“Ricevendo in sé gli animali mortali e immortali e così completato, si è generato tale cosmo vivente visibile, abbracciante le cose visibili, immagine dell’intellegibile, dio sensibile, grandissimo e ottimo, bellissimo e perfettissimo, essendo esso cielo uno e unigenito.”
“Ma tutti, o Socrate, anche quelli che partecipano in piccola misura della saggezza fanno così , ovvero prima di intraprendere qualsiasi affare, piccolo o grande che sia, sempre invocano la divinità: e noi, che stiamo per fare dei ragionamenti intorno all'Universo, vale a dire se esso sia generato o ingenerato, se non vogliamo delirare completamente, dobbiamo di necessità invocare gli dèi e le dee, e pregarli di poter dire tutto assolutamente secondo il loro pensiero, ma anche in conformità con il nostro.” (Platone, Timeo, 28c) Con questa preliminare invocazione alla divinità, Timeo inizia il suo discorso o, meglio, “racconto” sull’origine dell’Universo [1], un racconto verosimile (“eikota myton”), come si vedrà. Intanto, opera subito una prima distinzione tra: 1) l’essere che “è” sempre e non si genera mai e 2) quello che sempre si genera e “non è” mai, ossia l’essere al modo del divenire. Il primo si apprende con un atto intellettivo e discorsivamente, perché è sempre allo stesso modo, immutabile; il secondo invece è oggetto di opinione, per mezzo della sensazione, immediata e mai discorsiva (razionale), in quanto muta continuamente, senza mai essere per davvero. Per Platone la vera conoscenza si può avere soltanto se il suo oggetto, l’intellegibile, è fisso come le eterne Idee, perché altrimenti se questo muta continuamente, il tutto sensibile, che si genera e muore, di esso non si potrà avere verità immutabile, ma soltanto opinione mutevole. Timeo argomenta poi che tutto quello che si genera è per necessità effetto di una causa, perché senza una causa è impossibile che qualsiasi cosa si generi. La causa di cui qui si parla è la causa efficiente, ossia quella conferisce l’impulso al movimento di generazione; a questa si contrappone la causa finale, quella che attrae il movimento verso il suo obiettivo ultimo. A differenza di Aristotele, per il quale la causa finale dell’Universo, attorno a cui tutto ruota, è il Movente Immobile, per Platone è la causa efficiente a generare l’Universo, un procedimento di ricerca contrario. “Il “Timeo” non prova Dio per mezzo di cause finali, a conclusione delle sue ricerche sull’Universo: parte dalle “cause divine” come principio attraverso cui intraprendere queste ricerche.” (Victor Goldschmidt, La religion de Platon, Parigi, 1949) “E quando il demiurgo (artefice) [2] di una qualsiasi cosa, rivolgendo il suo sguardo verso ciò che è sempre allo stesso modo e servendosi di una tale entità come di un modello, realizza la forma e la proprietà di qualche cosa, è necessariamente bello tutto quello che in questo modo realizza. Non è bello se invece ha guardato a quello che è soggetto a generazione, servendosi appunto di un modello generato.”
