[N. d. B.] Questo post è destinato a permanere tre giorni (tre giorni soltanto e non fino al “terzo giorno”) in testa alla Hit Parade di questo Blog, poi finirà in coda al post “Il libro di Attanasio”, dove è destino che finiranno anche gli altri racconti della stagione. Quale stagione? Questa stagione, e non intervenire più. Va bene. Pertanto, per i prossimi tre giorni, forse, dico forse, non verranno pubblicati i “postini”, quei mini-post semi-demenziali, che non sono tanto mini, senza quei giochini di lettere, ma con la “fissa” dell’aritmetica CMOAS, o anche aritmetica psichiatrica (il termine “psichiatrica” sta per “demenziale”) e altre amenità, come dire testi estemporanei di autori preferiti, principalmente Platone, Nietzsche e da ultimo la variante Severino. Poi si vedrà. Ciao.
AI CONFINI DEL TEMPO La linea lontana che separa il tempo dal presente sfuggente della nostra vita è l’orizzonte sfumato dove vediamo apparire figure impalpabili e fugaci, sospese tra realtà e immaginazione, evanescenti nella loro luce irreale. Il commento a un mio libro, “Des jardins égarés”, è firmato da Liliana Mavelean. È una donna realmente esistita oppure è un nome di fantasia, dietro cui si cela l’autore stesso del testo o altra persona? E se vera, Liliana dov’è? “Est-elle disparue ou bien encor vivante?” È scomparsa o è ancora viva? È una figura femminile visibile su quella linea dell’orizzonte del tempo, dove le ombre cangianti di personaggi inesistenti vengono investiti dalla luce della realtà proveniente da esistenze reali nel loro vissuto sulla scena del mondo Ma noi abbiamo un nome: a chi è appartenuto questo nome? Il nome evoca fantasmi. “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.” Che cosa ci dice questa sentenza latina, ricavata da un verso del “De Contemptu Mundi”, opera attribuita al monaco benedettino del XII secolo, Bernardo di Cluny, e posta da Umberto Eco come sigillo al suo romanzo più fortunato, “Il nome della rosa”? La frase originaria suona: “Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus.” Tutta la storia e gli splendori di un tempo, che si racchiudono nella parola “Roma”, sono svaniti, ed ora ci resta di quelle antiche vestigia soltanto il nome. La “rosa” di antiche storie medievali, come anche di quelle cavalleresche, “i cavalier, l’arme, gli amori” sono scomparsi. Della “rosa” di questi passati avvenimenti non resta altro che il “nome”. Ma dove sono finiti? Come le dissolte nuvole della tempesta sono spariti sul filo dell’acqua a Brest (au fil de l'eau sur Brest), dove non c’è più nulla (dont il ne reste rien). E Liliana e i suoi giardini? Dove sono andati? Un souvenir. “C'est une vie qui n'est pas une vie / que d'être un jardin égaré / qui n'existe qu'en souvenir / et ne sait plus où fleurir.” Claude Roy, À la lisière du temps. “La vita non è altra vita / che un giardino smarrito / una vita di sola memoria / il suo fiorire finito in oblio.” Ai confini del tempo.
IMMAGINE Finisterre (o Fisterra) è un promontorio in Galizia, Spagna, il cui nome deriva dal latino Finis Terrae e significa "fine del mondo". Storicamente, era considerato il punto più occidentale del mondo conosciuto, un luogo di grande importanza mistica e religiosa che attrae ancora oggi pellegrini, turisti e viaggiatori per il suo paesaggio selvaggio e la sua atmosfera unica. Significato e storia – Finis Terrae, era considerato l'estremo limite del mondo conosciuto, dove il sole tramontava nell'oceano. Importanza mistica: Per Celti e Romani, era un luogo sacro legato al tramonto e all'aldilà. Pellegrinaggio: Nel Medioevo, divenne una meta cruciale per i pellegrini del Cammino di Santiago, che lo consideravano il vero punto d'arrivo del loro viaggio. Riti e tradizioni: I pellegrini compiono ancora oggi riti come bruciare i vestiti o lasciare una pietra al "Chilometro zero" vicino al faro per segnare la fine del pellegrinaggio. Cosa vedere a Capo Finisterre – Il faro: La struttura iconica del promontorio, che offre una vista spettacolare sull'Atlantico. Costa da Morte: La zona è famosa per la sua natura selvaggia, le scogliere a picco e le acque turbolente che hanno plasmato la cultura locale. Mercato del pesce: La Lonja de Finisterre è un luogo vivace dove assistere all'asta del pesce fresco del giorno. Panorami: In giornate limpide, è possibile ammirare le Isole Cíes e il Parco Nazionale delle Isole Atlantiche.
LA DOLCE BEFANA Tu sei mai andato a Finis Terrae? No. Perché? Per non incontrare uno come te. Soltanto per questo motivo o mi nascondi altro? Ti nascondo altro. Che altro? L'indesiderato incontro con una befana di mia conoscenza. Chi, la dolce befana, per caso? Sì, lei. La morte o il suo simbolo? Il simbolo. Non ho capito. Nemmeno io. Fine.
