domenica 14 dicembre 2025

Narrativa

 

            Un giorno luce


13 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

UN GIORNO LUCE

L’OMBRA DI UNA SCONOSCIUTA
L’altro giorno, in largo Benjamin Franklin, il piccolo spiazzo prospiciente il grande parco della Grotta Perfetta, ho incontrato Aldo Rossi, che vive in affitto in una delle case affacciate sul parco. Aldo mi ha detto: “Silvio, vieni da me, che ti devo fare vedere una cosa, sono dei file audio.” Ho risposto che non potevo perché a casa mi aspettava una sconosciuta, che mi era venuta a trovare quella mattina stessa. Aldo Rossi non mi ha capito bene, ma ha insistito, dicendo che la cosa era interessante: “Un giorno luce”, ha detto enigmatico. Allora, gli ho promesso che sarei andato a trovarlo la sera stessa o all’indomani mattina. Aldo si è congedato, dicendomi: “Silvio, ti aspetto, non mancare, e ricordati della nube di Oort.” Io l’ho rassicurato e sono rientrato a casa, desideroso di riappropriarmi subito della mia sconosciuta.
Mi spiego meglio. La notte precedente, avevo dormito poco, e sono rimasto a letto nel buio, cercando di comporre la formula del calcolo mnemonico dei quadrati dei numeri a tre cifre, un’equazione lineare del tipo x + y = z, dove le due variabili x e y sommate danno la terza variabile z, variabili che in matematica rappresentano numeri. Ho cominciato allora a calcolare il quadrato del numero 247, avendo deciso di scegliere numeri che potessero riferirsi a un’immagine. Nel corso del calcolo, può capitare, come è capitato a me da principiante, di dimenticare il numero di cui stavo calcolando il quadrato. In seguito, con l’esercizio si acquista una certa dimestichezza, e si riesce a trattenere meglio il ricordo immediato, basta lasciar perdere la strada di calcolo su cui ci si è incamminati, e tornare indietro a rinsaldare quanto acquisito, a cominciare dal numero di partenza. Ecco, da ultimo, ho trovato un modo: legare il numero a un’immagine. Non fa questo la smorfia napoletana, che per saggezza antica sa come siano labili i sogni e le immagini ad essi legati? Il 247? Ne parliamo dopo.

Silvio Minieri ha detto...

Adesso, andiamo avanti con il calcolo. Due per due fa quattro, più i due zeri, come dire venti per venti fa quattrocento, e così per tutti i numeri a tre cifre: della prima cifra si calcola il quadrato e si aggiungono due zeri. Ma qual era la mia formula? n^ = x + y = z; x = (a^ x100 + 2a x b x10 + b^)100; y = 2d x c x10 + c^. Caspita, com’è difficile! Eppure, bastano un po' di esercizi. Se le tre cifre corrispondono a tre lettere, abbiamo il numero in tre lettere: a, b, c. E allora, per calcolare il quadrato di 247, abbiamo a^ x100 = 4 x 100 = 400, a cui va aggiunto il risultato di 2a x b x 10 = 2 x 2 x 10 x 4 = 160, e quindi abbiamo 400 + 160 = 560. E poi bisogna aggiungere b^ = 4^ = 16, e quindi 560 + 16 = 576. Poi, 576 x 100 = 57.600. Ecco, x = 57.600. Che fatica! Se ripetiamo il calcolo, senza perdere di vista la “figura” del 247, la fatica scema, e se si ripete ancora, la fatica scema ancora, alla fine non si sente, e il calcolo scivola leggero. Non mi riferisco al calcolo dei reni, che a furia di bere l’acqua di Fiuggi, si rompe e fluisce via. È vero: gutta cavat lapidem. Dobbiamo ancora calcolare la y. Questa la formula: y = 2d x c x10 + c^. Che cosa significa quella lettera d? Un gruppo di due cifre, le prime due delle tre, nel nostro caso 24. E quindi 48 x 7 x 10 + 7^ = 336 x 10 + 49 = 3.409. x + y = z ≅ 57.600 + 3.409 = 61.009. Non era difficile, No, era impossibile! Ero ben allenato, ma non so se avessi raggiunto il risultato giusto, volevo dire esatto. Allora mi sono alzato, e sono andato a controllare ripetendo l’operazione per iscritto, e mi è sembrato che avessi calcolato giusto, ma ero assonnato, non so. Poi, al computer, ho cercato qualche informazione sulla nube di Oort, che dovrebbe trovarsi ai margini del sistema solare, oltre la fascia di Kuiper, ma non sappiamo ancora se esista davvero. E così mi sono edotto sul fatto che la nube avvolge il sistema solare, e la sua esistenza fu ipotizzata dall’astronomo, di cui porta il nome, come il luogo cosmico da cui giungono le comete di lungo periodo. E mentre pensavo a quei miliardi di frammenti ghiacciati, che volano ai margini del sistema solare, dove la nube si estende nello spazio interstellare, a circa metà strada da Proxima Centauri, ho sentito appesantirmi le palpebre. Ho spento il computer e sono tornato a dormire. Era quasi l’alba, quando mi sono alzato, per andare a tirare indietro la tenda a copertura della vetrata della finestra, e ho incontrato lei che mi aiutava a tirare la corda per riavvolgere la tenda, allora mi sono svegliato. Chi era la donna venuta poco prima in sogno? Non era vestita di bianco, come quella che aveva visitato Socrate, la notte prima di morire. Meno male! Ma chi era? Niente più che un’ombra, come i versi struggenti della canzone, sul motivo di Honey: Mais tu n'es plus qu'une ombre / Qui dort auprès de moi.
Era stato in questa mia condizione sognante, che mi aveva avvicinato Aldo Rossi, e alle sue domande, devo avergli spiegato della nube di Oort e della sconosciuta della notte appena trascorsa, ma l’amico inseguiva altri suoi pensieri. Allora l’avevo pregato di lasciarmi andare a casa, dove speravo di ritrovare la mia sconosciuta, che pure mi era così familiare, ma non l’ho trovata, lei era sparita all’alba con il mio sogno.

