LO DIVERSO FOCO Commento al Canto I del “Purgatorio” e Note sulla poetica dantesca.
Dante e Virgilio arrivano sulla spiaggia del Purgatorio, Dante vede le quattro stelle, forse allude alla Croce del Sud. È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba. Un personaggio maestoso s’impone davanti a loro, lunga barba e lunghi capelli a trecce sul petto, grigi, il volto illuminato dalle quattro luci sante, in metafora le quattro virtù cardinali. È Catone l’Uticense, e Virgilio, senza nominarlo, spiega a Dante, come egli sia immagine di grande virtù e rigore morale.
“Come di marmo fosse ‘l suo costume, dissemi ‘l duca voltosi col busto, ora convien su questo che t’allume.
Lo gran veglio che fu del verso giusto a guardia sta de lo diverso foco, foglia caduta dal violato arbusto.
L’assoluto voler, che in santo loco per tutto amor di grazìa assurga, ancor lo tien intra cotesto gioco,
tal che mondo lo spirito resurga luce beata nel divino regno a tempo pieno, ché infinito urga.
Or lesti siam al suo mostrar ’l segno tosto che ’l peso di ragion assume che tu possa varcar fattone degno.”
Purgatorio, Canto I, vv.40-54
PARAFRASI
Come rigoroso fosse il suo contegno morale mi disse Virgilio rivolto dalla mia parte ora è necessario che ti spieghi (allume).
Il grande vecchio [Catone] che visse in maniera retta sta a custodia del diverso [dall’inferno] fuoco anima caduta con il peccato originale (violato arbusto). La volontà di Dio, che in cielo per amore infinito e grazia concede di salire, lo tiene ancora in codesto ruolo,
tale che mondato (mondo) lo spirito risorga come luce [della corona] dei beati in Paradiso alla fine (pienezza) dei tempi, quando l’eterno incalza (urga).
Ora stiamo pronti a un suo (di Catone) segno appena assume la giusta decisione affinché tu possa entrare una volta degno.
Dante definisce il Purgatorio lo “diverso foco”, per distinguere le fiamme purificatrici, che estinguono la colpa delle anime purganti, da quelle dell’Inferno, dove bruciano i dannati senza redenzione nell’eternità. Ma anche le fiamme del purgatorio sono eterne, essendo al difuori del tempo. Inferno, Purgatorio, Paradiso: dove si trovano questi luoghi non luoghi? Il luogo non luogo è l’isola Utopia di Tommaso Moro, santo venerato dalla chiesa anglicana e da quella cattolica, autore dell’opera letteraria: “Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”, “Un libro, vero tesoretto, non meno utile che piacevole, sulla migliore costituzione di uno Stato, la nuova isola Utopia”. Nel testo l’autore esprime le sue convinzioni su temi di filosofia, etica, politica, economia, tratteggiando un modello di Stato ideale, ispirato particolarmente alla “Repubblica” di Platone. La singolarità del testo consiste nel suo presentarsi come un paradigma puro, un’entità assolutamente ideale, una utopia appunto, non realizzabile in pratica. Questa idealità rispecchia in maniera perfetta la conclusione di Platone: “L’esemplare di questa nostra città sta forse nel cielo, ad esso deve guardare chiunque voglia in primo luogo fondarlo dentro di sé. E non è molto importante che esista di fatto in qualche luogo o che mai debba esistere.” (“Repubblica”, IX, 591b) Il non luogo è un luogo interiore, che non si trova in nessun luogo fuori di noi. È valida quest’affermazione, non diciamo per il Paradiso, il regno di Dio, ma quanto meno per il Purgatorio? “Si deve credere che c'è, prima del giudizio, un fuoco purificatore.” È un fuoco interiore, l’anima del defunto si purifica di questo fuoco, per accedere infine al Paradiso, così definito dal Catechismo: “Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui [Cristo]. Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione.” Diversamente l’Inferno viene definito come luogo: “La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, “il fuoco eterno”.
IL TESTO APOCRIFO Se andiamo a scorrere un qualsiasi testo della “Divina Commedia”, ci accorgiamo che mancano le cinque terzine del Canto I del Purgatorio, vv.40-54. A che cosa è dovuta quest’assenza? Esiste un testo apocrifo della “Divina Commedia”, che le include? Nel 1336, a Genova, il copista Antonio da Fermo portò a termine la prima trascrizione del testo integrale della “Commedia” in un manoscritto a pergamena conservato nella Biblioteca Comunale Passerini Landi di Piacenza, il c.d. Manoscritto Landiano. La tesi secondo cui la lacuna del testo sia dovuta a un errore del primo copista non sembra molto plausibile. La prima pubblicazione del “Purgatorio” ebbe luogo a Verona nel 1315, quando il poeta era ancora in vita, e pertanto il testo era già definitivo da oltre due decenni, allorché Antonio da Fermo portò a termine il suo lavoro di copista. È verosimile pertanto che debba trattarsi di una interpolazione successiva. Ma quando e dove è stata compiuta? Ed in quale Codice viene conservato il testo modificato? Intanto, si può avanzare l’ipotesi che la redazione delle terzine apocrife sia dovuta a un uso molto particolare dei versi danteschi da parte di alcuni pubblici ufficiali di conservatoria, nella trascrizione di atti nel Pubblico Registro. Il primo esempio risale al 1317, allorché Il notaio ser Tieri degli Useppi da San Gimignano trascrisse alcuni versi del III canto dell’Inferno sulla copertina di un registro di atti criminali, conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna. Nello stesso Archivio sono conservati memoriali di altri notai, che in quegli anni riportavano nei loro atti versi del Purgatorio. Una tale consuetudine era dovuta alla necessità di non lasciare spazi bianchi negli atti notarili, in modo da evitare aggiunte o modifiche fraudolente. Ora, non è escluso che le terzine apocrife siano state ricavate da tali atti e aggiunte al testo dantesco canonico, come non è esclusa l’ipotesi opposta, ossia che i notai e gli ufficiali dei pubblici registri abbiano ricavato le terzine da qualche manoscritto apocrifo, circolante a quei tempi, contenente “interpolazioni” o “manipolazioni” dell’originale. Riguardo al testo in commento, deve notarsi che l’aggiunta delle cinque terzine non influisce sulla continuità del metro e la rima alternata del poema. Inoltre, il contenuto della “presunta” interpolazione, in cui Virgilio indica a Dante Catone e ne illustra la figura, appare in consonanza con il testo riconosciuto del Codice Landiano, senza sembrare affatto una interpolazione. Seguendo il procedimento opposto, ossia estrapolando le cinque terzine dell’apocrifo, ci accorgiamo al contrario che il testo dantesco appare menomato di quelle particolari spiegazioni, che la critica filologica e letteraria ha ricostruito in verità senza grande fatica. Interpretando alla lettera il Canto I del “Purgatorio”, i versi che ci interessano, ovviamente non quelli apocrifi, scopriamo che Dante nel tracciare un primo ritratto di Catone, non ha ritenuto di volere fornire ulteriori spiegazioni teologiche sulla sua scelta di collocarlo in Paradiso, oltre alla stringata dichiarazione di Catone stesso (vv.89-90): “quella legge / che fatta fu quando me n’usci’ fora.” Si riferisce all’intangibilità dei decreti divini, su cui il poeta ritornerà nel Canto VI, come vedremo. Qui, alle soglie del Purgatorio, Dante delinea il personaggio, soltanto attraverso l’imponenza della figura fisica, quasi a mostrarne nei tratti la grandezza e l’autorità morale (vv.30-39):
“Vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli simigliante, de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.”
Non so, forse Dante ha pensato di presentarlo subito nel suo ruolo, senza far cenno alla sua storia, e magari in un primo tempo avrà steso quelle cinque terzine, pervenute come apocrife, per poi stornarle dal testo, e chissà che qualche minuta rimasta in giro non abbia sviato un qualche copista, che le ha incluse nella stesura come originali. T forse accertamenti più approfonditi e raffronti successivi hanno portato a giudicarle spurie, e pertanto, considerate non autentiche, sono state espunte. Ma questa è soltanto un’ipotesi suggestiva o meglio un’illazione, mancando finora un documento, anche tra quelli notarili, che storicamente ci sono pervenuti e sono conservati nell’Archivio di Stato di Bologna, che attesti la nostra ipotesi. Di possibili e verosimili rifacimenti non risalenti al Trecento, ma di epoca successiva, parleremo più avanti, ora vorremmo compiere un’indagine filologica testuale, per vedere in che modo le terzine apocrife si possano conciliare con il testo originale. Subito dopo il verso 39, le terzine dantesche continuano con l’intimazione che il veglio rivolge alle due anime, quelle di Virgilio e Dante, considerate in fuga dall’Inferno:
«Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?», diss’el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d’abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?»
Subito con parole e cenni, Virgilio costringe Dante a inginocchiarsi e ad abbassare lo sguardo di fronte al veglio, a cui poi risponde, spiegando dell’intercessione celeste di Beatrice per redimere in tempo Dante, anima ancora viva, vedendo le pene dei dannati all’Inferno ed ora quelle dei penitenti del Purgatorio. Quindi conclude che sarebbe lungo spiegare come per volere divino l’abbia condotto fin davanti a lui, in cerca di quella libertà così cara, come sa chi per essa sacrifica la vita:
“Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti; de l’alto scende virtù che m’aiuta conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.”
Sono due versi celebri: il primo, dove Dante dichiara la sua ricerca per la libertà dal male, proprio della condizione umana; il secondo quello in cui giustifica il suicidio di Catone, al contrario di Pier della Vigna, collocato nella selva dei suicidi (“Inferno” XIII, 22-54). Il dannato racconta la sua assoluta fedeltà all’Imperatore Federico II di Svevia, tanto da diventarne il solo depositario di tutti i segreti, “colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo”. Il suo zelo aveva suscitato l'invidia dei cortigiani, e accusato di tradimento, preferì togliersi la vita, passando dalla ragione al torto. Dante non lo ritiene un traditore, per i quali aveva previsto una pena diversa, e lo pone tra i suicidi, quelli cristiani, non quelli pagani come Cleopatra, Didone, Lucrezia in altre parti dell’Inferno. Deve notarsi, e non è un caso, la contiguità tra la selva dei suicidi del Canto XIII, dove è relegato Pier della Vigna, e l’arida sabbia del deserto libico calpestata da Catone, menzionata nel successivo Canto XIV, 4-15:
Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva l’è ghirlanda intorno, come ’l fosso tristo ad essa: quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d’altra foggia fatta che colei che fu da’ piè di Caton già soppressa.
Giunti al confine, dove il secondo girone si divide dal terzo, e dove si vede la terribile punizione divina, Dante spiega la novità del luogo. È un tratto pianeggiante, senza vegetazione, a cui fa da corona la selva dei suicidi. il suolo è formato da sabbia spessa e arida, simile a quella del deserto libico su cui ha marciato Catone. Storicamente corrisponde alla spedizione in Africa, quando saputo della morte di Pompeo, Catone assunse il comando delle truppe e raggiunse in Libia Scipione e Varo. Qui cedette il comando a Scipione, prendendo l’incarico di presidiare Utica, nell’attuale Tunisia. Dopo la battaglia di Tapso, dove i pompeiani furono sconfitti da Cesare, che proseguì per Utica, dove si trovava con le sue truppe Catone. Alla notizia della sconfitta degli alleati, Catone si suicidò. trovava con le sue truppe Catone. Alla notizia della sconfitta degli alleati, Catone si suicidò. Alla notizia, secondo Plutarco, Cesare avrebbe detto: «O Catone, ho invidia della tua morte, perché mi togliesti l'onore di salvarti la vita».
IL GRANDE VEGLIO La critica dantesca si è lungamente interrogata sul perché Dante abbia scelto la figura di Catone, per porlo a guardia del Purgatorio. Le risposte sono state tante e le più varie, soprattutto in relazione ai dubbi teologici, che una tale collocazione solleva. Intanto, osserviamo che nei Canti I e II del Purgatorio, dove il grande veglio appare, Dante non lo nomina direttamente, ma come già notato, lascia comprendere di quale personaggio si tratta, indicando alcune caratteristiche della sua vita, le principali della sua figura storica, la consorte Marzia, Utica dove si tolse la vita, la caratura morale, l’amore per la libertà. “Veglio” è l’appellativo con cui lo presenta nel Canto I, e “veglio onesto” nella breve apparizione del Canto II; nell’apocrifo, Virgilio lo definisce “gran veglio”. È stato osservato che l’aspetto di vecchio venerando ben si attaglia al termine “veglio”, una voce inconsueta, ma più nobile. Noi andiamo un po' più in là nello scavo del termine, se ricordiamo la dimensione psicologica che ne disegna Jung, nella sua dottrina dell’Inconscio. Nel suo commento allo “Zarathustra” di Nietzsche, in parecchi brani, egli utilizza un termine per indicare sia l’archetipo sia la figura che l’incarna o la metafora che la illustra. Così accade con il “Vecchio Saggio”, frequentemente evocato, specie quando tratta dei primi passi dello “Zarathustra”, dove Nietzsche incontra la figura del “Vegliardo”. Nella prospettiva junghiana, possiamo dire che in Catone Dante abbia raffigurato un tale archetipo, che comunemente ritroviamo in tante raffigurazioni dell’immagine del Padre Eterno della religione cristiana. Non è un caso che alcuni autori, a proposito di Catone, abbiano addirittura insistito su quest’aspetto di figura dell’Onnipotente nel ritratto sortito dall’immaginazione di Dante, citando la battuta del “Convivio” (IV, 28, 15) “E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio che Catone?” Certo nullo.” Si tratta ovviamente di un’allegoria, ma possiamo dire che se Dante avesse dovuto dipingere il Padre Eterno, gli avrebbe dato il volto di Catone, per indicare che nessun uomo sulla Terra era più degno di lui a “significare”, raffigurare in immagine, Iddio.