Quindi Timeo ritorna sulla distinzione preliminare se l’Universo sia ingenerato o generato, subito scegliendo questa seconda opzione: “Esso fu generato. Infatti è visibile e tangibile, fornito di un corpo, e tutte le cose di questo tipo sono sensibili, e le cose sensibili si apprendono con l’opinione mediante la sensazione. Infatti si può vedere e toccare, è fornito di un corpo, e tali proprietà sono tutte cose sensibili, e ciò che è sensibile, che si coglie con l'opinione mediante la sensazione, è evidentemente soggetto a divenire e generato. D'altra parte ciò che è nato diciamo che è necessario che sia generato da una causa. Tuttavia è molto difficile trovare il Poeta (poieten) e Padre (pater) dell’Universo e una volta trovatolo parlarne a tutti.” Per la figura del Demiurgo, il divino artista creatore dell’Universo, Platone usa i due termini di “poeta”, quello che produce ossia fabbrica una qualche cosa, e “padre”, quello che la genera da sé. Il creazionismo platonico non è ex nihilo, perché altrimenti egli avrebbe dovuto ammettere la contraddizione dell’esistenza del niente. In verità, nel “Sofista” (241d), si afferma proprio questo ossia il dover ammettere il nulla. Dice lo Straniero di Elea: “Sarà necessario sottoporre a prova il discorso del nostro padre Parmenide, e forzare il non ente, sotto un certo rispetto, ad essere, e l’ente, a sua volta, sotto un certo rispetto a non essere.” E questo sarà possibile solo distinguendo il non essere assoluto da quello relativo. Il primo è infatti impronunciabile, indicibile, assolutamente impossibile. Trattando invece il genere del diverso, quando si dirà che un ente “non è” un ente diverso, il “non essere” verrà ammesso nel discorso. Si ha qui un superamento della dottrina eleatica, togliendo all’Essere quella valenza ontologica conferitagli da Parmenide. In questo senso il creazionismo del Demiurgo platonico è una forma di mimesis, imitazione del modello originario. Ora, questo si deve indagare dell’Universo, dice Timeo: se il Demiurgo l’ha realizzato guardando al modello eterno o a quello generato. E poiché il mondo è bello e il Demiurgo buono, appare evidente che egli ha guardato al modello eterno ed è blasfemo dire che egli abbia guardato a un modello generato. Se l’l’Universo, conclude Platone, è stato così generato, nella realizzazione il Demiurgo ha guardato all’intellegibile, l’immutabile, quello che si comprende con la ragione e l’intelligenza, e quindi il cosmo è l’immagine di qualcosa d’altro. Discutendo poi sulla questione dell’immagine e l’esemplare di essa, osserva come i discorsi hanno un’affinità con le cose di cui sono espressione, che se immutabili richiedono pertanto discorsi inconfutabili. Invece, i discorsi che si fanno attorno all’immagine di un modello sono verosimili in proporzione agli altri inconfutabili. E come generazione ed essenza stanno tra loro, così stanno opinione fideistica e verità. “Dunque, o Socrate, se dopo molte cose dette da molti intorno agli dèi e all’origine dell’Universo, non riusciamo a presentare dei ragionamenti in tutto e per tutto concordi con sé medesimi e precisi, non ti meravigliare. Ma se presenteremo ragionamenti verosimili non meno di alcun altro, allora dobbiamo accontentarci, ricordandoci che io che parlo e voi che giudicate abbiamo una natura umana, cosicché accettando intorno a queste cose un racconto verosimile (eikota myton), conviene che non ricerchiamo più in là.”
Posiamo ora capire perché Platone, a proposito del Demiurgo, si sia così espresso: “Tuttavia è molto difficile trovare il Poeta (poieten) e Padre (pater) dell’Universo e una volta trovatolo parlarne a tutti.” È una figura unica e divina, mitica, di cui solo il mito ci può parlare, ed in questo consiste la difficoltà di cercarlo, perché di esso non si può avere verità. Ma se dovessimo sforzarci con la nostra intelligenza a “guardare” la figura originale del Demiurgo, non visibile con l’organo della vista, pur trovandolo, ci risulterebbe poi difficile parlarne, perché chi parla e chi ascolta ha natura umana, e come dice Timeo nell’incipit: “se non vogliamo delirare completamente” dobbiamo invocare la divinità, pregandola di ispirarci per trovare le parole umane in conformità al pensiero divino. [3] Una volta concluso il proemio, Timeo viene invitato da Socrate a proseguire e spiega perché il Demiurgo ha compiuto la sua opera. Essendo buono [4], egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simile a lui. Quindi, continua a spiegare, che il Mondo così costituito è uno solo e contiene i quattro elementi fisici fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco. Ed ebbe forma sferica perfetta e movimento circolare, non avendo necessità questo corpo di avere mani o piedi. “Tutto questo ragionamento il Dio che sempre è fece attorno al dio che ad un certo momento doveva essere, e produsse un corpo liscio ed omogeneo, da tutte le parti equidistante dal centro, perfetto e intero, e costituito di corpi perfetti. E posta l’anima nel mezzo di esso, la distese per ogni parte, e con questa stessa avvolse anche al di fuori tutto intorno il corpo di esso, e in questo modo costituì un cielo circolare che gira in cerchio unico e solitario, ma per virtù sua capace di stare con sé stesso, ed esso stesso conoscitore ed amatore di sé medesimo in modo adeguato. Per tutte queste ragioni egli generò questo dio felice.”
