LA TRASMIGRAZIONE DELLE ANIME “Considerando l'anima immortale e capace di sopportare ogni male e ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita alla saggezza; in questo modo saremo cari a noi stessi e agli dèi finché resteremo quaggiù, e anche dopo che avremo riportato i premi della giustizia, compiendo il giro d’onore come gli atleti vittoriosi, e così godremo della felicità su questa terra e nel cammino di mille anni che abbiamo descritto.” Con queste parole Platone chiude il decimo e ultimo libro della “Repubblica”, il suo capolavoro, additando nella giusta scelta di vita da compiere il fine ultimo dell’uomo, valido anche dopo la morte, una condotta di giustizia e saggezza tracciata in ragione della dottrina (mito) dell’immortalità dell’anima. La similitudine del giro d’onore degli atleti vittoriosi (νικηφόροι περιαγειρόμενοι) trova corrispondenza nella descrizione, compiuta da Platone nel “Fedro”, del più alto volo dell’anima, che librandosi al di sopra del cielo, al seguito di un dio del celeste corteo, riesce a contemplare la pianura della verità. “La forza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è grave, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. E il divino è bellezza, saggezza, bontà, e ogni altra cosa simile; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano del cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. […] Infatti, delle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, si solleva verso il luogo fuori del cielo […] avendo un gran desiderio di ammirare la pianura della verità, sia perché il pascolo che si conviene al meglio delle anime proviene da quella prateria, sia per la natura dell’ala, onde l’anima si fa leggera e qui trova il suo nutrimento. È questa la legge di Adrastea: l’anima che al seguito del dio abbia visto qualcuna delle verità, rimanga incolume fino all’altro giro.” Che cosa si deve intendere per “altro giro”? È la domanda che si pone Armando Plebe, traduttore e commentatore del dialogo. “Dal confronto con il decimo libro della “Repubblica” risulta che si tratta del prossimo periodo di reincarnazioni, che avviene a distanza di mille anni dal precedente.” La nota serve per chiarire il periodo di anni necessario al compimento delle successive reincarnazioni, un dubbio che potrebbe sorgere in base all’interpretazione di un’altra affermazione fatta un po’ oltre nel testo (“Fedro”, 249a): “A quel luogo, poi, donde è mossa, ciascuna anima non giunge prima di diecimila anni.” Quest’ultimo periodo è sconosciuto al mito delle anime del decimo libro della “Repubblica”, la cui stesura è precedente a quella del “Fedro”. Ed, osserva Plebe, questo periodo non corrisponde all’intervallo tra un’incarnazione e l’altra, ma indica il periodo complessivo delle successive incarnazioni, al cui termine l’anima ritorna in ogni modo alla sede celeste.
Nel “Fedro” 248d, Platone introduce una modifica al mito della “Repubblica”: “[l’anima] è legge che non venga immessa in nessuna natura di bestia, durante la prima generazione.” E questo è “Inevitabile”, come si può ricavare dall’etimo del nome di Adrastea (Ἀδράστεια), la ninfa che allevò Zeus sottratto da Rea alla furia divoratrice di Crono. Anche qui, come altrove, si coglie la scelta del nome da parte di Platone, per concettualizzare il linguaggio favolistico del mito. La modifica serviva a stabilire il principio che alla fine del ciclo di diecimila anni, l’anima che rientrava nella sede celeste avesse avuto almeno un’incarnazione umana. “Nel millesimo anno [quindi non alla prima incarnazione] – dice Platone (249b) – un’anima di uomo può prendere vita di animale e quegli che era già stato uomo può da animale ritornare ad essere uomo.” In tal modo, osserva Plebe, quando per metempsicosi un animale si trasforma in uomo, non è più un vero e proprio umanizzarsi della bestia, perché si tratta sempre di un tornare ad essere uomo, in quanto l’anima, almeno nella sua prima generazione, si era incarnata in un uomo. Ma sentendo come degradazione quella dell’essere umano di ridursi allo stato animalesco, quali motivazioni razionali possono indurre un’anima che è stata incarnata in un uomo a scegliere di reincarnarsi in quella di una bestia? La risposta la troviamo nel citato decimo libro della “Repubblica”: “Er disse che valeva la pena di vedere lo spettacolo delle singole anime intente a scegliere la propria vita: uno spettacolo compassionevole, ridicolo e singolare, dato che per lo più sceglievano in base alle abitudini della vita precedente. Raccontò di aver visto l'anima che era stata di Orfeo scegliere la vita di un cigno per odio verso la razza delle donne, poiché era morto per mano loro e quindi non voleva nascere dal grembo di una donna. Vide poi l'anima di Tamira [1] scegliere la vita di un usignolo, ma vide anche un cigno e altri animali canori scegliere di trasformarsi in uomini. L'anima sorteggiata per ventesima scelse la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio, che rifuggiva dal nascere uomo, ricordando il giudizio delle armi. Dopo venne l'anima di Agamennone [2]: anch'essa detestava il genere umano per le sofferenze subite, e prese in cambio la vita di un'aquila. L'anima di Atalanta [3] era invece capitata in sorte nei turni intermedi, e avendo visto i grandi onori riservati a un atleta non seppe passare oltre, ma scelse quelli. Poi vide l'anima di Epeo [4], figlio di Panopeo, assumere la natura di una donna laboriosa; lontano, tra le ultime, scorse l'anima del grottesco Tersite [5] entrare in una scimmia. Venne infine a fare la sua scelta l'anima di Odisseo, che per caso era stata sorteggiata per ultima; essendo ormai guarita dall'ambizione grazie al ricordo dei travagli passati, andò in giro per parecchio tempo a cercare la vita di uno sfaccendato qualsiasi, e a fatica ne trovò una che giaceva in un canto ed era stata trascurata dagli altri. Quando la vide disse che avrebbe fatto lo stesso anche se fosse stata sorteggiata per prima, e tutta contenta se la prese. Allo stesso modo gli animali si trasformavano in uomini o questi uni negli altri, quelli ingiusti in animali selvaggi, quelli giusti in animali domestici, e avvenivano mescolanze d'ogni sorta.”
[1] Tamiri, il mitico cantore, osò sfidare le Muse, ed esse lo accecarono e privarono della sua arte. [2] L'aquila si adatta alla vita futura di Agamennone, perché è l'uccello di Zeus, che legittima il potere dei re. [3] Atalanta, velocissima nella corsa, promise di sposare chi l’avesse battuta nella gara e di uccidere gli sconfitti. Vinse il solo Ippomene, che durante il tragitto le gettò davanti le tre mele d'oro delle Esperidi, donategli da Afrodite. Atalanta si attardò a raccoglierle e perse la sfida. [4] Epeo aveva costruito il cavallo di Troia sotto la direzione di Atena, la dea che tra l'altro presiedeva ai lavori femminili, e questo spiega la ragione della sua scelta. [5] Tersite è il soldato greco scimmiesco più brutto e codardo dell’Iliade.
L’ANELLO DI GIGE “ – Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla un male, e che subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di conseguenza, quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche, e provano così entrambe le condizioni, non potendo evitare l'una e scegliere l'altra, sembra loro vantaggioso accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l'origine e l'essenza della giustizia, che sta a metà tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia, essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma come un qualcosa che è tenuto in conto per l'incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e l'origine della giustizia, secondo l'opinione corrente. Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per l'impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a ciascuno dei due, al giusto e all'ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli osservando dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la stessa strada dell'ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire come un bene, mentre la legge la devia a forza a onorare l'uguaglianza. E la facoltà di cui parlo sarebbe tale soprattutto se avessero il potere che viene attribuito a Gige, l'antenato di Creso re di Lidia. Si racconta che egli serviva come pastore l'allora sovrano di Lidia. Un giorno, a causa delle forti piogge e di un terremoto, la terra si spaccò e si produsse una fenditura nel luogo in cui teneva il gregge al pascolo. Gige si meravigliò al vederla e vi discese; qui, tra le altre cose mirabili di cui si favoleggia, vide un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi si affacciò e scorse là dentro un cadavere, che appariva più grande delle normali dimensioni di un uomo; e senza avergli tolto nulla, tranne un anello d'oro che portava a una mano, uscì fuori. Quando ci fu la consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato delle greggi, si presentò anch'egli, con l'anello al dito; quindi, mentre era seduto in mezzo agli altri, girò per caso il castone dell'anello verso di sé, all'interno della mano, e così divenne invisibile ai compagni che gli sedevano accanto e che si misero a parlare di lui come se fosse andato via. Egli ne rimase stupito e toccando di nuovo l'anello girò il castone verso l'esterno, e appena l'ebbe girato ridiventò visibile. Riflettendo sulla cosa, volle verificare se l'anello aveva questo potere, e in effetti gli accadeva di diventare invisibile quando girava il castone verso l'interno, visibile quando lo girava verso l'esterno. Non appena si accorse di questo fece in modo di essere incluso tra i messi personali del re; una volta raggiunto l'obiettivo divenne l'amante della sua sposa, congiurò assieme a lei contro il re, lo uccise e in questo modo si impadronì del potere.
IL MITO DI ER “Er figlio di Armenio, di origine panfilica. Costui era morto in guerra e quando, al decimo giorno, si portarono via dal campo i cadaveri già decomposti, fu raccolto intatto e ricondotto a casa per essere sepolto; al dodicesimo giorno, quando si trovava già disteso sulla pira, ritornò in vita e raccontò quello che aveva visto laggiù. Disse che la sua anima, dopo essere uscita dal corpo, si mise in viaggio assieme a molte altre, finché giunsero a un luogo meraviglioso, nel quale si aprivano due voragini contigue nel terreno e altre due, corrispondenti alle prime, in alto nel cielo. In mezzo ad esse stavano seduti dei giudici, i quali, dopo aver pronunciato la loro sentenza, ordinavano ai giusti di prendere la strada a destra che saliva verso il cielo, con un contrassegno della sentenza attaccato sul petto, agli ingiusti di prendere la strada a sinistra che scendeva verso il basso, anch'essi con un contrassegno sulla schiena dove erano indicate tutte le colpe che avevano commesso. Giunto il suo turno, i giudici dissero a Er che avrebbe dovuto riferire agli uomini ciò che accadeva laggiù e gli ordinarono di ascoltare e osservare ogni cosa di quel luogo. Così vide le anime che, dopo essere state giudicate, partivano verso una delle due voragini del cielo o della terra; dall'altra voragine della terra risalivano anime piene di lordura e di polvere, dall'altra posta nel cielo scendevano anime pure. Quelle che via via arrivavano sembravano reduci come da un lungo viaggio; liete di essere giunte a quel prato, vi si accampavano come in un'adunanza festiva. Le anime che si conoscevano si abbracciavano e quelle provenienti dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, e viceversa. Nello scambiarsi i racconti delle proprie vicende le une gemevano e piangevano, al ricordo di quante e quali sofferenze avevano patito e veduto durante il viaggio sottoterra (un viaggio di mille anni), mentre quelle provenienti dal cielo riferivano le visioni di beatitudine e di straordinaria bellezza che avevano contemplato. Ma per farne un resoconto minuzioso, Glaucone, ci vorrebbe troppo tempo; in ogni caso la sostanza, stando al racconto di Er, è la seguente: per ogni ingiustizia commessa e ogni persona offesa le anime avevano scontato una pena decupla; ciascuna pena era calcolata in cento anni, perché tale è la durata della vita umana, in modo che pagassero un fio dieci volte superiore alla colpa.
Ad esempio, se alcuni erano stati responsabili della morte di molte persone, perché avevano tradito città o eserciti precipitandoli nella schiavitù o si erano resi colpevoli di qualche altro delitto, per ciascuna di queste colpe subivano patimenti dieci volte maggiori; se invece avevano fatto dei benefici e si erano comportati in modo giusto e pio, ricevevano la debita ricompensa nella stessa misura. Sul conto di quelli morti appena nati o vissuti per poco tempo disse altre cose che non vale la pena di ricordare. Aggiunse che la pietà e l'empietà verso gli dèi e i genitori e l'omicidio erano ripagati in misura ancora maggiore. Infatti raccontò di essersi trovato accanto a un tale a cui un altro chiedeva dove fosse Ardieo il grande. Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia già mille anni prima d'allora, e a quanto si diceva aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore e si era macchiato di molte altre scelleratezze. Er disse che l'interrogato rispose: "Non è venuto qui, né mai verrà. Infatti, tra i vari spettacoli terribili cui assistemmo, ci toccò anche questo: quando eravamo vicini all'imboccatura e stavamo ormai per risalire, dopo avere subito tutte le altre prove, all'improvviso vedemmo lui e gli altri; si trattava per lo più di tiranni, ma c'erano anche cittadini comuni che si erano resi colpevoli delle più gravi ingiustizie. Quando ormai erano convinti di risalire, l'imboccatura non li lasciava passare, ma emetteva un muggito ogni volta che uno dei malvagi più inguaribili o di quelli non avevano scontato a sufficienza la loro pena tentava di uscire. Lì vicino stavano alcuni uomini selvaggi dall'aspetto infuocato [i diavoli? N. d. B.], che non appena intesero quel suono ne afferrarono alcuni e li portarono via, mentre ad Ardieo e ad altri legarono le mani, i piedi e il capo, e dopo averli gettati a terra e scorticati li trascinarono lungo la strada, cardandoli su certe piante spinose; e a chiunque passasse indicavano il motivo di quel trattamento, spiegando che erano portati via per essere precipitati nel Tartaro". Tra le varie paure che essi avevano provato laggiù, disse Er, quella che al momento di salire riecheggiasse il muggito le superava tutte, e ciascuno provava la massima gioia se al suo passaggio l'imboccatura taceva. Tali erano dunque le sentenze e le pene, e dall'altro lato le ricompense corrispondenti.”