Silvio Minieri ha detto...

LA CONCORDANZA DEI NUMERI
Così, nel primo pomeriggio di oggi, per mantenere fede alla promessa, dopo avergli telefonato, sono andato a trovarlo. Quando ho citofonato, ho aspettato un po', senza ottenere risposta; allora, ho citofonato di nuovo, e poco dopo mi è venuto ad aprire. “Scusa, Silvio, non ti avevo sentito, ero in ascolto.” Aldo mi ha accolto con queste parole, mentre era sulla soglia di casa e mi faceva strada per entrare. Ma era in ascolto di chi? Nel salotto, vicino al balcone, appoggiato su un tavolino, c’era un computer e accanto le cuffie. Aldo mi ha invitato a sedermi accanto a lui di fronte allo schermo, e ha aperto una pagina web con la notizia: “L’anno prossimo, il 15 novembre 2026, la sonda Voyager 1 raggiungerà la distanza di un giorno luce dalla Terra, a circa 25,9 miliardi di chilometri di distanza dal nostro pianeta. Nel 2012 la sonda ha attraversato l'eliopausa entrando nello spazio interstellare, viaggiando a 60.000 km/h con un ritardo nelle comunicazioni di 48 ore totali. A bordo della sonda, si trova il Voyager Golden Record, un disco placcato in oro con suoni e immagini della Terra, destinato a sopravvivere miliardi di anni come messaggio per eventuali civiltà extraterrestri.”
“Un giorno luce, diamine! Sono 24 ore!” Aldo mi ha guardato sorridente, poi ha detto: “Due giorni per inviare una comunicazione e ricevere la risposta.” Io ho esclamato: “48 ore!” E Aldo ha commentato: “Non sono niente.” Io pensavo al 24, due cifre, se aggiungi una terza, diventa 247. Caspita! “La concordanza dei numeri!” ho esclamato. Aldo mi guardava e sorrideva, quindi ha detto: “Aspetto la risposta fra sette minuti.” Incredibile! il mio pensiero si coniugava con le sue parole. “Hai inviato il segnale 48 ore fa?” ho interrogato. Aldo ha accennato di sì con il capo, un sorriso di compiacenza sul volto. Con il mouse, ha rimosso dallo schermo la pagina web con la notizia del giorno luce di Voyager, la distanza più lontana mai raggiunta da una sonda inviata nello spazio. Sul monitor era apparsa una linea blu, sullo sfondo nero, che si muoveva tracciando una frequenza d’onda, e ora aspettavamo in silenzio. In sette minuti, ho cominciato a calcolare mentalmente il quadrato di 487, un numero che raffigurava 48 ore e 7 minuti, facile da riprendere con la memoria. Ed ecco la mia formula: n^ = x + y = z; x = (a^ x100 + 2a x b x10 + b^)100; y = 2d x c x10 + c^. Quindi 487^ = x + y; x = (4^ x 100 + 8 x 8 x 10 + 64) 100 = (1.600 + 640 + 64) 100 = 2304 x 100 = 230.400; y = 96 x 7 x 10 + 7^ = 672 x 10 + 49 = 6.769; 230.400 + 6.769 = 237.169.

Silvio Minieri ha detto...