__________________________
[1] Nel “Timeo”, quello che noi indichiamo con il termine Universo è nominato da Platone con 1) ouranos, il cielo che come coppa contiene tutto il visibile, il sensibile; 2) kosmos, il cosmo, ordine armonico, mondo; 3) pan, il tutto.
[2] Demiurgo è il termine usato da Platone per indicare l’artefice ovvero l’artigiano. Il termine si costruisce su demos, distretto della città di Atene, ed ergon, lavoratore. Osservando il lavoro di un comune artigiano del popolo, si nota come questi fabbrica una sedia, un tavolo o altro, usando la materia a cui dà una forma, che egli copia o da un modello esistente o da un modello ideale. Il creatore di un modello ideale, più che artigiano, noi lo chiamiamo artista, colui che crea un genere, un genio, un “poeta”.
[3] Nella prospettiva platonica, solo un testo sacro, contenente la parola divina, può riportare un racconto vero e non verosimile. Filone di Alessandria (30 a.C. – 45 d.C.), filosofo greco di cultura ebraica, nella sua interpretazione della Bibbia, ebbe come riferimento il “Timeo”.
[4] La dottrina dell’Idea suprema del Bene, da cui discendono Verità ed Essere viene esposta da Platone nella “Repubblica”, servendosi dell’esempio del sole: “Il sole non soltanto dirai, io credo, che fornisce ai visibili la capacità di essere veduti, ma anche la generazione, la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso generazione… E così anche ai conoscibili, dirai, che proviene dal Bene non solo l’essere conosciuti, ma anche l’essere e l’essenza provengono loro da questo, pur non essendo il Bene essere, ma ancora al disopra dell’essere, superiore ad esso per dignità e potenza.” (VI, 509b)
Al “Timeo” seguì il “Crizia”, il dialogo interrotto a metà, in cui doveva essere descritta, la Città ideale in azione, in riferimento all’antica Atene. La trama, peraltro, anticipata nel prologo del “Timeo” riferiva del famoso mito di Atlantide. Il racconto Crizia l’aveva appreso dal nonno suo omonimo, che a sua volta l’aveva appreso da Solone. A questi era stato riferito direttamente dai sacerdoti egizi, che conservavano nelle loro scritture gli eventi più significativi e memorabili. Si parla dei diluvi che si abbattono ciclicamente sulla Terra, in cui viene distrutta ogni cosa e di cui i pochi superstiti hanno perso la memoria del passato. Solo le scritture dei sacerdoti egizi conservano questa perduta memoria del passato, ricordando i fatti più eminenti della storia non solo d’Egitto, ma anche di altri paesi. È verosimile che Platone, nel fantasticare sul mito di Atlantide si sia ispirato alle periodiche inondazioni del Nilo, estendendole a diluvi universali. Ora, dopo l’ultimo diluvio, è rimasta memoria della grande impresa dell’antica Atene che riuscì a bloccare l’invasione di Atlantide di tutti i paesi al di qua delle colonne d’Ercole. Il discorso interrotto nel “Crizia” e non continuato in un “Ermocrate”, mai scritto, può essere riconosciuto in ipotesi nel testo del “Menesseno” e del III libro delle Leggi, che raccontano la storia dell’antica Atene. È noto che quel progetto di Città ideale Platone tentò di realizzarlo a Siracusa, quando volle passare dalla teoria all’azione, senza però riuscirvi. Quello che noi possiamo trarre come conclusione è che la vita del cosmo con la sua armonia sembra destinare l’ordine della nostra vita. Un tempo, nello studio degli astri, l’astrologia era strettamente connessa all’astronomia, ma già in Platone abbiamo una condanna di questa dottrina: “Quanto poi alle danze di questi astri e ai loro incontri reciproci e ai percorsi dei loro cerchi in sé medesimi e alle loro processioni, e quali di tali dèi nelle congiunzioni si avvicinino reciprocamente e quali si oppongano fra di loro, e dietro a quali e in quali tempi taluni di essi a vicenda ci si nascondano e di nuovo, riapparendo, a chi non sappia fare i calcoli mandino paure e segni delle cose che in seguito dovranno accadere: ebbene, il discorrere di queste cose senza avere sotto gli occhi immagini di esse, sarebbe una vana fatica.” (Timeo, 40c) Leggere di un’intelligenza divina nell’armonia del cosmo ed avvertirne il riflesso nella propria coscienza non è stato soltanto un modo di comprensione della filosofia antica, anche in tempi moderni possiamo intravederne traccia nella celebre espressione di Kant, posta a sigillo della sua “Critica della ragion pratica”: “Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me.” Ma quale nell’armonia del cosmo la traccia della vita dell’uomo e il suo destino?