1. Nelle acque gelide della corrente È la visione del sublime, l’oltre la linea di confine di ogni orizzonte, a rivelare il senso dell’impaurito vuoto dell’esistenza, la sospensione nel nulla del nostro essere, che la ragione rincorrendo il quotidiano continuamente tiene celata. Ricordo molto bene, quando la situazione emotiva, vissuta una decina d’anni fa circa, mi si ripropose davanti, nitida, pura, vuota di quel suo carico di angoscia di allora. Rividi le lastre di ghiaccio scivolare nella corrente della Neva, un aprile di San Pietroburgo. Erano le stesse lastre di ghiaccio che Borges vide a Cambridge, a nord di Boston: “Saranno state le dieci del mattino. Io ero seduto su una panchina, davanti al fiume Charles… L’acqua grigia trasportava lunghi pezzi di ghiaccio. Inevitabilmente il fiume mi fece pensare al tempo.” È una visione che spinge l’autore ad un colloquio con sé stesso, “L’altro” di “Il libro di sabbia”. L’immagine delle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente dell’acqua parlano di un tempo trascorso e del suo continuo andare, ed io nel risalire all’indietro allo scorrere del grigio gelido del fiume, rividi Elena Zurlo.
“Dove hai parcheggiato il bolide?” ha domandato la donna con il vestito rosso e la giacca in pelle nera. “Tra quelle due macchine, a metà sul marciapiede,” ha risposto l’amico. “Alla barbara!” ha commentato lei, prendendo il compagno allegramente sotto braccio e avviandosi con lui a rilevare il bolide, una Punto color rosso “Ferrari”. “Ti ho vista che mangiavi il pinzimonio Assieme a quel tuo amico in osteria È stato il giorno dopo il matrimonio Mentre tornavo dalla ferrovia.” Mi ripetevo i versi della poesia, scoperti sulla rivista letteraria on-line. Il poeta si firmava con uno pseudonimo vagamento greco “Leopis”, Leonardo Pisicchio, come lo avevo facilmente decrittato, avendone riconosciuto lo stile, lo stesso incipit di un’altra poesia: “Ti ho vista che dormivi in ascensore”. La musa era Astrid, se ben ricordavo. Stavo aspettando che Elena uscisse dalla banca, dove era entrata per un’operazione allo sportello. Ero in piedi, a lato dell’edicola dei giornali, da dove avevo seguito la scenetta del bolide rosso, parcheggiato alla barbara, in via Baldovinetti. E di quale matrimonio si trattava? Non certo di quello tra Astrid e Leopis. Vi pare possibile che il poeta veda la moglie assieme ad un amico in osteria, mentre mangia o meglio assaggia il pinzimonio, proprio il giorno dopo il matrimonio? Tutto è possibile, certo! Magari avevano dovuto rinviare il viaggio di nozze, per motivi legati alle loro attività professionali. Quindi, dopo il rito e la festa, il giorno seguente, erano ritornati ognuno per proprio conto ai rispettivi posti di lavoro. Per la pausa pranzo, lei era andata con un collega in qualche tavola calda, che il poeta forse per esigenza di rima aveva trasformato in osteria. O no, con quel termine, appositamente scelto, forse Leopis intendeva manifestare tutta la sua indignazione per il comportamento di Astrid, sorpresa con quel suo amico in una bettola, accanto alla stazione ferroviaria, indipendentemente dal matrimonio, non si sa bene da chi contratto. È gelosia quella del poeta o collera? O forse è innamoramento? “In quegli anni, ti ricordi, Astrid?” recitava più avanti, con accento di nostalgia. Sorridevo fra me e ho sentito un viso che sfiorava il mio. Mi sono voltato e ho visto Elena che ritraeva il suo viso con espressione divertita. “Mi sembrava che stessi ridendo” ha detto.
Siamo andati a sederci a un tavolino del caffè lì accanto. Lei era come presa dai suoi pensieri, ogni tanto si toccava l’anello, una fedina, che io le avevo regalato. “Allora dobbiamo decidere?” Ho detto. “Che cosa?” mi ha domandato vivamente interessata a quello che stavo per dire. “La data delle nozze,” ho detto. È saltata su dalla sedia, di slancio mi ha abbracciato e baciato e subito dopo si è ricomposta, ritornando a sedersi dalla parte sua. Ero un po’ in imbarazzo e ho continuato a guardare in avanti sulla strada, per vedere se i passanti che passavano ci avessero segnato a dito, anche se quel bacio improvviso non era avvenuto contro le porte della notte (“contre le portes de la nuit”) essendo mattina avanzata, quasi l’ora dell’aperitivo. “I ragazzi che si amano” … io sono più vicino ai quaranta che ai trenta, Elena ha cinque anni e mezzo meno di me… “ma i ragazzi che si amano non ci sono per nessuno… sono altrove… nell'abbagliante splendore del loro primo amore.” Era il caso mio e di Elena? Quando ci siamo alzati e siamo andati via, lei mi ha preso felice sotto il braccio, con la stessa gioiosa mossa della donna che aveva l’amico con la “Ferrari”. A casa, dopo pranzo, sono sceso nel parco, nel silenzio dell’ora pomeridiana, il sole filtrava attraverso il fogliame dei rami, sono rimasto così a guardare quelle schegge abbaglianti di luce. “Ci vediamo domani,” mi aveva detto Elena, scendendo dalla macchina, quando l’avevo accompagnata sotto casa sua. Aspettavo il giorno dopo nell’immobilità e nella quiete luminosa di quel pomeriggio. All’indomani ero lì, seduto al caffè di via Baldovinetti del giorno prima, in attesa di una sua chiamata. Avevo telefonato tre volte, ma non aveva risposto, probabilmente aveva da fare. O forse era offesa, perché non l’avevo richiamata nel pomeriggio o in serata? Ma no! In verità, ci avevo pensato, ma ero stato trattenuto dal desiderio cosciente di volerla immediatamente vedere, invece di parlare. Non avevamo molto altro da dirci, era tempo di agire. Sorrisi tra me. Fissavo il cartellone pubblicitario di fronte, ma non mettevo a fuoco l’immagine. Infine, mi riscossi, avrei provato a chiamare di nuovo, presi il telefonino, che in quel momento cominciò a squillare, quasi aspettasse solo quel mio gesto di contatto. “Sono Elena Zurlo,” disse la voce di Elena. “Com’è? Ti riconosco, sai?” dissi d’istinto, in tono scherzoso; ma il silenzio che seguì al mio interrogativo mi confermò un sottile senso subconscio d’incertezza suggerito dal suo accento serio. “Elena!” dissi. Non rispose. Io insistetti, pronunciando il suo nome. “È stata una disgrazia!” disse con tono grave, profondo, una voce che non riconoscevo. “Dove sei?” domandai inquieto. Non rispose. “Elena!” Seguì un silenzio e dopo un po’ di tempo il segnale della comunicazione interrotta. Tutto intorno a me divenne improvvisamente grigio e scuro.
