Ma quali sono i sentieri del pensiero, attraverso i quali il discorso di Plotino giunge all’affermazione della libertà dell’Uno, che nella prospettiva della sua riflessione è più che altro un ritorno, prima ancora che un arrivo? Sul problema della libertà divina, così egli scrive: “Nondimeno, dobbiamo avere il coraggio di studiare questo problema negli esseri primi e in Colui che sta al di sopra di tutto: come cioè ogni cosa dipenda da Lui, anche se siamo già d’accordo che Egli possa tutto.” (Enneadi, VI, 8, 1) Il discorso quindi prende le mosse dall’analisi della libertà nell’uomo: “Esaminiamo innanzi tutto in noi stessi – perché è nostro costume cercare su noi stessi – se qualcosa dipenda dal nostro arbitrio.” Libero appare tutto quello che noi riconduciamo alla nostra volontà e volontario è ciò che facciamo senza costrizione e con nostra consapevolezza. Uccidere una persona che non si sa essere il proprio padre, non è quindi un atto libero, perché pur essendoci la volontarietà, manca la consapevolezza. L’esempio è ripreso dall’Etica Nicomachea di Aristotele e qui non si può non pensare alla tragedia di Edipo, che non riesce a sfuggire al Fato, la Necessità (Ananche), una forza superiore anche agli dèi, sulla cui libertà Plotino, come vedremo, non mancherà di esporre le sue riflessioni. Intanto, l’alternativa che si pone è la seguente: “Se al vivente, cioè all’anima, spetta il libero arbitrio perché conosce quello che fa, allora ciò avviene o per opera della sensazione… oppure conosce per mezzo della conoscenza…” Ora, nel primo caso, “che importanza ha questa per il libero arbitrio? La sensazione infatti non può renderci padrone di un’azione, perché essa vede soltanto.” Nel secondo caso, “egli conosce soltanto il fatto compiuto, e anche in questo caso egli vede soltanto.” In verità, se l’anima agisce soltanto sotto un impulso, una passione come tale subita, allora la sua azione non potrà dirsi libera, perché in tale ipotesi la libertà dovrebbe attribuirsi “anche ai fanciulli e alle belve e ai pazzi e ai dementi e alla gente soggetta a malefici e a immagini strane che essi non sanno dominare.” Se però “la ragione agisce contro l’impulso e la conoscenza lo vince, allora bisogna vedere a quale principio esse si riferiscano e in generale dove questo atto si compia.” Nello schema plotiniano, la ragione vince l’impulso con un impulso contrario ed il filosofo si domanda come questo avviene, osservando che “se una volta placato l’impulso, essa si ferma, e il libero arbitrio si fa consistere in questo, esso non risiederà più nell’azione, ma sarà nell’Intelligenza.” In questo passaggio come nei precedenti, si rivela il movimento di risalita che dall’Anima, di cui è composto il vivente, arriva all’Intelligenza, secondo un processo di ascesi e purificazione dalle affezioni corporee, proprio della filosofia neoplatonica, che vede nel corpo la prigione dell’anima.
