UN LADRO INVISIBILE La cugina di Margherita era una ragazzetta minuta con i capelli neri, accompagnata da un giovane più alto di lei, un napoletano dall’aria disinvolta e dall’eloquio facile. Lei andò a salutare la cugina in cucina, noi restammo a parlottare in piedi sulle condizioni del tempo. I due giovani venivano dalla loro casa estiva di Terracina, e come disse lui, si chiamava Tommaso, avevano portato il sole. Infatti, aveva finito di piovere, il cielo si era schiarito ed era spuntato un raggio di sole, timido, tra le nubi. La tavola fu imbandita dentro casa, anche se l’ampio terrazzo, dove avevamo preso l’aperitivo, era il luogo programmato, ma il tempo era incerto. Stavo per prendere la parola, mi premeva di parlare dell’America, degli affari e dei dollari, volendo dare assicurazione all’alienista, che mi aveva preso in cura, di essere un buon pagatore per le sue parcelle. Come avevo già detto, io sono un tronco d’albero che si lascia portare via dalla corrente. Non avevo fatto in tempo a disdire il mio appuntamento con il medico, ma quello mi aveva già preso in carico. Ed ora? Parlava Tommaso, lui era medico, avevano finito da poco il viaggio di nozze in America con Claudia, eccolo là, diede uno sguardo tenero alla mogliettina, ed ora continuavano le vacanze al mare per il mese di luglio, poi ad agosto al lavoro. Continuò a parlare del viaggio: New York, Chicago, la California, il Messico, Acapulco, Montezuma, ed avrebbe continuato con la storia degli Aztechi, la civiltà Maya, l’occupazione spagnola, fino ad arrivare alla storia recente, se non fosse stato interrotto da uno squillo del telefonino della moglie. Tutti ascoltammo in silenzio: “Un cadavere?” La ragazza aveva chiesto dov’era. A Sezze, va bene adesso veniamo, chiuse. Si alzarono, stavamo ancora alle pietanze, Tommaso finì di bere il calice di vino: “Torniamo appena finito,” disse. La moglie prese la borsetta, frugò un attimo dentro, poi entrambi si allontanarono.
“È un medico legale?” domandai. “No, è specializzato in cardiologia,” precisò Franceschetti. “Claudia è il vicecapo della squadra mobile di Latina” disse Margherita. Ah, ecco! La ragazza era un commissario di polizia. Ma non erano in ferie? “Viene chiamata anche quando è in ferie” disse lei. Anche in America? Domandai, ridendo. “Ci hanno provato” disse lei. Non so perché, pensai al messaggio anonimo ricevuto sulla mia scadenza del 30 ottobre. Almeno, non vivevo nell’incertezza, avendo in questo senso un termine, ma l’imprevisto è dietro l’angolo, da un momento all’altro. “Momento to moment” dissi, e iniziai a parlare della mia America, quella dei Marulli, non quella dei turisti, quella che si regge sullo spirito del capitalismo, fondato su un’etica protestante d’impronta luterana e calvinista, come teorizzato da Max Weber sul suo saggio, che connette i due temi. “Considera che il tempo è denaro… Considera che il credito è denaro… Considera che il denaro ha una sua natura feconda e fruttuosa… Considera che secondo il proverbio, chi paga puntualmente è il padrone della borsa di tutti… Un uomo deve tenere conto delle azioni più irrilevanti che pure influenzano il suo credito… Chi spreca tempo per il valore di cinque scellini, perde cinque scellini, e tanto varrebbe che gettasse cinque scellini nel mare. Chi perde cinque scellini, perde non solo tale somma, ma tutto ciò che avrebbe potuto guadagnare, impiegandola nella sua attività, il che ammonta a una cifra veramente rilevante, se si tratta di un giovane che giunge a tarda età.” Chi è che ci fa questa predica? La mia domanda, che era quella desunta dal testo di Weber, la posi in modo retorico. È Beniamin Franklin, rispose a sorpresa Franceschetti. Ecco! L’alienista non poteva non conoscere il saggio di Weber: “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.” Quindi aggiunse: “È la predica che Ferdinand Kürnberger, lo scrittore austriaco, un rivoluzionario del 1848, schernisce come la pretesa della professione di fede degli Yankees, in quella sua immagine della civiltà americana che sprizza intelligenza e veleno. Ma Weber va oltre nella sua disanima.” Avevamo appena finito di pranzare, quando a sorpresa si ripresentarono gli sposini. C’era stato un equivoco: si trattava di un morto nel giardino di casa, un anziano cardiopatico colpito da infarto. I giovani coniugi si erano seduti nuovamente a tavola, per concludere il loro pranzo, così inopinatamente interrotto. Noi facevamo loro compagnia sorseggiando il caffè. La morte può arrivare di nascosto come un ladro, disse il medico, facendomi venire in mente un romanzo che avevo letto di recente: “Morte di un professore di zoologia”. “Sì, è vero” dissi “un ladro invisibile.”