2.Una combinazione del pensiero Rivedo le lastre di ghiaccio alla deriva nelle gelide acque della Neva e mi raggiunge il ricordo di Elena Zurlo, divenuta oggi una combinazione del pensiero. È come se tutta la vita con lei non vissuta formasse un vuoto ideale attorno alla sua figura, dando risalto alla solitudine della sua immagine. In quel tempo feci un sogno in bianco e nero, nella desolazione di una vallata spoglia, tra cumuli di cenere, soltanto un’anatra si spostava con lenti passi palmipedi ai bordi di una pozzanghera. “Aspettami là che presto ti raggiungerò in quella valle vuota”. Mi sono svegliato suggestionato da queste parole, che ricalcavano quelle simili, poste come epigrafe a un racconto funerario di Edgar Allan Poe, tratte da una lirica di Henry King, vescovo di Chichester, scritta per le esequie della moglie defunta. “Dormi amor mio nel tuo freddo letto e nessuno ti disturbi! La mia ultima buonanotte! Non ti sveglierai finché la tua stessa sorte non avrò anch’io raggiunta, finché l’età, la malattia o il dolore non avranno congiunto il mio corpo a quella polvere da lui tanto amata; e avranno colmato la stanza che il mio cuore conserva nella vuota tua tomba. Aspettami là; io non mancherò di raggiungerti in quella valle vuota. E non preoccuparti del mio ritardo; sono già sulla strada, e ti seguo con tutta la rapidità che desiderio e dolore suscitano in me.” Era il vuoto lasciato da Elena Zurlo, la sua scomparsa repentina dalla mia vita suscitava quel lutto improprio nella mia anima. Avevo lasciato alle mie spalle tutte le scene del mondo, perdendo la vita del giorno. Camminavo su quale strada? In quale “sublime” (sub-limen) nulla del grande infinito spazio? Nel gelo del nord, il freddo dello spirito.
Poi cominciai a ritrovarmi e fu come un risveglio. Accadde un giorno, nella sala da pranzo dell’aeroporto di una città del Veneto, non ricordo bene se Venezia o Treviso. Un uomo grasso sulla cinquantina, stempiato, con gli occhiali, l’espressione ridente, stava seduto al tavolino ad ascoltare un giovane filosofo seduto sulla sedia accanto a lui, che con leggero ghigno gli domandò: “Lo sapevi che era morto di colera?” L’altro si scostò e lo guardò: “Chi?” interrogò, l’espressione seria, anche se caratterialmente atteggiata al riso. “Hegel, nella sua Berlino, correva l’anno 1831, era il 14 novembre.” L’uomo grasso dall’espressione ridente scoppiò a ridere, una risata sincera. Rise anche il giovane filosofo, seppure in maniera più composta, soddisfatto della sua battuta, che comunque non era stata buttata lì a caso. Anche a me venne da sorridere, era come un risveglio. Il giovane filosofo continuò: “Nel 1967, accadde oggi anche un altro evento di rilievo, che ti riguarda da vicino, ingegnere, voglio dirti può interessarti.” L’ingegnere assunse un’aria attenta, l’espressione tipica di apparente riso: “Quale?” domandò. “In California, uno sconosciuto ingegnere fisico californiano, Theodore Harold Maiman, brevettò il primo LASER, a conclusione dei suoi esperimenti sull’amplificazione della luce mediante emissione stimolata di radiazioni, seguendo la teoria sviluppata cinquant’anni prima da Einstein.”