Sta di fatto che Dante, nel proporci i tratti fisici e morali di Catone, si ispira agli scrittori antichi, in particolare Marco Anneo Lucano (“Pharsalia”, II, 380-391): Hi mores, haec duri inmota Catonis secta fuit, seruare modum finesque tenere naturamque sequi patriaeque inpendere uitam nec sibi sed toti genitum se credere mundo. Questi principi, questa fu la ferma condotta del duro Catone: conservare la misura, non uscire dai limiti, seguire la natura, dedicare la vita alla patria, credere di essere nato non per sé, ma per tutta l’umanità. In metafora, poi, Lucano lo rappresenta per Roma come un padre e un marito. Le sue doti sono ancora l'amore per la giustizia, l'onestà, l'assenza dell'egoismo. Dante si ispira non soltanto a Lucano, ma anche ad altri autori, che in età repubblicana e augustea avevano esaltato la persona dell’Uticense quale esempio e modello di virtù. E così Cicerone: “omnium virtutum auctor”; e ancora Seneca, con cui Catone condivise la filosofia stoica e lo stesso destino: “certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse, quam Ulyssem et Herculem prioribus saeculis”, “l’esempio più certo di uomo sapiente che ci avevano dato gli dèi immortali, meglio di Ulisse e di Ercole dei tempi antichi.” Questa figura, celebrata come unica dagli autori latini, e sovrastante ogni altra, per la sua esemplare grandezza, apparve a Dante come il personaggio storico a cui affidare il ruolo di governo del Purgatorio. Un tale compito non poteva essere svolto da una figura angelica, che invece aveva il ruolo di guardiano (“primo ministro”) alle porte del Paradiso, secondo l’invito di Catone a detergere il viso di Dante, in metafora cancellare il peccato (“alcuna nebbia”), quando si presenterà a lui (vv.97-99)
ché non si converria, l’occhio sorpriso d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch’è di quei di paradiso.
Il personaggio di Catone s’impone alla coscienza di Dante, nella sua lettura dei classici, come l’uomo perfetto, a cui affidare l’ufficio di balivo (governatore) del secondo regno: “quelli spirti / che purgan sé sotto la tua balìa.” Ma è stato soprattutto Virgilio a influenzarlo nella scelta, se vogliamo tener conto del ruolo di legislatore nei “Campi Elisi”, assegnato a Catone nell’Eneide (VIII, 670): «secretosque pios, his dantem iura Catonem» «e in disparte le anime dei giusti, e Catone che dà loro le leggi». Nel far sua la scelta di Virgilio, Dante riconobbe quindi nel personaggio la fermezza e l’autorità morale, di cui parla pure Montaigne: “Ce personnage là fut véritablement un patron que nature choisit pour montrer jusques où l'humaine vertu et fermeté pouvoit atteindre. " (Essais, I, 37). “Questo personaggio fu veramente un patrono (santo protettore), che la natura scelse per mostrare fino a che punto può arrivare l’umana virtù e fermezza. Ma come conciliare la virtù e rettitudine dell’uomo, la sua fede stoica con i principi della religione cristiana?
CONVIVIO Nel IV Libro del Convivio (1303-08), opera anteriore alla stesura del “Purgatorio”, Dante parla di Catone come seguace della dottrina stoica, ma già ne proietta la figura nella luce della fede cristiana: “Furono dunque filosofi molto antichi […] che videro e credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore. E diffiniro così questo onesto: ‘quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sè di ragione è da laudare’. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone, di cui non fui di sopra oso di parlare.” (IV, 6, 9-10) Con quest’ultimo giudizio, Dante si riporta al capitolo precedente, quando passando in rassegna dalla fondazione tutti i grandi uomini della storia di Roma e del suo imperio, le cui gesta erano state certamente ispirate da Dio, menziona Catone esclamando: “O sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare?” Ha compiuto un gesto talmente eccezionale, che sulla sua straordinarietà è meglio tacere, non esprimere giudizi. E in tale contesto, Dante cita San Paolo: “Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire.” (IV, 5,16) In questa ispirazione divina della storia dei grandi Romani, Dante accosta il concetto stoico di provvidenza, un ordine divino e razionale (πρόνοια) immanente all’universo e alla sua evoluzione ciclica, alla dottrina cristiana della Divina Provvidenza : “Sono le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce con sapienza e amore tutte le creature al loro fine ultimo.” È un concetto che in letteratura ha trovato la sua migliore espressione in Alessandro Manzoni: “Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.” (“I Promessi Sposi”, cap. VIII)
Questo senso cristiano di rassegnazione alla superiorità della volontà divina è quello proprio della morale stoica di serena accettazione degli avvenimenti della storia e del mondo, dovuti al Fato, un concetto che rende l’ordine provvidenziale indistinguibile da quello più antico di necessità (ανάγκη) e di destino (μοῖρα). In questa prospettiva di vicinanza tra la Provvidenza e il Fato, con l’accettazione stoica di un superiore disegno universale, Dante può realizzare la sospensione di un giudizio di condanna nel gesto di Catone e piegarlo alla volontà divina. Ecco perché dice: “Certo e manifesto esser dee, rimembrando la vita di costoro e de li altri divini cittadini, non sanza alcuna luce de la divina bontade, aggiunta sopra la loro buona natura, essere tante mirabili operazioni state; e manifesto esser dee, questi eccellentissimi essere stati strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano imperio, dove più volte parve esse braccia di Dio essere presenti.” (IV, 5, 17) In tal senso l’’intervento di Dio non faceva altro che illuminare con la luce della propria bontà quella disposizione ed esercizio di virtù (“buona natura”) proprie dell’uomo. Catone allora diventa un simbolo e la sua vicenda coniugale con Marzia, raccontata nei “Farsalia” da Lucano, Dante la presenta come un’allegoria. L’essere stata Marzia adolescente sposa di Catone, a cui aveva dato dei figli, come virtù conviene ai giovani, e poi passata a seconde nozze con Ortensio, a cui pure aveva dato dei figli, e ritornata vedova anziana a Catone, significava che l’anima, dopo aver adempiuto ai suoi doveri maternali, tornava a Dio, “Colui che non ha mestiere de le membra corporali”. E dice Marzia a Catone: “Due ragioni mi muovono a dire questo: l’una si è, che dopo di me si dica ch’io sia morte moglie di Catone; l’altra, che dopo di me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buon animo mi maritasti.” Dopo aver fatto così dire da Marzia a Catone, della loro relazione matrimoniale, Dante ne fornisce la sua interpretazione allegorica: “Per queste due cagioni si muove la nobile anima: e vuole partire de esta via sposa di Dio, e vuole mostrare a Dio che graziosa era la sua creazione.” E infine conclude con l’invettiva: “Oh sventurati e male nati, che innanzi volete partirvi de esta vita sotto lo titolo d’Ortensio che di Catone. Nel nome di cui è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per tutte etadi.” (IV, 28, 13-19) Così nel “Convivio”, il personaggio di Catone diventa il simbolo di una vita retta ed onesta, quello che nel “Purgatorio” dell’apocrifo viene definito: “Lo gran veglio che fu del verso giusto.”
MONARCHIA Forse la descrizione di un personaggio meno simbolico, ma più aderente alla figura storica di Catone, è quella tratteggiata da Dante nel “Monarchia”, un’opera contestuale nel tempo alla stesura del “Purgatorio”, coincidente con la discesa in Italia di Arrigo VII (1310-13). Come nel “Convivio”, concludendo la rassegna dei grandi Romani, di Catone afferma: “Accedit et illud inenarrabile sacrifitium severissimi verae libertatis tutoris Marci Catonis.” Catone è il più severo difensore della libertà, per la quale compie l’estremo sacrificio, preferisce la morte pur di non sottomettersi al tiranno. Per questo suo carattere di austerità, che aveva contraddistinto la sua vita, il suo gesto trova quella giustificazione che ad altri sarebbe mancata, come affermato da Cicerone, nel “De officiis” (I, XXXI, 112), un passo che Dante riporta nel suo trattato (“Monarchia”, Libro II, V, 17): “Num enim alia in causa M. Cato fuit, alia ceteri, qui se in Africa Caesari tradiderunt? Atqui ceteris forsitan vitio datum esset, si se interemissent, propterea quod lenior eorum vita et mores fuerant faciliores, Catoni cum incredibilem tribuisset natura gravitatem eamque ipse perpetua constantia roboravisset semperque in proposito susceptoque consilio permansisset, moriendum potius quam tyranni vultus aspiciendus fuit.” “Ora, Marco Catone si trovò in condizione diversa da quelli che in Africa s’arresero a Cesare? Eppure, mentre a costoro si sarebbe fatta una colpa se si fossero uccisi, perché meno austera era stata la loro vita e meno rigidi i loro costumi, a Catone, invece, che aveva avuto in dono da natura una straordinaria austerità, da lui rafforzata con una incessante fermezza, a lui ch'era sempre rimasto incrollabilmente fermo nel suo proposito, il dovere impose di morire piuttosto che vedere la faccia del tiranno.” Come è stato giustamente osservato, questo passo del “Monarchia”, costituisce il miglior commento al Canto I del “Purgatorio”. Superata la creazione poetica-teologica del “Convivio”, l’allegoria abbastanza vaga di “nobiltà di carattere”, “virtù naturale”, “libertà”, la figura di Catone acquista la sua realtà storica, prefigurando il personaggio della “Commedia”. Dante si ritrova davanti a un vegliardo, un uomo venerando, la cui rivendicazione della libertà è dimile a quella del poeta, pellegrino nell’oltretomba, che deve ascendere il monte dell’espiazione, ma anche il monte della liberazione, per conquistare quella libertà di cui l’Uticense è il simbolo.
In questa luce, le parole che Virgilio pronuncia in favore di Dante: “libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta” non vanno interpretate come una “captatio benevolentiae”, ma rispecchiano la detta similitudine (vv.73-81):
Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti, ché questi vive, e Minòs me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega.
In tal modo, Dante finisce di tracciare il quadro del personaggio, di cui riferisce in breve la storia, riallacciandola a quella di Marzia, la consorte di Catone, incontrata nel Limbo (“Inferno”, IV, 128), nel nobile castello degli spiriti magni. I rimproveri di Catone ai due poeti giunti dinanzi a lui hanno quindi dato modo a Virgilio di riepilogare le vicende narrate nella prima Cantica, e di promettere di riferire alla consorte della salvezza di lui Catone, se permetteva il loro ingresso nel Purgatorio (vv.85-94)
«Marzia piacque tanto a li occhi miei mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora, «che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora, più muover non mi può, per quella legge che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti muove e regge, come tu di’, non c’è mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge.
Catone replica che la sorte della moglie Marzia, di cui in vita eseguì ogni desiderio, ora che si trova al di là del fiume infernale, l’Acheronte, non può più commuoverlo, per quella intangibilità dei decreti divini, emanati quando lui fu liberato, “per quella legge / che fatta fu quando me n’usci’ fora”, in forza di quella legge che fu emanata quando io ne uscii fuori.” È il riferimento all’immutabilità dei decreti divini, quelli di cui Virgilio aveva fatto menzione nell’Eneide, come ricorda Dante nel Canto VI del “Purgatorio”.
LA QUESTIONE TEOLOGICA “Desine fata deum flecti sperare precando.” (“Eneide”, VI, 376) Rinuncia alla speranza di cambiare i decreti divini con le tue preghiere. Il verso di Virgilio, investigato da Dante nel Canto VI del “Purgatorio”, sembra segnare la linea di confine tra le divinità pagane e il Dio della nuova fede cristiana. Nel mondo antico, per il mortale era impossibile sfuggire al destino decretato dalle Moire, la parte (Μοῖρα), che ognuno era destinato a svolgere nella sua esistenza, e gli stessi dèi erano soggetti alla forza superiore della Necessità (Ἀνάγκη, Ananke). Nel mondo cristiano, la volontà del Signore prevale su tutto il creato e le sue creature, e anche le preghiere (e le opere) di queste ultime, senza la grazia divina, non garantiscono la salvezza della vita eterna. Sula distanza che intercorre tra la necessità e la libertà dell’uomo, la sua possibilità di influire sul suo destino, Dante interroga Virgilio, il suo maestro e la sua guida:
Io cominciai: «El par che tu mi nieghi, o luce mia, espresso in alcun testo che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo: sarebbe dunque loro speme vana, o non m’è ‘l detto tuo ben manifesto?».
