1. La visione dell’Aleph (Commento al racconto di Jorge Borges: “L’Aleph”.) Ma come si passa dal visibile (materia) all’invisibile (spirito) e dall’invisibile di nuovo al visibile, in quell’alternarsi della variazione luce oscurità, descritta in “I Ching”, il libro dei mutamenti, come interpretato da Jung? L’orizzonte di queste variazioni infinite è l’insorgere di quel punto geometrico senza dimensioni, ad un tempo visibile ed invisibile, luminoso ed oscuro, che improvvisamente e progressivamente si fa linea e la spezza nel suo continuo ed incessante variare tra yang e yin. Nel nulla invisibile del punto infinito si rende visibile il tutto infinito: l’infinità del punto. Su una linea retta o curva, se accanto a un punto vogliamo mettere un altro punto, tra i due punti, non potrà esservi un vuoto, ma un altro punto, e all’infinito un altro punto tra due punti, in questo senso ogni punto è infinito. Ammette accanto a sé infiniti punti e nessun altro punto, riducendosi ad un punto unico infinito, che comprende il nulla e il tutto. Di questo tutto infinito nel punto infinito, Borges ha dato visione poetica nel suo celebre racconto: l’Aleph. “Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl’interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia? I mistici, in simili circostanze, sono prodighi di emblemi: per significare la divinità, un persiano parla di un uccello che in qualche modo è tutti gli uccelli; Alanus de Insulis, di una sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo; Ezechiele, di un angelo con quattro volti che si dirige contemporaneamente a Oriente e ad Occidente, a Nord e a Sud. (Non invano ricordo codeste inconcepibili analogie; esse hanno una qualche relazione con l’Aleph.) Forse gli dèi non mi negherebbero la scoperta di una immagine equivalente, ma questa relazione resterebbe contaminata di letteratura, di falsità. D’altronde il problema centrale è insolubile: l’enumerazione, sia pure parziale, di un insieme infinito. In quell’istante gigantesco, ho visto milioni di atti gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che tutti occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza. Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale e il linguaggio. Qualcosa tuttavia annoterò.” In queste righe, Borges esprime poeticamente le sue riflessioni filosofiche sull’unità divina del tutto: “l’inconcepibile universo”, come annoterà alla fine delle note.
“Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, poiché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo.” E poi va avanti nella sua sfilata di immagini e fantasie: “Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo visto nell’andito di una casa di Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di Adrogué un primo esemplare della prima versione di Plinio, quella di Philomen Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi del fatto che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala , vidi la ma stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli dalla criniera al vento, su una spiaggia del mar Caspio all’alba, vidi la delicata ossatura d’una mano, vidi i sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise che Beatriz aveva diretto a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigini e piansi, poiché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo.”
2. IL TUO VOLTO Il “tuo volto”, di cui parla Borges, è quello di Beatriz Viterbo, il personaggio femminile che attraversa il racconto sin dall’inizio, quello che provoca la visione dell’Aleph, il simbolo dell’inconcepibile universo: “L’incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo morì, dopo un’imperiosa agonia che non si abbandonò un solo istante al sentimentalismo né al timore, notai che le armature di ferro di Plaza Constitucion avevano cambiato non so quale avviso di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l’incessante e vasto universo già si separava da lei e che quel mutamento era il primo di una serie infinita. Cambierà l’universo ma non io, pensai con malinconica vanità; talora lo so, la mia vana devozione l’aveva esasperata; morta, potevo consacrarmi alla sua memoria, senza speranza, ma anche senza umiliazione. Pensai che il trenta aprile era il suo compleanno; andare quel giorno alla casa di calle Garay per salutare suo padre e Carlos Argentino Daneri, suo cugino, era un atto cortese, incensurabile, forse inevitabile. Di nuovo avrei atteso nel crepuscolo dell’affollato vestibolo, di nuovo avrei studiato le circostanze delle sue molte immagini. Beatriz Viterbo, di profilo, a colori; Beatriz, con la maschera, nel carnevale del 1921; la prima comunione di Beatriz; Beatriz il giorno del suo matrimonio con Roberto Alessandri; Beatriz, poco tempo dopo il divorzio, a un pranzo del Circolo Ippico; Beatriz, a Quilmez, con Delia San Marco Porcel e Carlos Argentino; Beatriz, col pechinese che le aveva regalato Villegas Haedo; Beatriz, di fronte e di tre quarti, sorridente, con la mano al mento… Non sarei stato obbligato, come in altre occasioni, a giustificare la mia presenza con modeste offerte di libri: libri le cui pagine, alla fine, imparai a tagliare, per non constatare, dopo mesi, che erano intatte. Beatriz Viterbo morì nel 1929; da allora, non lasciai passare un trenta d’aprile senza tornare alla sua casa.”