L’ingegnere sorrise ironico. Mi sono alzato dal tavolino accanto, e attraversata la sala, sono andato alla tavola calda. Alla cassa c’era sempre la stessa ragazza grassottella, a cui avevo fatto la prima ordinazione. Chiesi un altro trancio di pizza e un’altra birra, avevo l’aria distesa. A differenza della prima volta, invece di rispondere in perfetto italiano, cominciò a parlare tra sé in dialetto, credo calabrese, servendomi la seconda porzione. Avevo un po’ capito quello che lei aveva detto, traducendolo a modo mio: “Se mi avessi ascoltato la prima volta, quando avevo proposto un menù maggiorato, adesso avresti risparmiato.” Sorrisi con gratitudine, mi rispose con un sorriso professionale, pieno di tutti gli enigmi, che hanno tutti i sorrisi femminili rivolti ad un uomo. Mentre riattraversavo la sala, diretto allo stesso tavolino, quello vicino al filosofo e all’ingegnere, si accostarono due giovani che camminavano nella mia stessa direzione. Per evitare l’impaccio di una collisione rallentai, andavano proprio dove andavo io. Vidi che si erano fermati in piedi davanti ai commensali miei vicini d’occasione. Approfittai, per riprendere il mio posto e continuare a mangiare, sempre prestando attenzione a loro, m’interessava di nuovo il mondo, il prossimo ossia coloro che ci sono vicini, quelli che io avevo ignorato nel mio lungo viaggio verso un luogo indistinto e lontano, dove si smarriva e sbiadiva una figura di sogno. La ragazza stringeva l’involto con la pizza sbocconcellata nella mano sinistra, il giovane stava più indietro a mani vuote. “Papà, io sto con Franco,” disse la figlia e accennò all’amico. L’uomo s’irrigidì e lanciò un’occhiata al giovane, poi si voltò a destra dall’altra parte, quindi guardò la figlia, appoggiando le mani ai braccioli della sedia. “Va bene, noi andiamo, ciao, papà.” Il giovane gli indirizzò un timido cenno di saluto col capo, poi i due ragazzi si allontanarono insieme. Il padre si alzò, si guardò intorno, poi tornò a sedersi e fissò un punto indistinto davanti a sé. L’ufficializzazione dei rapporti tra i due ragazzi lo aveva colto impreparato, si sentiva responsabilizzato a fare qualcosa, programmare spese impreviste, forse. Il giovane filosofo lo guardava con aria di attesa, aveva alzato una mano, un gesto rimasto a mezz’aria, quasi a registrare un accaduto per lui banale. Ho definito il giovane un filosofo, perché era un volto televisivo conosciuto, un professore che aveva pubblicato diverse monografie e studi. Si definiva un hegeliano di sinistra e spiegava che la sua corrente, quella di Feurbach, Marx e Stirner, tanto per intenderci, si era disfatta dell’intrusione teologica nella metafisica hegeliana, attenendosi soltanto all’errare infinito del pensiero finito, un pensiero che si dà nel tempo come produzione di realtà sociale, economica, tecnica, come dire il materialismo storico. Guardavo l’ingegnere, l’aria smarrita, quando i due al tavolino si alzarono, sostarono un attimo in piedi, poi andarono via.
Il giorno successivo alla telefonata di Elena Zurlo, quella del 14 novembre, mi recai automaticamente sotto casa sua e le citofonai. Ero leggermente stordito, perché non avevo dormito tutta la notte, stavo lì imbambolato, aspettando non so che cosa. Un uomo uscì dal portone, mi trattenni a stento dal chiedere se conoscesse Elena. Sapevo dove lavorava, una società privata, che riceveva commissioni dall’Istituto di Statistica, decisi però di non andarvi quella mattina stessa. Una settimana dopo, ero all’ingresso della porta a vetri. Suonai il campanello, vedevo l’impiegata che premette il bottone e il vetro si mosse aprendomi il passaggio. Chiesi di Elena Zurlo. “Aspetti” disse lei, indicandomi un divanetto rosso. Rimasi in piedi ad aspettare, mentre la ragazza s’inoltrò nel corridoio. Poco dopo apparve un uomo sulla quarantina, alto, i capelli ricci biondastri, la pancia del sedentario. Mi squadrò. “Sono un amico di Elena,” dissi. “Ah!” Rimasi in silenzio. “La signora Zurlo si è assentata una settimana fa, non abbiamo avuto notizie da lei, ma sappiamo della disgrazia.” Ecco, la disgrazia! L’uomo, il direttore di quella società, poteva illuminarmi. Continuava ad osservarmi, non era possibile che io, l’amico di Elena, non sapessi. Ero sulle spine. “La notizia era in cronaca su tutti i giornali” disse. Non risposi. “Per legge, ha diritto a un congedo di trenta giorni, lutto familiare.” Non sapevo che cosa dire, quindi non insistetti. “Mi scusi, non volevo disturbarvi.” L’uomo mi guardò, sottovalutavo il suo grado di comprensione umana: “Vogliamo esprimere ad Elena il nostro cordoglio, a nome mio e di tutti i colleghi.” Dissi: “Sì, senz’altro.” Mi diede una forte stretta di mano, ringraziai e uscii. Sapevo che a Roma, lei viveva da sola, una sorella in Svizzera, alcuni cugini sparsi in Italia e altrove, i genitori defunti. Andai a scorrere le cronache on-line dei giornali con la data successiva alla scomparsa di Elena. Trovai un incidente stradale con la morte di due anziani coniugi, alcuni casi giudiziari datati in precedenza e il ritrovamento di un giovane morto per un colpo d’arma da fuoco, apparentemente un suicidio, in una stanza d’albergo di una località turistica del litorale laziale, Sabaudia. Si chiamava Stefano Principe, un diciottenne. Si vedeva la fotografia del viso di un adolescente con gli occhiali, una foto tessera. Sul posto era sopraggiunta la madre, a fatica erano riusciti a staccarla dalla salma del figlio. “Elena Zurlo”, il dolore della sua voce, mi aveva rivelato l’altra sua identità, la penombra della sua vita, divenuta tragico incubo. Non l’ho più vista né saputo più nulla di lei. Mi è rimasta soltanto un’immagine e un nome, un’ ultima combinazione del pensiero.
“O God, I could bounded in a nutshell and count myself a King of infinite space, were it not that I have bad dreams.” “Signore! potrei vivere nel guscio di una noce e credermi Re di uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni.” Shakespeare, "Amleto"
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
8 commenti:
[N. d. B.]