Nel silenzio, è risuonato un bip, seguito da altri bip, sullo schermo nero del computer, segnato dalla linea blu della frequenza d’onda, che continuava a scorrere con picchi alti e bassi, hanno cominciato a lampeggiare delle macchie bianche. Aldo si è messo subito le cuffie, con il mouse ha aperto una finestra in alto a destra sullo schermo, e poi ha cominciato a contare con le dita i numeri che apparivano uno dopo l’altro in successione: due, tre, sette, uno, sei, nove. Guardavo stupefatto lo schermo, i numeri che apparivano in sequenza sulla finestra in alto a destra. Sognavo! Poi all’improvviso è risuonata una forte sghignazzata, Aldo con mossa brusca si è tolto le cuffie e ha subito abbassato l’audio. Poi si è sentito scrosciare un applauso, seguito come da un pianto. Che accadeva? “Sono registrazioni di 48 anni fa” ha detto Aldo, come a soddisfare il mio muto e sbalordito interrogativo. Toh! 48. “Davvero?” ho chiesto incredulo. “Sì”, ha detto, e poi mi ha spiegato che il 5 settembre 1977 la NASA aveva effettuato da Cape Canaveral il lancio della sonda spaziale Voyager 1, e pochi giorni dopo della sonda gemella Voyager 2. Ha poi aggiunto del viaggio a bordo delle sonde del disco d’oro, e stava per darmi ulteriori notizie, quando dall’audio del computer è venuto fuori un rumore di fondo, il caratteristico fruscio delle onde radio, dovuto a delle interferenze. Aldo è andato subito in balcone e ho visto che cercava di direzionare meglio una piccola antenna, poi è tornato all’interno per controllare il modem accanto al computer, dove si era accesa una spia rossa. Il fruscio era aumentato d’intensità, Aldo ha abbassato il volume dell’audio, ed il ronzio è divenuto più attenuato, ogni tanto cessava, poi riprendeva con alti e bassi. E così, mentre l’amico aveva indossato le cuffie e concentrato l’attenzione sullo schermo del computer, io mi sono messo a calcolare mentalmente il quadrato di 977, seguendo la mia formula: n^ = x + y = z; x = (a^ x 100 + 2a x b x 10 + b^)100; y = 2d x c x10 + c^. Allora, x = (9^x 100 + 18 x 7 x 10 + 7^) 100 = (8.100 + 1260 + 49) 100 = 940.900; bon!
Aldo continuava a controllare lo schermo, ogni tanto apriva una finestra in alto a destra, e nel riquadro appariva un grafico in rosso, che ondulava continuamente. Ho ripreso il mio calcolo: y =194 x 7 x 10 x 7^ = 1.358 x 10 + 49 = 13.629; 940.900 + 13.629.
Non ricordavo più la prima operazione, l’uguaglianza della ics. Allora, ho ricominciato: nove sette sette, quadrato nove ottantuno, quindi ottantuno cento, più diciotto per sette, cioè sette per venti meno quattordici centoventisei per dieci più quaranta nove. Quindi, ottomila cento, milleduecento sessanta, quarantanove. Novemila trecento sessanta, nove mila quattrocento nove, cento, quindi nove quattro zero nove zero zero. “Ecco! 940.900!” Aldo ha accennato a voltarsi verso di me, poi ho visto che digitava sulla tastiera, il fruscio ha avuto un picco, quindi si è attenuato, infine è scomparso. Diamine! E ora? Mi stavo distraendo, e ho lasciato perdere il calcolo della y della mia formula. Ho guardato verso il monitor. Aldo si è alzato, è andato a toccare l’antenna, e il fruscio è ripreso. Ha abbassato il volume al minimo, ha indossato le cuffie e ha ripreso a digitare sulla tastiera. Io ho ripreso a calcolare il quadrato di nove e le gambe delle donne, in simbolo 77. Ecco, una figura che rappresenta un numero: la fantasia popolare non sa darsi raffigurazioni astratte, come solo certe correnti artistiche di pittori hanno tentato. Avevo la mente stanca di calcolare, quel mio concentrarsi sui numeri rimuoveva altri pensieri o desideri? E Aldo Rossi?

Silvio Minieri ha detto...

IL DISCO D’ORO
Estrassi lo smartphone e cominciai a navigare su Internet, per raccogliere il seguito delle informazioni sul Voyager Golden Record, che Aldo mi stava dando, prima dell’interruzione. È un disco per grammofono inserito nelle due sonde spaziali, contenente suoni e immagini selezionate al fine di portare le diverse varietà di vita e cultura terrestre a conoscenza di altri esseri intelligenti dell’Universo. Era l’obiettivo dei segnali che il mio amico inviava nello spazio interstellare, per catturare se non le immagini, almeno i suoni del disco d’oro. Strana pretesa, mi dissi. E se le interferenze fossero dovute ad altri oggetti spaziali, che viaggiavano da quelle parti, dove Hurt aveva ipotizzato la sua nube, culla delle comete di lungo periodo? “Hurt!” esclamai. Non mi aveva raccomandato l’amico di ricordarmi della nube di Oort?
Aldo si era tolto le cuffie e si era voltato verso di me, forse aveva sentito la mia esclamazione. Regolò meglio il volume dell’audio: il fruscio dovute alle interferenze sembrava essersi interrotto. E nella pausa di silenzio, sentimmo provenire dall’audio del computer un leggero cinguettio di uccelli. “Le stirpi canore” dissi, quasi a voler combinare la poesia dannunziana con quegli echi cosmici. Aldo indicò la finestra aperta: “Una possibile interferenza, Silvio,” disse. “Non mi sembra il verso garrulo dei pappagallini verdi del parco” dissi. Aldo scuoteva la testa, indicava sempre con il dito in alto fuori dalla finestra, poi si voltò verso il computer e tolse l’audio: il cinguettio venne meno. “Vedi?” dissi. “No” rispose Aldo. Sollevò di nuovo il dito verso la finestra nell’aria aperta: “La linea invisibile verso l’alto” disse. Io guardavo il “dito” e non la “luna”, ovvero il punto invisibile dell’infinito cosmico, che il dito indicava. “Gli interferenti” dissi. Aldo fece cenno di sì con la testa, poi tornò al computer, rialzò il volume: il cinguettio era cessato del tutto, nessun suono, silenzio. Ma chi erano gli interferenti? Quali echi di onde sonore provenienti da oltre i confini dell’eliosfera? E se gli interferenti fossero i corpi celesti ghiacciati della nube di Oort? Non aveva il mio amico Aldo raccolto i segnali provenienti da quella regione dello spazio invisibile e virtuale, di cui l’astronomo olandese aveva ipotizzato l’esistenza? Non era quella regione popolata da miliardi e miliardi di comete, asteroidi e forse pianeti minori, e chissà di oggetti alieni, come quello strano viaggiatore spaziale oblungo, avvistato da un telescopio nell’arcipelago delle Hawaii: Oumuamua?