L’io narrante, il personaggio Borges, continua a raccontare delle sue frequentazioni nella casa di Beatriz e dei suoi incontri con il cugino di lei, che nutre velleità di poeta, e le commenta con le sue riflessioni sulla poesia: “Compresi che il lavoro del poeta non consisteva nella poesia, ma nell’invenzione di ragioni perché la poesia fosse ammirevole.” Le telefonate di Carlos Dineri cominciano a infastidirlo: “M’indignava che quello strumento che un giorno aveva prodotto l’irrecuperabile voce di Beatriz, potesse abbassarsi a fare da ricettacolo alle inutili e forse colleriche lagnanze dell’ingannato Carlos Argentino Dineri.” E poi giunge il momento in cui il suo interlocutore gli rivela della presenza dell’Aleph in quella casa, che per l’io narrante “alludeva infinitamente a Beatriz”, era minacciata di esproprio e abbattimento: “Con quella voce piana, impersonale, alla quale siamo solti ricorrere per confidare qualcosa di molto intimo, disse che la casa gli era indispensabile per terminare il poema, perché in un angolo della cantina c’era un Aleph. Spiegò che un Aleph è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti.” Alla fine, si lascia convincere: “Vengo a vederlo.” In casa dei Viterbo, si attarda a contemplare “il grande ritratto di Beatriz, dipinto con goffi colori. Non poteva vederci nessuno; in una disperazione di tenerezza mi avvicinai al ritratto e gli dissi: “Beatriz, Beatriz Elena, Beatriz Elena Viterbo, Beatriz amata, Beatriz perduta per sempre, sono io, sono Borges.” Carlos entrò poco dopo.” Offre un bicchierino di pseudo-cognac e gli spiega come raggiungere la cantina: “Come sai, il decubito dorsale è indispensabile. Lo sono anche l’oscurità, l’immobilità, un certo adattamento dell’occhio. Ti sdrai sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo gradino della scala. Me ne vado, abbasso la botola e resti solo. Qualche roditore ti farà paura, ci vuol poco! Dopo pochi minuti vedrai l’Aleph. Il microcosmo di alchimisti e cabalisti, il nostro concreto amico del proverbio, il multum in parvo!” […] Seguii le sue ridicole istruzioni; finalmente se ne andò. Chiuse cautamente la botola; l’oscurità, nonostante una fessura che in seguito distinsi, mi parve totale. […] Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph.”
3. L’AMORE TRASCENDENTE Proviamo a decostruire la fantasia poetica di Borges, cercando di ricostruirne il senso. Seguendo l’impianto narrativo della storia, con la centrale visione dell’Aleph, apprendiamo che Borges, il personaggio Borges è innamorato di Beatriz Viterbo, di cui frequenta la casa con la scusa di offrire dei libri (“giustificare la mia presenza con modeste offerte di libri”) Poi Beatriz muore, e Borges continua a frequentare la casa, incontrando l’interesse del cugino di lei, Carlos Argentino Dinero (“A due generazioni di distanza, la esse italiana e la copiosa gesticolazione italiana sopravvivono in lui”), che rivela a Borges le sue aspirazioni letterarie: “Tanto inette mi parvero quelle idee, così pomposa e vana la loro esposizione, che le posi immediatamente in relazione alla letteratura; gli chiesi perché mai non le scrivesse. Come era da prevedere, rispose che lo aveva già fatto: Quei concetti, e altri non meno originali, figuravano bel Canto Augurale, Canto Progale o semplicemente Canto-Prologo di un poema, al quale lavorava da molti anni, senza pubblicità, senza stamburate assordanti, sempre appoggiato a quei bastoni, che i chiamano il lavoro e la solitudine.” Questo passaggio del racconto, le discussioni letterarie con Carlos Dineri sul filo dell’ironia, serve a Borges per rimpolpare la narrazione con brevi excursus eruditi sui classici: Odissea, le Opere e i giorni di Esiodo. Poi avviene la svolta della rivelazione dell’Aleph, al momento della prossima demolizione della casa. La notizia viene accolta da Borges con scetticismo, che subito si risolve in una conferma dei suoi sospetti: “Basta conoscere un fatto per avvertire immediatamente una serie di segni che lo confermano, prima insospettati; mi stupì non aver capito fino a quel momento che Carlos Argentino era pazzo. Tutti quei Viterbo, d’altronde… Beatriz (io stesso soglio ripeterlo) era una donna, una ragazza , d’una chiaroveggenza quasi implacabile, ma c’erano in lei negligenze, distrazioni, disdegni, vere crudeltà, che forse richiedevano una spiegazione patologica. La pazzia di Carlos Argentino mi colmò di maligna felicità; intimamente, ci eravamo sempre detestati.”