Questo post è destinato a permanere tre giorni (tre giorni soltanto e non fino al “terzo giorno”) in testa alla Hit Parade di questo Blog, poi finirà in coda al post “Il libro di Attanasio”, dove è destino che finiranno anche gli altri racconti della stagione. Quale stagione? Questa stagione, e non intervenire più. Va bene. Pertanto, per i prossimi tre giorni, forse, dico forse, non verranno pubblicati i “postini”, quei mini-post semi-demenziali, che non sono tanto mini, senza quei giochini di lettere, ma con la “fissa” dell’aritmetica CMOAS, o anche aritmetica psichiatrica (il termine “psichiatrica” sta per “demenziale”) e altre amenità, come dire testi estemporanei di autori preferiti, principalmente Platone, Nietzsche e da ultimo la variante Severino. Poi si vedrà. Ciao.
AI CONFINI DEL TEMPO
La linea lontana che separa il tempo dal presente sfuggente della nostra vita è l’orizzonte sfumato dove vediamo apparire figure impalpabili e fugaci, sospese tra realtà e immaginazione, evanescenti nella loro luce irreale.
Il commento a un mio libro, “Des jardins égarés”, è firmato da Liliana Mavelean. È una donna realmente esistita oppure è un nome di fantasia, dietro cui si cela l’autore stesso del testo o altra persona? E se vera, Liliana dov’è? “Est-elle disparue ou bien encor vivante?” È scomparsa o è ancora viva? È una figura femminile visibile su quella linea dell’orizzonte del tempo, dove le ombre cangianti di personaggi inesistenti vengono investiti dalla luce della realtà proveniente da esistenze reali nel loro vissuto sulla scena del mondo Ma noi abbiamo un nome: a chi è appartenuto questo nome? Il nome evoca fantasmi. “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.” Che cosa ci dice questa sentenza latina, ricavata da un verso del “De Contemptu Mundi”, opera attribuita al monaco benedettino del XII secolo, Bernardo di Cluny, e posta da Umberto Eco come sigillo al suo romanzo più fortunato, “Il nome della rosa”? La frase originaria suona: “Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus.” Tutta la storia e gli splendori di un tempo, che si racchiudono nella parola “Roma”, sono svaniti, ed ora ci resta di quelle antiche vestigia soltanto il nome. La “rosa” di antiche storie medievali, come anche di quelle cavalleresche, “i cavalier, l’arme, gli amori” sono scomparsi. Della “rosa” di questi passati avvenimenti non resta altro che il “nome”. Ma dove sono finiti? Come le dissolte nuvole della tempesta sono spariti sul filo dell’acqua a Brest (au fil de l'eau sur Brest), dove non c’è più nulla (dont il ne reste rien). E Liliana e i suoi giardini? Dove sono andati? Un souvenir. “C'est une vie qui n'est pas une vie / que d'être un jardin égaré / qui n'existe qu'en souvenir / et ne sait plus où fleurir.” Claude Roy, À la lisière du temps. “La vita non è altra vita / che un giardino smarrito / una vita di sola memoria / il suo fiorire finito in oblio.” Ai confini del tempo.
IMMAGINE
Finisterre (o Fisterra) è un promontorio in Galizia, Spagna, il cui nome deriva dal latino Finis Terrae e significa "fine del mondo". Storicamente, era considerato il punto più occidentale del mondo conosciuto, un luogo di grande importanza mistica e religiosa che attrae ancora oggi pellegrini, turisti e viaggiatori per il suo paesaggio selvaggio e la sua atmosfera unica.
Significato e storia – Finis Terrae, era considerato l'estremo limite del mondo conosciuto, dove il sole tramontava nell'oceano. Importanza mistica: Per Celti e Romani, era un luogo sacro legato al tramonto e all'aldilà. Pellegrinaggio: Nel Medioevo, divenne una meta cruciale per i pellegrini del Cammino di Santiago, che lo consideravano il vero punto d'arrivo del loro viaggio. Riti e tradizioni: I pellegrini compiono ancora oggi riti come bruciare i vestiti o lasciare una pietra al "Chilometro zero" vicino al faro per segnare la fine del pellegrinaggio.
Cosa vedere a Capo Finisterre – Il faro: La struttura iconica del promontorio, che offre una vista spettacolare sull'Atlantico. Costa da Morte: La zona è famosa per la sua natura selvaggia, le scogliere a picco e le acque turbolente che hanno plasmato la cultura locale. Mercato del pesce: La Lonja de Finisterre è un luogo vivace dove assistere all'asta del pesce fresco del giorno. Panorami: In giornate limpide, è possibile ammirare le Isole Cíes e il Parco Nazionale delle Isole Atlantiche.
LA DOLCE BEFANA
Tu sei mai andato a Finis Terrae? No. Perché? Per non incontrare uno come te. Soltanto per questo motivo o mi nascondi altro? Ti nascondo altro. Che altro? L'indesiderato incontro con una befana di mia conoscenza. Chi, la dolce befana, per caso? Sì, lei. La morte o il suo simbolo? Il simbolo. Non ho capito. Nemmeno io. Fine.