INTRODUZIONE Il titolo di questo post, che compare sotto la rubrica “Filosofia”, merita alcune righe di commento, per chiarirne il senso. La figura della nonna già di per sé ispira il senso di qualcosa di antico, non per l’età effettiva della nonna, al massimo poco più che centenaria, ma appunto per l’immagine portatrice di qualcosa che ci viene da una tradizione antica. E la tradizione, nel suo senso più letterale, il latino “tradere”, sta ad indicare trasmissione e consegna. E che cosa ci trasmette quella buona vecchietta che è la nonna, almeno nel nostro immaginario? Le sue favolette. In che senso? Per un adulto, che ha messo su famiglia e ha i figli piccoli, si può presentare a volte o anche più frequentemente di alcune volte la necessità di mettere a letto i suoi bambini, che hanno bisogno di sentire delle favole per addormentarsi. E allora egli non può fare a meno di ricordare o perlopiù fantasticare sulla sua età di bambino, messo a letto dalla mamma, che per addormentarlo gli leggeva le favolette. Ora, questa mamma idealizzata, tipo quella della “Recherche” di Proust che doveva dare il bacio della buona notte a Marcel, quando il bambino andava a letto, un classico della letteratura, l’adulto la ricorda giovane, ma se la mettiamo a confronto con il bambino che va a dormire, appare trasfigurata nella buona vecchietta che racconta favole. Ma che cosa c’entra questa figura del buon tempo antico con il mito escatologico dell’aldilà, che chiude il dialogo platonico del “Gorgia” sul tema della retorica? È il monito finale di Socrate rivolto a Callicle, per significare che il suo racconto sul giudizio delle anime dopo la morte, con premi e castighi, non è un mythos, ma una narrazione veritiera (logos): “Probabilmente, queste cose che ti sono state narrate ti sembrerà che siano una favola, come ne raccontano le vecchiette […] ma fra tanti ragionamenti, mentre gli altri sono stati confutati, questo è l'unico ben saldo, ossia che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia.”
IL GIUDIZIO DELLE ANIME “ – E allora, ascolta, come si dice, un gran bel racconto, che tu considererai un mito, credo, e che io, invece, considero un ragionamento. Infatti, ti parlerò di ciò che sto per narrarti come se fossero cose vere. Come racconta Omero, Zeus, Poseidone e Plutone si spartirono il potere, dopo che l'ebbero ereditato dal padre. All'epoca di Crono, dunque, vigeva, e vige tuttora fra gli dèi, questa legge circa gli uomini: che chi fra gli uomini abbia vissuto in modo giusto e santo, una volta morto, vada ad abitare nelle Isole dei Beati, in completa felicità e al di fuori dei mali, e che chi, invece, abbia vissuto in modo ingiusto e senza dio, vada nel carcere dell'espiazione e del castigo, che chiamano Tartaro. Giudici di costoro, all'epoca di Crono e anche all'inizio del regno di Zeus, erano uomini vivi, giudici di uomini a loro volta vivi, poiché li giudicavano nel giorno stesso in cui dovevano morire. I giudizi, dunque, erano dati male. Allora Plutone e i guardiani delle Isole dei Beati andarono da Zeus a dire che arrivavano da loro, nell'uno e nell'altro luogo, uomini che non meritavano di esser mandati lì. Zeus, dunque, disse: «Farò in modo che questo non accada più. Ora i giudizi sono dati male, perché coloro che vengono giudicati, sono giudicati vestiti: vengono infatti giudicati da vivi. Molti, dunque, pur avendo anime malvagie, indossano bei corpi, nobiltà e ricchezze, e, quando si tiene il giudizio, vengono molti testimoni a deporre, in loro favore, che essi hanno vissuto nel rispetto della giustizia. I giudici, allora, si lasciano impressionare da queste cose, e giudicano a loro volta vestiti, avendo l'anima coperta dagli occhi, dalle orecchie e dal resto del corpo. E tutte queste cose sono loro d'intralcio, sia i loro abiti sia quelli di coloro che vengono giudicati. Come prima cosa, dunque, bisogna fare in modo che d'ora in poi non prevedano la propria morte, perché ora la prevedono. Ed è già stato dato ordine a Prometeo di far cessare questa loro preveggenza. Poi, devono essere giudicati nudi di tutte queste cose: bisogna che siano giudicati dopo che siano morti. Anche il giudice deve essere nudo, morto, e la sua anima deve contemplare l'anima di ognuno subito dopo la morte, da sola senza tutta la sua parentela, e dopo che abbia lasciato sulla terra tutti gli ornamenti, perché la sentenza sia giusta. E io, avendo saputo queste cose prima di voi, ho nominato giudici i miei figli, due dall'Asia, Minosse e Radamante, e uno dall'Europa, Eaco. E costoro, appena gli uomini saranno morti, li giudicheranno sul prato, nel trivio da cui partono le due strade, l'una che porta alle Isole dei Beati, l'altra che porta al Tartaro. Radamante giudicherà gli uomini dell'Asia ed Eaco quelli dell'Europa; a Minosse, invece, assegnerò il privilegio di giudicare come arbitro aggiunto, quando un caso sia insolubile per gli altri due, perché sia più giusta possibile la sentenza sulla destinazione degli uomini. Questo, o Callicle, è ciò che ho sentito dire, e credo che sia vero (πιστεύω ἀληθῆ εἶναι).” (Platone, “Gorgia” 523a-524b)
È la fede (pistis) nella verità (aletheia) del racconto (mytos) a rendere la narrazione un ragionamento (logos), che comporta la necessaria conseguenza: “La morte, come mi sembra, altro non è che la separazione di due cose, l'anima e il corpo, l'una dall'altra.” Il mito escatologico del giudizio dei morti del “Gorgia” è senz’altro una convinzione socratica, che Platone elabora nei dialoghi successivi, la “Repubblica” e il “Fedone”, nel quale ultimo la dottrina dell’immortalità dell’anima viene discussa sul fondamento del dubbio: “Come può accadere che con la morte dell’uomo l’anima non si disperda e questa non sia la fine del suo essere?” ὅπως μὴ ἅμα ἀποθνῄσκοντος τοῦ ἀνθρώπου διασκεδάννυται ἡ ψυχὴ καὶ αὐτῇ τοῦ εἶναι τοῦτο τέλος ᾖ. (“Fedone” 77b) Qual è quindi il senso del mito del “Gorgia”? Esso va letto come la logica conclusione della tesi di fondo dell’etica socratica, per la quale è meglio subire un’ingiustizia che commetterla: “Tutte le regole di cui abbiamo discusso si sono rivelate false; l’unica rimasta in piedi è questa: bisogna stare attenti più a non commettere un’ingiustizia che a non subirla, e la massima preoccupazione per un uomo deve essere quella non di sembrare buono, ma di esserlo, sia nella vita privata sia nella vita pubblica.” Da questi principi nasce quel sentimento di giustizia, che richiede la riparazione per la commissione del torto: Se poi qualcuno commette una colpa, bisogna punirlo: poiché questo è il bene che viene per secondo, dopo l’essere giusto: ridiventare giusto, pagando il proprio debito alla giustizia. E da qui nasce la fede in una giustizia divina, dove sono riparati i torti irreparabili della giustizia umana, quelli dovuti soprattutto alle nefandezze e delitti dei tiranni. “Ebbene, a ogni uomo che sconti una pena, se questa gli sia stata giustamente inflitta, accade o di diventare migliore e di riceverne giovamento, o di diventare un esempio per gli altri, affinché gli altri, vedendolo patire le pene che gli tocca patire, per paura diventino migliori. E coloro che traggono giovamento e che scontano la pena inflitta loro dagli dèi e dagli uomini, sono coloro che abbiano peccato di colpe sanabili. Tuttavia, il giovamento viene loro a prezzo di dolori e sofferenze, sia qui sia nell'Ade, perché non è possibile liberarsi dell'ingiustizia in altro modo. Coloro che invece commisero le peggiori ingiustizie e che a causa di tali ingiustizie sono diventati insanabili, vengono usati come esempi; e mentre essi personalmente non possono più trarne alcun giovamento, dato che sono insanabili, ne traggono giovamento altri che li vedano patire, a causa delle loro colpe, i tormenti più grandi, più dolorosi e più terribili per l'eternità, sospesi lì nel carcere dell'Ade come veri esempi, spettacolo e monito per gli ingiusti che continuamente vi giungono. E sostengo che uno di questi sarà anche Archelao, se è vero ciò che dice Polo, e chiunque altro sia un tiranno pari a lui. E credo che la maggior parte di costoro che saranno usati come esempio per gli altri, venga proprio dai tiranni, dai re, dai signori e da coloro che hanno curato gli affari della città. Costoro, infatti, a causa dell'arbitrio garantito dal potere che hanno, si macchiano delle ingiustizie più gravi e più empie. E di questo anche Omero è testimone: infatti re e signori li ha messi nell'Ade a pagare in eterno per le loro colpe, Tantalo, Sisifo e Tizio.”
IL GIUDIZIO DEI MORTI “Ascolta dunque, come si dice, un racconto molto bello, che penso riterrai una favola (μῦθον), ma che io ritengo un discorso vero (λόγον). Come verità (ἀληθῆ), presenterò dunque le cose che sto per dirti.” In tal modo nel “Gorgia” (523a) Socrate introduce il suo discorso sul mito dell’aldilà. In antico, il dialogo era sottotitolato: “Sulla Retorica” (Περί ῥητορικῆς), l’arte della persuasione, un’oratoria che non mira al vero, ma solo a convincere l’interlocutore delle proprie tesi. In tal senso, si può capire il diverso obiettivo di Socrate, che tende alla verità del discorso. E infatti presto l’argomento del dialogo cambia, spostandosi sul tema della giusta condotta da tenere in vita, anche in vista del futuro giudizio dopo la morte. “Infatti, nessuno teme il morire per sé stesso, a meno che non sia un uomo del tutto insensato e vile, ma è da temere il commettere ingiustizia. Infatti, l’estremo di tutti i mali è andare all’Ade con l’anima carica di molte ingiustizie. E se vuoi, intendo dimostrarti che è proprio così narrandoti un racconto.” (522e) E così viene introdotto il giudizio finale delle anime, sulla convinzione che con la morte l’anima si separa dal corpo. In tal modo, come il corpo (cadavere) presenterà tutti i segni e le cicatrici occorsigli in vita, così l’anima nuda mostrerà tutte le brutture, segno di tutte le ingiustizie commesse in vita, e sarà passibile del giudizio divino, per andare nelle Isole Beate o precipitare nel Tartaro. Il giudizio dei morti del “Gorgia” è quello più vicino al Giudizio Universale della dottrina cristiana, perché a differenza di quello del decimo libro della “Repubblica”, è propriamente definitivo, anche se non interviene alla fine di tutti i tempi. Ma se il racconto biblico ha una sua verità rivelata, un dogma di fede, il mito riferito a Socrate, ma esposto da Platone, fondato sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, aveva bisogno di trovare un suo fondamento razionale. Non era più il racconto della poesia omerica delle pallide figure di fantasmi che popolano l’Ade, come quella che Ulisse incontra nelle sembianze di Achille o della propria madre che per tre volte sfugge al suo struggente abbraccio. Doveva avere quindi una dimostrazione, basata sulla riflessione razionale e non più sulla fede socratica, la voce interiore del daimònion.
LA REMINISCENZA Occorre trovare una prova per dimostrare l’esistenza e l’immortalità dell’anima, ed è quanto Socrate riesce a fare nel “Menone”, mostrando come la conoscenza sia una forma di reminiscenza (anamnesis). L’esposizione del suo ragionamento si compone di due parti. Nella prima, egli riferisce di un’antica credenza di esperti di cose divine, riscontrata da Pindaro, secondo cui l’anima è immortale (athanatos), e pertanto alla conclusione della vita del corpo, essa si incarna in un altro corpo. Nella seconda parte, la credenza viene usata per sostenere che prima di incarnarsi, l’anima ha conosciuto tutte le cose, e pertanto in questa vita, essa “ricorda” quello che già conosce. Viene qui in rilievo uno dei punti nodali della dottrina del cosmo di Platone, l’anima del mondo, come sarà bene illustrata nel “Timeo”, e che trova una corrispondenza con quanto viene affermato nel “Menone”, come principio: “Poiché tutta la natura è congenere”. Nel suo commento al passo, Giovanni Reale annota: “Il testo dice τῆς φύσεως ἁπάσης συγγενοῦς οὔσης, dove il termine più importante, συγγενής, non va tradotto in modo sfumato , come molti fanno (“coerente”, “omogeneo”, “affine”), ma proprio con il termine “congenere”, che mantiene la lettera e il concetto del testo originario. Platone vuole dire questo: nella φύσις, ossia nella realtà del suo insieme, non vi sono piani staccati ed eterogenei, come dire non connessi strutturalmente.” Quest’appartenenza dell’anima individuale al genere cosmico può rilevarsi anche nel passo del “Timeo” (90a), dove Platone descrive la postura eretta del corpo umano, dovuta a una posizione dell’anima: “È questa la forma di anima, che noi diciamo abita nella parte superiore del corpo e dalla terra c’innalza verso la realtà che ci è congenere nel cielo (τήν ἐν οὐρανῶ συγγένειαν).” Il ricorso al mito dell’immortalità dell’anima serve a risolvere il breve paradosso della conoscenza, in quanto non è possibile cercare quello che conosce, perché lo conosce già, e non può cercare quello che non conosce, perché non sa che cosa deve cercare. Ecco, allora, il ricorso al mito della preesistenza dell’anima, in base a cui il problema della conoscenza si risolve come anamnesi, reminiscenza. Bisogna riportare alla coscienza quello che già si conosce, e questo Socrate dimostra tramite l’esperimento maieutico dell’interrogatorio dello schiavo di Menone.