Perché Borges crede che Carlos Argentino è pazzo? Acconsente a scendere nella cantina e quando la botola sopra di lui viene chiusa, ecco il dubbio: “Improvvisamente compresi il pericolo che correvo: m’ero lasciato sotterrare da un pazzo, dopo avere bevuto un veleno [il bicchierino di pseudo-cognac ricevuto in offerta e bevuto, prima del tuffo in cantina]. Le bravate di Carlos svelavano l’intima paura ch’io non vedessi il prodigio; Carlos, per difendere il suo delirio, per non sapere che era pazzo, doveva uccidermi. Sentii un confuso malessere, che volli attribuire alla rigidità, e non all’effetto di un narcotico. Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph.” Che cosa ha visto? L’estatica visione, “l’universo inconcepibile”, genera la disperazione dello scrittore perché inesprimibile: la visione è simultanea, il linguaggio successivo. Borges l’ha adombrato, noi non pretendiamo di violare la riservatezza e la dignità della sua scrittura, ma nella visione c’entra Beatriz, più di quello che di lei balena nella sfilata delle immagini generate dalla visione dell’Aleph: “Vidi un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise che Beatriz aveva diretto a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo.” Era Beatriz l’Aleph inalienabile di Carlos Argentino? Soltanto “l’oscurità, l’immobilità, un certo adattamento dell’occhio” potevano evocarne l’immagine nell’assoluta solitudine e nel buio profondo di una cantina? È una visione, un’esperienza mistica, un atto di amore, che genera pena dopo l’esaltazione? “Vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo. Sentii infinita venerazione, infinita pena.” La visione è una visione divina: “infinita venerazione”, l’atto creativo dell’Universo. Borges non menziona Dio, ma sulla visione della luce divina, leggiamo intanto alcune terzine dell’ultimo canto del Paradiso, la “Divina Commedia”, l’opera molto amata e studiata dallo scrittore argentino [1].
Oh abbondante grazia ond’io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna (Paradiso, XXXIII, vv.82-87)
Mi ricordo che per questo io fui più coraggioso a sostenerne la vista, a tal punto che spinsi a fondo il mio sguardo nel valore infinito. Nella sua profondità vidi che è contenuto tutto ciò che è disperso nell'Universo, rilegato nel solo uno (volume).
Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, è tan to, che non basta a dicer ‘poco’. (XXXIII, vv.121-123)
Oh, quanto è insufficiente il mio linguaggio a esprimere ciò che ricordo! E anche questo, rispetto a quel che vidi, è così esiguo che non basta dire 'poco'.
Rileviamo come Dante confessa di non avere parole per la sua visione della luce divina, in cui comunque riesce a distinguere e descrivere il mistero dell’Incarnazione, e cerca di capire come l’immagine umana possa inscriversi nel cerchio divino, ma vi riesce solo con una folgorazione (“un fulgore”). (XXXIII, 124-145)
O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
O luce eterna, che hai luogo solo in te stessa, che sola ti comprendi e, compresa da te stessa e nell'atto di comprenderti, ami e ardi di carità! Quel cerchio (il secondo, il Figlio) che sembrava nascere come da un riflesso, dopo essere stato a lungo osservato dai miei occhi, mi sembrò che avesse dipinta in esso, dello stesso colore, l'immagine umana: per questo avevo penetrato all'interno tutto il mio sguardo. Come lo studioso di geometria, che si ingegna con tutte le sue forze per misurare la circonferenza e non trova, pensando, quell'elemento di cui manca, così ero io davanti a quella visione straordinaria: volevo capire come l'immagine umana si inscrivesse nel cerchio e in che modo si collocasse al suo interno; ma le mie ali non erano adatte a un volo simile (non ne avevo le capacità): senonché la mia mente fu colpita da una folgorazione, grazie alla quale poté soddisfare il suo desiderio. Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l'amore divino, che muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme e regolare (Dio aveva appagato ogni mio intimo desiderio).