ELENA ZURLO
1. Nelle acque gelide della corrente
È la visione del sublime, l’oltre la linea di confine di ogni orizzonte, a rivelare il senso dell’impaurito vuoto dell’esistenza, la sospensione nel nulla del nostro essere, che la ragione rincorrendo il quotidiano continuamente tiene celata. Ricordo molto bene, quando la situazione emotiva, vissuta una decina d’anni fa circa, mi si ripropose davanti, nitida, pura, vuota di quel suo carico di angoscia di allora. Rividi le lastre di ghiaccio scivolare nella corrente della Neva, un aprile di San Pietroburgo. Erano le stesse lastre di ghiaccio che Borges vide a Cambridge, a nord di Boston: “Saranno state le dieci del mattino. Io ero seduto su una panchina, davanti al fiume Charles… L’acqua grigia trasportava lunghi pezzi di ghiaccio. Inevitabilmente il fiume mi fece pensare al tempo.” È una visione che spinge l’autore ad un colloquio con sé stesso, “L’altro” di “Il libro di sabbia”. L’immagine delle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente dell’acqua parlano di un tempo trascorso e del suo continuo andare, ed io nel risalire all’indietro allo scorrere del grigio gelido del fiume, rividi Elena Zurlo.
“Dove hai parcheggiato il bolide?” ha domandato la donna con il vestito rosso e la giacca in pelle nera. “Tra quelle due macchine, a metà sul marciapiede,” ha risposto l’amico. “Alla barbara!” ha commentato lei, prendendo il compagno allegramente sotto braccio e avviandosi con lui a rilevare il bolide, una Punto color rosso “Ferrari”.
“Ti ho vista che mangiavi il pinzimonio
Assieme a quel tuo amico in osteria
È stato il giorno dopo il matrimonio
Mentre tornavo dalla ferrovia.”
Mi ripetevo i versi della poesia, scoperti sulla rivista letteraria on-line. Il poeta si firmava con uno pseudonimo vagamento greco “Leopis”, Leonardo Pisicchio, come lo avevo facilmente decrittato, avendone riconosciuto lo stile, lo stesso incipit di un’altra poesia: “Ti ho vista che dormivi in ascensore”. La musa era Astrid, se ben ricordavo. Stavo aspettando che Elena uscisse dalla banca, dove era entrata per un’operazione allo sportello. Ero in piedi, a lato dell’edicola dei giornali, da dove avevo seguito la scenetta del bolide rosso, parcheggiato alla barbara, in via Baldovinetti.
E di quale matrimonio si trattava? Non certo di quello tra Astrid e Leopis. Vi pare possibile che il poeta veda la moglie assieme ad un amico in osteria, mentre mangia o meglio assaggia il pinzimonio, proprio il giorno dopo il matrimonio? Tutto è possibile, certo! Magari avevano dovuto rinviare il viaggio di nozze, per motivi legati alle loro attività professionali. Quindi, dopo il rito e la festa, il giorno seguente, erano ritornati ognuno per proprio conto ai rispettivi posti di lavoro. Per la pausa pranzo, lei era andata con un collega in qualche tavola calda, che il poeta forse per esigenza di rima aveva trasformato in osteria. O no, con quel termine, appositamente scelto, forse Leopis intendeva manifestare tutta la sua indignazione per il comportamento di Astrid, sorpresa con quel suo amico in una bettola, accanto alla stazione ferroviaria, indipendentemente dal matrimonio, non si sa bene da chi contratto. È gelosia quella del poeta o collera? O forse è innamoramento? “In quegli anni, ti ricordi, Astrid?” recitava più avanti, con accento di nostalgia. Sorridevo fra me e ho sentito un viso che sfiorava il mio. Mi sono voltato e ho visto Elena che ritraeva il suo viso con espressione divertita. “Mi sembrava che stessi ridendo” ha detto.
Siamo andati a sederci a un tavolino del caffè lì accanto. Lei era come presa dai suoi pensieri, ogni tanto si toccava l’anello, una fedina, che io le avevo regalato. “Allora dobbiamo decidere?” Ho detto. “Che cosa?” mi ha domandato vivamente interessata a quello che stavo per dire. “La data delle nozze,” ho detto. È saltata su dalla sedia, di slancio mi ha abbracciato e baciato e subito dopo si è ricomposta, ritornando a sedersi dalla parte sua. Ero un po’ in imbarazzo e ho continuato a guardare in avanti sulla strada, per vedere se i passanti che passavano ci avessero segnato a dito, anche se quel bacio improvviso non era avvenuto contro le porte della notte (“contre le portes de la nuit”) essendo mattina avanzata, quasi l’ora dell’aperitivo. “I ragazzi che si amano” … io sono più vicino ai quaranta che ai trenta, Elena ha cinque anni e mezzo meno di me… “ma i ragazzi che si amano non ci sono per nessuno… sono altrove… nell'abbagliante splendore del loro primo amore.” Era il caso mio e di Elena?
Quando ci siamo alzati e siamo andati via, lei mi ha preso felice sotto il braccio, con la stessa gioiosa mossa della donna che aveva l’amico con la “Ferrari”.
A casa, dopo pranzo, sono sceso nel parco, nel silenzio dell’ora pomeridiana, il sole filtrava attraverso il fogliame dei rami, sono rimasto così a guardare quelle schegge abbaglianti di luce. “Ci vediamo domani,” mi aveva detto Elena, scendendo dalla macchina, quando l’avevo accompagnata sotto casa sua. Aspettavo il giorno dopo nell’immobilità e nella quiete luminosa di quel pomeriggio.