Silvio Minieri ha detto...

Gli interrogativi mi frullavano nella mente, e d’un tratto avvertii come uno sciacquio, poi più forte il rumore di una risacca, quindi uno schiaffeggiare di acque agitate del mare contro le rocce, onde che vidi infrangersi sollevando grosse nuvole di spuma bianca, una visione quasi un ricordo. E in quel momento, ebbi contezza del messaggio inciso sul disco d’oro, che spandeva nell’etere le sue musiche risuonanti da secoli sul pianeta azzurro. Ero un alieno che coglieva nelle profondità degli spazi siderali suoni stranamente familiari, provenienti da chissà quale puntino luminoso dell’universo. E mentre venivo rapito da queste sublimi visioni, suscitate dal fragore delle onde del mare nel loro infrangersi contro le pareti rocciose della costa, dalla lontananza infinita della mia estasi, vidi in una dissolvenza Aldo Rossi girarsi verso di me e lanciarmi uno sguardo sconosciuto. Ed era tutto uno svanire e dileguarsi della visione scaturita dalla magica musica del disco d’oro. Ma l’incanto non dovette durare a lungo, perché presto fui risvegliato da un forte rimbombare di tuoni e nella luce oscurata del giorno lampi improvvisi squarciavano il buio. Poi si avvertì un ticchettio divenuto presto uniforme e continuo e lo sbattere regolare della pioggia contro i vetri. Dov’ero?
Volavo come in un sogno e vidi un’oasi felice di verde vegetazione, uccelli esotici e variopinti, pesci, rettili e altri animali in un sovrapporsi e susseguirsi di scene. Vidi le spirali intrecciate del mio DNA, la stanza matrimoniale piena di sole, affacciata sul golfo azzurro di Napoli, con lo sfondo del Vesuvio, in cui ero stato partorito, nel primo pomeriggio di un lunedì della prima metà del Novecento, e la stanza vicino un po' buia, in cui ero stato bambino, vidi i palazzi e le finestre e i cortili della mia infanzia, vidi passare l’ombra delle nuvole del cielo, vidi il mare, la spiaggia e i bagnanti, la pelle scottata dal sole e le bolle sulle spalle, vidi bianche vestali e tonache nere , vidi mentre andavo all’assalto con il fucile e sparavo nella notte, i traccianti rossi nel cielo, i colpi a raffiche ininterrotte della mitragliatrice, vidi piazze affollate, strade e città del mondo, vidi un ottuagenario dell’avvenire venirmi incontro, ero io tra quaranta e più anni. Poi non vidi più nulla, e mi ritrovai in una stanza remota, forse di un’abitazione del quartiere ardeatino a Roma, uno sconosciuto con gli occhiali che mi guardava incuriosito. Ma ero io intontito e trasognato. Ed ecco di colpo una forte musica a percussione, canti e danze africane al ritmo dei tamburi, nella notte in cerchio attorno al fuoco, i deserti, le dune di sabbia, i cammelli, la savana, le tigri, i leoni, i leopardi, le foreste, la giungla, un giuncheto, un piccolo accampamento, le voci, lo zingaro e la bambina, un ruscello, vengo trascinato via dal crescendo musicale di un’orchestra e una progressione sempre più incalzante verso il finale di un “tutti fortissimo”. Ecco i cieli di Parigi, i tetti di ardesia delle case, Notre-Dame, la Tour Eiffel, il Big Ben di Londra, i grattacieli di New York, le corride di Spagna, le vestigia delle Roma antica e gli anfiteatri e gli altri segni della civiltà romana nel Mediterraneo, e tutte le strade e le città e le metropoli del mondo, e le steppe sconfinate della Russia e della Mongolia, e le montagne e i fiumi e i laghi e i cieli, che sconfinano all’orizzonte verso il punto invisibile della linea infinita. Ho aperto gli occhi, e Aldo Rossi mi ha sorriso e ha detto: “Silvio, hai avuto la visione nell’infinito cosmico del nostro pianeta, la civiltà umana, segnata nelle righe del disco d’oro.” Sorrideva Aldo Rossi, conosceva quelle visioni.

Silvio Minieri ha detto...