L’ultimo Canto del Paradiso era conosciutissimo da Borges, come tante altre terzine dantesche, che sapeva recitare a memoria. Nell’Aleph, ritroviamo la visione dell’Unità del Tutto – per Dante Dio e l’Universo, solo quest’ultimo per Borges – e l’ammissione di non trovare parole per descrivere tale visione. E già prima, Platone avvertiva l’impossibilità di dire il vero, nei discorsi su cose divine: “Se dunque, Socrate, poiché sono state dette molte cose riguardo a svariate questioni concernenti gli dèi e la generazione dell'universo, non siamo in grado di offrirti dei discorsi assolutamente e perfettamente congruenti fra loro ed esatti, non ti meravigliare: ma purché non ti offriamo discorsi meno verosimili di altri, bisogna contentarsi ricordando che io che parlo e voi che giudicate abbiamo natura umana, sicché intorno a tali questioni ci conviene accettare un racconto verosimile, e non cercare più lontano.” (“Timeo”, 29d) Alla visione del Vero, Platone vi arriva al sommo della contemplazione del Bello: “Così, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione della Bellezza in sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girar la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro. Cosa proverà l'anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea all'imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicità della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è visibile, quest'uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena verità. Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per questo amato dagli dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?" (“Simposio”, 211c-212a) Attraverso la contemplazione della Bellezza pura, si arriva alla visione divina del Vero. In Dante, il simbolo della bellezza spirituale è Beatrice, in Borges, l’immagine amata di Beatriz (il nome dantesco).
Ma se in Platone e Dante l’ascesa si conclude al vertice, in Borges si ha una contestuale repentina caduta della verticalità: “ Sentii infinita venerazione, infinita pena.” La sua vicenda è una vicenda umana, in cui rimane scosso e in volontà dimentico dell’Aleph. Ha come un fastidio del suo non esclusivo possesso della visione, un’emozione mistica come contaminata, al suo risveglio nella realtà: “Sarai rimasto di stucco, per aver curiosato tanto dove non ti spetta.” È la voce di Carlos Argentino dal gradino più alto della scala nella cantina: nella penombra Borges si mostra indifferente all’insistenza e all’ansia di sapere di Carlos e si congeda, parlandogli del quotidiano: “Benevolo, manifestamente impietosito, nervoso, evasivo, ringraziai Carlos Argentino Daneri per l’ospitalità nella cantina e gli suggerii di profittare della demolizione della casa per allontanarsi dalla perniciosa metropoli, che non risparmia nessuno, credimi, nessuno! Mi rifiutai, con dolce energia, di parlare dell’Aleph; lo abbracciai nel congedarmi, e gli ripetei che la campagna e la tranquillità sono due grandi medici. Per la via, per la scalinata di Plaza Constitucion, nella metropolitana, tutti i volti mi parvero familiari. Temetti che non fosse rimasta una sola cosa capace di sorprendermi, temetti che non mi avrebbe più abbandonato quell’impressione di tornare a tutte le cose. Per fortuna, dopo alcune notti d’insonnia, mi vinse di nuovo l’oblio.” Al racconto è stato aggiunto un Poscritto del primo marzo 1943, in cui l’autore dà notizia del mostra di rovesciare la verità dell’Aleph, dove riferisce di alcuni successi letterari di Carlos Argentino e aggiunge due osservazioni: “una sulla natura dell’Aleph, l’altra sul suo nome.” Riferisce come nella Cabala, quella lettera rappresenta l’En Soph, illimitata e pura divinità; ma è anche, come è stato detto, figura di un uomo che indica il cielo e la terra, stante a significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del mondo superiore: ed inoltre è il simbolo dei numeri transfiniti, in cui il tutto non è maggiore della parte. “Quel che vorrei sapere è: Carlos Argentino scelse lui quel nome, o lo lesse, applicato a un altro punto nel quale convergono tutti i punti, in uno degli innumerevoli testi che l’Aleph della sua casa gli rivelò? Per quanto sembri incredibile, io credo che ci sia (o che ci sia stato) un altro Aleph, io credo che l’Aleph di calle Garay fosse un falso Aleph.” Quindi dà una sua spiegazione, che partendo da un manoscritto, scoperto nel 1942 da Pedro Henriquez Ureña, in una biblioteca di Santos, che trattava di uno specchio universale, giunge fino alla moschea del Cairo: “I fedeli che si recano alla moschea di Amr, al Cairo, sanno bene che l’universo è racchiuso in una delle colonne di pietra che circondano il cortile centrale. “Esiste codesto Aleph all’interno di una pietra? L’ho visto quando vidi tutte le cose, e l’ho dimenticato? La nostra mente è porosa per l’oblio; io stesso sto deformando e perdendo, sotto la tragica erosione degli anni, i tratti di Beatriz.” Ecco, con queste ultime definitive parole, Beatriz, l’ultima a sigillo, Borges conclude il suo racconto sull’Aleph, il punto infinito di una visione dell’intero universo, possibile solo attraverso la bellezza sensibile, un’immagine che sbiadisce nel tempo.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
9 commenti:
IL PUNTO INFINITO
1. La visione dell’Aleph
(Commento al racconto di Jorge Borges: “L’Aleph”.)