All’indomani ero lì, seduto al caffè di via Baldovinetti del giorno prima, in attesa di una sua chiamata. Avevo telefonato tre volte, ma non aveva risposto, probabilmente aveva da fare. O forse era offesa, perché non l’avevo richiamata nel pomeriggio o in serata? Ma no! In verità, ci avevo pensato, ma ero stato trattenuto dal desiderio cosciente di volerla immediatamente vedere, invece di parlare. Non avevamo molto altro da dirci, era tempo di agire. Sorrisi tra me. Fissavo il cartellone pubblicitario di fronte, ma non mettevo a fuoco l’immagine. Infine, mi riscossi, avrei provato a chiamare di nuovo, presi il telefonino, che in quel momento cominciò a squillare, quasi aspettasse solo quel mio gesto di contatto. “Sono Elena Zurlo,” disse la voce di Elena. “Com’è? Ti riconosco, sai?” dissi d’istinto, in tono scherzoso; ma il silenzio che seguì al mio interrogativo mi confermò un sottile senso subconscio d’incertezza suggerito dal suo accento serio. “Elena!” dissi. Non rispose. Io insistetti, pronunciando il suo nome. “È stata una disgrazia!” disse con tono grave, profondo, una voce che non riconoscevo. “Dove sei?” domandai inquieto. Non rispose. “Elena!” Seguì un silenzio e dopo un po’ di tempo il segnale della comunicazione interrotta. Tutto intorno a me divenne improvvisamente grigio e scuro.
2.Una combinazione del pensiero
Rivedo le lastre di ghiaccio alla deriva nelle gelide acque della Neva e mi raggiunge il ricordo di Elena Zurlo, divenuta oggi una combinazione del pensiero. È come se tutta la vita con lei non vissuta formasse un vuoto ideale attorno alla sua figura, dando risalto alla solitudine della sua immagine.
In quel tempo feci un sogno in bianco e nero, nella desolazione di una vallata spoglia, tra cumuli di cenere, soltanto un’anatra si spostava con lenti passi palmipedi ai bordi di una pozzanghera. “Aspettami là che presto ti raggiungerò in quella valle vuota”. Mi sono svegliato suggestionato da queste parole, che ricalcavano quelle simili, poste come epigrafe a un racconto funerario di Edgar Allan Poe, tratte da una lirica di Henry King, vescovo di Chichester, scritta per le esequie della moglie defunta.
“Dormi amor mio nel tuo freddo letto
e nessuno ti disturbi!
La mia ultima buonanotte! Non ti sveglierai
finché la tua stessa sorte non avrò anch’io raggiunta,
finché l’età, la malattia o il dolore
non avranno congiunto il mio corpo a quella polvere
da lui tanto amata; e avranno colmato la stanza
che il mio cuore conserva nella vuota tua tomba.
Aspettami là; io non mancherò
di raggiungerti in quella valle vuota.
E non preoccuparti del mio ritardo;
sono già sulla strada,
e ti seguo con tutta la rapidità
che desiderio e dolore suscitano in me.”
Era il vuoto lasciato da Elena Zurlo, la sua scomparsa repentina dalla mia vita suscitava quel lutto improprio nella mia anima. Avevo lasciato alle mie spalle tutte le scene del mondo, perdendo la vita del giorno. Camminavo su quale strada? In quale “sublime” (sub-limen) nulla del grande infinito spazio? Nel gelo del nord, il freddo dello spirito.
Poi cominciai a ritrovarmi e fu come un risveglio. Accadde un giorno, nella sala da pranzo dell’aeroporto di una città del Veneto, non ricordo bene se Venezia o Treviso. Un uomo grasso sulla cinquantina, stempiato, con gli occhiali, l’espressione ridente, stava seduto al tavolino ad ascoltare un giovane filosofo seduto sulla sedia accanto a lui, che con leggero ghigno gli domandò: “Lo sapevi che era morto di colera?” L’altro si scostò e lo guardò: “Chi?” interrogò, l’espressione seria, anche se caratterialmente atteggiata al riso. “Hegel, nella sua Berlino, correva l’anno 1831, era il 14 novembre.” L’uomo grasso dall’espressione ridente scoppiò a ridere, una risata sincera. Rise anche il giovane filosofo, seppure in maniera più composta, soddisfatto della sua battuta, che comunque non era stata buttata lì a caso. Anche a me venne da sorridere, era come un risveglio. Il giovane filosofo continuò: “Nel 1967, accadde oggi anche un altro evento di rilievo, che ti riguarda da vicino, ingegnere, voglio dirti può interessarti.” L’ingegnere assunse un’aria attenta, l’espressione tipica di apparente riso: “Quale?” domandò. “In California, uno sconosciuto ingegnere fisico californiano, Theodore Harold Maiman, brevettò il primo LASER, a conclusione dei suoi esperimenti sull’amplificazione della luce mediante emissione stimolata di radiazioni, seguendo la teoria sviluppata cinquant’anni prima da Einstein.”
