mercoledì 26 giugno 2024

Commento

 

                

             La presenza




3 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

LA PRESENZA

“Restare seduti il meno possibile; non prestare fede a nessun pensiero che non sia nato all’aperto o in movimento, nel quale anche i muscoli non abbiano la loro festa. Tutti i pregiudizi vengono dai visceri. L’immobilità, l’ho già detto una volta, è il vero peccato contro lo Spirito Santo.”
Nietzsche, “Ecce Homo”, “Perché sono così accorto, 2”, 1888)


Minosse se n’è andato, almeno così sembra, l’aria si è rifrescata, si fa per dire, il Blog timidamente riapre. L’indeterminatezza della pausa estiva è già terminata? Per ora, poi si vedrà. Comunque continueremo a parlare di Minosse, la figura che questo nome evoca, e che aveva suggerito la pausa (estiva), di cui intendevo avvalermi per approfondire la conoscenza su questo mitico personaggio e cercare di fare un discorso serio, nei limiti del mio possibile. Purtroppo, quando mi viene a mancare il pensiero e la dottrina, passo dal serio al faceto, scivolando nel buffonesco. È che sono stato influenzato dallo spirito di Nietzsche, non bisogna frequentarlo troppo, ragazzi, al massimo lasciamogli lo spazio della citazione in epigrafe. E vengo al post “Il dolce presente (1)”, a cui non seguiranno ulteriori paragrafi, in quanto i miei soliloqui cominciano a diventare incomprensibili anche per me, nella loro rilettura, almeno in certi incisi. [1] Il dolce presente stava a significare e si condensava nella citazione del brocardo: “Dii saepe praesentes vim suam declarant” (Cicerone, De natura Deorum, II, 6), “Spesso gli dèi manifestano la propria forza con la loro presenza”. Applicavo la massima ciceroniana come metafora alla pubblicazione di scritti, che rispecchiano più o meno la realtà, ma che abbandonati a sé stessi rifluiscono nell’oblio. È solo la presenza dell’autore (“Dii praesentes”), a far passare uno scritto da lettera morta a realtà viva ed attuale. E su questo abbiamo detto quanto basta, rinviando al pensiero platonico sulla validità di un testo scritto. Faremo la ricerca e ne riparleremo, ovvero cerco nella memoria del computer un mio scritto sul tema e lo ripubblico, anche se capisco di fare spesso promesse da marinaio, travolto come sono dalle onde della realtà, che mi smarrisce la memoria, quella mia non quella del computer.

Silvio Minieri ha detto...

[1] ESEMPIO – “C’era stata tutta una ridondante breve dissertazione su termini elementari di grammatica, per risolvere il nodo dell’alterno, diciamo così, ed a questo punto il Blogger s’interroga e interroga. Sembra chiedere comprensione per il suo lato umano e passionale, la dimensione sotterranea della sua anima, quella sottostante alla vana dissertazione sull’alterno, e ribattiamo sul chiodo dell’alterno, che pure assumerà un significato paradigma di mnemonica ripetizione di anagrammi nelle notti insonni. Ed ecco, egli ci dice – Chi è egli? Sei tu. – egli ci dice – ma questo non sa parlare. – Taci, ti dico. – Egli dice, ti dico. Ecco! – Non preoccuparti, è l’imbroglio del discorso plurimo, come quello del dibattito nella lite successoria, dove la sorella (manipolatrice?) dice, sbagliandosi, mio marito, il defunto che ha lasciato una vedova fedifraga (anch’essa manipolatrice?), scomparsa molti anni prima della sua dipartita, e in tal guisa il giudice ad essa (la sorella) rivolgendosi, dice suo marito e ride il pubblico del qui pro quo, hai capito? No. Non fa niente…”
Il “nodo dell’alterno” sta a indicare l’analisi grammaticale della locuzione, e quindi il gioco (giogo) tra superficie del discorso e profondità sottostante, l’urgenza inespressa di dire altro, come dire il moto emozionale dell’anima, di cui poi si dà spiegazione. E fin qui tutto appare chiaro, come dire filava liscio. Ed anche la spiegazione non sembra problematica, ma soltanto un po' annodata, è il caso di dire, quando il testo prosegue: “E ribattiamo sul chiodo dell’alterno, che pure assumerà un significato paradigma di mnemonica ripetizione di anagrammi nelle notti insonni.” Qui viene indicato “l’alterno”, una locuzione che ha ormai assunto uno statuto proprio, se viene estrapolata da un suo possibile contesto grammaticale. In tal senso, questa locuzione è il modello (paradigma) di altri giochi mentali con espressioni linguistiche, che si rivelano come sciarade, problemi (o problemini) di difficile soluzione. Si tratta, nel caso, di “mnemonica ripetizione di anagrammi nelle notti insonni”. Diciamo che invece di alzarmi dal letto e andarmi a fare un caffè, che poi ti fa passare il mal di testa, anche se non ce l’hai, e ti concilia il sonno – può apparire strano, ma è così, almeno a me accade così – ebbene resti a muoverti nel letto, e assimili il tuo stato al buio della notte di Borges. In quest’ultimo passaggio, non sono stato molto attento alla sintassi, quando sono passato dalla prima persona alla seconda. Con la stessa disinvoltura, nel testo in esame, avevo proseguito il discorso in maniera sconnessa, come dire poco preoccupato delle regole grammaticali, forse un artificio per fare da specchio alla “turba” mentale (affollamento di pensieri), che “disturba” l’esposizione descrittiva di quello che si vuole dire. L’esempio dei disturbatori è di Freud, l’analisi della turba è di Jung. In sostanza mentre parlo o scrivo, cerco al contempo di stare in superficie e scendere sotto il livello della coscienza.