Ma come si passa dal visibile (materia) all’invisibile (spirito) e dall’invisibile di nuovo al visibile, in quell’alternarsi della variazione luce oscurità, descritta in “I Ching”, il libro dei mutamenti, come interpretato da Jung? L’orizzonte di queste variazioni infinite è l’insorgere di quel punto geometrico senza dimensioni, ad un tempo visibile ed invisibile, luminoso ed oscuro, che improvvisamente e progressivamente si fa linea e la spezza nel suo continuo ed incessante variare tra yang e yin. Nel nulla invisibile del punto infinito si rende visibile il tutto infinito: l’infinità del punto. Su una linea retta o curva, se accanto a un punto vogliamo mettere un altro punto, tra i due punti, non potrà esservi un vuoto, ma un altro punto, e all’infinito un altro punto tra due punti, in questo senso ogni punto è infinito. Ammette accanto a sé infiniti punti e nessun altro punto, riducendosi ad un punto unico infinito, che comprende il nulla e il tutto.
Di questo tutto infinito nel punto infinito, Borges ha dato visione poetica nel suo celebre racconto: l’Aleph.
“Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl’interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia? I mistici, in simili circostanze, sono prodighi di emblemi: per significare la divinità, un persiano parla di un uccello che in qualche modo è tutti gli uccelli; Alanus de Insulis, di una sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo; Ezechiele, di un angelo con quattro volti che si dirige contemporaneamente a Oriente e ad Occidente, a Nord e a Sud. (Non invano ricordo codeste inconcepibili analogie; esse hanno una qualche relazione con l’Aleph.) Forse gli dèi non mi negherebbero la scoperta di una immagine equivalente, ma questa relazione resterebbe contaminata di letteratura, di falsità. D’altronde il problema centrale è insolubile: l’enumerazione, sia pure parziale, di un insieme infinito. In quell’istante gigantesco, ho visto milioni di atti gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che tutti occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza. Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale e il linguaggio. Qualcosa tuttavia annoterò.”
In queste righe, Borges esprime poeticamente le sue riflessioni filosofiche sull’unità divina del tutto: “l’inconcepibile universo”, come annoterà alla fine delle note.
“Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, poiché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo.”
E poi va avanti nella sua sfilata di immagini e fantasie: “Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo visto nell’andito di una casa di Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di Adrogué un primo esemplare della prima versione di Plinio, quella di Philomen Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi del fatto che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala , vidi la ma stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli dalla criniera al vento, su una spiaggia del mar Caspio all’alba, vidi la delicata ossatura d’una mano, vidi i sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise che Beatriz aveva diretto a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigini e piansi, poiché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo.”
2. IL TUO VOLTO
Il “tuo volto”, di cui parla Borges, è quello di Beatriz Viterbo, il personaggio femminile che attraversa il racconto sin dall’inizio, quello che provoca la visione dell’Aleph, il simbolo dell’inconcepibile universo: “L’incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo morì, dopo un’imperiosa agonia che non si abbandonò un solo istante al sentimentalismo né al timore, notai che le armature di ferro di Plaza Constitucion avevano cambiato non so quale avviso di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l’incessante e vasto universo già si separava da lei e che quel mutamento era il primo di una serie infinita. Cambierà l’universo ma non io, pensai con malinconica vanità; talora lo so, la mia vana devozione l’aveva esasperata; morta, potevo consacrarmi alla sua memoria, senza speranza, ma anche senza umiliazione. Pensai che il trenta aprile era il suo compleanno; andare quel giorno alla casa di calle Garay per salutare suo padre e Carlos Argentino Daneri, suo cugino, era un atto cortese, incensurabile, forse inevitabile. Di nuovo avrei atteso nel crepuscolo dell’affollato vestibolo, di nuovo avrei studiato le circostanze delle sue molte immagini. Beatriz Viterbo, di profilo, a colori; Beatriz, con la maschera, nel carnevale del 1921; la prima comunione di Beatriz; Beatriz il giorno del suo matrimonio con Roberto Alessandri; Beatriz, poco tempo dopo il divorzio, a un pranzo del Circolo Ippico; Beatriz, a Quilmez, con Delia San Marco Porcel e Carlos Argentino; Beatriz, col pechinese che le aveva regalato Villegas Haedo; Beatriz, di fronte e di tre quarti, sorridente, con la mano al mento… Non sarei stato obbligato, come in altre occasioni, a giustificare la mia presenza con modeste offerte di libri: libri le cui pagine, alla fine, imparai a tagliare, per non constatare, dopo mesi, che erano intatte. Beatriz Viterbo morì nel 1929; da allora, non lasciai passare un trenta d’aprile senza tornare alla sua casa.”