L’ingegnere sorrise ironico. Mi sono alzato dal tavolino accanto, e attraversata la sala, sono andato alla tavola calda. Alla cassa c’era sempre la stessa ragazza grassottella, a cui avevo fatto la prima ordinazione. Chiesi un altro trancio di pizza e un’altra birra, avevo l’aria distesa. A differenza della prima volta, invece di rispondere in perfetto italiano, cominciò a parlare tra sé in dialetto, credo calabrese, servendomi la seconda porzione. Avevo un po’ capito quello che lei aveva detto, traducendolo a modo mio: “Se mi avessi ascoltato la prima volta, quando avevo proposto un menù maggiorato, adesso avresti risparmiato.” Sorrisi con gratitudine, mi rispose con un sorriso professionale, pieno di tutti gli enigmi, che hanno tutti i sorrisi femminili rivolti ad un uomo. Mentre riattraversavo la sala, diretto allo stesso tavolino, quello vicino al filosofo e all’ingegnere, si accostarono due giovani che camminavano nella mia stessa direzione. Per evitare l’impaccio di una collisione rallentai, andavano proprio dove andavo io. Vidi che si erano fermati in piedi davanti ai commensali miei vicini d’occasione. Approfittai, per riprendere il mio posto e continuare a mangiare, sempre prestando attenzione a loro, m’interessava di nuovo il mondo, il prossimo ossia coloro che ci sono vicini, quelli che io avevo ignorato nel mio lungo viaggio verso un luogo indistinto e lontano, dove si smarriva e sbiadiva una figura di sogno. La ragazza stringeva l’involto con la pizza sbocconcellata nella mano sinistra, il giovane stava più indietro a mani vuote. “Papà, io sto con Franco,” disse la figlia e accennò all’amico. L’uomo s’irrigidì e lanciò un’occhiata al giovane, poi si voltò a destra dall’altra parte, quindi guardò la figlia, appoggiando le mani ai braccioli della sedia. “Va bene, noi andiamo, ciao, papà.” Il giovane gli indirizzò un timido cenno di saluto col capo, poi i due ragazzi si allontanarono insieme. Il padre si alzò, si guardò intorno, poi tornò a sedersi e fissò un punto indistinto davanti a sé. L’ufficializzazione dei rapporti tra i due ragazzi lo aveva colto impreparato, si sentiva responsabilizzato a fare qualcosa, programmare spese impreviste, forse. Il giovane filosofo lo guardava con aria di attesa, aveva alzato una mano, un gesto rimasto a mezz’aria, quasi a registrare un accaduto per lui banale. Ho definito il giovane un filosofo, perché era un volto televisivo conosciuto, un professore che aveva pubblicato diverse monografie e studi. Si definiva un hegeliano di sinistra e spiegava che la sua corrente, quella di Feurbach, Marx e Stirner, tanto per intenderci, si era disfatta dell’intrusione teologica nella metafisica hegeliana, attenendosi soltanto all’errare infinito del pensiero finito, un pensiero che si dà nel tempo come produzione di realtà sociale, economica, tecnica, come dire il materialismo storico. Guardavo l’ingegnere, l’aria smarrita, quando i due al tavolino si alzarono, sostarono un attimo in piedi, poi andarono via.
Il giorno successivo alla telefonata di Elena Zurlo, quella del 14 novembre, mi recai automaticamente sotto casa sua e le citofonai. Ero leggermente stordito, perché non avevo dormito tutta la notte, stavo lì imbambolato, aspettando non so che cosa. Un uomo uscì dal portone, mi trattenni a stento dal chiedere se conoscesse Elena. Sapevo dove lavorava, una società privata, che riceveva commissioni dall’Istituto di Statistica, decisi però di non andarvi quella mattina stessa. Una settimana dopo, ero all’ingresso della porta a vetri. Suonai il campanello, vedevo l’impiegata che premette il bottone e il vetro si mosse aprendomi il passaggio. Chiesi di Elena Zurlo. “Aspetti” disse lei, indicandomi un divanetto rosso. Rimasi in piedi ad aspettare, mentre la ragazza s’inoltrò nel corridoio. Poco dopo apparve un uomo sulla quarantina, alto, i capelli ricci biondastri, la pancia del sedentario. Mi squadrò. “Sono un amico di Elena,” dissi. “Ah!” Rimasi in silenzio. “La signora Zurlo si è assentata una settimana fa, non abbiamo avuto notizie da lei, ma sappiamo della disgrazia.” Ecco, la disgrazia! L’uomo, il direttore di quella società, poteva illuminarmi. Continuava ad osservarmi, non era possibile che io, l’amico di Elena, non sapessi. Ero sulle spine. “La notizia era in cronaca su tutti i giornali” disse. Non risposi. “Per legge, ha diritto a un congedo di trenta giorni, lutto familiare.” Non sapevo che cosa dire, quindi non insistetti. “Mi scusi, non volevo disturbarvi.” L’uomo mi guardò, sottovalutavo il suo grado di comprensione umana: “Vogliamo esprimere ad Elena il nostro cordoglio, a nome mio e di tutti i colleghi.” Dissi: “Sì, senz’altro.” Mi diede una forte stretta di mano, ringraziai e uscii.
Sapevo che a Roma, lei viveva da sola, una sorella in Svizzera, alcuni cugini sparsi in Italia e altrove, i genitori defunti. Andai a scorrere le cronache on-line dei giornali con la data successiva alla scomparsa di Elena. Trovai un incidente stradale con la morte di due anziani coniugi, alcuni casi giudiziari datati in precedenza e il ritrovamento di un giovane morto per un colpo d’arma da fuoco, apparentemente un suicidio, in una stanza d’albergo di una località turistica del litorale laziale, Sabaudia. Si chiamava Stefano Principe, un diciottenne. Si vedeva la fotografia del viso di un adolescente con gli occhiali, una foto tessera. Sul posto era sopraggiunta la madre, a fatica erano riusciti a staccarla dalla salma del figlio. “Elena Zurlo”, il dolore della sua voce, mi aveva rivelato l’altra sua identità, la penombra della sua vita, divenuta tragico incubo. Non l’ho più vista né saputo più nulla di lei. Mi è rimasta soltanto un’immagine e un nome, un’ ultima combinazione del pensiero.
“O God, I could bounded in a nutshell and count myself a King of infinite space, were it not that I have bad dreams.”
“Signore! potrei vivere nel guscio di una noce e credermi Re di uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni.”
Shakespeare, "Amleto"
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