettura, nonché la mia diretta composizione di opere letterarie, consistenti in romanzi, racconti e saggi letterari e filosofici, più che altro studi, prima ancora che vere opere di saggistica.
Nell’esaminare quindi il mimo – “Le voci improprie della coscienza. – Sulle tracce della propria identità smarrita e dubbi sulla consistenza di quest’ultima in conseguenza dell’alienazione psichica ed altri discorsi manicomiali.” – seguiremo il metodo di frazionare il testo in componenti successive, che verranno illustrate progressivamente una alla volta, a cominciare dal titolo qui riportato.
Allora la prima domanda, che ci rivolgiamo è la seguente: quali sono le voci della coscienza, e perché le definiamo improprie? L’improprietà delle voci può essere definita in relazione al suo contrario ossia la loro proprietà, ovvero la corrispondenza e l’identità tra le voci e la coscienza del soggetto sorpreso ad ascoltarle.
Ma è proprio così? Ora però ci coglie questo dubbio. Come fare allora per scioglierlo? Andiamoci a leggere il passo dove viene citato l’episodio riferito da Jung.
. . .
(Segue)
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