Silvio Minieri ha detto...

E allora viene fuori la confusione, definita “discorso plurimo”: “Ed ecco, egli ci dice – Chi è egli? Sei tu. – egli ci dice – ma questo non sa parlare. – Taci, ti dico. – Egli dice, ti dico. Ecco!” Non si capisce bene chi parla, uno scambio di battute tra l’io e l’altro dall’io dell’io. Mi esprimo così, per evitare di dire un confronto tra Io e Super-Io (Freud) o un colloquio tra me e la mia anima (Jung). Potrei scivolare in un discorso improprio, avvalendomi dei modelli dei due scienziati dell’anima, lo psicanalista (Freud) e lo psicologo del profondo (Jung). Aggiungo, a beneficio del lettore, che io preferisco quest’ultimo. Cerchiamo di non impazzire nell’analisi, corriamo il rischio. Quando scrivo la frase: “Egli ci dice”, sapendo di dare troppa importanza ad “Egli”, subito intervengo a demolirlo (L’Io che tenta di demolire il Super-Io? Forse). Infatti nel dire: “Egli dice”, affiora dal subconscio l’Ipse dixit, ovvero l’autorità indiscussa di Aristotele, donde un po' di autoironia non fa male. Nel rileggere la frase intera, quello che non mi torna è l’inciso “ma questo no sa parlare”, ovvero non mi tornava, perché ora – sì, ora – mi è tornata, grazie all’aiuto di Jung. In un suo colloquio con l’anima (“Il libro rosso”), egli sente una voce che dice una frase, e poi riconosce quella voce. Era la voce di una donna che aveva espresso un suo certo giudizio, ora evocato nel suo colloquio con l’anima. Quel giudizio: “ma questo non sa parlare” non mi appartiene, ma chi l’ha pronunciato? Me la cavo con questa risposta, cercando di mantenere un minimo di riservatezza: la mia anima. Tutta quest’ultima parte della dissertazione riguarda me e forse sarebbe stato meglio non annoiare il lettore, che comunque, se è curioso, auspico o immagino che si diverta. Si tratta dell’incontro tra animus, il maschile della donna, e anima, il femminile dell’uomo, i due archetipi dell’inconscio collettivo, proiettati sull’altro sesso. Ecco perché Flaubert dice: «Madame Bovary c'est moi».
Un ultimo sforzo, dai, e concludiamo. “Il dibattito nella lite successoria, dove la sorella (manipolatrice?) dice, sbagliandosi, mio marito, il defunto che ha lasciato una vedova fedifraga (anch’essa manipolatrice?), scomparsa molti anni prima della sua dipartita, e in tal guisa il giudice ad essa (la sorella) rivolgendosi, dice suo marito e ride il pubblico del qui pro quo.” In una puntata della trasmissione televisiva “Forum” di Mediaset, si cercava di comporre la lite successoria tra due eredi del defunto: la sorella e la vedova (fedifraga). Ad un certo punto, confondendosi in quel “discorso plurimo”, la sorella dice “mio marito”, invece di dire “mio fratello”, e poi si corregge. Il giudice, nel riprendere la frase, sbaglia e dice “suo marito”, e si corregge anche lui. Ora, al netto di ogni interpretazione freudiana, appare chiaro che la sorella, sapendo che l’eredità spetta alla vedova, si appropria inconsciamente di quel ruolo. Infatti la sentenza dà ragione alla vedova, riconoscendo alla sorella soltanto la sua parte in comproprietà con il defunto, e non altre sue pretese. Fine. Meno male! Ci mancava solo Cicerone! No, è presente anche lui: “Dii saepe praesentes vim suam declarant.”