Ascoltiamo, dunque, che cosa dice in proposito Plotino: “Alle persone inferiori che agiscono secondo la loro immaginazione [un’affezione corporea] non attribuiremo mai né azioni libere né azioni volontarie, ma attribuiremo l’indipendenza a chi si è liberato dalle passioni del corpo mediante le forze dell’Intelligenza… e diremo infine che la libertà è presente anche negli dèi che vivono in questo modo, cioè secondo l’Intelligenza e secondo impulsi che vengono dall’Intelligenza.” Ma possiamo definire libero un atto, che compiuto secondo un impulso proveniente dall’Intelligenza, è pur sempre un atto soggetto a costrizione? E il dubbio si estende anche all’Intelligenza e ai divini intellegibili di lassù. Nella filosofia di Plotino se l’Anima si rivolge all’Intelligenza, l’Intelligenza è volta sempre verso il Bene, l’Uno. Lo schema delle tre Ipostasi rispecchia un po’ la concezione dell’universo greco, formato da una sfera sensibile, la terra dei mortali soggetti a generazione e corruzione, e il cielo dei divini immortali e incorruttibili. E se Aristotele vedeva nel Movente Immobile la sorgente di attrazione, che generava il movimento circolare dei cieli, Plotino pone sul “trono eccelso” l’Uno ovvero il Bene, sulla scia di Platone: “Dunque anche a proposito delle cose intellegibili si può affermare che dal Bene esse ricevono non solo il dono di essere conosciute, ma anche l’esistenza e l’essenza, quantunque il Bene non s’identifichi con l’essenza, ma per dignità e potenza sia superiore anche a questa.” (Repubblica, VI, 509 b) Se l’Intelligenza discende dall’Uno, allora questa si rivolgerà verso l’Uno non per costrizione, ma spontaneamente, perché in esso vede il proprio Bene. Plotino fa l’esempio dello schiavo che, per costrizione esterna, viene condizionato a fare il bene altrui, quello del padrone, e non il proprio, perché non è libero. “L’Intelligenza ha un principio diverso, questo però non è fuori dall’Intelligenza, ma è nel Bene. Perciò, se l’Intelligenza è conforme al Bene supremo, ancora maggiori saranno in Lei il libero arbitrio e la libertà: infatti ognuno cerca la libertà e il libero arbitrio in vista del Bene.” In questa prospettiva, la libertà è la via finale verso il Bene, e tanto un’azione è fatta in vista di questo fine, tanto è maggiormente libera, libera da quelle affezioni corporee e passioni umane, che condizionano il vivente, l’anima. Conclude Plotino: “L’anima dunque diventa libera, quando senza nessun ostacolo, tende al Bene per mezzo dell’Intelligenza: ciò che essa fa per Lui dipende soltanto dal suo libero arbitrio. L’Intelligenza invece è libera per sé stessa, mentre la natura del Bene è di essere il desiderabile in sé, e per Lui posseggono il libero arbitrio le altre cose, qualora possano o raggiungerlo senza ostacoli o possederlo.”
“Pur nella grande ricchezza delle nostre lingue, il pensatore si trova spesso in imbarazzo nella ricerca di un’espressione che risponda esattamente al suo concetto… Coniare nuovi termini è come una pretesa di dettar leggi nella lingua.” Così si esprime Immanuel Kant nella “Critica della Ragion pura”, e precisamente nel paragrafo “Delle idee in generale” della “Dialettica trascendentale”, dove tratta il “concetto” d’idea. Qui, il filosofo di Königsberg sembra criticare quello che nelle sue opere compie a getto continuo, ossia creare un nuovo linguaggio filosofico, tanto che i suoi esegeti hanno dovuto compilare un glossario per interpretarlo. (Segue)
IL NODO ALLA GOLA Libertà e Necessità nella logica dei contrari
“L’autooriginazione divina è stato un atto di libertà piena e assoluta e quindi un evento indeducibile e imprevedibile: non se ne può fare un sistema, con principii, deduzioni, dimostrazioni, ma soltanto un racconto, qual è appunto il mito. Un “sistema”, cioè una costruzione logico-metafisica dominata dalla necessità, sopprimerebbe la libertà di quell’atto alterandone la natura.” Così Luigi Pareyson, filosofo cattolico, nel suo “discorso temerario” sul male in Dio, testo compreso nella raccolta dal titolo: “Ontologia della libertà.” Queste parole non potevano esprimere in maniera più chiara la contrapposizione tra i due termini, “Libertà” e “Necessità”, propria di una logica dei contrari propedeutica ad ogni discorso dialettico, vale a dire