Assediato dalle anime, che gli chiedono di pregare per loro, onde ottenere la grazia divina, Dante si rivolge a Virgilio: “Io cominciai: “Mi sembra che tu neghi, o mio maestro, espressamente in una tua opera, che la preghiera possa piegare una decisione divina; e queste anime pregano proprio per questo: dunque la loro speranza è vana, o le tue parole non mi sono chiare?» (VI, 28-33)
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana; e la speranza di costor non falla, se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla perché foco d’amor compia in un punto ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
e là dov’io fermai cotesto punto, non s’ammendava, per pregar, difetto, perché ‘l priego da Dio era disgiunto.
E Virgilio risponde: «Quel che scrissi è chiaro e la speranza di costoro non è fallace, se si pone attenzione e si ragiona correttamente; infatti l'altezza del giudizio divino non viene meno, se la passione d’amore (preghiera) vuole ottenere in un istante quello che deve essere espiato da chi si trova qui (il penitente in Purgatorio); e nel passo in cui io dissi questo, la colpa non veniva cancellata grazie alla preghiera, non essendo la preghiera rivolta a Dio.” (VI, 34-42) Nelle parole di Virgilio, Dante pone la differenza tra la preghiera pagana rivolta a falsi dèi, non espressione divina, e quella cristiana, che si rivolge per intercessione al vero Dio, anche se non risolve il dubbio del perché la preghiera possa rimanere inascoltata. Il tema filosofico sottostante è quello della colpa, la ybris, ὕβϱις, per gli antichi, il peccato originale, per i cristiani.
Veramente a così alto sospetto non ti fermar, se quella nol ti dice che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto.
Tuttavia davanti a un dubbio così profondo, non ti fermare prima che ti parli colei che sarà luce tra la verità e il tuo intelletto. (VI, 43-45) In questi versi, Virgilio si riferisce a Beatrice, la sola donna in grado di legittimare il viaggio di Dante e che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia, simbolo di unione tra l’intelletto umano e la verità divina. Qui, il discorso teologico si riallaccia ai versi 88-93 del Canto I, quando Catone ricorda come egli non può più tornare nel Limbo per decreto divino, mentre per Dante gli basta sapere dell’intercessione della “donna del cielo”, al fine di lasciarlo passare per l’ascesa al monte del Purgatorio e la purificazione dal peccato. Ed è questo il punto nodale di tutta la poetica dantesca, iniziato con la “Vita Nova” e concluso nella “Commedia”. Quando aveva iniziato a comporre i suoi versi di poesia, Dante aveva seguito l’ispirazione poetica dell’amor cortese, proveniente dai trovatori provenzali della Francia meridionale del XII secolo. Nelle canzoni, si celebravano la bellezza di una nobildonna e le sofferenze d’amore dei suoi ammiratori non corrisposti. L’avvenenza, la gentilezza dei modi, il fascino ispiravano il vero amore, e nella poesia diventava una passione esaltante, che tormentava l’ammiratore per l’irraggiungibilità dell’oggetto del suo desiderio. Questa convenzione d’amor cortese fu Dante a nominarla “dolce stil novo” (Purgatorio, XXIV, 57), costituendo un sodalizio con gli altri due poeti del suo tempo, Guinizelli e Cavalcanti, in particolare un rapporto d’amicizia con quest’ultimo. La poesia venne considerata come mezzo espressivo non solo di amor cortese, ma di valori filosofici e religiosi. Seguendo, la suddivisione aristotelica dell’anima in tre parti, vegetativa, sensitiva e intellettiva, ragionavano dell’amore ispirato dalla bellezza della donna, come un sentimento che affascinando lo sguardo raggiungeva il cuore per risalire infine all’intelletto. Di quell’epoca era l’interpretazione averroistica di Aristotele, la dottrina dell’intelletto possibile: questo periva con l’anima, al contrario dell’intelletto separato, l’intelletto agente l’unica parte immortale e universale dell’anima, dottrina condannata dalla Chiesa. Nel “De Anima” (III, 5, 430 a), per spiegare la produzione del pensiero, Aristotele distingue, nella parte razionale dell’anima, un intelletto passivo analogo alla materia, il pensiero, da un altro attivo, la causa efficiente del pensiero. L’intelletto agente è definito come χωριστός separato, ἀμιγής puro (non contaminato), ἀπαθής attivo (non passivo). L’interpretazione di Alessandro di Afrodisia (II-II sec. d. C.), il principale commentatore delle opere di Aristotele, per cui solo l’intelletto attivo, essendo parte del pensiero puro in atto, Dio, sopravvive alla morte, influenzò gli interpreti successivi. Costoro, a cominciare da quelli più antichi fino alla scolastica araba e cristiana, e poi ancora fino all’aristotelismo rinascimentale, si posero il problema se esso facesse parte dell’anima umana o piuttosto della divinità, fornendo risposte differenti. L’intelletto possibile è quello definito nel Medio Evo, “intellectus possibilis”, la possibilità o potenzialità del divenire delle cose, ed è distinto dall’intelletto agente, “intellectus agens” La tradizione filosofica islamica offrì un enorme contributo speculativo al mondo latino sul tema gnoseologico, in particolare sull’intelletto agente, e le sintesi di Avicenna ed Averroè furono studiate con attenzione nelle Università, sebbene le “interdizioni” della Chiesa ne vietavano la lettura. Queste tesi influenzarono Cavalcanti, rendendolo un pensatore non ateo, ma eretico. La verità può essere raggiunta senza la mediazione divina, e l’anima intellettuale non ha niente di spirituale, non ha connessioni con il divino, ma ha soltanto un carattere naturale, e su questi temi si avrà la rottura tra Dante e Guido.
Nella canzone “Donna me prega, ch’eo voglio dire”, Guido Cavalcanti canta l’amore, dichiarando di ricorrere alle tesi della filosofia naturale, quindi comprensibili soltanto a chi sia esperto di dottrina. L’amore è accidente, in termini aristotelici non sostanza, colpisce e attraversa i sensi, senza raggiungere l’intelletto. Come il corpo trasparente si trasforma da potenza ad atto, diventando luminoso, quando è attraversato dalla luce, così l'amore viene dall’esterno, ed è disposizione naturale dell'anima e desiderio del cuore. Muove dalla visione di una figura, che si percepisce nell'intelletto possibile, ma lì non può nulla, non accoglie il piacere, rimane soltanto contemplativo. L’amore non è virtù, proviene da una capacità di perfezione non razionale, ma sensitiva; l'amore sottrae il giudizio al sano ragionare, poiché il desiderio prende il posto della razionalità, e si lega alla passione. L’intelletto non può andare oltre i propri limiti naturali, e pertanto non è possibile dire quello che non è possibile conoscere. “La nova - qualità move sospiri, e vol ch'om miri - 'n non formato loco, destandos'ira la qual manda foco (imaginar nol pote om che nol prova)” La novità della sensazione provoca sospiri e impone che si contempli un oggetto (la donna), non formatosi nell'intelletto possibile (‘n non formato loco”), destando l’ira che fa avvampare, ma non la può immaginare chi non lo prova. In tutt’altro modo, Dante espone la sua dottrina dell’amore nella canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore”. Rivolgendosi a tutte le donne che conoscono l’amore, Dante dice di voler parlare della propria donna, non tanto per esaurirne le lodi, ma per fare un discorso razionale. Quella della sua donna è una figura così divina, tanto che un angelo del cielo reclama nel vedere un miracolo incarnato in un'anima [Beatrice] e che risplende fin lassù. Ed ora il poeta, vuole fare conoscere la virtù della sua donna, desiderata nel cielo più alto (l’Empireo dei Beati). Qualunque donna voglia sembrare nobile, deve andare con lei, che camminando per strada gela i cuori di quelli privi di nobiltà spirito, estinguendone il desiderio. E se incontra qualcuno degno di sostenere la sua vista, quello sperimenta la sua virtù, perché tutto quel che dona si trasforma in beatitudine, rendendolo umile a tal punto che dimentica ogni offesa. Dio le ha concesso anche una grazia superiore, perché chi le ha parlato non può perdersi nella dannazione. In questo modo, Beatrice è trasfigurata, la donna non è più oggetto di desiderio, come nella poetica dell’amor cortese, ma viene adorata come creatura divina, che può intercedere presso Dio e ottenere la salvezza dell’anima. Nel 1294, Dante aveva pubblicato la “Vita Nova”, in cui commenta le sue poesie, ispirate al suo amore per Beatrice, una donna incontrata la prima volta, quando lei aveva nove anni. Nel rivederla a diciotto anni, il saluto di lei suscita nel suo spirito un ardente desiderio d’amore, che egli nasconde fingendosi interessato ad altre donne. Per questo, Beatrice lo priva del suo saluto, e Amore lo rimprovera per le attenzioni rivolte alle donne-schermo, suggerendogli di narrare in versi il suo vero amore, allora il poeta comprende che il suo amore per Beatrice trascende ogni manifestazione concreta, sia pur tenue come il saluto. La donna diventa, così, una creatura angelica inviata da Dio sulla terra per ricondurre gli uomini al bene: "da cielo in terra a miracol mostrare". Poi sopravviene la morte di Beatrice, e nella vita e nel cuore del poeta si fa avanti una nuova donna gentile. In sogno, però, gli sembra di vederla nella sua gloria celeste, giovane come quando l'ha incontrata la prima volta. Allora ritrae il suo pensiero dalla donna gentile, che ha risvegliato il suo desiderio, e si propone di non parlare più di Beatrice fin quando non potrà farlo in maniera più degna.
Nella “Vita Nova”, Dante ormai trentenne poteva dare un giudizio sulle sue poesie del decennio antecedente, e rivederne il senso, come nel sonetto “Io mi senti’ svegliar dentro lo core”. L’Amore ha perso tutta la sua coloritura terrena, per acquistare invece una luce tutta celestiale, un’apoteosi (assunzione in cielo) della dama dell’amor cortese. Questo significato viene bene illustrato nel commento alle due terzine finali del sonetto, l’immagine della donna di Guido in compagnia di Beatrice, che Dante vede arrivare incontro a lui: “io vidi monna Vanna e monna Bice venir invêr lo loco là ov'io era, l'una appresso de l'altra maraviglia; e sì come la mente mi ridice, Amor mi disse: «Quell'è Primavera, e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia.” Monna Vanna è Giovanna, la donna amata da Cavalcanti, che le aveva dato il senhal trovadorico di Primavera, ovvero, nella poesia provenzale, il nome d’arte dietro cui si celava l’identità della dama ispiratrice dei versi poetici. Dante interpreta il significato del nome Primavera, secondo la sua nuova visione mistica: “Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d'oggi; ché io [Amor] mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vòli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire 'prima verrà', però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini.” [Vita Nova, XXIV] “Io sono la voce che grida nel deserto: preparate la via del Signore.” Qui viene compiuta la trasfigurazione di Giovanna in Giovanni Battista, che annuncia l’arrivo di Cristo, la verace luce, in simbolo la figura di Beatrice. E se Cristo è venuto per la salvezza dell’umanità, per Dante la salvezza viene annunciata attraverso Beatrice, che rispecchia l’immagine del Salvatore. Possiamo quindi osservare che già al completamento della “Vita Nova” (1295), Dante aveva enunciato il senso ultimo della sua poetica letteraria e religiosa, che sarà il filo conduttore della “Divina Commedia”. Ecco perché, quando Virgilio e Dante giungono alle soglie del Purgatorio, a Catone basta il richiamo alla figura in cielo di Beatrice, per concedere a Dante la libertà di passare, onde ascendere di seguito in Paradiso (Purgatorio, I, vv.91-93)
Ma se donna del ciel ti muove e regge, come tu di’, non c’è mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge.
Ma se una donna beata, come dici, muove i tuoi passi, non servono lusinghe: è sufficiente pregarmi in suo nome.
Nel Canto IV dell’Inferno (vv.46-50), Dante aveva posto il quesito a Virgilio:
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», comincia’ io per voler esser certo di quella fede che vince ogne errore:
«uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato?»