“MENONE: E in che modo cercherai, o Socrate, ciò che non sai assolutamente cosa sia? Quale tra le cose che non sai proporrai come oggetto della tua ricerca? E se poi, nel migliore dei casi, ti imbattessi in essa, in che modo capirai che questa cosa è ciò che tu non sapevi? SOCRATE: Capisco cosa vuoi dire, Menone. Vedi come svolgi un discorso eristico, per il quale all'uomo non è dato cercare né ciò che sa né ciò che non sa? Infatti ciò che sa non lo cercherebbe - perché lo sa e non ha nessun bisogno di cercarlo - né cercherebbe ciò che non sa - e infatti non sa neppure cosa cercare. MENONE: Non pensi che questo discorso sia condotto bene, o Socrate? SOCRATE: No, non mi sembra. MENONE: Puoi dire come? SOCRATE: Sì: infatti ho sentito dire da uomini e donne sapienti di cose divine... MENONE: Quale ragionamento facevano? SOCRATE: Un ragionamento vero, a mio parere, e bello. MENONE: Qual è questo ragionamento e chi sono coloro che parlano? SOCRATE: A parlare sono i sacerdoti e le sacerdotesse, ai quali sta a cuore essere in grado di discutere di ciò di cui hanno il ministero; ma parla anche Pindaro e molti altri poeti, tutti quelli che sono divini. Ed ecco cosa dicono: esamina dunque se ti sembra che dicano il vero. Affermano infatti che l'anima dell'uomo è immortale, e che talora finisce - e questo lo chiamano morire - talora invece nasce di nuovo, ma non perisce mai; per questo dunque bisogna vivere il più possibile una vita pia; infatti a coloro dai quali “avrà ricevuto espiazione per l'antico dolore Persefone su in alto verso il sole nel nono anno manda ancora una volta le anime e da esse crescono re illustri uomini impetuosi per forza e potenti per sapienza; per il tempo che resta eroi senza macchia tra gli uomini sono chiamati”. (Pindaro, fr.127 Bowra). Dunque, dal momento che l'anima è immortale e nasce più volte, ed ha contemplato tutte le cose, sia qua sia nell'Ade, non c'è niente che essa non abbia imparato; sicché non desta meraviglia il fatto che essa sia capace di ricordare, sulla virtù e sul resto, ciò che sapeva anche prima. Infatti poiché la natura tutta è congenere e l'anima ha appreso tutto quanto, nulla impedisce che, ricordando una sola cosa - e questo gli uomini lo chiamano appunto apprendimento - uno trovi da se stesso anche tutto il resto, se è coraggioso e non si stanca di cercare: cercare e apprendere infatti sono in generale reminiscenza.” Socrate, a questo punto, viene incalzato da Menone: “Sì, Socrate, ma in che senso dici che non apprendiamo e che ciò che chiamiamo apprendimento è reminiscenza? Puoi insegnarmi che la cosa sta così? […] SOCRATE: Non è facile, ma per amor tuo, voglio metterci impegno. Chiama uno di questi tuoi numerosi servitori, quello che desideri, affinché io possa mostrartelo in lui. MENONE: Certo. Vieni qua. SOCRATE: È greco e parla greco? MENONE: Perfettamente: è nato in casa. SOCRATE: Fa' attenzione se ti pare che ricordi o che impari da me. MENONE: D'accordo, farò attenzione. SOCRATE: Dimmi dunque, ragazzo, sai che un'area quadrata è fatta così?” (“Menone, 81d-82b). Inizia qui l’esperimento maieutico, attraverso il quale Socrate aiuta il giovane schiavo di Menone a risolvere il problema della duplicazione dell’area del quadrato.
LA DUPLICAZIONE DEL QUADRATO l’interrogazione di Socrate ha lo scopo di suscitare nello schiavo, che non ha nessuna nozione della geometria, un ricordo che trascini con sé altri ricordi atti a ricostruire la visione che l’anima aveva nell’intellegibile, prima di precipitare nella sfera sensibile. Il problema di geometria che Platone fa presentare a Socrate è quello abbastanza diffuso nell’antichità della ricerca della duplicazione del quadrato, un quadrato con area doppia rispetto a quella del quadrato originario, di cui appunto si cerca il doppio.
SOCRATE : Dimmi, ragazzo, sai che questa superficie (ABCD) è quadrata? SCHIAVO: Si. SOCRATE: È una superficie quadrata avente tutti questi lati (AB,BC,CD,DA) uguali? SCHIAVO: Certo. SOCRATE: Se questo lato (AB) fosse di due piedi e quest’altro (AD) di due, di quanti piedi sarebbe l'intera superficie (ABCD)? SCHIAVO: Quattro, Socrate. SOCRATE : Non vi potrebbe essere un'altra superficie, doppia di questa, ma simile, avente tutti i suoi lati uguali, come questa ? SCHIAVO : Si. SOCRATE : Di quanti piedi sarà? SCHIAVO : Otto. SOCRATE : Prova a dirmi allora quanto sarà lungo ciascun lato di essa. Il lato di questa (ABCD) è di due piedi; quanto sarà quello della superficie doppia? SCHIAVO: Evidentemente il doppio, Socrate. SOCRATE: Dimmi: dal lato doppio (AI) secondo te si genera la superficie doppia? Voglio dire: avente ogni lato uguale come questa (ABCD) e doppia di questa, cioè di otto piedi. Guarda se sei ancora dell'opinione che si generi dal lato doppio (AI). SCHIAVO: Io sì. SOCRATE : II lato diventa doppio di questo (AD) se aggiungiamo a partire da qui (D), un altro lato (DN) altrettanto lungo? SCHIAVO : Certo. SOCRATE: Tu dici che da questo lato (AN) si genererà la superficie di otto piedi, se i quattro lati sono uguali ? SCHIAVO : Si. SOCRATE : Tracciamo i quattro lati uguali (AN, NL, LI, IA) a partire da questo (AN) Non è forse questa (ANLI) la superficie che, secondo te, è di otto piedi? SCHIAVO : Certo. SOCRATE: In essa non vi sono questi quattro quadrati (ABCD, BCKI, KLMC,CDNM), ciascuno dei quali è uguale a questo di quattro piedi (ABCD)? SCHIAVO: Sì. SOCRATE: Quanto è grande allora (ANLI)? Non è il quadruplo? SCHIAVO: Come no? SOCRATE: II quadruplo è dunque quanto il doppio? SCHIAVO: No, per Zeus! SOCRATE: Ma che multiplo è? SCHIAVO: II quadruplo. SOCRATE: Allora, giovanotto, dal lato doppio non si genera un quadrato doppio, ma quadruplo. SCHIAVO : E' vero!
SECONDA COSTRUZIONE DEL PROBLEMA (“Menone” 83c-84a)
SOCRATE : Da quale lato allora si genera una superficie di otto piedi ? La superficie di otto piedi non è doppia di questa (ABCD) e metà dell'altra (ANLI) ? SCHIAVO : Sì. SOCRATE: Non si genererà da un lato maggiore di questo (AD) e minore di quest'altro (AN)? O no? SCHIAVO : Credo di sì. SOCRATE: Bene, dimmi il tuo parere. E dimmi: quel lato (AD) non era di due piedi e questo (AN) di quattro? SCHIAVO: Sì. SOCRATE : È necessario, dunque, che il lato della superficie di otto piedi sia maggiore di questo di due piedi e minore di quello di quattro. SCHIAVO : Necessariamente. SOCRATE: Prova a dire quanto è lungo, secondo te. SCHIAVO: Tre piedi. SOCRATE: Se è di tre piedi, aggiungeremo a questo (AD) la metà (DO) e avremo il lato di tre piedi (AO) ... allo stesso modo ... si ha due piedi (AB) più un piede (BP )... se ne genera la superficie che dici (APQO)? SCHIAVO : Sì. SOCRATE: L'intera superficie , se per un lato (AP) è lunga tre piedi e per l'altro (AO) tre piedi, è tre volte tre piedi ? SCHIAVO : Sembra. SOCRATE: Ma tre volte tre piedi quanto fa ? SCHIAVO: Nove. SOCRATE : E di quanti piedi doveva essere la superficie doppia ? SCHIAVO: Di otto. SOCRATE: Dunque neppure dal lato di tre piedi si genera la superficie di otto piedi. SCHIAVO: No certo. SOCRATE : Da quale lato allora ? Prova a dircelo con esattezza. SCHIAVO: Per Zeus, non lo so!
TERZA COSTRUZIONE E SOLUZIONE DEL PROBLEMA (“Menone”, 84a-85b)
SOCRATE : Comprendi, Menone, quanto è progredito ormai ? Prima non sapeva quale fosse il lato del quadrato di otto piedi e neppure adesso lo sa, ma allora credeva di saperlo e rispondeva disinvoltamente come se lo sapesse, senza considerarsi in difficoltà. Ormai invece si considera in difficoltà e, poiché non sa, non crede neppure di sapere. [...] Osserva che cosa troverà, partendo da questa difficoltà alla ricerca con me, mentre io non farò che interrogarlo...(RIVOLTO ALLO SCHIAVO) : Dimmi tu, non abbiamo noi questa superficie (ABCD) di quattro piedi ? Capisci? SCHIAVO: Sì. SOCRATE : Possiamo aggiungere ad essa quest'altra (BCKI) uguale ? SCHIAVO : Sì. SOCRATE: E questa terza (KLMC) uguale a ciascuna delle altre due ? SCHIAVO: Sì. SOCRATE: Non possiamo completare la figura con questo quadrato (DCMN) nell’angolo (DCM)? SCHIAVO : Certo. SOCRATE : Non abbiamo qui quattro quadrati uguali ? SCHIAVO: Sì. SOCRATE: L'intera superficie (ANLI) di quante volte è maggiore di questo (ABCD) ? SCHIAVO : Quattro volte. SOCRATE: Ma noi avevamo bisogno di una superficie doppia, ricordi ? SCHIAVO : Certo. SOCRATE : Questa linea, condotta da un angolo all'altro in ciascuno di questi quadrati, non divide in due ciascuno di essi? SCHIAVO: Sì. SOCRATE: Non si generano allora queste quattro linee (BD,BK,KM,MD) uguali, che delimitano questa superficie (BDMK)? SCHIAVO: Sì. SOCRATE: Osserva: quanto è grande questa superficie? SCHIAVO: Non comprendo. SOCRATE : Ciascuna linea non ha forse diviso a metà internamente ciascuno dei quattro quadrati ? SCHIAVO : Sì SOCRATE : Quante metà sono in questa superficie (BDMK) ? SCHIAVO: Quattro. SOCRATE: Quante in questa (ABCD) ? SCHIAVO: Due. SOCRATE : Che cosa è quattro in rapporto a due ? SCHIAVO : II doppio. SOCRATE: Di quanti piedi è dunque questa (BDMK) ? SCHIAVO: Di otto SOCRATE : Da quale linea è generata ? SCHIAVO: Da questa (BD). SOCRATE: I competenti chiamano diagonale questa linea; sicché, se il suo nome è diagonale, la superficie doppia, come dici tu, schiavo di Menone, sarà generata dalla diagonale. SCHIAVO: Certo, Socrate.