E raccontai in sintesi il passo del libro, che poi andai a rileggere. Sono le battute di un dialogo tra due protagonisti di un mimo, che vivono il loro racconto, ambientato nell’occasione a Parigi: “Secondo il decreto della Prefettura di polizia i cadaveri di persone non identificate vengono ricoverati qui. Ed invero, se risaliamo all’origine del termine morgue, troviamo il verbo “morguer”, che significa dévisager, guardare in faccia, secondo la procedura eseguita dai guardiani della prigione di Châtelet incaricati di identificare all’arrivo i detenuti, onde riconoscerli in caso di tentativo d’evasione. Nel Settecento, i cadaveri rinvenuti in strada venivano raccolti ed ammucchiati nei sotterranei, sempre della prigione di Châtelet. Lì si presentavano familiari ed amici per il riconoscimento, alla luce di una lanterna portata all’altezza del viso dei cadaveri. Nell’Ottocento, la morgue viene trasferita alla île de la Cité, e i cadaveri, dopo essere stati composti e rivestiti, venivano messi in esposizione dietro un vetro, alla vista della popolazione, che veniva a sfilare lì davanti, onde tentarne una identificazione o anche per semplice svago. Hai capito, Decio Livio? Mi senti? Decio! – Eh? – Hai finito? – Sì, ora esco. - Ah, eccoti! Allora, apri bene le orecchie, Decio Livio: la tecnica di esporre i cadaveri in pubblico rendeva sovente possibile alle autorità l’arresto dei criminali, che discretamente venivano ad osservare i loro “trofei”. – Traseo Nera, ma chi ti ha raccontato tutte queste cose? – Sono notizie facilmente reperibili su internet. – Ah! – Entriamo, dunque, nella camera mortuaria ad osservare il nostro “trofeo” di caccia: Palleschi. – Sei sicuro, Nera, che oltre alla salma, dentro, non vi sia qualcun altro ad attenderci? – Sicurissimo. – Ed allora sicuramente ci sarà qualcun altro. – Sì, un’entità impalpabile, che non si vede. – Come? – Decio, quando hai compiuto la traversata della città addormentata, volando tra anime di tenebra vestite, come tu stesso ti sei espresso, nel nostro incontro ai Campi Elisi, anticipando il tuo itinerario nella notte profonda, chi era con te? –Nessuno mi seguiva, Nera. – Sei sicuro, Livio? – Sicurissimo. – Ed allora qualcuno certamente ti seguiva, quello stesso che ora ci attende, oltre la porta della camera mortuaria. – Chi, dunque? – Entriamo. – Oh! – Hai visto? – Sì, ma avviciniamoci al tavolo di marmo, Nera, per potere meglio osservare la salma ivi distesa, illuminata dalla bianca luce della luna, che attraverso il vetro della finestra, schiarisce il buio. – Riconosci il suo volto, ora, Decio Livio? – Sì, è lui, Palleschi, il professore di zoologia del liceo Darwin: la corporatura robusta, il volto un tempo pieno, le gote arrossate ora pallide, il bianco striato di grigio cenere della capigliatura crespa, la barba canuta intorno al mento, i folti baffi argentei. – Qui giunto cadavere. – Chi l’assassino, Nera? – Il medico legale, che ha compiuto l’autopsia del cadavere, ne ha osservato a lungo il cuore, estratto dal petto, rigirandolo perplesso tra le sue professionali mani di esperto chirurgo. – Ed il cuore ha parlato? – Sì, ha rivelato il nome del suo assassino.” Ero arrivato alla fine del mio racconto, mancava il sigillo finale. E il verdetto non lo emise il medico legale del racconto, ma Tommaso, il cardiologo, che a tavola era comunque rimasto ad ascoltarmi attentamente assieme alla moglie: “Il killer silenzioso” disse. Un’istantanea, lo scatto di una fotografia: “Un click” disse Claudia, il commissario di polizia. Nessuno di noi commentò.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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UN LADRO INVISIBILE
La cugina di Margherita era una ragazzetta minuta con i capelli neri, accompagnata da un giovane più alto di lei, un napoletano dall’aria disinvolta e dall’eloquio facile. Lei andò a salutare la cugina in cucina, noi restammo a parlottare in piedi sulle condizioni del tempo. I due giovani venivano dalla loro casa estiva di Terracina, e come disse lui, si chiamava Tommaso, avevano portato il sole. Infatti, aveva finito di piovere, il cielo si era schiarito ed era spuntato un raggio di sole, timido, tra le nubi.