Siamo nel Limbo, letteralmente il lembo, l’orlo dell’Inferno, dove sono confinate le anime che non commisero nessun peccato, escluse dalla salvezza, perché prive del battesimo, la luce divina, ossia della discesa su di loro dello Spirito Santo. Tra esse anche Virgilio, e la loro unica pena consiste nel desiderio inappagato di vedere Dio. Dante vuole sapere se mai qualcuno sia uscito dal Limbo, Virgilio risponde che poco tempo dopo il suo arrivo, vide entrare Cristo trionfante (risorto), che aveva tratto con sé i patriarchi biblici per portarli in Paradiso, tra cui Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Giacobbe e altri. Qui Dante concilia la dottrina dell’Antico Testamento con il Nuovo. Poi, si pone il problema dei grandi spiriti del passato, quelli del mondo greco e latino, e li confina nel nobile castello degli spiriti magni, tra cui Marzia, la consorte di Catone. Deve notarsi, per inciso, che la dottrina attuale della Chiesa cattolica non include nel suo insegnamento l’esistenza del Limbo, e affida alla misericordia divina la salvezza degli innocenti, i bambini morti senza battesimo. Alla luce di questi dogmi, verità di fede, la scelta di Dante di trarre fuori dal Limbo Catone non sembra certo ortodossa e la critica dantesca dal Trecento ad oggi si è divisa sulle due posizioni contrastanti di giustificazione o di condanna. Nel “De Civitate Dei” (I, 23), Sant’Agostino, dopo avere condannato il suicidio, così risponde a coloro che in antico avevano giustificato il gesto di Catone: “Non trovano un altro esempio autorevole oltre alla morte che Catone si è dato ad Utica; e non perché egli sia stato il solo a compiere tale gesto, ma perché era considerato uomo dotto ed onesto, al punto che si riteneva sempre possibile e auspicabile imitarne la integra condotta. Alcuni suoi amici, anche dotti, lo dissuadevano con accortezza dal compiere quell’azione, giudicando che fosse il gesto di un fiacco e non di un uomo forte quello con cui si dimostra una debole sopportazione delle avversità, più che un dignitoso allontanamento da tutto ciò che è ignobile. Che dire di più? Proprio questo è stato il pensiero di Catone nei confronti del suo carissimo figlio, Se infatti ignobile vivere con Cesare vincitore, perché lo consentì al figlio, cui ingiunse di attendersi tutto dalla benevolenza di Cesare?” Nello stesso senso si esprime San Tommaso, richiamandosi proprio ad Agostino: “Nulli licitum est sibi manus iniicere quacumque esse causa, nisi forte divino instinctu fiat, ad exemplum fortitudinis ostendendum, ut mors contemnatur.” ((Sum. Theol., Suppl. 96, 6 ad 6) Non è lecito suicidarsi per nessun motivo, tranne non venga fatto per ispirazione divina, qual esempio di fortezza per disprezzare la morte”
L’eccezione a cui si riferisce Tommaso è quella di “ispirazione divina” , la trasgressione al divieto biblico di uccidere, quinto comandamento, è prevista anche da Agostino: “Tuttavia l’autorità divina ha stabilito alcune eccezioni al divieto di uccidere. Esistono dei casi, da considerare eccezioni, in cui Dio ordina di uccidere, o in base ad una legge positiva o in base a un ordine dato a qualcuno in particolare, in modo esplicito e limitato nel tempo.” (“De Civitate Dei.”, I, 21) Agostino fa esempi tratti dall’Antico Testamento: le guerre volute da Dio, il gesto di Abramo, Iefte che uccise la figlia, per adempiere al voto, Sansone che muore con tutti i filistei nel crollo del Tempio. Alla luce di queste eccezioni, qualcuno ha voluto giustificare il gesto di Catone, quasi a considerarlo come un eroe cristiano, che agisce per ispirazione divina, come nel ‘’900 Parodi. Ma già prima nel “400, Landino così si esprimeva: “E perché potrebbe parere a molti che lui si diviasse dalla cristiana religione tenendo uno huomo gentile e morto senza battesimo in luogo di salvazione, rispondo che non pone qui l'anima di Catone la quale siamo constretti a credere che sia tra le dannate, ma ponla per la libertà togliendo questo nome e perché tale uomo più che ogni altro fu amatore della libertà e quella prepose alla vita. Né altra cosa è più conveniente a questo luogo che la libertà. " Dello stesso è parere il Vellutello, che segue il pensiero del Landino. In seguito, il Daniello, ricordando che Dante si richiama al Catone, che Virgilio pose a guardia dei Campi Elisi, specifica: “che egli lo ponga per custodia di quei spiriti, i quali, liberati dalla servitù del peccato ma non ancora dalla purgazione di quello, vanno per i suoi sette regni di questa compita libertà cercando per acquisto della quale egli si uccise ." Contro costoro si espresse però padre Venturi, gesuita del “700": “Landino, Vellutello e Daniello, e altri appassionati per Dante, s'ingegnano di purgarlo da questo sconcio che un idolatra si metta per custode del Purgatorio. Ma causa patrocinio non bona maior erit. Egli semplicemente, senza pensare tanto alto quanto vorrebbono, imitò Virgilio nell'VIII: Secretosque pios, his dantem iura Catonem. Per verità è un gran capriccio, ma in ciò segue suo stile.” Rammarico fu quello espresso dal Muratori, nel vedere che Dante “dimenticando di trattare nel suo poema un argomento cristiano permettesse che la sua fantasia mischiasse col profano il sacro, e specialmente allorché introdusse nel Purgatorio Virgilio e Catone, uomini senza dubbio portati dalla lor falsa credenza ad un più infelice soggiorno ". Non nasconde disagio e irritazione il Tommaseo: “La più spedita è confessare che Dante s'è lasciato prendere alle lodi di Virgilio e di Lucano e che la imitazione ha fatto gabbo alla fede. C'è inoltre la comoda scusa del simbolo." Più duro appare il Papini che giudicò “sacrilegio” l’episodio.
Infine si è discusso sul dubbio alla fedeltà o meno all’ortodossia da parte di Dante. In quella posizione di guardia al Purgatorio, Catone è da considerarsi salvo? e destinato alla beatitudine eterna, o anzi già beato? Dante, fedele alla dottrina cristiana, credeva nel libero arbitrio, come si esprime in “Monarchia” (I,12,2): “Propter quod sciendum quod principium primum nostre libertatis est libertas arbitrii, quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci.” “Qui bisogna aver presente che il fondamento della nostra libertà è il libero arbitrio, che molti hanno sulla bocca, ma che pochi intendono.” Poi esprime le sue considerazioni: “Magari fino a dire che libero arbitrio è libera valutazione della volontà ci arrivano, e dicono giusto; ma sfugge loro il senso che le parole comportano. […] Per questo tengo a dire che il giudizio è termine medio fra l'apprendimento e il desiderio: perché una cosa in un primo momento viene percepita, poi, una volta percepita, si giudica buona o cattiva, e in ultimo il giudicante la persegue o ne rifugge. Se il giudizio è quello che esclusivamente mette in moto il desiderio e non ne è predeterminato in alcuna misura, allora è giudizio libero; se invece il giudizio è mosso da un desiderio che in qualsiasi forma lo prevenga, non può essere libero perché non è mosso da sé medesimo ma è trascinato da un'altra forza e ne è prigioniero. […] Riconosciuto questo, può risultare chiaro a sua volta che questa libertà o questa condizione di tutta la nostra libertà è il massimo dono conferito da Dio alla natura umana -come già ho detto nel "Paradiso" della mia Commedia- perché grazie ad esso in questa vita godiamo di una felicità umana, in un'altra di una felicità celeste.” (I, 12, 3-6) Il possesso del libero arbitrio implica quindi la libertà delle proprie azioni, e pertanto il nostro destino di salvezza, in termini di fede cristiana, non è predeterminato, ma ognuno nel giorno del Giudizio Universale sarà giudicato per le sue azioni. Catone però, pur essendo tratto dal Limbo per Volontà Divina, non segue la sorte dei Patriarchi biblici portati direttamente da Cristo in Paradiso, ma rimane a guardia del Purgatorio, anch’egli in attesa del giorno del Giudizio. In ragione della sua fede cristiana, Dante doveva tradurre in immagini di poesia la dottrina della resurrezione dei morti e quindi della condizioni dei Beati, prima di riprendere il loro corpo mortale. La descrizione viene fatta da Salomone nel XIV Canto del Paradiso (vv.34-60). I beati saranno avvolti per l’eternità in un alone di luce, che aumenterà non appena riprenderanno il loro corpo, perché aumenterà la visione di Dio, in quanto aumenterà il loro ardore di carità. E il corpo resterà visibile nella luce, proprio come il carbone che arde è visibile nella fiamma che lo avvolge.
“Ma sì come carbon che fiamma rende, e per vivo candor quella soverchia, sì che la sua parvenza si difende.”
Ritornando a quella che è la condizione di Catone, Virgilio gli dice, nel loro incontro, alle soglie del Purgatorio che al “gran dì”, quello del Giudizio Universale, il corpo, “la vesta” risplenderà “sì chiara” (vv.73-75):
“Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.”
L’interpretazione letterale dell’ultimo verso collega l’avverbio “sì”, così, al “gran dì”, nel senso che la possibilità di riprendere il corpo nel il giorno del Giudizio farà “sì” che “la vesta” potrà risplendere. Ora, se coloro che sono beati in Paradiso, sono prima passati in Purgatorio, per aver commesso dei peccati lievi, di cui si sono purificati, il fatto di trovarvi a guardia Catone, nella “Commedia”, rivela un’intenzione di Dante purificatoria per il suo personaggio, ma questa è un’ipotesi non suffragata dal testo. E su questo punto le opinioni sono discordi. Il francescano Baldassarre Lombardi del ‘700 pensa che il custode del Purgatorio, anzi dell’Antipurgatorio, perché “il Purgatorio non è qui, dov’è Catone, ma molto più in alto sulla falda del monte” non salirà mai al cielo verso cui ascendono le anime da lui custodite, e la chiarezza che lo avvolgerà nel giorno del Giudizio è il lume naturale che illuminerà tutti gli spiriti del limbo.” Sulla sua scia, il letterato e filologo Isidoro del Lungo, per il quale Cristo, traendolo dal Limbo, non lo aveva assegnato alla gloria celeste, ma alla montagna del Purgatorio, per tornare alla fine dei tempi “infra quei grandi del suo vecchio mondo gentile, nella quieta eternità luminosa non consolata dalla presenza di Dio.” Poetica appare la fantasia del Pascoli, per il quale Catone guiderà le anime uscite dal nobile castello del Limbo, dove avranno la loro dimora, ricomponendo la figurazione dello scudo virgiliano, dove sono raffigurate le gesta di Roma. È lo scudo che la madre Venere aveva fatto cesellare da Vulcano per suo figlio Enea, la ékphrasis, ἔκϕρασις, ovvero la rappresentazione verbale di un'opera d'arte figurativa, ripresa da Virgilio, a somiglianza dell’omerico scudo di Achille. Questa come altre consimili fantasie sono disapprovate dal Bigi, critico letterario del ed accademico del ‘900, che invita a “guardarsi dal trascorrere in eccessive sottigliezze o dall’attribuire al poeta quello che non dice e dal porre o risolvere problemi teologici, che Dante non si è posto e non si è preoccupato di risolvere.”
È comunque indubbio, al di là di giudizi suggeriti dalle proprie convinzioni religiose, che Dante, nella “Divina Commedia”, abbia indicato la salvezza di Catone, godrà di eccelsa beatitudine: “la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara”. Quel che rimane nel dubbio è se la salvezza di Catone è attuale oppure se è destinato alla beatitudine. Da una parte, sembra che la sua figura sia stata già santificata, per il fatto che al suo cospetto, Virgilio sollecita Dante peccatore a inginocchiarsi davanti a lui, dall’altra la posizione del beato sulla soglia del Purgatorio appare in contraddizione con questa visione, avendo dovuto essere il suo posto già in Paradiso. Nella sua situazione, si è osservato, Catone sembra avere lo stesso destino delle anime purganti, in attesa di ascendere al cielo, alla fine dei giorni. L’incertezza al riguardo è dunque propria della creazione poetica dantesca, che rende il personaggio avvolto da un’aura mistica, che rende sfuggente una spiegazione razionale. In proposito l’arcivescovo Giovanni Fallani, teologo e umanista del ‘900, si è così espresso: “La salvazione di Catone avviene in un clima di mistero, certamente per la fede implicita nel Cristo venturo, ma il poeta non solleva il velo del volere divino, né s'impegna, nel suo disegno di poesia, in una ardua questione di teologia ". Pertanto, ogni altra disquisizione teologica, pure con fondamenti dottrinari, va oltre i limiti dell’interpretazione di un’opera poetica, seppure di carattere religioso. Abbiamo voluto passare in rassegna, e anche con una particolare acribia, tutte le maggiori e autorevoli fonti della critica dantesca, senza tenere conto dell’apocrifo, che invece scioglierebbe ogni dubbio sull’ultima zona d’ombra rilevata, dando ragione a coloro, che hanno considerato Catone, collocato da Dante in Purgatorio, alla pari degli altri purganti, un’ anima in attesa di purificazione. L’ultimo compito che ci resta da affrontare è quello di commentare l’apocrifo, facendo chiarezza sulla sua origine e indicandone il valore apprezzabile, rispetto al testo originale della “Commedia”. Per portare a conclusione quest’ultimo adempimento, dobbiamo però spostarci a Parigi, dando di seguito la spiegazione di questa nostra trasferta.