1. La reminiscenza e le Idee “E del resto è la cosa più conveniente di tutte, per chi è sul punto di intraprendere il viaggio verso l’altro mondo, indagare con la ragione e discorrere con miti su questo viaggio verso l’altro mondo (μυθολογεῖν περὶ τῆς ἀποδημίας τῆς ἐκεῖ), di quale specie crediamo che sia. Se no che altro si potrebbe fare nel tempo che resta fino al tramonto del sole?” L’interrogativo è quello di Socrate morituro, che deve attendere la sera, in quanto le condanne alla pena capitale, per la legge attica, non potevano essere eseguite nelle ore diurne. Ma l’interrogativo non è soltanto il suo, è anche quello di tutti noi mortali, che però forse non abbiamo mai il tempo, o quello che ci resta del tempo, di pensare a quest’interrogativo sull’aldilà. Ma di quali miti parla (μυθολογεῖν) Socrate, di cui si accenna in questo passo del “Fedone”? Sono i due grandi miti escatologici, che vengono narrati nel corso del dialogo: l’immortalità dell’anima e la reincarnazione dopo la morte. Nel “Menone”, Socrate aveva cercato la prova della verità dell’immortalità dell’anima, attraverso la pratica dell’anamnesi, la reminiscenza. Nel “Fedone” (72e-77d), invece, viene elaborata una dottrina meglio strutturata in conformità con la teoria delle Idee. “Infatti, - aggiunse Cebete - mi sembra che sia proprio questo il senso di quella frase famosa, se vera, che tu [Socrate] sei sempre solito ripetere, sapere non è altro che ricordare. Da ciò deriva il fatto che noi dobbiamo avere già imparato, in un tempo precedente, ciò che ora ricordiamo; e questo non sarebbe possibile se la nostra anima non fosse già esistita in qualche luogo prima di assumere la sua forma umana. Anche per questo motivo, dunque, è da credere che l'anima sia immortale.” Cebete sembra convinto di quanto Socrate solitamente ripete, ma interviene Simmia con un suo dubbio per richiedere la prova di quanto affermato, e Cebete ribatte, tirando in ballo le cognizioni generali di ognuno e fa l’esempio della conoscenza della geometria. Per meglio convincere Simmia, allora, Socrate prova a porre il problema da un’altra parte: “Siamo d'accordo, è vero, che quando uno ricorda qualcosa deve, indubbiamente, averla già vista prima? – Ma certo. – E quindi siamo anche d'accordo su questo punto: che il sapere, cioè, quando si acquista attraverso un particolare procedimento, è reminiscenza? E ti dico subito quale: se uno ha visto una cosa o ne ha sentito parlare o ne ha provato una sensazione qualunque, non conosce solo questa data cosa, ma se ne richiama alla mente un'altra, del tutto diversa, che non ha nulla a che fare con la prima. Non dobbiamo, allora, affermare che egli si è “ricordato” di questa cosa che s'è venuta in lui ridestando?”
Quindi egli prosegue con il discorso, che noi possiamo oggi definire “associazione di idee”, grazie al linguaggio concettuale, le idee, che lo stesso Platone ha inaugurato. “– E non sai che gli innamorati, vedendo una lira o un mantello o qualche altra cosa che la loro dolce metà, di solito, adopera, non solo riconoscono la lira ma richiamano alla loro mente l'immagine fisica della persona amata cui la lira appartiene? E questo è la reminiscenza. Allo stesso modo che vedendo Simmia ci si ricorda di Cebete. E di esempi simili se ne possono citare a migliaia – Certo, per Zeus! – riconobbe Simmia. – E in questo caso, non si ha una reminiscenza? Specialmente, poi, per quelle cose che, o per il tempo o perché non sono più sotto i nostri occhi, avevamo dimenticate? – Sicuramente!” Socrate poi continua a incalzare l’interlocutore, per giungere alla configurazione della cosa in sé, l’Idea: “– Ma quando il ricordo di qualcosa viene stimolato da qualche altra cosa che le somiglia, necessariamente, non vien fatto di pensare se vi sia somiglianza più o meno perfetta tra l'oggetto che ha suscitato il ricordo e l'immagine ridestatasi nella nostra memoria? – Certamente, disse. – E allora, vediamo un po' che succede, – riprese Socrate. – Noi diciamo, senza alcun dubbio, che vi è l'eguale, non voglio dire nel senso di un pezzo di legno che è eguale a un altro pezzo di legno o di una pietra eguale a un'altra e così via, ma alludo a qualcosa che è all'infuori di tutti questi oggetti eguali, diverso, cioè all'Eguale in sé. Dobbiamo dire che esiste o no? – Certo che dobbiamo affermarlo, per Zeus, – disse Simmia.” Qui, Platone compie il salto dal sensibile all’intellegibile, evocando non un oggetto come un altro, un pezzo di legno, ma un oggetto proprio del pensiero, esistente soltanto in una sfera ideale, al di fuori di quella dei vari oggetti percepibili con i sensi. Ora, il discorso esige una certa attenzione: “– E sappiamo pure che cosa sia? – Certo. – E da dove ne è derivata la sua conoscenza? Forse da quelle cose di cui parlavamo, legni, pietre e roba del genere, che, vedendoli eguali, ci han suggerito il concetto dell'Eguale in sé, che è diverso dagli altri? O forse, a te, non sembra tale? Ebbene, sta attento: non può essere che legni o pietre eguali, pur restando sempre quelli, ad alcuni sembrano eguali e ad altri no? – Certo. – Ebbene, l'Eguale in sé ti è mai apparso diseguale, cioè l'eguaglianza ti si è mai presentata come disuguaglianza? – Mai, Socrate. - Difatti, questi eguali e l'Eguale in sé, non sono la stessa cosa. – Mi pare proprio di no, Socrate. – Eppure, non è proprio da queste cose eguali, sebbene diverse dall'Eguale in sé, che hai potuto risalire e giungere alla conoscenza di quest'ultimo? – Verissimo – rispose.” È un processo di astrazione quello che Socrate sta illustrando: risalire dalle cose sensibili alle Idee. E ragionando sulla scorta della reminiscenza – “ogni volta che tu, vedendo una cosa ne pensi un'altra, eguale o diversa che sia, necessariamente, in te s'è prodotta una reminiscenza” – applica questo processo del ricordare anche alla conoscenza dell’Eguale, l’idea, evocata dalla visione delle cose sensibili uguali. “– Necessariamente, quindi, noi dobbiamo aver conosciuto l'Eguale in sé prima che la vista di cose eguali ci abbia fatto pensare che esse tendono ad essere come l'Eguale in sé, pur restandogli inferiori. – È proprio così.”
In tal modo, si arriva a ad ammettere la preesistenza della conoscenza rispetto ai sensi e alla vita del corpo: “ – E quindi, prima che noi cominciassimo a vedere, a udire e a percepire con gli altri sensi, noi dovevamo avere, necessariamente, in qualche modo, già una conoscenza dell'Eguale in sé e della sua realtà, perché altrimenti noi non avremmo mai potuto paragonargli le eguaglianze sensibili, né pensare che, pur aspirando ad essergli simili, queste ultime gli restavano inferiori. – Per quanto detto, Socrate, è proprio così. – E noi non abbiamo cominciato a vedere, a udire, a usare gli altri sensi, subito, appena nati? – Sicuro. – Ma non abbiamo detto che, per questo, era necessario aver prima la conoscenza dell'Eguale in sé? – Sì. – Quindi, questa conoscenza, noi l'avevamo prima di nascere. – Pare di sì.” Ma non si ha soltanto dell’Idea dell’Eguale, anche le altre Idee, le astrazioni di quello che si dice di concreto, debbono essere preesistenti: “Dunque, se noi, prima di nascere, possedevamo questa conoscenza e, con la nascita, ne potemmo disporre, ne consegue che già prima e, poi, una volta nati, noi avevamo non solo il concetto di Eguale in sé e quello di Maggiore e di Minore, ma anche tutte le altre Idee. Perché il nostro discorso, ora, non vale solo per l'Eguale in sé ma anche per il Bello, per il Buono, per il Giusto, per il Santo, insomma per tutto ciò che noi, parlando, definiamo coi termine di “realtà in sé”, sia nelle questioni che poniamo che nelle risposte che diamo. Dunque, necessariamente, di tutte queste realtà, noi dobbiamo averne avuto conoscenza prima di nascere.” E andando avanti nel discorso, si pone l’alternativa: “O siamo nati con la conoscenza, delle realtà in sé e continuiamo ad averla per tutta la vita, oppure quelli che noi diciamo che imparano dopo non fanno che ricordarsi e in tal caso la sapienza non è che reminiscenza.” Socrate interroga l’interlocutore: “– Cosa ne pensi, dunque, Simmia, che siamo nati già sapienti, oppure che, man mano, in seguito, ci ricordiamo di quanto già conoscevamo? – Mah, così sul momento, non so proprio che cosa dire.” Socrate allora prosegue, dimostrando la preesistenza dell’anima rispetto al corpo: – Però saprai dirmi la tua opinione almeno su questo: un uomo che sa, sarà in grado di render conto delle cose che sa? – Certo che lo sarà, Socrate. – E credi che tutti siano capaci di dare una ragione delle realtà di cui ora parlavamo? – Ah, lo vorrei proprio, ma temo, – rispose Simmia, – che domani a quest'ora non ci sarà nessuno capace di fare questo in modo adeguato.” Simmia cade nella trappola di Socrate (Platone), che sapendo la realtà sensibile mutevole, sa anche che impossibile “sapere” tutto in un momento, i.e. nel “tempo”, ma soltanto quando l’anima libera del corpo contempla “l’eterno” delle Idee. “– Quindi, Simmia, secondo te, non tutti conoscono queste realtà? - Ah, no di certo. – Allora si ricordano di quello che appresero un tempo? – Certamente. – Ma quand'è che le nostre anime hanno conosciuto queste realtà? Non certo da quando è iniziata la nostra vita umana? – No, certo. – Allora prima? – Sì. – Quindi, Simmia, le anime esistevano prima ancora di assumere forma umana, separate dal corpo e dotate di intelligenza. – A meno che, Socrate, questa conoscenza non l'acquistiamo al momento di nascere. C'è anche questa eventualità. – Ah, sì? – Ma allora quand'è che noi perdiamo la conoscenza di queste realtà? Infatti, abbiamo appena detto che noi non la possediamo alla nostra nascita. O pensi che la perdiamo nel momento stesso in cui l'abbiamo acquistata? O mi sai dire quando? – No, Socrate e ora m'accorgo di aver detto una sciocchezza.” Siamo arrivati al punto in cui la dimostrazione della preesistenza dell’anima, la sua esistenza indipendente dal corpo, si salda con quella dell’esistenza delle Idee.
“Non è così , Simmia? Se esistono queste realtà di cui stiamo tanto parlando, cioè il Bello, il Buono e così via, e se ad esse riconduciamo le cose che percepiamo con i sensi, perché riconosciamo che quelle realtà sono in noi preesistenti, se ad esse confrontiamo le cose sensibili, allora bisogna pur dire che come esistono queste realtà così anche la nostra anima esiste ancora prima della nostra nascita. Se non fosse così non se ne andrebbe all'aria tutto il nostro ragionamento? Non è, quindi, logico e necessario che, se esistono queste realtà, anche le nostre anime devono esistere prima della nostra nascita e, viceversa, se non esistono le une, non possono nemmeno esistere le altre?” Simmia è convinto: “– Sicuro, Socrate, vi è una correlazione non negabile tra i due fatti e mi pare proprio che la questione si sia risolta in questo rapporto necessario tra l'esistenza dell'anima, prima della nostra nascita, e quella delle realtà di cui hai parlato.” E Cebete? “Bisogna convincere, ora, anche lui,” dice Socrate. Ma qual è l’obiezione di quest’ultimo? “– È chiaro che si è dimostrato solo la metà di ciò che bisognava dimostrare, cioè solo che la nostra anima esiste prima che noi nasciamo; occorre ora dimostrare che essa esisterà, né più né meno, anche dopo la nostra morte, se vogliamo che la dimostrazione sia completa.” Ma Socrate risolve subito il dubbio, ricorrendo a quanto già prima acclarato tra loro: “La dimostrazione è presto fatta, Simmia e Cebete, basta che voi fate coincidere ciò che ora s'è concluso con la questione che poco fa ci ha trovato tutti d'accordo, cioè che ciò che è vivo nasce da ciò che è morto. Giacché se è vero che l'anima esiste prima della nascita del corpo, se per generarsi e per vivere, essa deve nascere dalla morte e dall'essere noi morti in precedenza, non sarà altrettanto vero che essa sopravviverà alla morte per il fatto che deve nuovamente generarsi? Ecco che la cosa cui avete accennato è già bell'e dimostrata.” Così si conclude la prima delle tre dimostrazioni dell’immortalità dell’anima, dibattute nel dialogo. Infatti, dopo un breve intermezzo sul “fanciullino” che alberga nell’animo di Cebete, continua la discussione sul tema della morte. “ – Eppure se non mi sbaglio, tu e Simmia, vorreste esaminare più a fondo la questione perché mi pare che siete spaventati come dei bambini, quasi che l'anima, appena fuori del corpo, se la portasse via il vento e la disperdesse, specie poi quando ci tocca morire non con tempo sereno, ma in mezzo a un temporale. – E tu assicuraci, Socrate, – disse Cebete sorridendo – come se noi effettivamente avessimo paura o meglio, come se non fossimo noi ad essere spaventati ma quel fanciullo che è in noi. Dunque, fa in modo che questo fanciullo non abbia paura della morte come di uno spauracchio. – Bisognerebbe fargli ogni giorno gli incantesimi, – ammise Socrate, – per liberarlo da questi timori. – E dove andremo a trovarlo un incantatore capace, per queste paure, visto che tu ci stai per lasciare? – Oh, Cebete, la Grecia è grande, – rispose – e non manca di uomini in gamba; e poi, vi sono i paesi esteri, verso i quali voi dovete rivolgere le vostre ricerche. E non risparmiate né spese né fatiche per un tale incantatore, perché voi non potreste spendere meglio il vostro denaro. Ma soprattutto datevi da fare voi stessi, gli uni con gli altri, perché è difficile che troviate persone capaci di assolvere questo compito, più che voi stessi. – Ma certo lo faremo – assicurò Cebete, – però, ora, se non ti dispiace, torniamo al punto dove eravamo. – Affatto, figurati, perché dovrebbe? – Bene, così.”
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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LA TRASMIGRAZIONE DELLE ANIME
“Considerando l'anima immortale e capace di sopportare ogni male e ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita alla saggezza; in questo modo saremo cari a noi stessi e agli dèi finché resteremo quaggiù, e anche dopo che avremo riportato i premi della giustizia, compiendo il giro d’onore come gli atleti vittoriosi, e così godremo della felicità su questa terra e nel cammino di mille anni che abbiamo descritto.”