La tavola fu imbandita dentro casa, anche se l’ampio terrazzo, dove avevamo preso l’aperitivo, era il luogo programmato, ma il tempo era incerto. Stavo per prendere la parola, mi premeva di parlare dell’America, degli affari e dei dollari, volendo dare assicurazione all’alienista, che mi aveva preso in cura, di essere un buon pagatore per le sue parcelle. Come avevo già detto, io sono un tronco d’albero che si lascia portare via dalla corrente. Non avevo fatto in tempo a disdire il mio appuntamento con il medico, ma quello mi aveva già preso in carico. Ed ora? Parlava Tommaso, lui era medico, avevano finito da poco il viaggio di nozze in America con Claudia, eccolo là, diede uno sguardo tenero alla mogliettina, ed ora continuavano le vacanze al mare per il mese di luglio, poi ad agosto al lavoro. Continuò a parlare del viaggio: New York, Chicago, la California, il Messico, Acapulco, Montezuma, ed avrebbe continuato con la storia degli Aztechi, la civiltà Maya, l’occupazione spagnola, fino ad arrivare alla storia recente, se non fosse stato interrotto da uno squillo del telefonino della moglie. Tutti ascoltammo in silenzio: “Un cadavere?” La ragazza aveva chiesto dov’era. A Sezze, va bene adesso veniamo, chiuse. Si alzarono, stavamo ancora alle pietanze, Tommaso finì di bere il calice di vino: “Torniamo appena finito,” disse. La moglie prese la borsetta, frugò un attimo dentro, poi entrambi si allontanarono.
“È un medico legale?” domandai. “No, è specializzato in cardiologia,” precisò Franceschetti. “Claudia è il vicecapo della squadra mobile di Latina” disse Margherita. Ah, ecco! La ragazza era un commissario di polizia. Ma non erano in ferie? “Viene chiamata anche quando è in ferie” disse lei. Anche in America? Domandai, ridendo. “Ci hanno provato” disse lei. Non so perché, pensai al messaggio anonimo ricevuto sulla mia scadenza del 30 ottobre. Almeno, non vivevo nell’incertezza, avendo in questo senso un termine, ma l’imprevisto è dietro l’angolo, da un momento all’altro. “Momento to moment” dissi, e iniziai a parlare della mia America, quella dei Marulli, non quella dei turisti, quella che si regge sullo spirito del capitalismo, fondato su un’etica protestante d’impronta luterana e calvinista, come teorizzato da Max Weber sul suo saggio, che connette i due temi. “Considera che il tempo è denaro… Considera che il credito è denaro… Considera che il denaro ha una sua natura feconda e fruttuosa… Considera che secondo il proverbio, chi paga puntualmente è il padrone della borsa di tutti… Un uomo deve tenere conto delle azioni più irrilevanti che pure influenzano il suo credito… Chi spreca tempo per il valore di cinque scellini, perde cinque scellini, e tanto varrebbe che gettasse cinque scellini nel mare. Chi perde cinque scellini, perde non solo tale somma, ma tutto ciò che avrebbe potuto guadagnare, impiegandola nella sua attività, il che ammonta a una cifra veramente rilevante, se si tratta di un giovane che giunge a tarda età.” Chi è che ci fa questa predica? La mia domanda, che era quella desunta dal testo di Weber, la posi in modo retorico. È Beniamin Franklin, rispose a sorpresa Franceschetti. Ecco! L’alienista non poteva non conoscere il saggio di Weber: “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.” Quindi aggiunse: “È la predica che Ferdinand Kürnberger, lo scrittore austriaco, un rivoluzionario del 1848, schernisce come la pretesa della professione di fede degli Yankees, in quella sua immagine della civiltà americana che sprizza intelligenza e veleno. Ma Weber va oltre nella sua disanima.”