L’io narrante, il personaggio Borges, continua a raccontare delle sue frequentazioni nella casa di Beatriz e dei suoi incontri con il cugino di lei, che nutre velleità di poeta, e le commenta con le sue riflessioni sulla poesia: “Compresi che il lavoro del poeta non consisteva nella poesia, ma nell’invenzione di ragioni perché la poesia fosse ammirevole.” Le telefonate di Carlos Dineri cominciano a infastidirlo: “M’indignava che quello strumento che un giorno aveva prodotto l’irrecuperabile voce di Beatriz, potesse abbassarsi a fare da ricettacolo alle inutili e forse colleriche lagnanze dell’ingannato Carlos Argentino Dineri.” E poi giunge il momento in cui il suo interlocutore gli rivela della presenza dell’Aleph in quella casa, che per l’io narrante “alludeva infinitamente a Beatriz”, era minacciata di esproprio e abbattimento: “Con quella voce piana, impersonale, alla quale siamo solti ricorrere per confidare qualcosa di molto intimo, disse che la casa gli era indispensabile per terminare il poema, perché in un angolo della cantina c’era un Aleph. Spiegò che un Aleph è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti.” Alla fine, si lascia convincere: “Vengo a vederlo.” In casa dei Viterbo, si attarda a contemplare “il grande ritratto di Beatriz, dipinto con goffi colori. Non poteva vederci nessuno; in una disperazione di tenerezza mi avvicinai al ritratto e gli dissi: “Beatriz, Beatriz Elena, Beatriz Elena Viterbo, Beatriz amata, Beatriz perduta per sempre, sono io, sono Borges.” Carlos entrò poco dopo.” Offre un bicchierino di pseudo-cognac e gli spiega come raggiungere la cantina: “Come sai, il decubito dorsale è indispensabile. Lo sono anche l’oscurità, l’immobilità, un certo adattamento dell’occhio. Ti sdrai sul pavimento di mattonelle e fissi lo sguardo sul diciannovesimo gradino della scala. Me ne vado, abbasso la botola e resti solo. Qualche roditore ti farà paura, ci vuol poco! Dopo pochi minuti vedrai l’Aleph. Il microcosmo di alchimisti e cabalisti, il nostro concreto amico del proverbio, il multum in parvo!” […] Seguii le sue ridicole istruzioni; finalmente se ne andò. Chiuse cautamente la botola; l’oscurità, nonostante una fessura che in seguito distinsi, mi parve totale. […] Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph.”
3. L’AMORE TRASCENDENTE
Proviamo a decostruire la fantasia poetica di Borges, cercando di ricostruirne il senso. Seguendo l’impianto narrativo della storia, con la centrale visione dell’Aleph, apprendiamo che Borges, il personaggio Borges è innamorato di Beatriz Viterbo, di cui frequenta la casa con la scusa di offrire dei libri (“giustificare la mia presenza con modeste offerte di libri”) Poi Beatriz muore, e Borges continua a frequentare la casa, incontrando l’interesse del cugino di lei, Carlos Argentino Dinero (“A due generazioni di distanza, la esse italiana e la copiosa gesticolazione italiana sopravvivono in lui”), che rivela a Borges le sue aspirazioni letterarie: “Tanto inette mi parvero quelle idee, così pomposa e vana la loro esposizione, che le posi immediatamente in relazione alla letteratura; gli chiesi perché mai non le scrivesse. Come era da prevedere, rispose che lo aveva già fatto: Quei concetti, e altri non meno originali, figuravano bel Canto Augurale, Canto Progale o semplicemente Canto-Prologo di un poema, al quale lavorava da molti anni, senza pubblicità, senza stamburate assordanti, sempre appoggiato a quei bastoni, che i chiamano il lavoro e la solitudine.”
Questo passaggio del racconto, le discussioni letterarie con Carlos Dineri sul filo dell’ironia, serve a Borges per rimpolpare la narrazione con brevi excursus eruditi sui classici: Odissea, le Opere e i giorni di Esiodo. Poi avviene la svolta della rivelazione dell’Aleph, al momento della prossima demolizione della casa.
La notizia viene accolta da Borges con scetticismo, che subito si risolve in una conferma dei suoi sospetti: “Basta conoscere un fatto per avvertire immediatamente una serie di segni che lo confermano, prima insospettati; mi stupì non aver capito fino a quel momento che Carlos Argentino era pazzo. Tutti quei Viterbo, d’altronde… Beatriz (io stesso soglio ripeterlo) era una donna, una ragazza , d’una chiaroveggenza quasi implacabile, ma c’erano in lei negligenze, distrazioni, disdegni, vere crudeltà, che forse richiedevano una spiegazione patologica. La pazzia di Carlos Argentino mi colmò di maligna felicità; intimamente, ci eravamo sempre detestati.”