il luogo del pensiero, dove si confrontano due tesi opposte. In tale ottica, alla Necessità che indica l’essere che non può non essere (“stare”, “nec-cēdĕre”) logicamente si contrappone la Libertà, indicatrice di un essere che può anche non essere. Chi della “Necessità” ha fatto il pilastro fondante del suo sistema di pensiero è stato il filosofo Emanuele Severino, il quale nel suo testo fondamentale, “Destino della Necessità”, ha indicato con queste due parole lo “stare” (“de-stinare”) dell’essere che non cede (“nec-cēdĕre”). Nel suo “Ritornare a Parmenide”, egli osserva come il verso del poema, “l’essere è, il non essere non è”, stabilisce non soltanto la proprietà fondamentale, ma anche il senso stesso dell’essere, che è quello di opporsi al nulla. Nominando l’Essere, la filosofia greca ha evocato il Nulla, l’ombra che da quell’inizio ha accompagnato ed accompagna ancora tutto il cammino della civiltà occidentale. A questa filosofia dell’essere, Pareyson contrappone la sua filosofia della libertà, andando oltre la sorgente del pensiero, la ragione (logos), per risalire fino all’atto divino originario, un evento indeducibile e imprevedibile, di cui non si può fare un discorso filosofico, ma soltanto racconto, il mito. E aggiunge: “Una narrazione capace di riferire adeguatamente quell’atto di assoluta libertà è a nostra disposizione, ed è il racconto del Genesi, che una penetrante ermeneutica può rendere parlante al nostro orecchio d’oggi.” Le due tesi non potevano essere più irriducibili: da una parte il mito della creazione ex nihilo, ed una filosofia della libertà, dall’altro l’inammissibilità di ogni atto creativo, generato dal nulla, inconciliabile con la filosofia dell’essere.
Su un’affermazione, o meglio su una negazione, le due tesi vanno d’accordo: una costruzione logico-metafisica dominata dalla Necessità non può fondarsi sulla Libertà divina. E infatti, nella cultura greca, anche gli dèi non possono sfuggire alla forza superiore della Necessità, l’Ananke, figurativamente una “stretta a gomito”, che strozza e rende impossibile qualsiasi libertà di movimento. È il “nodo alla gola”, che sperimentiamo emotivamente nell’angoscia, una pena straziante, che i versi di Montale hanno saputo tradurre in immagini poetiche di rara potenza espressiva: “Spesso il male di vivere ho incontrato / era il rivo strozzato che gorgoglia / era l'incartocciarsi della foglia /riarsa, era il cavallo stramazzato.” Soltanto la fuga dal mondo, nell’indifferenza divina, quella predicata dalla filosofia di Plotino, può sciogliere il nodo di angoscia: “Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.” Intanto, domandiamoci qual è il significato della “libertà” in un discorso di carattere filosofico. Il “discorso temerario” di Pareyson riprende l’espressione di Plotino (Enneadi, VI, 8, 7), quando il filosofo neoplatonico s’interroga su una possibile obiezione sulla libertà dell’Uno: “A meno che qualche discorso temerario, venuto da un’altra scuola, affermi che solo per caso l’Uno sia quello che è, e che non sia padrone di essere quello che è, e che sia ciò che è non per sé stesso, e che non possegga la libertà né il libero arbitrio, e che non dipenda da Lui il creare o il non creare ciò che è costretto a creare o non creare. Questo discorso, rude e imbarazzante, distrugge completamente la natura dell’atto volontario e libero e persino il concetto di libero arbitrio, come se le nostre parole siano state dette invano e siano puri suoni di cose che non esistono.” Indubbiamente il discorso temerario di Pareyson si muove nella direzione opposta a quella prospettata da Plotino, ricavando dall’espressione soltanto il carattere della temerarietà ossia del rischio di sicuro fallimento, cui va incontro la sua tesi, contraria alla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, donde egli prende le mosse. Come l’Uno che “occupa il trono eccelso”, così anche il Dio di Pareyson è libertà assoluta e sovrana, quella libertà che ponendosi all’inizio come scelta del Bene, sconfigge ed esclude il Male, che pure evoca come possibilità eliminata da sempre nel divino, ma che si ripropone nella sfera dell’azione umana.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
6 commenti:
IL TRONO ECCELSO
L’Uno, l’Intelligenza e l’Anima.