Con queste parole Platone chiude il decimo e ultimo libro della “Repubblica”, il suo capolavoro, additando nella giusta scelta di vita da compiere il fine ultimo dell’uomo, valido anche dopo la morte, una condotta di giustizia e saggezza tracciata in ragione della dottrina (mito) dell’immortalità dell’anima.
La similitudine del giro d’onore degli atleti vittoriosi (νικηφόροι περιαγειρόμενοι) trova corrispondenza nella descrizione, compiuta da Platone nel “Fedro”, del più alto volo dell’anima, che librandosi al di sopra del cielo, al seguito di un dio del celeste corteo, riesce a contemplare la pianura della verità.
“La forza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è grave, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. E il divino è bellezza, saggezza, bontà, e ogni altra cosa simile; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano del cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. […]
Infatti, delle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, si solleva verso il luogo fuori del cielo […] avendo un gran desiderio di ammirare la pianura della verità, sia perché il pascolo che si conviene al meglio delle anime proviene da quella prateria, sia per la natura dell’ala, onde l’anima si fa leggera e qui trova il suo nutrimento. È questa la legge di Adrastea: l’anima che al seguito del dio abbia visto qualcuna delle verità, rimanga incolume fino all’altro giro.”
Che cosa si deve intendere per “altro giro”? È la domanda che si pone Armando Plebe, traduttore e commentatore del dialogo. “Dal confronto con il decimo libro della “Repubblica” risulta che si tratta del prossimo periodo di reincarnazioni, che avviene a distanza di mille anni dal precedente.” La nota serve per chiarire il periodo di anni necessario al compimento delle successive reincarnazioni, un dubbio che potrebbe sorgere in base all’interpretazione di un’altra affermazione fatta un po’ oltre nel testo (“Fedro”, 249a): “A quel luogo, poi, donde è mossa, ciascuna anima non giunge prima di diecimila anni.” Quest’ultimo periodo è sconosciuto al mito delle anime del decimo libro della “Repubblica”, la cui stesura è precedente a quella del “Fedro”. Ed, osserva Plebe, questo periodo non corrisponde all’intervallo tra un’incarnazione e l’altra, ma indica il periodo complessivo delle successive incarnazioni, al cui termine l’anima ritorna in ogni modo alla sede celeste.
Nel “Fedro” 248d, Platone introduce una modifica al mito della “Repubblica”: “[l’anima] è legge che non venga immessa in nessuna natura di bestia, durante la prima generazione.” E questo è “Inevitabile”, come si può ricavare dall’etimo del nome di Adrastea (Ἀδράστεια), la ninfa che allevò Zeus sottratto da Rea alla furia divoratrice di Crono. Anche qui, come altrove, si coglie la scelta del nome da parte di Platone, per concettualizzare il linguaggio favolistico del mito. La modifica serviva a stabilire il principio che alla fine del ciclo di diecimila anni, l’anima che rientrava nella sede celeste avesse avuto almeno un’incarnazione umana. “Nel millesimo anno [quindi non alla prima incarnazione] – dice Platone (249b) – un’anima di uomo può prendere vita di animale e quegli che era già stato uomo può da animale ritornare ad essere uomo.” In tal modo, osserva Plebe, quando per metempsicosi un animale si trasforma in uomo, non è più un vero e proprio umanizzarsi della bestia, perché si tratta sempre di un tornare ad essere uomo, in quanto l’anima, almeno nella sua prima generazione, si era incarnata in un uomo. Ma sentendo come degradazione quella dell’essere umano di ridursi allo stato animalesco, quali motivazioni razionali possono indurre un’anima che è stata incarnata in un uomo a scegliere di reincarnarsi in quella di una bestia?
La risposta la troviamo nel citato decimo libro della “Repubblica”: “Er disse che valeva la pena di vedere lo spettacolo delle singole anime intente a scegliere la propria vita: uno spettacolo compassionevole, ridicolo e singolare, dato che per lo più sceglievano in base alle abitudini della vita precedente. Raccontò di aver visto l'anima che era stata di Orfeo scegliere la vita di un cigno per odio verso la razza delle donne, poiché era morto per mano loro e quindi non voleva nascere dal grembo di una donna. Vide poi l'anima di Tamira [1] scegliere la vita di un usignolo, ma vide anche un cigno e altri animali canori scegliere di trasformarsi in uomini. L'anima sorteggiata per ventesima scelse la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio, che rifuggiva dal nascere uomo, ricordando il giudizio delle armi. Dopo venne l'anima di Agamennone [2]: anch'essa detestava il genere umano per le sofferenze subite, e prese in cambio la vita di un'aquila. L'anima di Atalanta [3] era invece capitata in sorte nei turni intermedi, e avendo visto i grandi onori riservati a un atleta non seppe passare oltre, ma scelse quelli. Poi vide l'anima di Epeo [4], figlio di Panopeo, assumere la natura di una donna laboriosa; lontano, tra le ultime, scorse l'anima del grottesco Tersite [5] entrare in una scimmia. Venne infine a fare la sua scelta l'anima di Odisseo, che per caso era stata sorteggiata per ultima; essendo ormai guarita dall'ambizione grazie al ricordo dei travagli passati, andò in giro per parecchio tempo a cercare la vita di uno sfaccendato qualsiasi, e a fatica ne trovò una che giaceva in un canto ed era stata trascurata dagli altri. Quando la vide disse che avrebbe fatto lo stesso anche se fosse stata sorteggiata per prima, e tutta contenta se la prese. Allo stesso modo gli animali si trasformavano in uomini o questi uni negli altri, quelli ingiusti in animali selvaggi, quelli giusti in animali domestici, e avvenivano mescolanze d'ogni sorta.”
[1] Tamiri, il mitico cantore, osò sfidare le Muse, ed esse lo accecarono e privarono della sua arte.
[2] L'aquila si adatta alla vita futura di Agamennone, perché è l'uccello di Zeus, che legittima il potere dei re.
[3] Atalanta, velocissima nella corsa, promise di sposare chi l’avesse battuta nella gara e di uccidere gli sconfitti. Vinse il solo Ippomene, che durante il tragitto le gettò davanti le tre mele d'oro delle Esperidi, donategli da Afrodite. Atalanta si attardò a raccoglierle e perse la sfida.
[4] Epeo aveva costruito il cavallo di Troia sotto la direzione di Atena, la dea che tra l'altro presiedeva ai lavori femminili, e questo spiega la ragione della sua scelta.
[5] Tersite è il soldato greco scimmiesco più brutto e codardo dell’Iliade.
L’ANELLO DI GIGE
“ – Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla un male, e che subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di conseguenza, quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche, e provano così entrambe le condizioni, non potendo evitare l'una e scegliere l'altra, sembra loro vantaggioso accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l'origine e l'essenza della giustizia, che sta a metà tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia, essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma come un qualcosa che è tenuto in conto per l'incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e l'origine della giustizia, secondo l'opinione corrente. Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per l'impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a ciascuno dei due, al giusto e all'ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli osservando dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la stessa strada dell'ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire come un bene, mentre la legge la devia a forza a onorare l'uguaglianza. E la facoltà di cui parlo sarebbe tale soprattutto se avessero il potere che viene attribuito a Gige, l'antenato di Creso re di Lidia. Si racconta che egli serviva come pastore l'allora sovrano di Lidia. Un giorno, a causa delle forti piogge e di un terremoto, la terra si spaccò e si produsse una fenditura nel luogo in cui teneva il gregge al pascolo. Gige si meravigliò al vederla e vi discese; qui, tra le altre cose mirabili di cui si favoleggia, vide un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi si affacciò e scorse là dentro un cadavere, che appariva più grande delle normali dimensioni di un uomo; e senza avergli tolto nulla, tranne un anello d'oro che portava a una mano, uscì fuori. Quando ci fu la consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato delle greggi, si presentò anch'egli, con l'anello al dito; quindi, mentre era seduto in mezzo agli altri, girò per caso il castone dell'anello verso di sé, all'interno della mano, e così divenne invisibile ai compagni che gli sedevano accanto e che si misero a parlare di lui come se fosse andato via. Egli ne rimase stupito e toccando di nuovo l'anello girò il castone verso l'esterno, e appena l'ebbe girato ridiventò visibile. Riflettendo sulla cosa, volle verificare se l'anello aveva questo potere, e in effetti gli accadeva di diventare invisibile quando girava il castone verso l'interno, visibile quando lo girava verso l'esterno. Non appena si accorse di questo fece in modo di essere incluso tra i messi personali del re; una volta raggiunto l'obiettivo divenne l'amante della sua sposa, congiurò assieme a lei contro il re, lo uccise e in questo modo si impadronì del potere.
IL MITO DI ER
“Er figlio di Armenio, di origine panfilica. Costui era morto in guerra e quando, al decimo giorno, si portarono via dal campo i cadaveri già decomposti, fu raccolto intatto e ricondotto a casa per essere sepolto; al dodicesimo giorno, quando si trovava già disteso sulla pira, ritornò in vita e raccontò quello che aveva visto laggiù. Disse che la sua anima, dopo essere uscita dal corpo, si mise in viaggio assieme a molte altre, finché giunsero a un luogo meraviglioso, nel quale si aprivano due voragini contigue nel terreno e altre due, corrispondenti alle prime, in alto nel cielo. In mezzo ad esse stavano seduti dei giudici, i quali, dopo aver pronunciato la loro sentenza, ordinavano ai giusti di prendere la strada a destra che saliva verso il cielo, con un contrassegno della sentenza attaccato sul petto, agli ingiusti di prendere la strada a sinistra che scendeva verso il basso, anch'essi con un contrassegno sulla schiena dove erano indicate tutte le colpe che avevano commesso. Giunto il suo turno, i giudici dissero a Er che avrebbe dovuto riferire agli uomini ciò che accadeva laggiù e gli ordinarono di ascoltare e osservare ogni cosa di quel luogo. Così vide le anime che, dopo essere state giudicate, partivano verso una delle due voragini del cielo o della terra; dall'altra voragine della terra risalivano anime piene di lordura e di polvere, dall'altra posta nel cielo scendevano anime pure. Quelle che via via arrivavano sembravano reduci come da un lungo viaggio; liete di essere giunte a quel prato, vi si accampavano come in un'adunanza festiva. Le anime che si conoscevano si abbracciavano e quelle provenienti dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, e viceversa. Nello scambiarsi i racconti delle proprie vicende le une gemevano e piangevano, al ricordo di quante e quali sofferenze avevano patito e veduto durante il viaggio sottoterra (un viaggio di mille anni), mentre quelle provenienti dal cielo riferivano le visioni di beatitudine e di straordinaria bellezza che avevano contemplato. Ma per farne un resoconto minuzioso, Glaucone, ci vorrebbe troppo tempo; in ogni caso la sostanza, stando al racconto di Er, è la seguente: per ogni ingiustizia commessa e ogni persona offesa le anime avevano scontato una pena decupla; ciascuna pena era calcolata in cento anni, perché tale è la durata della vita umana, in modo che pagassero un fio dieci volte superiore alla colpa.
Ad esempio, se alcuni erano stati responsabili della morte di molte persone, perché avevano tradito città o eserciti precipitandoli nella schiavitù o si erano resi colpevoli di qualche altro delitto, per ciascuna di queste colpe subivano patimenti dieci volte maggiori; se invece avevano fatto dei benefici e si erano comportati in modo giusto e pio, ricevevano la debita ricompensa nella stessa misura. Sul conto di quelli morti appena nati o vissuti per poco tempo disse altre cose che non vale la pena di ricordare. Aggiunse che la pietà e l'empietà verso gli dèi e i genitori e l'omicidio erano ripagati in misura ancora maggiore. Infatti raccontò di essersi trovato accanto a un tale a cui un altro chiedeva dove fosse Ardieo il grande. Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia già mille anni prima d'allora, e a quanto si diceva aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore e si era macchiato di molte altre scelleratezze. Er disse che l'interrogato rispose: "Non è venuto qui, né mai verrà. Infatti, tra i vari spettacoli terribili cui assistemmo, ci toccò anche questo: quando eravamo vicini all'imboccatura e stavamo ormai per risalire, dopo avere subito tutte le altre prove, all'improvviso vedemmo lui e gli altri; si trattava per lo più di tiranni, ma c'erano anche cittadini comuni che si erano resi colpevoli delle più gravi ingiustizie. Quando ormai erano convinti di risalire, l'imboccatura non li lasciava passare, ma emetteva un muggito ogni volta che uno dei malvagi più inguaribili o di quelli non avevano scontato a sufficienza la loro pena tentava di uscire. Lì vicino stavano alcuni uomini selvaggi dall'aspetto infuocato [i diavoli? N. d. B.], che non appena intesero quel suono ne afferrarono alcuni e li portarono via, mentre ad Ardieo e ad altri legarono le mani, i piedi e il capo, e dopo averli gettati a terra e scorticati li trascinarono lungo la strada, cardandoli su certe piante spinose; e a chiunque passasse indicavano il motivo di quel trattamento, spiegando che erano portati via per essere precipitati nel Tartaro". Tra le varie paure che essi avevano provato laggiù, disse Er, quella che al momento di salire riecheggiasse il muggito le superava tutte, e ciascuno provava la massima gioia se al suo passaggio l'imboccatura taceva. Tali erano dunque le sentenze e le pene, e dall'altro lato le ricompense corrispondenti.”