L’ESILIO È controverso se Dante, nel corso del suo esilio ventennale, da Firenze si sia recato fuori d’Italia, in Francia, a Parigi, dove sembra possibile ritrovare alcune sue tracce, in particolare alla Sorbona, nel così detto Quartiere Latino. È necessario, quindi, seguire il suo itinerario di esule da quando lasciò Firenze per l’ultima volta, senza farvi più ritorno. . . . (Segue)
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
22 commenti:
[N. d. B.] Viene pubblicata la prima parte completa del saggio dantesco: “Lo diverso foco”, a cui seguirà una seconda ed ultima parte.
LO DIVERSO FOCO
Commento al Canto I del “Purgatorio” e Note sulla poetica dantesca.
Dante e Virgilio arrivano sulla spiaggia del Purgatorio, Dante vede le quattro stelle, forse allude alla Croce del Sud. È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba. Un personaggio maestoso s’impone davanti a loro, lunga barba e lunghi capelli a trecce sul petto, grigi, il volto illuminato dalle quattro luci sante, in metafora le quattro virtù cardinali. È Catone l’Uticense, e Virgilio, senza nominarlo, spiega a Dante, come egli sia immagine di grande virtù e rigore morale.
“Come di marmo fosse ‘l suo costume,
dissemi ‘l duca voltosi col busto,
ora convien su questo che t’allume.
Lo gran veglio che fu del verso giusto
a guardia sta de lo diverso foco,
foglia caduta dal violato arbusto.
L’assoluto voler, che in santo loco
per tutto amor di grazìa assurga,
ancor lo tien intra cotesto gioco,
tal che mondo lo spirito resurga
luce beata nel divino regno
a tempo pieno, ché infinito urga.
Or lesti siam al suo mostrar ’l segno
tosto che ’l peso di ragion assume
che tu possa varcar fattone degno.”
Purgatorio, Canto I, vv.40-54
PARAFRASI
Come rigoroso fosse il suo contegno morale
mi disse Virgilio rivolto dalla mia parte
ora è necessario che ti spieghi (allume).
Il grande vecchio [Catone] che visse in maniera retta
sta a custodia del diverso [dall’inferno] fuoco
anima caduta con il peccato originale (violato arbusto).
La volontà di Dio, che in cielo
per amore infinito e grazia concede di salire,
lo tiene ancora in codesto ruolo,
tale che mondato (mondo) lo spirito risorga
come luce [della corona] dei beati in Paradiso
alla fine (pienezza) dei tempi, quando l’eterno incalza (urga).
Ora stiamo pronti a un suo (di Catone) segno
appena assume la giusta decisione
affinché tu possa entrare una volta degno.
Dante definisce il Purgatorio lo “diverso foco”, per distinguere le fiamme purificatrici, che estinguono la colpa delle anime purganti, da quelle dell’Inferno, dove bruciano i dannati senza redenzione nell’eternità. Ma anche le fiamme del purgatorio sono eterne, essendo al difuori del tempo. Inferno, Purgatorio, Paradiso: dove si trovano questi luoghi non luoghi? Il luogo non luogo è l’isola Utopia di Tommaso Moro, santo venerato dalla chiesa anglicana e da quella cattolica, autore dell’opera letteraria: “Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”, “Un libro, vero tesoretto, non meno utile che piacevole, sulla migliore costituzione di uno Stato, la nuova isola Utopia”. Nel testo l’autore esprime le sue convinzioni su temi di filosofia, etica, politica, economia, tratteggiando un modello di Stato ideale, ispirato particolarmente alla “Repubblica” di Platone. La singolarità del testo consiste nel suo presentarsi come un paradigma puro, un’entità assolutamente ideale, una utopia appunto, non realizzabile in pratica. Questa idealità rispecchia in maniera perfetta la conclusione di Platone: “L’esemplare di questa nostra città sta forse nel cielo, ad esso deve guardare chiunque voglia in primo luogo fondarlo dentro di sé. E non è molto importante che esista di fatto in qualche luogo o che mai debba esistere.” (“Repubblica”, IX, 591b)
Il non luogo è un luogo interiore, che non si trova in nessun luogo fuori di noi. È valida quest’affermazione, non diciamo per il Paradiso, il regno di Dio, ma quanto meno per il Purgatorio? “Si deve credere che c'è, prima del giudizio, un fuoco purificatore.” È un fuoco interiore, l’anima del defunto si purifica di questo fuoco, per accedere infine al Paradiso, così definito dal Catechismo: “Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui [Cristo]. Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione.” Diversamente l’Inferno viene definito come luogo: “La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, “il fuoco eterno”.
IL TESTO APOCRIFO
Se andiamo a scorrere un qualsiasi testo della “Divina Commedia”, ci accorgiamo che mancano le cinque terzine del Canto I del Purgatorio, vv.40-54. A che cosa è dovuta quest’assenza? Esiste un testo apocrifo della “Divina Commedia”, che le include?
Nel 1336, a Genova, il copista Antonio da Fermo portò a termine la prima trascrizione del testo integrale della “Commedia” in un manoscritto a pergamena conservato nella Biblioteca Comunale Passerini Landi di Piacenza, il c.d. Manoscritto Landiano. La tesi secondo cui la lacuna del testo sia dovuta a un errore del primo copista non sembra molto plausibile. La prima pubblicazione del “Purgatorio” ebbe luogo a Verona nel 1315, quando il poeta era ancora in vita, e pertanto il testo era già definitivo da oltre due decenni, allorché Antonio da Fermo portò a termine il suo lavoro di copista. È verosimile pertanto che debba trattarsi di una interpolazione successiva. Ma quando e dove è stata compiuta? Ed in quale Codice viene conservato il testo modificato?
Intanto, si può avanzare l’ipotesi che la redazione delle terzine apocrife sia dovuta a un uso molto particolare dei versi danteschi da parte di alcuni pubblici ufficiali di conservatoria, nella trascrizione di atti nel Pubblico Registro. Il primo esempio risale al 1317, allorché Il notaio ser Tieri degli Useppi da San Gimignano trascrisse alcuni versi del III canto dell’Inferno sulla copertina di un registro di atti criminali, conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna. Nello stesso Archivio sono conservati memoriali di altri notai, che in quegli anni riportavano nei loro atti versi del Purgatorio. Una tale consuetudine era dovuta alla necessità di non lasciare spazi bianchi negli atti notarili, in modo da evitare aggiunte o modifiche fraudolente. Ora, non è escluso che le terzine apocrife siano state ricavate da tali atti e aggiunte al testo dantesco canonico, come non è esclusa l’ipotesi opposta, ossia che i notai e gli ufficiali dei pubblici registri abbiano ricavato le terzine da qualche manoscritto apocrifo, circolante a quei tempi, contenente “interpolazioni” o “manipolazioni” dell’originale.
Riguardo al testo in commento, deve notarsi che l’aggiunta delle cinque terzine non influisce sulla continuità del metro e la rima alternata del poema. Inoltre, il contenuto della “presunta” interpolazione, in cui Virgilio indica a Dante Catone e ne illustra la figura, appare in consonanza con il testo riconosciuto del Codice Landiano, senza sembrare affatto una interpolazione. Seguendo il procedimento opposto, ossia estrapolando le cinque terzine dell’apocrifo, ci accorgiamo al contrario che il testo dantesco appare menomato di quelle particolari spiegazioni, che la critica filologica e letteraria ha ricostruito in verità senza grande fatica. Interpretando alla lettera il Canto I del “Purgatorio”, i versi che ci interessano, ovviamente non quelli apocrifi, scopriamo che Dante nel tracciare un primo ritratto di Catone, non ha ritenuto di volere fornire ulteriori spiegazioni teologiche sulla sua scelta di collocarlo in Paradiso, oltre alla stringata dichiarazione di Catone stesso (vv.89-90): “quella legge / che fatta fu quando me n’usci’ fora.” Si riferisce all’intangibilità dei decreti divini, su cui il poeta ritornerà nel Canto VI, come vedremo. Qui, alle soglie del Purgatorio, Dante delinea il personaggio, soltanto attraverso l’imponenza della figura fisica, quasi a mostrarne nei tratti la grandezza e l’autorità morale (vv.30-39):
“Vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.”
Non so, forse Dante ha pensato di presentarlo subito nel suo ruolo, senza far cenno alla sua storia, e magari in un primo tempo avrà steso quelle cinque terzine, pervenute come apocrife, per poi stornarle dal testo, e chissà che qualche minuta rimasta in giro non abbia sviato un qualche copista, che le ha incluse nella stesura come originali. T forse accertamenti più approfonditi e raffronti successivi hanno portato a giudicarle spurie, e pertanto, considerate non autentiche, sono state espunte. Ma questa è soltanto un’ipotesi suggestiva o meglio un’illazione, mancando finora un documento, anche tra quelli notarili, che storicamente ci sono pervenuti e sono conservati nell’Archivio di Stato di Bologna, che attesti la nostra ipotesi.
Di possibili e verosimili rifacimenti non risalenti al Trecento, ma di epoca successiva, parleremo più avanti, ora vorremmo compiere un’indagine filologica testuale, per vedere in che modo le terzine apocrife si possano conciliare con il testo originale.
Subito dopo il verso 39, le terzine dantesche continuano con l’intimazione che il veglio rivolge alle due anime, quelle di Virgilio e Dante, considerate in fuga dall’Inferno:
«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss’el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?»
Subito con parole e cenni, Virgilio costringe Dante a inginocchiarsi e ad abbassare lo sguardo di fronte al veglio, a cui poi risponde, spiegando dell’intercessione celeste di Beatrice per redimere in tempo Dante, anima ancora viva, vedendo le pene dei dannati all’Inferno ed ora quelle dei penitenti del Purgatorio. Quindi conclude che sarebbe lungo spiegare come per volere divino l’abbia condotto fin davanti a lui, in cerca di quella libertà così cara, come sa chi per essa sacrifica la vita:
“Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti;
de l’alto scende virtù che m’aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.”
Sono due versi celebri: il primo, dove Dante dichiara la sua ricerca per la libertà dal male, proprio della condizione umana; il secondo quello in cui giustifica il suicidio di Catone, al contrario di Pier della Vigna, collocato nella selva dei suicidi (“Inferno” XIII, 22-54). Il dannato racconta la sua assoluta fedeltà all’Imperatore Federico II di Svevia, tanto da diventarne il solo depositario di tutti i segreti, “colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo”. Il suo zelo aveva suscitato l'invidia dei cortigiani, e accusato di tradimento, preferì togliersi la vita, passando dalla ragione al torto. Dante non lo ritiene un traditore, per i quali aveva previsto una pena diversa, e lo pone tra i suicidi, quelli cristiani, non quelli pagani come Cleopatra, Didone, Lucrezia in altre parti dell’Inferno. Deve notarsi, e non è un caso, la contiguità tra la selva dei suicidi del Canto XIII, dove è relegato Pier della Vigna, e l’arida sabbia del deserto libico calpestata da Catone, menzionata nel successivo Canto XIV, 4-15:
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa:
quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.
Giunti al confine, dove il secondo girone si divide dal terzo, e dove si vede la terribile punizione divina, Dante spiega la novità del luogo. È un tratto pianeggiante, senza vegetazione, a cui fa da corona la selva dei suicidi. il suolo è formato da sabbia spessa e arida, simile a quella del deserto libico su cui ha marciato Catone. Storicamente corrisponde alla spedizione in Africa, quando saputo della morte di Pompeo, Catone assunse il comando delle truppe e raggiunse in Libia Scipione e Varo. Qui cedette il comando a Scipione, prendendo l’incarico di presidiare Utica, nell’attuale Tunisia. Dopo la battaglia di Tapso, dove i pompeiani furono sconfitti da Cesare, che proseguì per Utica, dove si trovava con le sue truppe Catone. Alla notizia della sconfitta degli alleati, Catone si suicidò. trovava con le sue truppe Catone. Alla notizia della sconfitta degli alleati, Catone si suicidò. Alla notizia, secondo Plutarco, Cesare avrebbe detto: «O Catone, ho invidia della tua morte, perché mi togliesti l'onore di salvarti la vita».
IL GRANDE VEGLIO
La critica dantesca si è lungamente interrogata sul perché Dante abbia scelto la figura di Catone, per porlo a guardia del Purgatorio. Le risposte sono state tante e le più varie, soprattutto in relazione ai dubbi teologici, che una tale collocazione solleva.