Perché Borges crede che Carlos Argentino è pazzo? Acconsente a scendere nella cantina e quando la botola sopra di lui viene chiusa, ecco il dubbio: “Improvvisamente compresi il pericolo che correvo: m’ero lasciato sotterrare da un pazzo, dopo avere bevuto un veleno [il bicchierino di pseudo-cognac ricevuto in offerta e bevuto, prima del tuffo in cantina]. Le bravate di Carlos svelavano l’intima paura ch’io non vedessi il prodigio; Carlos, per difendere il suo delirio, per non sapere che era pazzo, doveva uccidermi. Sentii un confuso malessere, che volli attribuire alla rigidità, e non all’effetto di un narcotico. Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph.” Che cosa ha visto? L’estatica visione, “l’universo inconcepibile”, genera la disperazione dello scrittore perché inesprimibile: la visione è simultanea, il linguaggio successivo.
Borges l’ha adombrato, noi non pretendiamo di violare la riservatezza e la dignità della sua scrittura, ma nella visione c’entra Beatriz, più di quello che di lei balena nella sfilata delle immagini generate dalla visione dell’Aleph: “Vidi un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise che Beatriz aveva diretto a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo.”
Era Beatriz l’Aleph inalienabile di Carlos Argentino? Soltanto “l’oscurità, l’immobilità, un certo adattamento dell’occhio” potevano evocarne l’immagine nell’assoluta solitudine e nel buio profondo di una cantina? È una visione, un’esperienza mistica, un atto di amore, che genera pena dopo l’esaltazione? “Vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo. Sentii infinita venerazione, infinita pena.” La visione è una visione divina: “infinita venerazione”, l’atto creativo dell’Universo.
Borges non menziona Dio, ma sulla visione della luce divina, leggiamo intanto alcune terzine dell’ultimo canto del Paradiso, la “Divina Commedia”, l’opera molto amata e studiata dallo scrittore argentino [1].
Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna
(Paradiso, XXXIII, vv.82-87)
Mi ricordo che per questo io fui più coraggioso a sostenerne la vista, a tal punto che spinsi a fondo il mio sguardo nel valore infinito. Nella sua profondità vidi che è contenuto tutto ciò che è disperso nell'Universo, rilegato nel solo uno (volume).
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tan to, che non basta a dicer ‘poco’.
(XXXIII, vv.121-123)
Oh, quanto è insufficiente il mio linguaggio a esprimere ciò che ricordo! E anche questo, rispetto a quel che vidi, è così esiguo che non basta dire 'poco'.
Rileviamo come Dante confessa di non avere parole per la sua visione della luce divina, in cui comunque riesce a distinguere e descrivere il mistero dell’Incarnazione, e cerca di capire come l’immagine umana possa inscriversi nel cerchio divino, ma vi riesce solo con una folgorazione (“un fulgore”). (XXXIII, 124-145)
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
O luce eterna, che hai luogo solo in te stessa, che sola ti comprendi e, compresa da te stessa e nell'atto di comprenderti, ami e ardi di carità! Quel cerchio (il secondo, il Figlio) che sembrava nascere come da un riflesso, dopo essere stato a lungo osservato dai miei occhi, mi sembrò che avesse dipinta in esso, dello stesso colore, l'immagine umana: per questo avevo penetrato all'interno tutto il mio sguardo.
Come lo studioso di geometria, che si ingegna con tutte le sue forze per misurare la circonferenza e non trova, pensando, quell'elemento di cui manca, così ero io davanti a quella visione straordinaria: volevo capire come l'immagine umana si inscrivesse nel cerchio e in che modo si collocasse al suo interno; ma le mie ali non erano adatte a un volo simile (non ne avevo le capacità): senonché la mia mente fu colpita da una folgorazione, grazie alla quale poté soddisfare il suo desiderio. Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l'amore divino, che muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme e regolare (Dio aveva appagato ogni mio intimo desiderio).