IL GIOCO DELL’ORECCHIO
Dopo alcuni giorni dagli avvenimenti di quel giorno, decisi di andare a trovare di nuovo Aldo Rossi. Siccome non rispondeva alle mie telefonate e neppure ai messaggi, mi recai direttamente a casa sua. Suonai al citofono, ma non rispose, allora mi scostai e guardai verso il balcone del secondo piano, ma non riuscivo a distinguere bene. Suonai ancora, ma non ebbi risposta alcuna, e non sapevo che fare. Rimasi lì indeciso, poi mi mossi in direzione del parco, ma tornai indietro. Volevo riprovare a chiamarlo, forse dormiva e non mi aveva sentito. Suonai ancora due volte al citofono, guardando la dicitura dell’interno: “Zani Rossi”, ma nessuno rispose. Era ancora mattina, anche se non proprio prima mattina, decisi di fare una passeggiata nel parco, sarei tornato verso mezzogiorno, era inutile insistere. Mentre mi allontanavo, sentii uno scatto del portone, mi voltai ma non vidi uscire nessuno. Mi affrettai verso il citofono, per farmi vedere dalla fotocamera, e dissi: “Ciao, sono Silvio, vengo su.” Non avevo aspettato che rispondesse, ho salito di corsa le scale, e mi sono precipitato alla porta, quasi avessi timore di non riuscire a vederlo. Infatti, ho trovato la porta chiusa, ho bussato leggermente con le nocche, doveva essere assonnato. Non avendo risposta, ho suonato il campanello un paio di volte, la seconda più a lungo, ed anche una terza. In tale atto, ho sentito qualcuno che scendeva le scale, ed ora era alle mie spalle. Non mi sono voltato, imbarazzato dalla mia insistenza nel bussare a vuoto alla porta. Infine, di sbieco ho visto avvicinarsi una donna, mi sono girato a guardarla: un volto che mi sembrava di riconoscere. “Cerca il suo amico?” mi ha detto. Ho risposto di sì. “È andato via, non abita più qui.” Sono rimasto stupito: “Possibile!” ho esclamato. La donna non ha replicato. “E non sa dirmi dove è andato?” ho chiesto. “No, signore. L’altro giorno, ha fatto i bagagli ed è partito.” Ho taciuto, poi ho detto: “Magari è andato a Bologna, non sarà mica tornato in Argentina?” La donna ha alzato le spalle, poi ha detto: “Ha pagato i tre mesi d’affitto, per recesso improvviso del contratto, ed è andato via. In verità, gli ho fatto lo sconto sui sei mesi previsti.” Ecco, era la padrona di casa, che abitava al piano di sopra, una volta era a scesa a farci un richiamo, per schiamazzi, secondo lei. “Non ha detto nulla?” ho insistito. “Ha detto che doveva partire subito, ha pagato la somma che gli ho ridotto, e se n’è andato.” Ma dove?

Silvio Minieri ha detto...

“Posso dare un’occhiata all’appartamento?” ho chiesto. Aveva le chiavi di casa, che si rigirava tra le mani, ed esitava guardandomi in viso. “Se ha lasciato qualcosa” ho aggiunto. “L’appartamento è vuoto, signore,” ha detto. Quindi, con le chiave ha aperto la porta e mi ha lasciato entrare. Mi seguiva, mentre mi aggiravo per le due stanze vuote, il salotto e una cameretta, i servizi. Avevo lanciato un’occhiata al balconcino, quello dove non c’era più l’antenna, che riusciva a captare i segnali provenienti dai confini dell’eliosfera, nella ipotetica regione della nube di Oort. “Era lei quello che suonava il flauto?” la domanda della donna mi sorprese alle spalle. “Hurt” avevo mormorato, mentre mi giravo a guardarla. Pensavo a quella verosimile regione dei ghiacci cosmici – ultimamente un astrofisico l’ha data per certa – dove si aggira tuttora il disco d’oro di Voyager e si muove in direzione di Proxima Centauri, anzi no. “No,” ho detto, e non sapevo se mi riferissi alla direzione della sonda spaziale, di cui sapevo di una diversa traiettoria, oppure a un’oscura domanda, di cui non avevo capito il senso. La donna mi guardava interdetta, non capiva, immagino fosse sorpresa dalla mia aria trasognata ed assente. Trassi lo smartphone di tasca, digitai sul motore di ricerca: “Concerto brandeburghese n. 2 in fa maggiore”. Comparvero tutti e sei i concerti composti da Johann Sebastian Bach durante il soggiorno a Köthen, ducato di Sassonia, dal 1717 al 1723, dedicati al margravio Cristiano Ludovico di Brandeburgo-Schwedt. Cliccai sul concerto 2, e subito nella stanza si diffuse la musica gioiosa di Bach, allegro, andante, allegro assai. Portai il dito all’orecchio, un invito alla donna a concentrarsi per riconoscere il suono del flauto dolce tra gli strumenti dell’orchestra: tromba, oboe, violino concertato, viola, violoncello e cembalo all’unisono, violone. “Il flauto dolce, distingue?” dissi. La donna mi guardava interdetta, ed aveva ragione, stavo barando. Per avere una tale capacità, oltre alla predisposizione, è necessario l’Ear Training, l’allenamento dell’orecchio, che sicuramente lei non aveva, ma mi sbagliavo, perché accennava di sì con il capo. Era lei a barare in questo improprio Ear play, “gioco dell’orecchio”? Un certo accordare ad orecchio ovvero improvvisare. E mentre così imbrogliavamo entrambi, era questa la mia convinzione, ecco si avvertì un fruscio fortissimo. Non veniva dal mio smartphone, da dove allora? Mi voltai verso il balcone, a questo punto si avvertì l’interferenza di una musica a percussione senegalese, riuscivo a distinguerla. Spensi lo smartphone, ed ecco si udì risuonare chiaramente la sola musica senegalese: xilofoni e tamburi. Quindi, mi rivolsi alla donna e dissi: “Gli interferenti”, quasi a dar corpo a dei fantasmi. Sembrò strano anche a me che li avevo evocati, ma la musica cessò di colpo, e avvertimmo distintamente la voce con accento russo pronunciare forte e chiaro: Здравствуйте! Приветствую Вас! Zdravstvuyte Privetvstvuyu Vas, a cui seguì poco dopo la risposta degli americani: “Greetings! I Welcome You!” Non erano gli alieni, ma echi dello spazio. La donna mi guardò con aria strana, quasi fossi stato io l’autore del sortilegio, e in un certo senso lo ero. Poi lanciò uno sguardo smarrito verso la finestra aperta, dove temeva l’arrivo e l’apparizione di inquietanti presenze, prima di voltare le spalle e andarsi a rifugiare fuori della stanza, nell’angolo della casa accanto all’ingresso. Che cosa era accaduto?