Ma quali sono i sentieri del pensiero, attraverso i quali il discorso di Plotino giunge all’affermazione della libertà dell’Uno, che nella prospettiva della sua riflessione è più che altro un ritorno, prima ancora che un arrivo? Sul problema della libertà divina, così egli scrive: “Nondimeno, dobbiamo avere il coraggio di studiare questo problema negli esseri primi e in Colui che sta al di sopra di tutto: come cioè ogni cosa dipenda da Lui, anche se siamo già d’accordo che Egli possa tutto.” (Enneadi, VI, 8, 1)
Il discorso quindi prende le mosse dall’analisi della libertà nell’uomo: “Esaminiamo innanzi tutto in noi stessi – perché è nostro costume cercare su noi stessi – se qualcosa dipenda dal nostro arbitrio.”
Libero appare tutto quello che noi riconduciamo alla nostra volontà e volontario è ciò che facciamo senza costrizione e con nostra consapevolezza. Uccidere una persona che non si sa essere il proprio padre, non è quindi un atto libero, perché pur essendoci la volontarietà, manca la consapevolezza. L’esempio è ripreso dall’Etica Nicomachea di Aristotele e qui non si può non pensare alla tragedia di Edipo, che non riesce a sfuggire al Fato, la Necessità (Ananche), una forza superiore anche agli dèi, sulla cui libertà Plotino, come vedremo, non mancherà di esporre le sue riflessioni.
Intanto, l’alternativa che si pone è la seguente: “Se al vivente, cioè all’anima, spetta il libero arbitrio perché conosce quello che fa, allora ciò avviene o per opera della sensazione… oppure conosce per mezzo della conoscenza…” Ora, nel primo caso, “che importanza ha questa per il libero arbitrio? La sensazione infatti non può renderci padrone di un’azione, perché essa vede soltanto.” Nel secondo caso, “egli conosce soltanto il fatto compiuto, e anche in questo caso egli vede soltanto.” In verità, se l’anima agisce soltanto sotto un impulso, una passione come tale subita, allora la sua azione non potrà dirsi libera, perché in tale ipotesi la libertà dovrebbe attribuirsi “anche ai fanciulli e alle belve e ai pazzi e ai dementi e alla gente soggetta a malefici e a immagini strane che essi non sanno dominare.” Se però “la ragione agisce contro l’impulso e la conoscenza lo vince, allora bisogna vedere a quale principio esse si riferiscano e in generale dove questo atto si compia.”
Nello schema plotiniano, la ragione vince l’impulso con un impulso contrario ed il filosofo si domanda come questo avviene, osservando che “se una volta placato l’impulso, essa si ferma, e il libero arbitrio si fa consistere in questo, esso non risiederà più nell’azione, ma sarà nell’Intelligenza.”
In questo passaggio come nei precedenti, si rivela il movimento di risalita che dall’Anima, di cui è composto il vivente, arriva all’Intelligenza, secondo un processo di ascesi e purificazione dalle affezioni corporee, proprio della filosofia neoplatonica, che vede nel corpo la prigione dell’anima.
Ascoltiamo, dunque, che cosa dice in proposito Plotino: “Alle persone inferiori che agiscono secondo la loro immaginazione [un’affezione corporea] non attribuiremo mai né azioni libere né azioni volontarie, ma attribuiremo l’indipendenza a chi si è liberato dalle passioni del corpo mediante le forze dell’Intelligenza… e diremo infine che la libertà è presente anche negli dèi che vivono in questo modo, cioè secondo l’Intelligenza e secondo impulsi che vengono dall’Intelligenza.”
Ma possiamo definire libero un atto, che compiuto secondo un impulso proveniente dall’Intelligenza, è pur sempre un atto soggetto a costrizione? E il dubbio si estende anche all’Intelligenza e ai divini intellegibili di lassù.