Intanto, osserviamo che nei Canti I e II del Purgatorio, dove il grande veglio appare, Dante non lo nomina direttamente, ma come già notato, lascia comprendere di quale personaggio si tratta, indicando alcune caratteristiche della sua vita, le principali della sua figura storica, la consorte Marzia, Utica dove si tolse la vita, la caratura morale, l’amore per la libertà. “Veglio” è l’appellativo con cui lo presenta nel Canto I, e “veglio onesto” nella breve apparizione del Canto II; nell’apocrifo, Virgilio lo definisce “gran veglio”. È stato osservato che l’aspetto di vecchio venerando ben si attaglia al termine “veglio”, una voce inconsueta, ma più nobile. Noi andiamo un po' più in là nello scavo del termine, se ricordiamo la dimensione psicologica che ne disegna Jung, nella sua dottrina dell’Inconscio. Nel suo commento allo “Zarathustra” di Nietzsche, in parecchi brani, egli utilizza un termine per indicare sia l’archetipo sia la figura che l’incarna o la metafora che la illustra. Così accade con il “Vecchio Saggio”, frequentemente evocato, specie quando tratta dei primi passi dello “Zarathustra”, dove Nietzsche incontra la figura del “Vegliardo”. Nella prospettiva junghiana, possiamo dire che in Catone Dante abbia raffigurato un tale archetipo, che comunemente ritroviamo in tante raffigurazioni dell’immagine del Padre Eterno della religione cristiana. Non è un caso che alcuni autori, a proposito di Catone, abbiano addirittura insistito su quest’aspetto di figura dell’Onnipotente nel ritratto sortito dall’immaginazione di Dante, citando la battuta del “Convivio” (IV, 28, 15) “E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio che Catone?” Certo nullo.” Si tratta ovviamente di un’allegoria, ma possiamo dire che se Dante avesse dovuto dipingere il Padre Eterno, gli avrebbe dato il volto di Catone, per indicare che nessun uomo sulla Terra era più degno di lui a “significare”, raffigurare in immagine, Iddio.
Sta di fatto che Dante, nel proporci i tratti fisici e morali di Catone, si ispira agli scrittori antichi, in particolare Marco Anneo Lucano (“Pharsalia”, II, 380-391):
Hi mores, haec duri inmota Catonis
secta fuit, seruare modum finesque tenere
naturamque sequi patriaeque inpendere uitam
nec sibi sed toti genitum se credere mundo.
Questi principi, questa fu la ferma condotta
del duro Catone: conservare la misura, non uscire dai limiti,
seguire la natura, dedicare la vita alla patria,
credere di essere nato non per sé, ma per tutta l’umanità.
In metafora, poi, Lucano lo rappresenta per Roma come un padre e un marito. Le sue doti sono ancora l'amore per la giustizia, l'onestà, l'assenza dell'egoismo.
Dante si ispira non soltanto a Lucano, ma anche ad altri autori, che in età repubblicana e augustea avevano esaltato la persona dell’Uticense quale esempio e modello di virtù. E così Cicerone: “omnium virtutum auctor”; e ancora Seneca, con cui Catone condivise la filosofia stoica e lo stesso destino: “certius exemplar sapientis viri nobis deos immortales dedisse, quam Ulyssem et Herculem prioribus saeculis”, “l’esempio più certo di uomo sapiente che ci avevano dato gli dèi immortali, meglio di Ulisse e di Ercole dei tempi antichi.”
Questa figura, celebrata come unica dagli autori latini, e sovrastante ogni altra, per la sua esemplare grandezza, apparve a Dante come il personaggio storico a cui affidare il ruolo di governo del Purgatorio. Un tale compito non poteva essere svolto da una figura angelica, che invece aveva il ruolo di guardiano (“primo ministro”) alle porte del Paradiso, secondo l’invito di Catone a detergere il viso di Dante, in metafora cancellare il peccato (“alcuna nebbia”), quando si presenterà a lui (vv.97-99)
ché non si converria, l’occhio sorpriso
d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei di paradiso.
Il personaggio di Catone s’impone alla coscienza di Dante, nella sua lettura dei classici, come l’uomo perfetto, a cui affidare l’ufficio di balivo (governatore) del secondo regno: “quelli spirti / che purgan sé sotto la tua balìa.” Ma è stato soprattutto Virgilio a influenzarlo nella scelta, se vogliamo tener conto del ruolo di legislatore nei “Campi Elisi”, assegnato a Catone nell’Eneide (VIII, 670): «secretosque pios, his dantem iura Catonem» «e in disparte le anime dei giusti, e Catone che dà loro le leggi».
Nel far sua la scelta di Virgilio, Dante riconobbe quindi nel personaggio la fermezza e l’autorità morale, di cui parla pure Montaigne: “Ce personnage là fut véritablement un patron que nature choisit pour montrer jusques où l'humaine vertu et fermeté pouvoit atteindre. " (Essais, I, 37). “Questo personaggio fu veramente un patrono (santo protettore), che la natura scelse per mostrare fino a che punto può arrivare l’umana virtù e fermezza. Ma come conciliare la virtù e rettitudine dell’uomo, la sua fede stoica con i principi della religione cristiana?
CONVIVIO
Nel IV Libro del Convivio (1303-08), opera anteriore alla stesura del “Purgatorio”, Dante parla di Catone come seguace della dottrina stoica, ma già ne proietta la figura nella luce della fede cristiana: “Furono dunque filosofi molto antichi […] che videro e credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore. E diffiniro così questo onesto: ‘quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sè di ragione è da laudare’. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro quello glorioso Catone, di cui non fui di sopra oso di parlare.” (IV, 6, 9-10) Con quest’ultimo giudizio, Dante si riporta al capitolo precedente, quando passando in rassegna dalla fondazione tutti i grandi uomini della storia di Roma e del suo imperio, le cui gesta erano state certamente ispirate da Dio, menziona Catone esclamando: “O sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare?” Ha compiuto un gesto talmente eccezionale, che sulla sua straordinarietà è meglio tacere, non esprimere giudizi. E in tale contesto, Dante cita San Paolo: “Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire.” (IV, 5,16)
In questa ispirazione divina della storia dei grandi Romani, Dante accosta il concetto stoico di provvidenza, un ordine divino e razionale (πρόνοια) immanente all’universo e alla sua evoluzione ciclica, alla dottrina cristiana della Divina Provvidenza : “Sono le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce con sapienza e amore tutte le creature al loro fine ultimo.” È un concetto che in letteratura ha trovato la sua migliore espressione in Alessandro Manzoni: “Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.” (“I Promessi Sposi”, cap. VIII)
Questo senso cristiano di rassegnazione alla superiorità della volontà divina è quello proprio della morale stoica di serena accettazione degli avvenimenti della storia e del mondo, dovuti al Fato, un concetto che rende l’ordine provvidenziale indistinguibile da quello più antico di necessità (ανάγκη) e di destino (μοῖρα). In questa prospettiva di vicinanza tra la Provvidenza e il Fato, con l’accettazione stoica di un superiore disegno universale, Dante può realizzare la sospensione di un giudizio di condanna nel gesto di Catone e piegarlo alla volontà divina. Ecco perché dice: “Certo e manifesto esser dee, rimembrando la vita di costoro e de li altri divini cittadini, non sanza alcuna luce de la divina bontade, aggiunta sopra la loro buona natura, essere tante mirabili operazioni state; e manifesto esser dee, questi eccellentissimi essere stati strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano imperio, dove più volte parve esse braccia di Dio essere presenti.” (IV, 5, 17)
In tal senso l’’intervento di Dio non faceva altro che illuminare con la luce della propria bontà quella disposizione ed esercizio di virtù (“buona natura”) proprie dell’uomo. Catone allora diventa un simbolo e la sua vicenda coniugale con Marzia, raccontata nei “Farsalia” da Lucano, Dante la presenta come un’allegoria. L’essere stata Marzia adolescente sposa di Catone, a cui aveva dato dei figli, come virtù conviene ai giovani, e poi passata a seconde nozze con Ortensio, a cui pure aveva dato dei figli, e ritornata vedova anziana a Catone, significava che l’anima, dopo aver adempiuto ai suoi doveri maternali, tornava a Dio, “Colui che non ha mestiere de le membra corporali”. E dice Marzia a Catone: “Due ragioni mi muovono a dire questo: l’una si è, che dopo di me si dica ch’io sia morte moglie di Catone; l’altra, che dopo di me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buon animo mi maritasti.” Dopo aver fatto così dire da Marzia a Catone, della loro relazione matrimoniale, Dante ne fornisce la sua interpretazione allegorica: “Per queste due cagioni si muove la nobile anima: e vuole partire de esta via sposa di Dio, e vuole mostrare a Dio che graziosa era la sua creazione.” E infine conclude con l’invettiva: “Oh sventurati e male nati, che innanzi volete partirvi de esta vita sotto lo titolo d’Ortensio che di Catone. Nel nome di cui è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per tutte etadi.” (IV, 28, 13-19) Così nel “Convivio”, il personaggio di Catone diventa il simbolo di una vita retta ed onesta, quello che nel “Purgatorio” dell’apocrifo viene definito: “Lo gran veglio che fu del verso giusto.”
MONARCHIA
Forse la descrizione di un personaggio meno simbolico, ma più aderente alla figura storica di Catone, è quella tratteggiata da Dante nel “Monarchia”, un’opera contestuale nel tempo alla stesura del “Purgatorio”, coincidente con la discesa in Italia di Arrigo VII (1310-13). Come nel “Convivio”, concludendo la rassegna dei grandi Romani, di Catone afferma: “Accedit et illud inenarrabile sacrifitium severissimi verae libertatis tutoris Marci Catonis.” Catone è il più severo difensore della libertà, per la quale compie l’estremo sacrificio, preferisce la morte pur di non sottomettersi al tiranno. Per questo suo carattere di austerità, che aveva contraddistinto la sua vita, il suo gesto trova quella giustificazione che ad altri sarebbe mancata, come affermato da Cicerone, nel “De officiis” (I, XXXI, 112), un passo che Dante riporta nel suo trattato (“Monarchia”, Libro II, V, 17): “Num enim alia in causa M. Cato fuit, alia ceteri, qui se in Africa Caesari tradiderunt? Atqui ceteris forsitan vitio datum esset, si se interemissent, propterea quod lenior eorum vita et mores fuerant faciliores, Catoni cum incredibilem tribuisset natura gravitatem eamque ipse perpetua constantia roboravisset semperque in proposito susceptoque consilio permansisset, moriendum potius quam tyranni vultus aspiciendus fuit.” “Ora, Marco Catone si trovò in condizione diversa da quelli che in Africa s’arresero a Cesare? Eppure, mentre a costoro si sarebbe fatta una colpa se si fossero uccisi, perché meno austera era stata la loro vita e meno rigidi i loro costumi, a Catone, invece, che aveva avuto in dono da natura una straordinaria austerità, da lui rafforzata con una incessante fermezza, a lui ch'era sempre rimasto incrollabilmente fermo nel suo proposito, il dovere impose di morire piuttosto che vedere la faccia del tiranno.”
Come è stato giustamente osservato, questo passo del “Monarchia”, costituisce il miglior commento al Canto I del “Purgatorio”. Superata la creazione poetica-teologica del “Convivio”, l’allegoria abbastanza vaga di “nobiltà di carattere”, “virtù naturale”, “libertà”, la figura di Catone acquista la sua realtà storica, prefigurando il personaggio della “Commedia”. Dante si ritrova davanti a un vegliardo, un uomo venerando, la cui rivendicazione della libertà è dimile a quella del poeta, pellegrino nell’oltretomba, che deve ascendere il monte dell’espiazione, ma anche il monte della liberazione, per conquistare quella libertà di cui l’Uticense è il simbolo.
In questa luce, le parole che Virgilio pronuncia in favore di Dante: “libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta” non vanno interpretate come una “captatio benevolentiae”, ma rispecchiano la detta similitudine (vv.73-81):
Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive, e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
In tal modo, Dante finisce di tracciare il quadro del personaggio, di cui riferisce in breve la storia, riallacciandola a quella di Marzia, la consorte di Catone, incontrata nel Limbo (“Inferno”, IV, 128), nel nobile castello degli spiriti magni. I rimproveri di Catone ai due poeti giunti dinanzi a lui hanno quindi dato modo a Virgilio di riepilogare le vicende narrate nella prima Cantica, e di promettere di riferire alla consorte della salvezza di lui Catone, se permetteva il loro ingresso nel Purgatorio (vv.85-94)
«Marzia piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti muove e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Catone replica che la sorte della moglie Marzia, di cui in vita eseguì ogni desiderio, ora che si trova al di là del fiume infernale, l’Acheronte, non può più commuoverlo, per quella intangibilità dei decreti divini, emanati quando lui fu liberato, “per quella legge / che fatta fu quando me n’usci’ fora”, in forza di quella legge che fu emanata quando io ne uscii fuori.” È il riferimento all’immutabilità dei decreti divini, quelli di cui Virgilio aveva fatto menzione nell’Eneide, come ricorda Dante nel Canto VI del “Purgatorio”.
LA QUESTIONE TEOLOGICA
“Desine fata deum flecti sperare precando.” (“Eneide”, VI, 376) Rinuncia alla speranza di cambiare i decreti divini con le tue preghiere. Il verso di Virgilio, investigato da Dante nel Canto VI del “Purgatorio”, sembra segnare la linea di confine tra le divinità pagane e il Dio della nuova fede cristiana. Nel mondo antico, per il mortale era impossibile sfuggire al destino decretato dalle Moire, la parte (Μοῖρα), che ognuno era destinato a svolgere nella sua esistenza, e gli stessi dèi erano soggetti alla forza superiore della Necessità (Ἀνάγκη, Ananke). Nel mondo cristiano, la volontà del Signore prevale su tutto il creato e le sue creature, e anche le preghiere (e le opere) di queste ultime, senza la grazia divina, non garantiscono la salvezza della vita eterna.