Avevamo appena finito di pranzare, quando a sorpresa si ripresentarono gli sposini. C’era stato un equivoco: si trattava di un morto nel giardino di casa, un anziano cardiopatico colpito da infarto. I giovani coniugi si erano seduti nuovamente a tavola, per concludere il loro pranzo, così inopinatamente interrotto. Noi facevamo loro compagnia sorseggiando il caffè. La morte può arrivare di nascosto come un ladro, disse il medico, facendomi venire in mente un romanzo che avevo letto di recente: “Morte di un professore di zoologia”. “Sì, è vero” dissi “un ladro invisibile.”
E raccontai in sintesi il passo del libro, che poi andai a rileggere. Sono le battute di un dialogo tra due protagonisti di un mimo, che vivono il loro racconto, ambientato nell’occasione a Parigi: “Secondo il decreto della Prefettura di polizia i cadaveri di persone non identificate vengono ricoverati qui. Ed invero, se risaliamo all’origine del termine morgue, troviamo il verbo “morguer”, che significa dévisager, guardare in faccia, secondo la procedura eseguita dai guardiani della prigione di Châtelet incaricati di identificare all’arrivo i detenuti, onde riconoscerli in caso di tentativo d’evasione. Nel Settecento, i cadaveri rinvenuti in strada venivano raccolti ed ammucchiati nei sotterranei, sempre della prigione di Châtelet. Lì si presentavano familiari ed amici per il riconoscimento, alla luce di una lanterna portata all’altezza del viso dei cadaveri. Nell’Ottocento, la morgue viene trasferita alla île de la Cité, e i cadaveri, dopo essere stati composti e rivestiti, venivano messi in esposizione dietro un vetro, alla vista della popolazione, che veniva a sfilare lì davanti, onde tentarne una identificazione o anche per semplice svago. Hai capito, Decio Livio? Mi senti? Decio! – Eh? – Hai finito? – Sì, ora esco. - Ah, eccoti! Allora, apri bene le orecchie, Decio Livio: la tecnica di esporre i cadaveri in pubblico rendeva sovente possibile alle autorità l’arresto dei criminali, che discretamente venivano ad osservare i loro “trofei”. – Traseo Nera, ma chi ti ha raccontato tutte queste cose? – Sono notizie facilmente reperibili su internet. – Ah! – Entriamo, dunque, nella camera mortuaria ad osservare il nostro “trofeo” di caccia: Palleschi. – Sei sicuro, Nera, che oltre alla salma, dentro, non vi sia qualcun altro ad attenderci? – Sicurissimo. – Ed allora sicuramente ci sarà qualcun altro. – Sì, un’entità impalpabile, che non si vede. – Come? – Decio, quando hai compiuto la traversata della città addormentata, volando tra anime di tenebra vestite, come tu stesso ti sei espresso, nel nostro incontro ai Campi Elisi, anticipando il tuo itinerario nella notte profonda, chi era con te? –Nessuno mi seguiva, Nera. – Sei sicuro, Livio? – Sicurissimo. – Ed allora qualcuno certamente ti seguiva, quello stesso che ora ci attende, oltre la porta della camera mortuaria. – Chi, dunque? – Entriamo. – Oh! – Hai visto? – Sì, ma avviciniamoci al tavolo di marmo, Nera, per potere meglio osservare la salma ivi distesa, illuminata dalla bianca luce della luna, che attraverso il vetro della finestra, schiarisce il buio. – Riconosci il suo volto, ora, Decio Livio? – Sì, è lui, Palleschi, il professore di zoologia del liceo Darwin: la corporatura robusta, il volto un tempo pieno, le gote arrossate ora pallide, il bianco striato di grigio cenere della capigliatura crespa, la barba canuta intorno al mento, i folti baffi argentei. – Qui giunto cadavere. – Chi l’assassino, Nera? – Il medico legale, che ha compiuto l’autopsia del cadavere, ne ha osservato a lungo il cuore, estratto dal petto, rigirandolo perplesso tra le sue professionali mani di esperto chirurgo. – Ed il cuore ha parlato? – Sì, ha rivelato il nome del suo assassino.” Ero arrivato alla fine del mio racconto, mancava il sigillo finale. E il verdetto non lo emise il medico legale del racconto, ma Tommaso, il cardiologo, che a tavola era comunque rimasto ad ascoltarmi attentamente assieme alla moglie: “Il killer silenzioso” disse. Un’istantanea, lo scatto di una fotografia: “Un click” disse Claudia, il commissario di polizia. Nessuno di noi commentò.
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