L’ultimo Canto del Paradiso era conosciutissimo da Borges, come tante altre terzine dantesche, che sapeva recitare a memoria. Nell’Aleph, ritroviamo la visione dell’Unità del Tutto – per Dante Dio e l’Universo, solo quest’ultimo per Borges – e l’ammissione di non trovare parole per descrivere tale visione. E già prima, Platone avvertiva l’impossibilità di dire il vero, nei discorsi su cose divine: “Se dunque, Socrate, poiché sono state dette molte cose riguardo a svariate questioni concernenti gli dèi e la generazione dell'universo, non siamo in grado di offrirti dei discorsi assolutamente e perfettamente congruenti fra loro ed esatti, non ti meravigliare: ma purché non ti offriamo discorsi meno verosimili di altri, bisogna contentarsi ricordando che io che parlo e voi che giudicate abbiamo natura umana, sicché intorno a tali questioni ci conviene accettare un racconto verosimile, e non cercare più lontano.” (“Timeo”, 29d)
Alla visione del Vero, Platone vi arriva al sommo della contemplazione del Bello: “Così, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione della Bellezza in sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girar la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro. Cosa proverà l'anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea all'imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicità della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è visibile, quest'uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena verità. Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per questo amato dagli dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?" (“Simposio”, 211c-212a)
Attraverso la contemplazione della Bellezza pura, si arriva alla visione divina del Vero. In Dante, il simbolo della bellezza spirituale è Beatrice, in Borges, l’immagine amata di Beatriz (il nome dantesco).
Ma se in Platone e Dante l’ascesa si conclude al vertice, in Borges si ha una contestuale repentina caduta della verticalità: “ Sentii infinita venerazione, infinita pena.” La sua vicenda è una vicenda umana, in cui rimane scosso e in volontà dimentico dell’Aleph. Ha come un fastidio del suo non esclusivo possesso della visione, un’emozione mistica come contaminata, al suo risveglio nella realtà: “Sarai rimasto di stucco, per aver curiosato tanto dove non ti spetta.” È la voce di Carlos Argentino dal gradino più alto della scala nella cantina: nella penombra Borges si mostra indifferente all’insistenza e all’ansia di sapere di Carlos e si congeda, parlandogli del quotidiano: “Benevolo, manifestamente impietosito, nervoso, evasivo, ringraziai Carlos Argentino Daneri per l’ospitalità nella cantina e gli suggerii di profittare della demolizione della casa per allontanarsi dalla perniciosa metropoli, che non risparmia nessuno, credimi, nessuno! Mi rifiutai, con dolce energia, di parlare dell’Aleph; lo abbracciai nel congedarmi, e gli ripetei che la campagna e la tranquillità sono due grandi medici. Per la via, per la scalinata di Plaza Constitucion, nella metropolitana, tutti i volti mi parvero familiari. Temetti che non fosse rimasta una sola cosa capace di sorprendermi, temetti che non mi avrebbe più abbandonato quell’impressione di tornare a tutte le cose. Per fortuna, dopo alcune notti d’insonnia, mi vinse di nuovo l’oblio.”
Al racconto è stato aggiunto un Poscritto del primo marzo 1943, in cui l’autore dà notizia del mostra di rovesciare la verità dell’Aleph, dove riferisce di alcuni successi letterari di Carlos Argentino e aggiunge due osservazioni: “una sulla natura dell’Aleph, l’altra sul suo nome.” Riferisce come nella Cabala, quella lettera rappresenta l’En Soph, illimitata e pura divinità; ma è anche, come è stato detto, figura di un uomo che indica il cielo e la terra, stante a significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del mondo superiore: ed inoltre è il simbolo dei numeri transfiniti, in cui il tutto non è maggiore della parte. “Quel che vorrei sapere è: Carlos Argentino scelse lui quel nome, o lo lesse, applicato a un altro punto nel quale convergono tutti i punti, in uno degli innumerevoli testi che l’Aleph della sua casa gli rivelò? Per quanto sembri incredibile, io credo che ci sia (o che ci sia stato) un altro Aleph, io credo che l’Aleph di calle Garay fosse un falso Aleph.” Quindi dà una sua spiegazione, che partendo da un manoscritto, scoperto nel 1942 da Pedro Henriquez Ureña, in una biblioteca di Santos, che trattava di uno specchio universale, giunge fino alla moschea del Cairo: “I fedeli che si recano alla moschea di Amr, al Cairo, sanno bene che l’universo è racchiuso in una delle colonne di pietra che circondano il cortile centrale.
“Esiste codesto Aleph all’interno di una pietra? L’ho visto quando vidi tutte le cose, e l’ho dimenticato? La nostra mente è porosa per l’oblio; io stesso sto deformando e perdendo, sotto la tragica erosione degli anni, i tratti di Beatriz.”
Ecco, con queste ultime definitive parole, Beatriz, l’ultima a sigillo, Borges conclude il suo racconto sull’Aleph, il punto infinito di una visione dell’intero universo, possibile solo attraverso la bellezza sensibile, un’immagine che sbiadisce nel tempo.
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