Sula distanza che intercorre tra la necessità e la libertà dell’uomo, la sua possibilità di influire sul suo destino, Dante interroga Virgilio, il suo maestro e la sua guida:
Io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ‘l detto tuo ben manifesto?».
Assediato dalle anime, che gli chiedono di pregare per loro, onde ottenere la grazia divina, Dante si rivolge a Virgilio: “Io cominciai: “Mi sembra che tu neghi, o mio maestro, espressamente in una tua opera, che la preghiera possa piegare una decisione divina; e queste anime pregano proprio per questo: dunque la loro speranza è vana, o le tue parole non mi sono chiare?» (VI, 28-33)
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
e là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ‘l priego da Dio era disgiunto.
E Virgilio risponde: «Quel che scrissi è chiaro e la speranza di costoro non è fallace, se si pone attenzione e si ragiona correttamente; infatti l'altezza del giudizio divino non viene meno, se la passione d’amore (preghiera) vuole ottenere in un istante quello che deve essere espiato da chi si trova qui (il penitente in Purgatorio); e nel passo in cui io dissi questo, la colpa non veniva cancellata grazie alla preghiera, non essendo la preghiera rivolta a Dio.” (VI, 34-42)
Nelle parole di Virgilio, Dante pone la differenza tra la preghiera pagana rivolta a falsi dèi, non espressione divina, e quella cristiana, che si rivolge per intercessione al vero Dio, anche se non risolve il dubbio del perché la preghiera possa rimanere inascoltata.
Il tema filosofico sottostante è quello della colpa, la ybris, ὕβϱις, per gli antichi, il peccato originale, per i cristiani.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto.
Tuttavia davanti a un dubbio così profondo, non ti fermare prima che ti parli colei che sarà luce tra la verità e il tuo intelletto. (VI, 43-45) In questi versi, Virgilio si riferisce a Beatrice, la sola donna in grado di legittimare il viaggio di Dante e che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia, simbolo di unione tra l’intelletto umano e la verità divina. Qui, il discorso teologico si riallaccia ai versi 88-93 del Canto I, quando Catone ricorda come egli non può più tornare nel Limbo per decreto divino, mentre per Dante gli basta sapere dell’intercessione della “donna del cielo”, al fine di lasciarlo passare per l’ascesa al monte del Purgatorio e la purificazione dal peccato.
Ed è questo il punto nodale di tutta la poetica dantesca, iniziato con la “Vita Nova” e concluso nella “Commedia”. Quando aveva iniziato a comporre i suoi versi di poesia, Dante aveva seguito l’ispirazione poetica dell’amor cortese, proveniente dai trovatori provenzali della Francia meridionale del XII secolo. Nelle canzoni, si celebravano la bellezza di una nobildonna e le sofferenze d’amore dei suoi ammiratori non corrisposti. L’avvenenza, la gentilezza dei modi, il fascino ispiravano il vero amore, e nella poesia diventava una passione esaltante, che tormentava l’ammiratore per l’irraggiungibilità dell’oggetto del suo desiderio. Questa convenzione d’amor cortese fu Dante a nominarla “dolce stil novo” (Purgatorio, XXIV, 57), costituendo un sodalizio con gli altri due poeti del suo tempo, Guinizelli e Cavalcanti, in particolare un rapporto d’amicizia con quest’ultimo. La poesia venne considerata come mezzo espressivo non solo di amor cortese, ma di valori filosofici e religiosi. Seguendo, la suddivisione aristotelica dell’anima in tre parti, vegetativa, sensitiva e intellettiva, ragionavano dell’amore ispirato dalla bellezza della donna, come un sentimento che affascinando lo sguardo raggiungeva il cuore per risalire infine all’intelletto. Di quell’epoca era l’interpretazione averroistica di Aristotele, la dottrina dell’intelletto possibile: questo periva con l’anima, al contrario dell’intelletto separato, l’intelletto agente l’unica parte immortale e universale dell’anima, dottrina condannata dalla Chiesa.
Nel “De Anima” (III, 5, 430 a), per spiegare la produzione del pensiero, Aristotele distingue, nella parte razionale dell’anima, un intelletto passivo analogo alla materia, il pensiero, da un altro attivo, la causa efficiente del pensiero. L’intelletto agente è definito come χωριστός separato, ἀμιγής puro (non contaminato), ἀπαθής attivo (non passivo). L’interpretazione di Alessandro di Afrodisia (II-II sec. d. C.), il principale commentatore delle opere di Aristotele, per cui solo l’intelletto attivo, essendo parte del pensiero puro in atto, Dio, sopravvive alla morte, influenzò gli interpreti successivi. Costoro, a cominciare da quelli più antichi fino alla scolastica araba e cristiana, e poi ancora fino all’aristotelismo rinascimentale, si posero il problema se esso facesse parte dell’anima umana o piuttosto della divinità, fornendo risposte differenti. L’intelletto possibile è quello definito nel Medio Evo, “intellectus possibilis”, la possibilità o potenzialità del divenire delle cose, ed è distinto dall’intelletto agente, “intellectus agens” La tradizione filosofica islamica offrì un enorme contributo speculativo al mondo latino sul tema gnoseologico, in particolare sull’intelletto agente, e le sintesi di Avicenna ed Averroè furono studiate con attenzione nelle Università, sebbene le “interdizioni” della Chiesa ne vietavano la lettura. Queste tesi influenzarono Cavalcanti, rendendolo un pensatore non ateo, ma eretico. La verità può essere raggiunta senza la mediazione divina, e l’anima intellettuale non ha niente di spirituale, non ha connessioni con il divino, ma ha soltanto un carattere naturale, e su questi temi si avrà la rottura tra Dante e Guido.
Nella canzone “Donna me prega, ch’eo voglio dire”, Guido Cavalcanti canta l’amore, dichiarando di ricorrere alle tesi della filosofia naturale, quindi comprensibili soltanto a chi sia esperto di dottrina. L’amore è accidente, in termini aristotelici non sostanza, colpisce e attraversa i sensi, senza raggiungere l’intelletto. Come il corpo trasparente si trasforma da potenza ad atto, diventando luminoso, quando è attraversato dalla luce, così l'amore viene dall’esterno, ed è disposizione naturale dell'anima e desiderio del cuore. Muove dalla visione di una figura, che si percepisce nell'intelletto possibile, ma lì non può nulla, non accoglie il piacere, rimane soltanto contemplativo. L’amore non è virtù, proviene da una capacità di perfezione non razionale, ma sensitiva; l'amore sottrae il giudizio al sano ragionare, poiché il desiderio prende il posto della razionalità, e si lega alla passione. L’intelletto non può andare oltre i propri limiti naturali, e pertanto non è possibile dire quello che non è possibile conoscere.
“La nova - qualità move sospiri,
e vol ch'om miri - 'n non formato loco,
destandos'ira la qual manda foco
(imaginar nol pote om che nol prova)”
La novità della sensazione provoca sospiri e impone che si contempli un oggetto (la donna), non formatosi nell'intelletto possibile (‘n non formato loco”), destando l’ira che fa avvampare, ma non la può immaginare chi non lo prova.
In tutt’altro modo, Dante espone la sua dottrina dell’amore nella canzone “Donne ch’avete intelletto d’amore”. Rivolgendosi a tutte le donne che conoscono l’amore, Dante dice di voler parlare della propria donna, non tanto per esaurirne le lodi, ma per fare un discorso razionale. Quella della sua donna è una figura così divina, tanto che un angelo del cielo reclama nel vedere un miracolo incarnato in un'anima [Beatrice] e che risplende fin lassù. Ed ora il poeta, vuole fare conoscere la virtù della sua donna, desiderata nel cielo più alto (l’Empireo dei Beati). Qualunque donna voglia sembrare nobile, deve andare con lei, che camminando per strada gela i cuori di quelli privi di nobiltà spirito, estinguendone il desiderio. E se incontra qualcuno degno di sostenere la sua vista, quello sperimenta la sua virtù, perché tutto quel che dona si trasforma in beatitudine, rendendolo umile a tal punto che dimentica ogni offesa. Dio le ha concesso anche una grazia superiore, perché chi le ha parlato non può perdersi nella dannazione. In questo modo, Beatrice è trasfigurata, la donna non è più oggetto di desiderio, come nella poetica dell’amor cortese, ma viene adorata come creatura divina, che può intercedere presso Dio e ottenere la salvezza dell’anima.
Nel 1294, Dante aveva pubblicato la “Vita Nova”, in cui commenta le sue poesie, ispirate al suo amore per Beatrice, una donna incontrata la prima volta, quando lei aveva nove anni. Nel rivederla a diciotto anni, il saluto di lei suscita nel suo spirito un ardente desiderio d’amore, che egli nasconde fingendosi interessato ad altre donne. Per questo, Beatrice lo priva del suo saluto, e Amore lo rimprovera per le attenzioni rivolte alle donne-schermo, suggerendogli di narrare in versi il suo vero amore, allora il poeta comprende che il suo amore per Beatrice trascende ogni manifestazione concreta, sia pur tenue come il saluto. La donna diventa, così, una creatura angelica inviata da Dio sulla terra per ricondurre gli uomini al bene: "da cielo in terra a miracol mostrare". Poi sopravviene la morte di Beatrice, e nella vita e nel cuore del poeta si fa avanti una nuova donna gentile. In sogno, però, gli sembra di vederla nella sua gloria celeste, giovane come quando l'ha incontrata la prima volta. Allora ritrae il suo pensiero dalla donna gentile, che ha risvegliato il suo desiderio, e si propone di non parlare più di Beatrice fin quando non potrà farlo in maniera più degna.
Nella “Vita Nova”, Dante ormai trentenne poteva dare un giudizio sulle sue poesie del decennio antecedente, e rivederne il senso, come nel sonetto “Io mi senti’ svegliar dentro lo core”. L’Amore ha perso tutta la sua coloritura terrena, per acquistare invece una luce tutta celestiale, un’apoteosi (assunzione in cielo) della dama dell’amor cortese. Questo significato viene bene illustrato nel commento alle due terzine finali del sonetto, l’immagine della donna di Guido in compagnia di Beatrice, che Dante vede arrivare incontro a lui:
“io vidi monna Vanna e monna Bice
venir invêr lo loco là ov'io era,
l'una appresso de l'altra maraviglia;
e sì come la mente mi ridice,
Amor mi disse: «Quell'è Primavera,
e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia.”
Monna Vanna è Giovanna, la donna amata da Cavalcanti, che le aveva dato il senhal trovadorico di Primavera, ovvero, nella poesia provenzale, il nome d’arte dietro cui si celava l’identità della dama ispiratrice dei versi poetici. Dante interpreta il significato del nome Primavera, secondo la sua nuova visione mistica: “Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d'oggi; ché io [Amor] mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vòli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire 'prima verrà', però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini.” [Vita Nova, XXIV] “Io sono la voce che grida nel deserto: preparate la via del Signore.” Qui viene compiuta la trasfigurazione di Giovanna in Giovanni Battista, che annuncia l’arrivo di Cristo, la verace luce, in simbolo la figura di Beatrice. E se Cristo è venuto per la salvezza dell’umanità, per Dante la salvezza viene annunciata attraverso Beatrice, che rispecchia l’immagine del Salvatore.
Possiamo quindi osservare che già al completamento della “Vita Nova” (1295), Dante aveva enunciato il senso ultimo della sua poetica letteraria e religiosa, che sarà il filo conduttore della “Divina Commedia”. Ecco perché, quando Virgilio e Dante giungono alle soglie del Purgatorio, a Catone basta il richiamo alla figura in cielo di Beatrice, per concedere a Dante la libertà di passare, onde ascendere di seguito in Paradiso (Purgatorio, I, vv.91-93)
Ma se donna del ciel ti muove e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Ma se una donna beata, come dici, muove i tuoi passi, non servono lusinghe: è sufficiente pregarmi in suo nome.
IL LIMBO
Nel Canto IV dell’Inferno (vv.46-50), Dante aveva posto il quesito a Virgilio:
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia’ io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
«uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?»
Siamo nel Limbo, letteralmente il lembo, l’orlo dell’Inferno, dove sono confinate le anime che non commisero nessun peccato, escluse dalla salvezza, perché prive del battesimo, la luce divina, ossia della discesa su di loro dello Spirito Santo. Tra esse anche Virgilio, e la loro unica pena consiste nel desiderio inappagato di vedere Dio. Dante vuole sapere se mai qualcuno sia uscito dal Limbo, Virgilio risponde che poco tempo dopo il suo arrivo, vide entrare Cristo trionfante (risorto), che aveva tratto con sé i patriarchi biblici per portarli in Paradiso, tra cui Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Giacobbe e altri. Qui Dante concilia la dottrina dell’Antico Testamento con il Nuovo. Poi, si pone il problema dei grandi spiriti del passato, quelli del mondo greco e latino, e li confina nel nobile castello degli spiriti magni, tra cui Marzia, la consorte di Catone. Deve notarsi, per inciso, che la dottrina attuale della Chiesa cattolica non include nel suo insegnamento l’esistenza del Limbo, e affida alla misericordia divina la salvezza degli innocenti, i bambini morti senza battesimo.