Nella filosofia di Plotino se l’Anima si rivolge all’Intelligenza, l’Intelligenza è volta sempre verso il Bene, l’Uno. Lo schema delle tre Ipostasi rispecchia un po’ la concezione dell’universo greco, formato da una sfera sensibile, la terra dei mortali soggetti a generazione e corruzione, e il cielo dei divini immortali e incorruttibili. E se Aristotele vedeva nel Movente Immobile la sorgente di attrazione, che generava il movimento circolare dei cieli, Plotino pone sul “trono eccelso” l’Uno ovvero il Bene, sulla scia di Platone: “Dunque anche a proposito delle cose intellegibili si può affermare che dal Bene esse ricevono non solo il dono di essere conosciute, ma anche l’esistenza e l’essenza, quantunque il Bene non s’identifichi con l’essenza, ma per dignità e potenza sia superiore anche a questa.” (Repubblica, VI, 509 b)
Se l’Intelligenza discende dall’Uno, allora questa si rivolgerà verso l’Uno non per costrizione, ma spontaneamente, perché in esso vede il proprio Bene. Plotino fa l’esempio dello schiavo che, per costrizione esterna, viene condizionato a fare il bene altrui, quello del padrone, e non il proprio, perché non è libero. “L’Intelligenza ha un principio diverso, questo però non è fuori dall’Intelligenza, ma è nel Bene. Perciò, se l’Intelligenza è conforme al Bene supremo, ancora maggiori saranno in Lei il libero arbitrio e la libertà: infatti ognuno cerca la libertà e il libero arbitrio in vista del Bene.”
In questa prospettiva, la libertà è la via finale verso il Bene, e tanto un’azione è fatta in vista di questo fine, tanto è maggiormente libera, libera da quelle affezioni corporee e passioni umane, che condizionano il vivente, l’anima.
Conclude Plotino: “L’anima dunque diventa libera, quando senza nessun ostacolo, tende al Bene per mezzo dell’Intelligenza: ciò che essa fa per Lui dipende soltanto dal suo libero arbitrio. L’Intelligenza invece è libera per sé stessa, mentre la natura del Bene è di essere il desiderabile in sé, e per Lui posseggono il libero arbitrio le altre cose, qualora possano o raggiungerlo senza ostacoli o possederlo.”
L’IDEA DELLA LIBERTÀ
Le chimere oltre il cielo
“Pur nella grande ricchezza delle nostre lingue, il pensatore si trova spesso in imbarazzo nella ricerca di un’espressione che risponda esattamente al suo concetto… Coniare nuovi termini è come una pretesa di dettar leggi nella lingua.” Così si esprime Immanuel Kant nella “Critica della Ragion pura”, e precisamente nel paragrafo “Delle idee in generale” della “Dialettica trascendentale”, dove tratta il “concetto” d’idea. Qui, il filosofo di Königsberg sembra criticare quello che nelle sue opere compie a getto continuo, ossia creare un nuovo linguaggio filosofico, tanto che i suoi esegeti hanno dovuto compilare un glossario per interpretarlo.
(Segue)
IL NODO ALLA GOLA
Libertà e Necessità nella logica dei contrari
“L’autooriginazione divina è stato un atto di libertà piena e assoluta e quindi un evento indeducibile e imprevedibile: non se ne può fare un sistema, con principii, deduzioni, dimostrazioni, ma soltanto un racconto, qual è appunto il mito. Un “sistema”, cioè una costruzione logico-metafisica dominata dalla necessità, sopprimerebbe la libertà di quell’atto alterandone la natura.”
Così Luigi Pareyson, filosofo cattolico, nel suo “discorso temerario” sul male in Dio, testo compreso nella raccolta dal titolo: “Ontologia della libertà.”
Queste parole non potevano esprimere in maniera più chiara la contrapposizione tra i due termini, “Libertà” e “Necessità”, propria di una logica dei contrari propedeutica ad ogni discorso dialettico, vale a dire il luogo del pensiero, dove si confrontano due tesi opposte. In tale ottica, alla Necessità che indica l’essere che non può non essere (“stare”, “nec-cēdĕre”) logicamente si contrappone la Libertà, indicatrice di un essere che può anche non essere.