Silvio Minieri ha detto...

[N. d. B.]
Il racconto prosegue: ci sono le premesse, tipo Veronica Zani, l’amica di Aldo Rossi, il destino di quest’ultimo e altri tratti della sua personalità e vicenda umana, la padrona di casa, i calcoli matematici di Silvio, anzi no, basta l’appendice qui di seguito a sigillare questa mania dei calcoli mentali, non i sassolini infranti dall’acqua di Fiuggi, ecco mi perdo, si perde, chi? Boh! Silvio. Quale Silvio? Tutti i nostri Silvio. Ma che stai dicendo? Sto vaneggiando e al tempo stesso razionalizzo il mio vaneggiare. In che senso? All’improvviso, poco fa, c’è stata una commistione tra la figura dell’autore, il Silvio vivente (ancora per non molto) e vero, come dire lo scrivente, e il Silvio personaggio, poi una oggettualizzazione di questo personaggio fittizio, che in quanto tale finisce nella mente e quindi nei pensieri di chi segue le avventure di codesto personaggio, che ogni tanto appare come un tal Silvio – indimenticabile il soggetto, ecco il soggetto, che diventa oggetto, di “Silvio e la morte”, ricordate? No, va bene, farò seguire la pubblicazione da quel pezzo di bravura del mio raccontare. Pezzo di che? Di bravura, perché? Niente. Se hai pensato delle volgarità, guai a te. Perché? Cacomo pecché? Concludiamo la spiritosaggine sicula, tipo i film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che ogni tanto ricompaiono sugli schermi televisivi, spesso d’estate, quando altri programmi languono, essendo autori e interpreti andati in vacanza. Ma che stavo dicendo? “Silvio e la morte”, il pezzo di bravura, allora facciamo una rima che non sia lordura, proviamo paura. Un attimo! Che c’è? Guarda che cosa ho trovato con la IA? Fai vedere. Ecco: "Cacomo pecché" (o meglio, "ca 'o mo' perché" o "come perché" in italiano standard) è un'espressione colloquiale napoletana che significa "perché adesso?" o "come mai?", un modo per chiedere il motivo di un'azione o di una situazione attuale, con un tono spesso di sorpresa, incredulità o fastidio, collegando un'azione passata ("ca' o mo'", ovvero "che ora", "che adesso") a una causa o un risultato presente, il classico "perché?". Lingua napoletana, lingua del Regno delle due Sicilie, questo la IA non lo dice, perché al solito non glielo abbiamo domandato. Chiusura parentesi. “Silvio e la morte”, dunque. Non divaghiamo oltre, Silvio come commistione autore personaggio, che in quanto tale diventa oggetto del riflettersi nei pensieri di chi ha contezza di questo Silvio, e in questo senso andava letta l’espressione: “Tutti i nostri Silvio”, una frase in cui riecheggia il più noto: “Tutti i nostri ieri”, Natalia Ginzburg, Giulio Einaudi editore, un intreccio inestricabile di sentimenti, legami, amori, che rendono unica e imprevedibile la storia di ogni famiglia, 2007. Andiamo avanti, torniamo indietro, Oort, si legge Hurt, Aldo Rossi e il suo destino, e basta, poi si vedrà. Adesso leggiamoci, anzi divertiamoci con l’Appendice. Meglio di no. Purtroppo sì, perché l’abbiamo evocata. Va bene.

Silvio Minieri ha detto...