I RACCONTI DELLA NONNA
INTRODUZIONE
Il titolo di questo post, che compare sotto la rubrica “Filosofia”, merita alcune righe di commento, per chiarirne il senso. La figura della nonna già di per sé ispira il senso di qualcosa di antico, non per l’età effettiva della nonna, al massimo poco più che centenaria, ma appunto per l’immagine portatrice di qualcosa che ci viene da una tradizione antica. E la tradizione, nel suo senso più letterale, il latino “tradere”, sta ad indicare trasmissione e consegna. E che cosa ci trasmette quella buona vecchietta che è la nonna, almeno nel nostro immaginario? Le sue favolette. In che senso?
Per un adulto, che ha messo su famiglia e ha i figli piccoli, si può presentare a volte o anche più frequentemente di alcune volte la necessità di mettere a letto i suoi bambini, che hanno bisogno di sentire delle favole per addormentarsi. E allora egli non può fare a meno di ricordare o perlopiù fantasticare sulla sua età di bambino, messo a letto dalla mamma, che per addormentarlo gli leggeva le favolette. Ora, questa mamma idealizzata, tipo quella della “Recherche” di Proust che doveva dare il bacio della buona notte a Marcel, quando il bambino andava a letto, un classico della letteratura, l’adulto la ricorda giovane, ma se la mettiamo a confronto con il bambino che va a dormire, appare trasfigurata nella buona vecchietta che racconta favole.
Ma che cosa c’entra questa figura del buon tempo antico con il mito escatologico dell’aldilà, che chiude il dialogo platonico del “Gorgia” sul tema della retorica? È il monito finale di Socrate rivolto a Callicle, per significare che il suo racconto sul giudizio delle anime dopo la morte, con premi e castighi, non è un mythos, ma una narrazione veritiera (logos): “Probabilmente, queste cose che ti sono state narrate ti sembrerà che siano una favola, come ne raccontano le vecchiette […] ma fra tanti ragionamenti, mentre gli altri sono stati confutati, questo è l'unico ben saldo, ossia che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia.”
IL GIUDIZIO DELLE ANIME
“ – E allora, ascolta, come si dice, un gran bel racconto, che tu considererai un mito, credo, e che io, invece, considero un ragionamento. Infatti, ti parlerò di ciò che sto per narrarti come se fossero cose vere. Come racconta Omero, Zeus, Poseidone e Plutone si spartirono il potere, dopo che l'ebbero ereditato dal padre. All'epoca di Crono, dunque, vigeva, e vige tuttora fra gli dèi, questa legge circa gli uomini: che chi fra gli uomini abbia vissuto in modo giusto e santo, una volta morto, vada ad abitare nelle Isole dei Beati, in completa felicità e al di fuori dei mali, e che chi, invece, abbia vissuto in modo ingiusto e senza dio, vada nel carcere dell'espiazione e del castigo, che chiamano Tartaro. Giudici di costoro, all'epoca di Crono e anche all'inizio del regno di Zeus, erano uomini vivi, giudici di uomini a loro volta vivi, poiché li giudicavano nel giorno stesso in cui dovevano morire. I giudizi, dunque, erano dati male. Allora Plutone e i guardiani delle Isole dei Beati andarono da Zeus a dire che arrivavano da loro, nell'uno e nell'altro luogo, uomini che non meritavano di esser mandati lì. Zeus, dunque, disse: «Farò in modo che questo non accada più. Ora i giudizi sono dati male, perché coloro che vengono giudicati, sono giudicati vestiti: vengono infatti giudicati da vivi. Molti, dunque, pur avendo anime malvagie, indossano bei corpi, nobiltà e ricchezze, e, quando si tiene il giudizio, vengono molti testimoni a deporre, in loro favore, che essi hanno vissuto nel rispetto della giustizia. I giudici, allora, si lasciano impressionare da queste cose, e giudicano a loro volta vestiti, avendo l'anima coperta dagli occhi, dalle orecchie e dal resto del corpo. E tutte queste cose sono loro d'intralcio, sia i loro abiti sia quelli di coloro che vengono giudicati. Come prima cosa, dunque, bisogna fare in modo che d'ora in poi non prevedano la propria morte, perché ora la prevedono. Ed è già stato dato ordine a Prometeo di far cessare questa loro preveggenza. Poi, devono essere giudicati nudi di tutte queste cose: bisogna che siano giudicati dopo che siano morti. Anche il giudice deve essere nudo, morto, e la sua anima deve contemplare l'anima di ognuno subito dopo la morte, da sola senza tutta la sua parentela, e dopo che abbia lasciato sulla terra tutti gli ornamenti, perché la sentenza sia giusta. E io, avendo saputo queste cose prima di voi, ho nominato giudici i miei figli, due dall'Asia, Minosse e Radamante, e uno dall'Europa, Eaco. E costoro, appena gli uomini saranno morti, li giudicheranno sul prato, nel trivio da cui partono le due strade, l'una che porta alle Isole dei Beati, l'altra che porta al Tartaro. Radamante giudicherà gli uomini dell'Asia ed Eaco quelli dell'Europa; a Minosse, invece, assegnerò il privilegio di giudicare come arbitro aggiunto, quando un caso sia insolubile per gli altri due, perché sia più giusta possibile la sentenza sulla destinazione degli uomini. Questo, o Callicle, è ciò che ho sentito dire, e credo che sia vero (πιστεύω ἀληθῆ εἶναι).” (Platone, “Gorgia” 523a-524b)
È la fede (pistis) nella verità (aletheia) del racconto (mytos) a rendere la narrazione un ragionamento (logos), che comporta la necessaria conseguenza: “La morte, come mi sembra, altro non è che la separazione di due cose, l'anima e il corpo, l'una dall'altra.”
Il mito escatologico del giudizio dei morti del “Gorgia” è senz’altro una convinzione socratica, che Platone elabora nei dialoghi successivi, la “Repubblica” e il “Fedone”, nel quale ultimo la dottrina dell’immortalità dell’anima viene discussa sul fondamento del dubbio: “Come può accadere che con la morte dell’uomo l’anima non si disperda e questa non sia la fine del suo essere?” ὅπως μὴ ἅμα ἀποθνῄσκοντος τοῦ ἀνθρώπου διασκεδάννυται ἡ ψυχὴ καὶ αὐτῇ τοῦ εἶναι τοῦτο τέλος ᾖ. (“Fedone” 77b)
Qual è quindi il senso del mito del “Gorgia”? Esso va letto come la logica conclusione della tesi di fondo dell’etica socratica, per la quale è meglio subire un’ingiustizia che commetterla: “Tutte le regole di cui abbiamo discusso si sono rivelate false; l’unica rimasta in piedi è questa: bisogna stare attenti più a non commettere un’ingiustizia che a non subirla, e la massima preoccupazione per un uomo deve essere quella non di sembrare buono, ma di esserlo, sia nella vita privata sia nella vita pubblica.” Da questi principi nasce quel sentimento di giustizia, che richiede la riparazione per la commissione del torto: Se poi qualcuno commette una colpa, bisogna punirlo: poiché questo è il bene che viene per secondo, dopo l’essere giusto: ridiventare giusto, pagando il proprio debito alla giustizia. E da qui nasce la fede in una giustizia divina, dove sono riparati i torti irreparabili della giustizia umana, quelli dovuti soprattutto alle nefandezze e delitti dei tiranni. “Ebbene, a ogni uomo che sconti una pena, se questa gli sia stata giustamente inflitta, accade o di diventare migliore e di riceverne giovamento, o di diventare un esempio per gli altri, affinché gli altri, vedendolo patire le pene che gli tocca patire, per paura diventino migliori. E coloro che traggono giovamento e che scontano la pena inflitta loro dagli dèi e dagli uomini, sono coloro che abbiano peccato di colpe sanabili. Tuttavia, il giovamento viene loro a prezzo di dolori e sofferenze, sia qui sia nell'Ade, perché non è possibile liberarsi dell'ingiustizia in altro modo. Coloro che invece commisero le peggiori ingiustizie e che a causa di tali ingiustizie sono diventati insanabili, vengono usati come esempi; e mentre essi personalmente non possono più trarne alcun giovamento, dato che sono insanabili, ne traggono giovamento altri che li vedano patire, a causa delle loro colpe, i tormenti più grandi, più dolorosi e più terribili per l'eternità, sospesi lì nel carcere dell'Ade come veri esempi, spettacolo e monito per gli ingiusti che continuamente vi giungono. E sostengo che uno di questi sarà anche Archelao, se è vero ciò che dice Polo, e chiunque altro sia un tiranno pari a lui. E credo che la maggior parte di costoro che saranno usati come esempio per gli altri, venga proprio dai tiranni, dai re, dai signori e da coloro che hanno curato gli affari della città. Costoro, infatti, a causa dell'arbitrio garantito dal potere che hanno, si macchiano delle ingiustizie più gravi e più empie. E di questo anche Omero è testimone: infatti re e signori li ha messi nell'Ade a pagare in eterno per le loro colpe, Tantalo, Sisifo e Tizio.”
IL GIUDIZIO DEI MORTI
“Ascolta dunque, come si dice, un racconto molto bello, che penso riterrai una favola (μῦθον), ma che io ritengo un discorso vero (λόγον). Come verità (ἀληθῆ), presenterò dunque le cose che sto per dirti.” In tal modo nel “Gorgia” (523a) Socrate introduce il suo discorso sul mito dell’aldilà. In antico, il dialogo era sottotitolato: “Sulla Retorica” (Περί ῥητορικῆς), l’arte della persuasione, un’oratoria che non mira al vero, ma solo a convincere l’interlocutore delle proprie tesi. In tal senso, si può capire il diverso obiettivo di Socrate, che tende alla verità del discorso. E infatti presto l’argomento del dialogo cambia, spostandosi sul tema della giusta condotta da tenere in vita, anche in vista del futuro giudizio dopo la morte. “Infatti, nessuno teme il morire per sé stesso, a meno che non sia un uomo del tutto insensato e vile, ma è da temere il commettere ingiustizia. Infatti, l’estremo di tutti i mali è andare all’Ade con l’anima carica di molte ingiustizie. E se vuoi, intendo dimostrarti che è proprio così narrandoti un racconto.” (522e) E così viene introdotto il giudizio finale delle anime, sulla convinzione che con la morte l’anima si separa dal corpo. In tal modo, come il corpo (cadavere) presenterà tutti i segni e le cicatrici occorsigli in vita, così l’anima nuda mostrerà tutte le brutture, segno di tutte le ingiustizie commesse in vita, e sarà passibile del giudizio divino, per andare nelle Isole Beate o precipitare nel Tartaro.
Il giudizio dei morti del “Gorgia” è quello più vicino al Giudizio Universale della dottrina cristiana, perché a differenza di quello del decimo libro della “Repubblica”, è propriamente definitivo, anche se non interviene alla fine di tutti i tempi. Ma se il racconto biblico ha una sua verità rivelata, un dogma di fede, il mito riferito a Socrate, ma esposto da Platone, fondato sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, aveva bisogno di trovare un suo fondamento razionale. Non era più il racconto della poesia omerica delle pallide figure di fantasmi che popolano l’Ade, come quella che Ulisse incontra nelle sembianze di Achille o della propria madre che per tre volte sfugge al suo struggente abbraccio. Doveva avere quindi una dimostrazione, basata sulla riflessione razionale e non più sulla fede socratica, la voce interiore del daimònion.
LA REMINISCENZA
Occorre trovare una prova per dimostrare l’esistenza e l’immortalità dell’anima, ed è
quanto Socrate riesce a fare nel “Menone”, mostrando come la conoscenza sia una forma di reminiscenza (anamnesis). L’esposizione del suo ragionamento si compone di due parti. Nella prima, egli riferisce di un’antica credenza di esperti di cose divine, riscontrata da Pindaro, secondo cui l’anima è immortale (athanatos), e pertanto alla conclusione della vita del corpo, essa si incarna in un altro corpo. Nella seconda parte, la credenza viene usata per sostenere che prima di incarnarsi, l’anima ha conosciuto tutte le cose, e pertanto in questa vita, essa “ricorda” quello che già conosce.
Viene qui in rilievo uno dei punti nodali della dottrina del cosmo di Platone, l’anima del mondo, come sarà bene illustrata nel “Timeo”, e che trova una corrispondenza con quanto viene affermato nel “Menone”, come principio: “Poiché tutta la natura è congenere”. Nel suo commento al passo, Giovanni Reale annota: “Il testo dice τῆς φύσεως ἁπάσης συγγενοῦς οὔσης, dove il termine più importante, συγγενής, non va tradotto in modo sfumato , come molti fanno (“coerente”, “omogeneo”, “affine”), ma proprio con il termine “congenere”, che mantiene la lettera e il concetto del testo originario. Platone vuole dire questo: nella φύσις, ossia nella realtà del suo insieme, non vi sono piani staccati ed eterogenei, come dire non connessi strutturalmente.” Quest’appartenenza dell’anima individuale al genere cosmico può rilevarsi anche nel passo del “Timeo” (90a), dove Platone descrive la postura eretta del corpo umano, dovuta a una posizione dell’anima: “È questa la forma di anima, che noi diciamo abita nella parte superiore del corpo e dalla terra c’innalza verso la realtà che ci è congenere nel cielo (τήν ἐν οὐρανῶ συγγένειαν).”