Alla luce di questi dogmi, verità di fede, la scelta di Dante di trarre fuori dal Limbo Catone non sembra certo ortodossa e la critica dantesca dal Trecento ad oggi si è divisa sulle due posizioni contrastanti di giustificazione o di condanna.
Nel “De Civitate Dei” (I, 23), Sant’Agostino, dopo avere condannato il suicidio, così risponde a coloro che in antico avevano giustificato il gesto di Catone: “Non trovano un altro esempio autorevole oltre alla morte che Catone si è dato ad Utica; e non perché egli sia stato il solo a compiere tale gesto, ma perché era considerato uomo dotto ed onesto, al punto che si riteneva sempre possibile e auspicabile imitarne la integra condotta. Alcuni suoi amici, anche dotti, lo dissuadevano con accortezza dal compiere quell’azione, giudicando che fosse il gesto di un fiacco e non di un uomo forte quello con cui si dimostra una debole sopportazione delle avversità, più che un dignitoso allontanamento da tutto ciò che è ignobile. Che dire di più? Proprio questo è stato il pensiero di Catone nei confronti del suo carissimo figlio, Se infatti ignobile vivere con Cesare vincitore, perché lo consentì al figlio, cui ingiunse di attendersi tutto dalla benevolenza di Cesare?”
Nello stesso senso si esprime San Tommaso, richiamandosi proprio ad Agostino: “Nulli licitum est sibi manus iniicere quacumque esse causa, nisi forte divino instinctu fiat, ad exemplum fortitudinis ostendendum, ut mors contemnatur.” ((Sum. Theol., Suppl. 96, 6 ad 6) Non è lecito suicidarsi per nessun motivo, tranne non venga fatto per ispirazione divina, qual esempio di fortezza per disprezzare la morte”
L’eccezione a cui si riferisce Tommaso è quella di “ispirazione divina” , la trasgressione al divieto biblico di uccidere, quinto comandamento, è prevista anche da Agostino: “Tuttavia l’autorità divina ha stabilito alcune eccezioni al divieto di uccidere. Esistono dei casi, da considerare eccezioni, in cui Dio ordina di uccidere, o in base ad una legge positiva o in base a un ordine dato a qualcuno in particolare, in modo esplicito e limitato nel tempo.” (“De Civitate Dei.”, I, 21) Agostino fa esempi tratti dall’Antico Testamento: le guerre volute da Dio, il gesto di Abramo, Iefte che uccise la figlia, per adempiere al voto, Sansone che muore con tutti i filistei nel crollo del Tempio.
Alla luce di queste eccezioni, qualcuno ha voluto giustificare il gesto di Catone, quasi a considerarlo come un eroe cristiano, che agisce per ispirazione divina, come nel ‘’900 Parodi. Ma già prima nel “400, Landino così si esprimeva: “E perché potrebbe parere a molti che lui si diviasse dalla cristiana religione tenendo uno huomo gentile e morto senza battesimo in luogo di salvazione, rispondo che non pone qui l'anima di Catone la quale siamo constretti a credere che sia tra le dannate, ma ponla per la libertà togliendo questo nome e perché tale uomo più che ogni altro fu amatore della libertà e quella prepose alla vita. Né altra cosa è più conveniente a questo luogo che la libertà. " Dello stesso è parere il Vellutello, che segue il pensiero del Landino. In seguito, il Daniello, ricordando che Dante si richiama al Catone, che Virgilio pose a guardia dei Campi Elisi, specifica: “che egli lo ponga per custodia di quei spiriti, i quali, liberati dalla servitù del peccato ma non ancora dalla purgazione di quello, vanno per i suoi sette regni di questa compita libertà cercando per acquisto della quale egli si uccise ." Contro costoro si espresse però padre Venturi, gesuita del “700": “Landino, Vellutello e Daniello, e altri appassionati per Dante, s'ingegnano di purgarlo da questo sconcio che un idolatra si metta per custode del Purgatorio. Ma causa patrocinio non bona maior erit. Egli semplicemente, senza pensare tanto alto quanto vorrebbono, imitò Virgilio nell'VIII: Secretosque pios, his dantem iura Catonem. Per verità è un gran capriccio, ma in ciò segue suo stile.” Rammarico fu quello espresso dal Muratori, nel vedere che Dante “dimenticando di trattare nel suo poema un argomento cristiano permettesse che la sua fantasia mischiasse col profano il sacro, e specialmente allorché introdusse nel Purgatorio Virgilio e Catone, uomini senza dubbio portati dalla lor falsa credenza ad un più infelice soggiorno ". Non nasconde disagio e irritazione il Tommaseo: “La più spedita è confessare che Dante s'è lasciato prendere alle lodi di Virgilio e di Lucano e che la imitazione ha fatto gabbo alla fede. C'è inoltre la comoda scusa del simbolo." Più duro appare il Papini che giudicò “sacrilegio” l’episodio.
Infine si è discusso sul dubbio alla fedeltà o meno all’ortodossia da parte di Dante. In quella posizione di guardia al Purgatorio, Catone è da considerarsi salvo? e destinato alla beatitudine eterna, o anzi già beato?
Dante, fedele alla dottrina cristiana, credeva nel libero arbitrio, come si esprime in “Monarchia” (I,12,2): “Propter quod sciendum quod principium primum nostre libertatis est libertas arbitrii, quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci.” “Qui bisogna aver presente che il fondamento della nostra libertà è il libero arbitrio, che molti hanno sulla bocca, ma che pochi intendono.” Poi esprime le sue considerazioni: “Magari fino a dire che libero arbitrio è libera valutazione della volontà ci arrivano, e dicono giusto; ma sfugge loro il senso che le parole comportano. […] Per questo tengo a dire che il giudizio è termine medio fra l'apprendimento e il desiderio: perché una cosa in un primo momento viene percepita, poi, una volta percepita, si giudica buona o cattiva, e in ultimo il giudicante la persegue o ne rifugge. Se il giudizio è quello che esclusivamente mette in moto il desiderio e non ne è predeterminato in alcuna misura, allora è giudizio libero; se invece il giudizio è mosso da un desiderio che in qualsiasi forma lo prevenga, non può essere libero perché non è mosso da sé medesimo ma è trascinato da un'altra forza e ne è prigioniero. […] Riconosciuto questo, può risultare chiaro a sua volta che questa libertà o questa condizione di tutta la nostra libertà è il massimo dono conferito da Dio alla natura umana -come già ho detto nel "Paradiso" della mia Commedia- perché grazie ad esso in questa vita godiamo di una felicità umana, in un'altra di una felicità celeste.” (I, 12, 3-6)
Il possesso del libero arbitrio implica quindi la libertà delle proprie azioni, e pertanto il nostro destino di salvezza, in termini di fede cristiana, non è predeterminato, ma ognuno nel giorno del Giudizio Universale sarà giudicato per le sue azioni.
Catone però, pur essendo tratto dal Limbo per Volontà Divina, non segue la sorte dei Patriarchi biblici portati direttamente da Cristo in Paradiso, ma rimane a guardia del Purgatorio, anch’egli in attesa del giorno del Giudizio.
In ragione della sua fede cristiana, Dante doveva tradurre in immagini di poesia la dottrina della resurrezione dei morti e quindi della condizioni dei Beati, prima di riprendere il loro corpo mortale. La descrizione viene fatta da Salomone nel XIV Canto del Paradiso (vv.34-60). I beati saranno avvolti per l’eternità in un alone di luce, che aumenterà non appena riprenderanno il loro corpo, perché aumenterà la visione di Dio, in quanto aumenterà il loro ardore di carità. E il corpo resterà visibile nella luce, proprio come il carbone che arde è visibile nella fiamma che lo avvolge.
“Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende.”
Ritornando a quella che è la condizione di Catone, Virgilio gli dice, nel loro incontro, alle soglie del Purgatorio che al “gran dì”, quello del Giudizio Universale, il corpo, “la vesta” risplenderà “sì chiara” (vv.73-75):
“Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.”
L’interpretazione letterale dell’ultimo verso collega l’avverbio “sì”, così, al “gran dì”, nel senso che la possibilità di riprendere il corpo nel il giorno del Giudizio farà “sì” che “la vesta” potrà risplendere. Ora, se coloro che sono beati in Paradiso, sono prima passati in Purgatorio, per aver commesso dei peccati lievi, di cui si sono purificati, il fatto di trovarvi a guardia Catone, nella “Commedia”, rivela un’intenzione di Dante purificatoria per il suo personaggio, ma questa è un’ipotesi non suffragata dal testo. E su questo punto le opinioni sono discordi.
Il francescano Baldassarre Lombardi del ‘700 pensa che il custode del Purgatorio, anzi dell’Antipurgatorio, perché “il Purgatorio non è qui, dov’è Catone, ma molto più in alto sulla falda del monte” non salirà mai al cielo verso cui ascendono le anime da lui custodite, e la chiarezza che lo avvolgerà nel giorno del Giudizio è il lume naturale che illuminerà tutti gli spiriti del limbo.” Sulla sua scia, il letterato e filologo Isidoro del Lungo, per il quale Cristo, traendolo dal Limbo, non lo aveva assegnato alla gloria celeste, ma alla montagna del Purgatorio, per tornare alla fine dei tempi “infra quei grandi del suo vecchio mondo gentile, nella quieta eternità luminosa non consolata dalla presenza di Dio.” Poetica appare la fantasia del Pascoli, per il quale Catone guiderà le anime uscite dal nobile castello del Limbo, dove avranno la loro dimora, ricomponendo la figurazione dello scudo virgiliano, dove sono raffigurate le gesta di Roma. È lo scudo che la madre Venere aveva fatto cesellare da Vulcano per suo figlio Enea, la ékphrasis, ἔκϕρασις, ovvero la rappresentazione verbale di un'opera d'arte figurativa, ripresa da Virgilio, a somiglianza dell’omerico scudo di Achille.
Questa come altre consimili fantasie sono disapprovate dal Bigi, critico letterario del ed accademico del ‘900, che invita a “guardarsi dal trascorrere in eccessive sottigliezze o dall’attribuire al poeta quello che non dice e dal porre o risolvere problemi teologici, che Dante non si è posto e non si è preoccupato di risolvere.”
È comunque indubbio, al di là di giudizi suggeriti dalle proprie convinzioni religiose, che Dante, nella “Divina Commedia”, abbia indicato la salvezza di Catone, godrà di eccelsa beatitudine: “la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara”. Quel che rimane nel dubbio è se la salvezza di Catone è attuale oppure se è destinato alla beatitudine.
Da una parte, sembra che la sua figura sia stata già santificata, per il fatto che al suo cospetto, Virgilio sollecita Dante peccatore a inginocchiarsi davanti a lui, dall’altra la posizione del beato sulla soglia del Purgatorio appare in contraddizione con questa visione, avendo dovuto essere il suo posto già in Paradiso. Nella sua situazione, si è osservato, Catone sembra avere lo stesso destino delle anime purganti, in attesa di ascendere al cielo, alla fine dei giorni. L’incertezza al riguardo è dunque propria della creazione poetica dantesca, che rende il personaggio avvolto da un’aura mistica, che rende sfuggente una spiegazione razionale. In proposito l’arcivescovo Giovanni Fallani, teologo e umanista del ‘900, si è così espresso: “La salvazione di Catone avviene in un clima di mistero, certamente per la fede implicita nel Cristo venturo, ma il poeta non solleva il velo del volere divino, né s'impegna, nel suo disegno di poesia, in una ardua questione di teologia ". Pertanto, ogni altra disquisizione teologica, pure con fondamenti dottrinari, va oltre i limiti dell’interpretazione di un’opera poetica, seppure di carattere religioso.
Abbiamo voluto passare in rassegna, e anche con una particolare acribia, tutte le maggiori e autorevoli fonti della critica dantesca, senza tenere conto dell’apocrifo, che invece scioglierebbe ogni dubbio sull’ultima zona d’ombra rilevata, dando ragione a coloro, che hanno considerato Catone, collocato da Dante in Purgatorio, alla pari degli altri purganti, un’ anima in attesa di purificazione. L’ultimo compito che ci resta da affrontare è quello di commentare l’apocrifo, facendo chiarezza sulla sua origine e indicandone il valore apprezzabile, rispetto al testo originale della “Commedia”. Per portare a conclusione quest’ultimo adempimento, dobbiamo però spostarci a Parigi, dando di seguito la spiegazione di questa nostra trasferta.
L’ESILIO
È controverso se Dante, nel corso del suo esilio ventennale, da Firenze si sia recato fuori d’Italia, in Francia, a Parigi, dove sembra possibile ritrovare alcune sue tracce, in particolare alla Sorbona, nel così detto Quartiere Latino. È necessario, quindi, seguire il suo itinerario di esule da quando lasciò Firenze per l’ultima volta, senza farvi più ritorno.
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(Segue)
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