Chi della “Necessità” ha fatto il pilastro fondante del suo sistema di pensiero è stato il filosofo Emanuele Severino, il quale nel suo testo fondamentale, “Destino della Necessità”, ha indicato con queste due parole lo “stare” (“de-stinare”) dell’essere che non cede (“nec-cēdĕre”). Nel suo “Ritornare a Parmenide”, egli osserva come il verso del poema, “l’essere è, il non essere non è”, stabilisce non soltanto la proprietà fondamentale, ma anche il senso stesso dell’essere, che è quello di opporsi al nulla. Nominando l’Essere, la filosofia greca ha evocato il Nulla, l’ombra che da quell’inizio ha accompagnato ed accompagna ancora tutto il cammino della civiltà occidentale.
A questa filosofia dell’essere, Pareyson contrappone la sua filosofia della libertà, andando oltre la sorgente del pensiero, la ragione (logos), per risalire fino all’atto divino originario, un evento indeducibile e imprevedibile, di cui non si può fare un discorso filosofico, ma soltanto racconto, il mito. E aggiunge: “Una narrazione capace di riferire adeguatamente quell’atto di assoluta libertà è a nostra disposizione, ed è il racconto del Genesi, che una penetrante ermeneutica può rendere parlante al nostro orecchio d’oggi.”
Le due tesi non potevano essere più irriducibili: da una parte il mito della creazione ex nihilo, ed una filosofia della libertà, dall’altro l’inammissibilità di ogni atto creativo, generato dal nulla, inconciliabile con la filosofia dell’essere.
Su un’affermazione, o meglio su una negazione, le due tesi vanno d’accordo: una costruzione logico-metafisica dominata dalla Necessità non può fondarsi sulla Libertà divina. E infatti, nella cultura greca, anche gli dèi non possono sfuggire alla forza superiore della Necessità, l’Ananke, figurativamente una “stretta a gomito”, che strozza e rende impossibile qualsiasi libertà di movimento. È il “nodo alla gola”, che sperimentiamo emotivamente nell’angoscia, una pena straziante, che i versi di Montale hanno saputo tradurre in immagini poetiche di rara potenza espressiva: “Spesso il male di vivere ho incontrato / era il rivo strozzato che gorgoglia / era l'incartocciarsi della foglia /riarsa, era il cavallo stramazzato.” Soltanto la fuga dal mondo, nell’indifferenza divina, quella predicata dalla filosofia di Plotino, può sciogliere il nodo di angoscia: “Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.”
Intanto, domandiamoci qual è il significato della “libertà” in un discorso di carattere filosofico. Il “discorso temerario” di Pareyson riprende l’espressione di Plotino (Enneadi, VI, 8, 7), quando il filosofo neoplatonico s’interroga su una possibile obiezione sulla libertà dell’Uno: “A meno che qualche discorso temerario, venuto da un’altra scuola, affermi che solo per caso l’Uno sia quello che è, e che non sia padrone di essere quello che è, e che sia ciò che è non per sé stesso, e che non possegga la libertà né il libero arbitrio, e che non dipenda da Lui il creare o il non creare ciò che è costretto a creare o non creare. Questo discorso, rude e imbarazzante, distrugge completamente la natura dell’atto volontario e libero e persino il concetto di libero arbitrio, come se le nostre parole siano state dette invano e siano puri suoni di cose che non esistono.”
Indubbiamente il discorso temerario di Pareyson si muove nella direzione opposta a quella prospettata da Plotino, ricavando dall’espressione soltanto il carattere della temerarietà ossia del rischio di sicuro fallimento, cui va incontro la sua tesi, contraria alla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, donde egli prende le mosse. Come l’Uno che “occupa il trono eccelso”, così anche il Dio di Pareyson è libertà assoluta e sovrana, quella libertà che ponendosi all’inizio come scelta del Bene, sconfigge ed esclude il Male, che pure evoca come possibilità eliminata da sempre nel divino, ma che si ripropone nella sfera dell’azione umana.
[N. d. B.]
"Il nodo alla gola" è il precedente di "Il trono eccelso" e del suo seguito "L'idea della libertà".
Posta un commento