Il ricorso al mito dell’immortalità dell’anima serve a risolvere il breve paradosso della conoscenza, in quanto non è possibile cercare quello che conosce, perché lo conosce già, e non può cercare quello che non conosce, perché non sa che cosa deve cercare. Ecco, allora, il ricorso al mito della preesistenza dell’anima, in base a cui il problema della conoscenza si risolve come anamnesi, reminiscenza. Bisogna riportare alla coscienza quello che già si conosce, e questo Socrate dimostra tramite l’esperimento maieutico dell’interrogatorio dello schiavo di Menone.
“MENONE: E in che modo cercherai, o Socrate, ciò che non sai assolutamente cosa sia? Quale tra le cose che non sai proporrai come oggetto della tua ricerca? E se poi, nel migliore dei casi, ti imbattessi in essa, in che modo capirai che questa cosa è ciò che tu non sapevi? SOCRATE: Capisco cosa vuoi dire, Menone. Vedi come svolgi un discorso eristico, per il quale all'uomo non è dato cercare né ciò che sa né ciò che non sa? Infatti ciò che sa non lo cercherebbe - perché lo sa e non ha nessun bisogno di cercarlo - né cercherebbe ciò che non sa - e infatti non sa neppure cosa cercare. MENONE: Non pensi che questo discorso sia condotto bene, o Socrate? SOCRATE: No, non mi sembra. MENONE: Puoi dire come? SOCRATE: Sì: infatti ho sentito dire da uomini e donne sapienti di cose divine... MENONE: Quale ragionamento facevano? SOCRATE: Un ragionamento vero, a mio parere, e bello. MENONE: Qual è questo ragionamento e chi sono coloro che parlano? SOCRATE: A parlare sono i sacerdoti e le sacerdotesse, ai quali sta a cuore essere in grado di discutere di ciò di cui hanno il ministero; ma parla anche Pindaro e molti altri poeti, tutti quelli che sono divini. Ed ecco cosa dicono: esamina dunque se ti sembra che dicano il vero. Affermano infatti che l'anima dell'uomo è immortale, e che talora finisce - e questo lo chiamano morire - talora invece nasce di nuovo, ma non perisce mai; per questo dunque bisogna vivere il più possibile una vita pia; infatti a coloro dai quali “avrà ricevuto espiazione per l'antico dolore Persefone su in alto verso il sole nel nono anno manda ancora una volta le anime e da esse crescono re illustri uomini impetuosi per forza e potenti per sapienza; per il tempo che resta eroi senza macchia tra gli uomini sono chiamati”. (Pindaro, fr.127 Bowra). Dunque, dal momento che l'anima è immortale e nasce più volte, ed ha contemplato tutte le cose, sia qua sia nell'Ade, non c'è niente che essa non abbia imparato; sicché non desta meraviglia il fatto che essa sia capace di ricordare, sulla virtù e sul resto, ciò che sapeva anche prima. Infatti poiché la natura tutta è congenere e l'anima ha appreso tutto quanto, nulla impedisce che, ricordando una sola cosa - e questo gli uomini lo chiamano appunto apprendimento - uno trovi da se stesso anche tutto il resto, se è coraggioso e non si stanca di cercare: cercare e apprendere infatti sono in generale reminiscenza.” Socrate, a questo punto, viene incalzato da Menone: “Sì, Socrate, ma in che senso dici che non apprendiamo e che ciò che chiamiamo apprendimento è reminiscenza? Puoi insegnarmi che la cosa sta così? […] SOCRATE: Non è facile, ma per amor tuo, voglio metterci impegno. Chiama uno di questi tuoi numerosi servitori, quello che desideri, affinché io possa mostrartelo in lui. MENONE: Certo. Vieni qua. SOCRATE: È greco e parla greco? MENONE: Perfettamente: è nato in casa. SOCRATE: Fa' attenzione se ti pare che ricordi o che impari da me. MENONE: D'accordo, farò attenzione. SOCRATE: Dimmi dunque, ragazzo, sai che un'area quadrata è fatta così?” (“Menone, 81d-82b).
Inizia qui l’esperimento maieutico, attraverso il quale Socrate aiuta il giovane schiavo di Menone a risolvere il problema della duplicazione dell’area del quadrato.
LA DUPLICAZIONE DEL QUADRATO
l’interrogazione di Socrate ha lo scopo di suscitare nello schiavo, che non ha nessuna nozione della geometria, un ricordo che trascini con sé altri ricordi atti a ricostruire la visione che l’anima aveva nell’intellegibile, prima di precipitare nella sfera sensibile. Il problema di geometria che Platone fa presentare a Socrate è quello abbastanza diffuso nell’antichità della ricerca della duplicazione del quadrato, un quadrato con area doppia rispetto a quella del quadrato originario, di cui appunto si cerca il doppio.
PRIMA COSTRUZIONE DEL PROBLEMA (“Menone” 82c-83b)
SOCRATE : Dimmi, ragazzo, sai che questa superficie (ABCD) è quadrata?
SCHIAVO: Si.
SOCRATE: È una superficie quadrata avente tutti questi lati (AB,BC,CD,DA) uguali?
SCHIAVO: Certo.
SOCRATE: Se questo lato (AB) fosse di due piedi e quest’altro (AD) di due, di quanti piedi sarebbe l'intera superficie (ABCD)?
SCHIAVO: Quattro, Socrate.
SOCRATE : Non vi potrebbe essere un'altra superficie, doppia di questa, ma simile, avente tutti i suoi lati uguali, come questa ?
SCHIAVO : Si.
SOCRATE : Di quanti piedi sarà?
SCHIAVO : Otto.
SOCRATE : Prova a dirmi allora quanto sarà lungo ciascun lato di essa. Il lato di questa (ABCD) è di due piedi; quanto sarà quello della superficie doppia?
SCHIAVO: Evidentemente il doppio, Socrate.
SOCRATE: Dimmi: dal lato doppio (AI) secondo te si genera la superficie doppia? Voglio dire: avente ogni lato uguale come questa (ABCD) e doppia di questa, cioè di otto piedi. Guarda se sei ancora dell'opinione che si generi dal lato doppio (AI).
SCHIAVO: Io sì.
SOCRATE : II lato diventa doppio di questo (AD) se aggiungiamo a partire da qui (D), un altro lato (DN) altrettanto lungo?
SCHIAVO : Certo.
SOCRATE: Tu dici che da questo lato (AN) si genererà la superficie di otto piedi, se i quattro lati sono uguali ?
SCHIAVO : Si.
SOCRATE : Tracciamo i quattro lati uguali (AN, NL, LI, IA) a partire da questo (AN)
Non è forse questa (ANLI) la superficie che, secondo te, è di otto piedi?
SCHIAVO : Certo.
SOCRATE: In essa non vi sono questi quattro quadrati (ABCD, BCKI, KLMC,CDNM), ciascuno dei quali è uguale a questo di quattro piedi (ABCD)?
SCHIAVO: Sì.
SOCRATE: Quanto è grande allora (ANLI)? Non è il quadruplo?
SCHIAVO: Come no?
SOCRATE: II quadruplo è dunque quanto il doppio?
SCHIAVO: No, per Zeus!
SOCRATE: Ma che multiplo è?
SCHIAVO: II quadruplo.
SOCRATE: Allora, giovanotto, dal lato doppio non si genera un quadrato doppio, ma quadruplo.
SCHIAVO : E' vero!
SECONDA COSTRUZIONE DEL PROBLEMA (“Menone” 83c-84a)
SOCRATE : Da quale lato allora si genera una superficie di otto piedi ? La superficie di otto piedi non è doppia di questa (ABCD) e metà dell'altra (ANLI) ?
SCHIAVO : Sì.
SOCRATE: Non si genererà da un lato maggiore di questo (AD) e minore di quest'altro (AN)? O no?
SCHIAVO : Credo di sì.
SOCRATE: Bene, dimmi il tuo parere. E dimmi: quel lato (AD) non era di due piedi e questo (AN) di quattro?
SCHIAVO: Sì.
SOCRATE : È necessario, dunque, che il lato della superficie di otto piedi sia maggiore di questo di due piedi e minore di quello di quattro.
SCHIAVO : Necessariamente.
SOCRATE: Prova a dire quanto è lungo, secondo te.
SCHIAVO: Tre piedi.
SOCRATE: Se è di tre piedi, aggiungeremo a questo (AD) la metà (DO) e avremo il lato di tre piedi (AO) ... allo stesso modo ... si ha due piedi (AB) più un piede (BP )... se ne genera la superficie che dici (APQO)?
SCHIAVO : Sì.
SOCRATE: L'intera superficie , se per un lato (AP) è lunga tre piedi e per l'altro (AO) tre
piedi, è tre volte tre piedi ?
SCHIAVO : Sembra.
SOCRATE: Ma tre volte tre piedi quanto fa ?
SCHIAVO: Nove.
SOCRATE : E di quanti piedi doveva essere la superficie doppia ?
SCHIAVO: Di otto.
SOCRATE: Dunque neppure dal lato di tre piedi si genera la superficie di otto piedi.
SCHIAVO: No certo.
SOCRATE : Da quale lato allora ? Prova a dircelo con esattezza.
SCHIAVO: Per Zeus, non lo so!
TERZA COSTRUZIONE E SOLUZIONE DEL PROBLEMA (“Menone”, 84a-85b)
SOCRATE : Comprendi, Menone, quanto è progredito ormai ? Prima non sapeva quale fosse il lato del quadrato di otto piedi e neppure adesso lo sa, ma allora credeva di saperlo e rispondeva disinvoltamente come se lo sapesse, senza considerarsi in difficoltà. Ormai invece si considera in difficoltà e, poiché non sa, non crede neppure di sapere. [...] Osserva che cosa troverà, partendo da questa difficoltà alla ricerca con me, mentre io non farò che interrogarlo...(RIVOLTO ALLO SCHIAVO) : Dimmi tu, non abbiamo noi questa superficie (ABCD) di quattro piedi ? Capisci?
SCHIAVO: Sì.
SOCRATE : Possiamo aggiungere ad essa quest'altra (BCKI) uguale ?
SCHIAVO : Sì.
SOCRATE: E questa terza (KLMC) uguale a ciascuna delle altre due ?
SCHIAVO: Sì.
SOCRATE: Non possiamo completare la figura con questo quadrato (DCMN) nell’angolo (DCM)?
SCHIAVO : Certo.
SOCRATE : Non abbiamo qui quattro quadrati uguali ?
SCHIAVO: Sì.
SOCRATE: L'intera superficie (ANLI) di quante volte è maggiore di questo (ABCD) ?
SCHIAVO : Quattro volte.
SOCRATE: Ma noi avevamo bisogno di una superficie doppia, ricordi ?
SCHIAVO : Certo.
SOCRATE : Questa linea, condotta da un angolo all'altro in ciascuno di questi quadrati, non divide in due ciascuno di essi?
SCHIAVO: Sì.
SOCRATE: Non si generano allora queste quattro linee (BD,BK,KM,MD) uguali, che delimitano questa superficie (BDMK)?
SCHIAVO: Sì.
SOCRATE: Osserva: quanto è grande questa superficie?
SCHIAVO: Non comprendo.
SOCRATE : Ciascuna linea non ha forse diviso a metà internamente ciascuno dei quattro quadrati ?
SCHIAVO : Sì
SOCRATE : Quante metà sono in questa superficie (BDMK) ?
SCHIAVO: Quattro.
SOCRATE: Quante in questa (ABCD) ?
SCHIAVO: Due.
SOCRATE : Che cosa è quattro in rapporto a due ?
SCHIAVO : II doppio.
SOCRATE: Di quanti piedi è dunque questa (BDMK) ?
SCHIAVO: Di otto
SOCRATE : Da quale linea è generata ?
SCHIAVO: Da questa (BD).
SOCRATE: I competenti chiamano diagonale questa linea; sicché, se il suo nome è diagonale, la superficie doppia, come dici tu, schiavo di Menone, sarà generata dalla diagonale.
SCHIAVO: Certo, Socrate.
FINO AL TRAMONTO DEL SOLE
1. La reminiscenza e le Idee
“E del resto è la cosa più conveniente di tutte, per chi è sul punto di intraprendere il viaggio verso l’altro mondo, indagare con la ragione e discorrere con miti su questo viaggio verso l’altro mondo (μυθολογεῖν περὶ τῆς ἀποδημίας τῆς ἐκεῖ), di quale specie crediamo che sia. Se no che altro si potrebbe fare nel tempo che resta fino al tramonto del sole?” L’interrogativo è quello di Socrate morituro, che deve attendere la sera, in quanto le condanne alla pena capitale, per la legge attica, non potevano essere eseguite nelle ore diurne. Ma l’interrogativo non è soltanto il suo, è anche quello di tutti noi mortali, che però forse non abbiamo mai il tempo, o quello che ci resta del tempo, di pensare a quest’interrogativo sull’aldilà.
Ma di quali miti parla (μυθολογεῖν) Socrate, di cui si accenna in questo passo del “Fedone”? Sono i due grandi miti escatologici, che vengono narrati nel corso del dialogo: l’immortalità dell’anima e la reincarnazione dopo la morte.