SILVIO E LA MORTE
– Bum! Bum! – Chi è? – Amici. – Amici di Silvio? – Noi siamo amici di tutti, e quindi anche di Silvio. – Non siete suoi amici personali? – No. – Allora, potete entrare, adesso veniamo ad aprire la porta. – Grazie. – Ecco, entrate. – Possiamo? – Certo. – Dobbiamo presentarci: io sono Alighieri, cronista, e questo è il mio collaboratore, Cornelio, il fotografo. Siamo stati inviati da Natalino Mosca, direttore pro-tempore di “Il giornale dei lettori”, per avere notizie di Silvio. – Non sapevate? – No. – Silvio non c’è. – E dove è andato? – Ieri mattina è andato a Ostia in riva al mare. – Una passeggiata al mare d’inverno? – Sì. – E allora? – Sulla spiaggia guardava le onde del mare, poi si è tolto le scarpe e le calze ed ha cominciato a passeggiare lentamente a piedi nudi sul bagnasciuga. – Ma le scarpe e le calze le ha lasciate sull’arenile oppure le ha portate con sé in questo suo continuare a camminare a piedi nudi sul bagnasciuga? – La domanda è molto pertinente, noi riteniamo che le abbia lasciate sul bagnasciuga. – Perché? – Per un’interpretazione di questa narrazione, che certo contiene sequenze temporalizzatrici, ma non esclude elementi di pura logica narrativa, come vuole una descrizione semiotica dell’arte del narrare. – Siamo completamente d’accordo con voi. – Mentre camminava a piedi nudi, la spiaggia era deserta, Silvio ha sentito dei passi alle sue spalle, e nel sentirli più vicini e insistenti, si è voltato. – Immaginava di vedere qualcuno, che volesse raggiungerlo. – Ma non ha visto nessuno. – Era mattina presto? – Sì, le sette, sette e mezzo. – E aveva già bevuto qualche bicchierino di vodka? – Non sappiamo, forse grappa, magari preferiva i prodotti nostrani. – Chissà, in quelle condizioni di spirito. – Quali? – Silvio amava gli spiriti, ne parlava anche nel suo blog. – Ma di quali spiriti stiamo parlando? I fantasmi di Gaetano? – In verità stavamo parlando degli spiriti ottenuti dai distillati, la vodka, la grappa. – Forse volevate sapere se avesse bevuto qualche bicerin? – Che cos’è, un nuovo distillato? – Non proprio, guardi, io ho una certa esperienza, però preferisco farle leggere da fonti dirette informazioni qualificate. Adesso prego, Torquato, il mio collega, di fare una rapida ricerca sul web dal suo smartphone e di leggerci la schermata. – Certo, primum vivere, deinde philosophari. – Prima farsi un bicerin, e poi studiarne gli aspetti teorici. – Come è accaduto a lei? – Sì. – Il suo collega è pronto. – Torquato, leggi.

Silvio Minieri ha detto...

– Eccomi, Romanelli. Allora, sito web Caffè al Bicerin, dal 1763 a Torino: “Per ottenere un buon bicerin non è sufficiente unire i tre ingredienti base, caffè, cioccolata e crema di latte, sono fondamentali le migliori materie prime e tanta pazienza.” – Torquato, vai all’essenziale. – “La storica bevanda torinese è nata proprio in questo locale, che da allora ne porta il nome e che ne conserva gelosamente la ricetta originale, la quale viene tramandata di generazione in generazione in grande riservatezza. Il bicerin nasce come evoluzione della settecentesca bavareisa, una bevanda allora di gran moda che veniva servita in grossi bicchieri e che era fatta di caffè, cioccolato, latte e sciroppo. Il rituale del bicerin prevedeva all’inizio che i tre ingredienti fossero serviti separatamente, ma già nell’Ottocento vengono riuniti in un unico bicchiere e declinati in tre varianti: pur e fiur (simile all’odierno cappuccino), pur e barba (caffè e cioccolato), ‘n poc ‘d tut (ovvero “un po’ di tutto”), con tutti e tre gli ingredienti. Quest’ultima formula fu quella di maggiore successo e finì per prevalere sulle altre, arrivando integra ed originale ai nostri giorni e prendendo il nome dai piccoli bicchieri senza manico in cui veniva servita (bicerin, appunto). La bevanda si diffuse anche negli altri locali della città, diventandone addirittura uno dei simboli di Torino.” – Torquato, va bene così. – Non è un distillato? – Questo ci dice la teoria, se poi in pratica vai a Torino e qualche amico ti invita a prendere un bicerin, ti trovi a bere… – Qualche spirito, diciamo così. – Diciamo così. – E Silvio? – Ah, Silvio! Si era voltato e con terrore da ubriaco aveva visto il nulla alle sue spalle. – Come si divertiva a raccontare nelle sue storielle. – E si diverte ancora. – In che senso? – Nel senso, di cui diciamo. – Ovvero? – Cominciò ad accelerare, e sentendosi incalzato, non ostante l’età avanzata, cominciò a correre. – Goffamente, immaginiamo. – Sveltezza che ogni atto dismaga. – Dante, eh già! – A piedi nudi sul bagnasciuga. – Ah, ecco, perché si era levato le scarpe e le calze! – Una premonizione. – E quindi? – Fece un ultimo sforzo, disperato, poi un sussulto. – Come?