Nel “Menone”, Socrate aveva cercato la prova della verità dell’immortalità dell’anima, attraverso la pratica dell’anamnesi, la reminiscenza. Nel “Fedone” (72e-77d), invece, viene elaborata una dottrina meglio strutturata in conformità con la teoria delle Idee.
“Infatti, - aggiunse Cebete - mi sembra che sia proprio questo il senso di quella frase famosa, se vera, che tu [Socrate] sei sempre solito ripetere, sapere non è altro che ricordare. Da ciò deriva il fatto che noi dobbiamo avere già imparato, in un tempo precedente, ciò che ora ricordiamo; e questo non sarebbe possibile se la nostra anima non fosse già esistita in qualche luogo prima di assumere la sua forma umana. Anche per questo motivo, dunque, è da credere che l'anima sia immortale.”
Cebete sembra convinto di quanto Socrate solitamente ripete, ma interviene Simmia con un suo dubbio per richiedere la prova di quanto affermato, e Cebete ribatte, tirando in ballo le cognizioni generali di ognuno e fa l’esempio della conoscenza della geometria. Per meglio convincere Simmia, allora, Socrate prova a porre il problema da un’altra parte: “Siamo d'accordo, è vero, che quando uno ricorda qualcosa deve, indubbiamente, averla già vista prima? – Ma certo. – E quindi siamo anche d'accordo su questo punto: che il sapere, cioè, quando si acquista attraverso un particolare procedimento, è reminiscenza? E ti dico subito quale: se uno ha visto una cosa o ne ha sentito parlare o ne ha provato una sensazione qualunque, non conosce solo questa data cosa, ma se ne richiama alla mente un'altra, del tutto diversa, che non ha nulla a che fare con la prima. Non dobbiamo, allora, affermare che egli si è “ricordato” di questa cosa che s'è venuta in lui ridestando?”
Quindi egli prosegue con il discorso, che noi possiamo oggi definire “associazione di idee”, grazie al linguaggio concettuale, le idee, che lo stesso Platone ha inaugurato.
“– E non sai che gli innamorati, vedendo una lira o un mantello o qualche altra cosa che la loro dolce metà, di solito, adopera, non solo riconoscono la lira ma richiamano alla loro mente l'immagine fisica della persona amata cui la lira appartiene? E questo è la reminiscenza. Allo stesso modo che vedendo Simmia ci si ricorda di Cebete. E di esempi simili se ne possono citare a migliaia – Certo, per Zeus! – riconobbe Simmia. – E in questo caso, non si ha una reminiscenza? Specialmente, poi, per quelle cose che, o per il tempo o perché non sono più sotto i nostri occhi, avevamo dimenticate? – Sicuramente!” Socrate poi continua a incalzare l’interlocutore, per giungere alla configurazione della cosa in sé, l’Idea: “– Ma quando il ricordo di qualcosa viene stimolato da qualche altra cosa che le somiglia, necessariamente, non vien fatto di pensare se vi sia somiglianza più o meno perfetta tra l'oggetto che ha suscitato il ricordo e l'immagine ridestatasi nella nostra memoria? – Certamente, disse. – E allora, vediamo un po' che succede, – riprese Socrate. – Noi diciamo, senza alcun dubbio, che vi è l'eguale, non voglio dire nel senso di un pezzo di legno che è eguale a un altro pezzo di legno o di una pietra eguale a un'altra e così via, ma alludo a qualcosa che è all'infuori di tutti questi oggetti eguali, diverso, cioè all'Eguale in sé. Dobbiamo dire che esiste o no? – Certo che dobbiamo affermarlo, per Zeus, – disse Simmia.”
Qui, Platone compie il salto dal sensibile all’intellegibile, evocando non un oggetto come un altro, un pezzo di legno, ma un oggetto proprio del pensiero, esistente soltanto in una sfera ideale, al di fuori di quella dei vari oggetti percepibili con i sensi.
Ora, il discorso esige una certa attenzione: “– E sappiamo pure che cosa sia? – Certo. – E da dove ne è derivata la sua conoscenza? Forse da quelle cose di cui parlavamo, legni, pietre e roba del genere, che, vedendoli eguali, ci han suggerito il concetto dell'Eguale in sé, che è diverso dagli altri? O forse, a te, non sembra tale? Ebbene, sta attento: non può essere che legni o pietre eguali, pur restando sempre quelli, ad alcuni sembrano eguali e ad altri no? – Certo. – Ebbene, l'Eguale in sé ti è mai apparso diseguale, cioè l'eguaglianza ti si è mai presentata come disuguaglianza? – Mai, Socrate. - Difatti, questi eguali e l'Eguale in sé, non sono la stessa cosa. – Mi pare proprio di no, Socrate. – Eppure, non è proprio da queste cose eguali, sebbene diverse dall'Eguale in sé, che hai potuto risalire e giungere alla conoscenza di quest'ultimo? – Verissimo – rispose.” È un processo di astrazione quello che Socrate sta illustrando: risalire dalle cose sensibili alle Idee. E ragionando sulla scorta della reminiscenza – “ogni volta che tu, vedendo una cosa ne pensi un'altra, eguale o diversa che sia, necessariamente, in te s'è prodotta una reminiscenza” – applica questo processo del ricordare anche alla conoscenza dell’Eguale, l’idea, evocata dalla visione delle cose sensibili uguali. “– Necessariamente, quindi, noi dobbiamo aver conosciuto l'Eguale in sé prima che la vista di cose eguali ci abbia fatto pensare che esse tendono ad essere come l'Eguale in sé, pur restandogli inferiori. – È proprio così.”
In tal modo, si arriva a ad ammettere la preesistenza della conoscenza rispetto ai sensi e alla vita del corpo: “ – E quindi, prima che noi cominciassimo a vedere, a udire e a percepire con gli altri sensi, noi dovevamo avere, necessariamente, in qualche modo, già una conoscenza dell'Eguale in sé e della sua realtà, perché altrimenti noi non avremmo mai potuto paragonargli le eguaglianze sensibili, né pensare che, pur aspirando ad essergli simili, queste ultime gli restavano inferiori. – Per quanto detto, Socrate, è proprio così. – E noi non abbiamo cominciato a vedere, a udire, a usare gli altri sensi, subito, appena nati? – Sicuro. – Ma non abbiamo detto che, per questo, era necessario aver prima la conoscenza dell'Eguale in sé? – Sì. – Quindi, questa conoscenza, noi l'avevamo prima di nascere. – Pare di sì.”
Ma non si ha soltanto dell’Idea dell’Eguale, anche le altre Idee, le astrazioni di quello che si dice di concreto, debbono essere preesistenti: “Dunque, se noi, prima di nascere, possedevamo questa conoscenza e, con la nascita, ne potemmo disporre, ne consegue che già prima e, poi, una volta nati, noi avevamo non solo il concetto di Eguale in sé e quello di Maggiore e di Minore, ma anche tutte le altre Idee. Perché il nostro discorso, ora, non vale solo per l'Eguale in sé ma anche per il Bello, per il Buono, per il Giusto, per il Santo, insomma per tutto ciò che noi, parlando, definiamo coi termine di “realtà in sé”, sia nelle questioni che poniamo che nelle risposte che diamo. Dunque, necessariamente, di tutte queste realtà, noi dobbiamo averne avuto conoscenza prima di nascere.”
E andando avanti nel discorso, si pone l’alternativa: “O siamo nati con la conoscenza, delle realtà in sé e continuiamo ad averla per tutta la vita, oppure quelli che noi diciamo che imparano dopo non fanno che ricordarsi e in tal caso la sapienza non è che reminiscenza.” Socrate interroga l’interlocutore: “– Cosa ne pensi, dunque, Simmia, che siamo nati già sapienti, oppure che, man mano, in seguito, ci ricordiamo di quanto già conoscevamo? – Mah, così sul momento, non so proprio che cosa dire.” Socrate allora prosegue, dimostrando la preesistenza dell’anima rispetto al corpo: –
Però saprai dirmi la tua opinione almeno su questo: un uomo che sa, sarà in grado di render conto delle cose che sa? – Certo che lo sarà, Socrate. – E credi che tutti siano capaci di dare una ragione delle realtà di cui ora parlavamo? – Ah, lo vorrei proprio, ma temo, – rispose Simmia, – che domani a quest'ora non ci sarà nessuno capace di fare questo in modo adeguato.” Simmia cade nella trappola di Socrate (Platone), che sapendo la realtà sensibile mutevole, sa anche che impossibile “sapere” tutto in un momento, i.e. nel “tempo”, ma soltanto quando l’anima libera del corpo contempla “l’eterno” delle Idee. “– Quindi, Simmia, secondo te, non tutti conoscono queste realtà? - Ah, no di certo. – Allora si ricordano di quello che appresero un tempo? – Certamente. – Ma quand'è che le nostre anime hanno conosciuto queste realtà? Non certo da quando è iniziata la nostra vita umana? – No, certo. – Allora prima? – Sì. – Quindi, Simmia, le anime esistevano prima ancora di assumere forma umana, separate dal corpo e dotate di intelligenza. – A meno che, Socrate, questa conoscenza non l'acquistiamo al momento di nascere. C'è anche questa eventualità. – Ah, sì? – Ma allora quand'è che noi perdiamo la conoscenza di queste realtà? Infatti, abbiamo appena detto che noi non la possediamo alla nostra nascita. O pensi che la perdiamo nel momento stesso in cui l'abbiamo acquistata? O mi sai dire quando? – No, Socrate e ora m'accorgo di aver detto una sciocchezza.”
Siamo arrivati al punto in cui la dimostrazione della preesistenza dell’anima, la sua esistenza indipendente dal corpo, si salda con quella dell’esistenza delle Idee.
“Non è così , Simmia? Se esistono queste realtà di cui stiamo tanto parlando, cioè il Bello, il Buono e così via, e se ad esse riconduciamo le cose che percepiamo con i sensi, perché riconosciamo che quelle realtà sono in noi preesistenti, se ad esse confrontiamo le cose sensibili, allora bisogna pur dire che come esistono queste realtà così anche la nostra anima esiste ancora prima della nostra nascita. Se non fosse così non se ne andrebbe all'aria tutto il nostro ragionamento? Non è, quindi, logico e necessario che, se esistono queste realtà, anche le nostre anime devono esistere prima della nostra nascita e, viceversa, se non esistono le une, non possono nemmeno esistere le altre?” Simmia è convinto: “– Sicuro, Socrate, vi è una correlazione non negabile tra i due fatti e mi pare proprio che la questione si sia risolta in questo rapporto necessario tra l'esistenza dell'anima, prima della nostra nascita, e quella delle realtà di cui hai parlato.” E Cebete? “Bisogna convincere, ora, anche lui,” dice Socrate. Ma qual è l’obiezione di quest’ultimo? “– È chiaro che si è dimostrato solo la metà di ciò che bisognava dimostrare, cioè solo che la nostra anima esiste prima che noi nasciamo; occorre ora dimostrare che essa esisterà, né più né meno, anche dopo la nostra morte, se vogliamo che la dimostrazione sia completa.”
Ma Socrate risolve subito il dubbio, ricorrendo a quanto già prima acclarato tra loro: “La dimostrazione è presto fatta, Simmia e Cebete, basta che voi fate coincidere ciò che ora s'è concluso con la questione che poco fa ci ha trovato tutti d'accordo, cioè che ciò che è vivo nasce da ciò che è morto. Giacché se è vero che l'anima esiste prima della nascita del corpo, se per generarsi e per vivere, essa deve nascere dalla morte e dall'essere noi morti in precedenza, non sarà altrettanto vero che essa sopravviverà alla morte per il fatto che deve nuovamente generarsi? Ecco che la cosa cui avete accennato è già bell'e dimostrata.”
Così si conclude la prima delle tre dimostrazioni dell’immortalità dell’anima, dibattute nel dialogo. Infatti, dopo un breve intermezzo sul “fanciullino” che alberga nell’animo di Cebete, continua la discussione sul tema della morte.
“ – Eppure se non mi sbaglio, tu e Simmia, vorreste esaminare più a fondo la questione perché mi pare che siete spaventati come dei bambini, quasi che l'anima, appena fuori del corpo, se la portasse via il vento e la disperdesse, specie poi quando ci tocca morire non con tempo sereno, ma in mezzo a un temporale. – E tu assicuraci, Socrate, – disse Cebete sorridendo – come se noi effettivamente avessimo paura o meglio, come se non fossimo noi ad essere spaventati ma quel fanciullo che è in noi. Dunque, fa in modo che questo fanciullo non abbia paura della morte come di uno spauracchio. – Bisognerebbe fargli ogni giorno gli incantesimi, – ammise Socrate, – per liberarlo da questi timori. – E dove andremo a trovarlo un incantatore capace, per queste paure, visto che tu ci stai per lasciare? – Oh, Cebete, la Grecia è grande, – rispose – e non manca di uomini in gamba; e poi, vi sono i paesi esteri, verso i quali voi dovete rivolgere le vostre ricerche. E non risparmiate né spese né fatiche per un tale incantatore, perché voi non potreste spendere meglio il vostro denaro. Ma soprattutto datevi da fare voi stessi, gli uni con gli altri, perché è difficile che troviate persone capaci di assolvere questo compito, più che voi stessi. – Ma certo lo faremo – assicurò Cebete, – però, ora, se non ti dispiace, torniamo al punto dove eravamo. – Affatto, figurati, perché dovrebbe? – Bene, così.”
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