Silvio Minieri ha detto...

– Cadde bocconi. – Aveva cominciato a correre inseguito dai suoi fantasmi, forse era ubriaco, ma non abbiamo prove, forse era un ubriaco naturale, un inebriato della vita. – No. – Sì, arrivato il suo momento, anche per lo sforzo, il cuore ha ceduto di schianto, un infarto, ed è caduto bocconi sul bagnasciuga. – No. – Ma come, no? – Voi, giornalisti, avete troppa fantasia. – Che significa? – Noi ci stiamo raccontando che Silvio con terrore da ubriaco si era voltato ed aveva visto il nulla alle sue spalle, e su questo stato inebriante ci siamo concessi anche una lunga, peraltro ambigua, digressione sul bicerin, ma non è andata così. – E come è andata, allora? – Quando si è voltato, non ha visto il nulla alle sue spalle, ma quello che noi non abbiamo visto né potevamo vedere. – Che cosa? – Non una cosa, ma una figura di nero vestita, il capo avvolto di nero. – Chi era? – La Morte. – Ah! – Ecco, perché prima ha accelerato e poi ha cominciato a correre. – È vero! – La Morte però si è anche un po' stizzita di quest’ultimo inusuale scatto del morente, gli è corsa dietro e gli ha vibrato una violenta mazzata mortale sulla nuca, facendolo stramazzare al suolo. – E che caspita! Una reazione rabbiosa. – Però anche Silvio! – Certo, si mette a correre alla sua età quasi centenaria, a rischio di farsi venire un infarto. – E la morte si è giustamente irritata del vegliardo che non voleva morire. – Ma perché non l’ha falciato, invece di dargli la bastonata mortale? – La vecchia in nero aveva la falce, ma non l’ha usata, per non farsi irridere. – Silvio voleva beffare la morte? – Certo, se quest’ultima con la falce gli avesse troncato di netto il capo, un’esecuzione capitale, avrebbe potuto vedere un ghigno beffardo sulla bocca della testa che volava per aria.

Silvio Minieri ha detto...

CALCOLO MNEMONICO numeri tre cifre

a I c
b I d
Nella tavola di calcolo le lettere si sommano in verticale, si moltiplicano in orizzontale.

FORMULA
(a + b) (c + d) = (√ b x d) ^ + [(a x d) + c (a + b)] = n
(√ b x d) ^ + [(c x b) + a (c + d)] = n

CALCOLO SEMPLICE
(2 + 9) (4 + 16) = (√ 9 x 16) ^ + [(2 x 16) + 4 (2 + 9)] = 220
= (√ 9 x 16) ^ + [(4 x 9) + 2 (4 + 16)] = 220

CALCOLO COMPLESSO
(28 + 400) (32 + 529) = (√ 400 x 529) ^ + [(32 x 400) + 28 (32+529)] = (20 x 23) ^ + 12.800 + 28 (561) = 460^ + 12.800 + 15.708 = 211.600 + 12.800 + 15.708 = 240.108

La formula serve per i calcoli complessi, come ad es.: 428 x 561 = 240.108. Dopo lo scorporo iniziale dei due numeri, per ottenere un radicale intero, il calcolo è semplificato. Nell’esempio, inoltre, il numero tondo ha facilitato il calcolo del quadrato a tre cifre, per il quale si richiama l’altra formula.

n^ = x + y = z
x = (a^ x100 + 2a x b x10 + b^)100; y = 2d x c x10 + c^

n = a, b, c = 487; a = 4; b = 8; c = 7; d = 48
x = (1.600 + 640 + 64) 100 = 230.400; y = 96 x 7 x 10 + 49 = 6.769
x + y = z; 230.400 + 6.769 = 237.169 = 487^

Con l’esercizio mnemonico, il calcolo risulterà sempre più facile rispetto all’apparente complessità delle formule.

[N. d. B.]
Il calcolo mnemonico di numeri a tre cifre, di cui ho studiato ed elaborato le formule, e che avevo inviato “laggiù”, nella realtà virtuale, erano state ricopiate con cura da Silvio, che voleva presentarle e discuterne con il coetaneo amico Aldo Rossi, ma il giovane argentino è improvvisamente partito per una destinazione sconosciuta, e ora Silvio mi ha rinviato l’elaborato “quassù”, ed io non so che cosa fare. Ma di quale “quassù” stai parlando? Quello dove non stai tu. Io ti do un consiglio da “quaggiù”. Quale? Stampa il foglio, appallottolalo e buttalo nel cestino, “lassù”. Soprattutto, non dimenticare di metterlo nell’indifferenziato, dove va la carta sporca d’inchiostro. Sai, non mi fai ridere. E allora perché ridi, ottuagenario? Proprio perché non c’è niente da ridere, si chiama demenza senile, non lo sapevi? Ridi, ridi, tu, che poi se vengo “lassù” … Riderai anche tu! Sì, forse, poi verrò a sedermi alla tua destra, ti circonderò con il braccio le spalle, per confortarti, e ti reciterò i due versi di Goethe, ultimi del “Canto notturno del viandante”: “Aspetta, presto / sarà quiete anche per te.”