“Gli uomini dopo la morte sono attesi da cose che non sperano né immaginano.” (Eraclito, fr. 27)
Che cosa accadrà di noi dopo la morte? L’interrogativo è inquietante, ma si trova occultato nel sottofondo della nostra coscienza, quindi più un sentimento emotivo che un interrogativo con cui confrontarsi nel quotidiano. La morte è quella soglia scura nella notte, che sta di là dei nostri giorni, è nostra compagna ad ogni momento della nostra vita, segna il nostro cammino di mortali. Ecco perché interroghiamo le stelle. Che ne sarà di noi? Che cosa è questo nostro passaggio sulla Terra?
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
5 commenti:
IL DIO FELICE
“Ricevendo in sé gli animali mortali e immortali e così completato, si è generato tale cosmo vivente visibile, abbracciante le cose visibili, immagine dell’intellegibile, dio sensibile, grandissimo e ottimo, bellissimo e perfettissimo, essendo esso cielo uno e unigenito.”
“Ma tutti, o Socrate, anche quelli che partecipano in piccola misura della saggezza fanno così , ovvero prima di intraprendere qualsiasi affare, piccolo o grande che sia, sempre invocano la divinità: e noi, che stiamo per fare dei ragionamenti intorno all'Universo, vale a dire se esso sia generato o ingenerato, se non vogliamo delirare completamente, dobbiamo di necessità invocare gli dèi e le dee, e pregarli di poter dire tutto assolutamente secondo il loro pensiero, ma anche in conformità con il nostro.” (Platone, Timeo, 28c) Con questa preliminare invocazione alla divinità, Timeo inizia il suo discorso o, meglio, “racconto” sull’origine dell’Universo [1], un racconto verosimile (“eikota myton”), come si vedrà.
Intanto, opera subito una prima distinzione tra: 1) l’essere che “è” sempre e non si genera mai e 2) quello che sempre si genera e “non è” mai, ossia l’essere al modo del divenire. Il primo si apprende con un atto intellettivo e discorsivamente, perché è sempre allo stesso modo, immutabile; il secondo invece è oggetto di opinione, per mezzo della sensazione, immediata e mai discorsiva (razionale), in quanto muta continuamente, senza mai essere per davvero.
Per Platone la vera conoscenza si può avere soltanto se il suo oggetto, l’intellegibile, è fisso come le eterne Idee, perché altrimenti se questo muta continuamente, il tutto sensibile, che si genera e muore, di esso non si potrà avere verità immutabile, ma soltanto opinione mutevole.
Timeo argomenta poi che tutto quello che si genera è per necessità effetto di una causa, perché senza una causa è impossibile che qualsiasi cosa si generi. La causa di cui qui si parla è la causa efficiente, ossia quella conferisce l’impulso al movimento di generazione; a questa si contrappone la causa finale, quella che attrae il movimento verso il suo obiettivo ultimo. A differenza di Aristotele, per il quale la causa finale dell’Universo, attorno a cui tutto ruota, è il Movente Immobile, per Platone è la causa efficiente a generare l’Universo, un procedimento di ricerca contrario.
“Il “Timeo” non prova Dio per mezzo di cause finali, a conclusione delle sue ricerche sull’Universo: parte dalle “cause divine” come principio attraverso cui intraprendere queste ricerche.” (Victor Goldschmidt, La religion de Platon, Parigi, 1949)
“E quando il demiurgo (artefice) [2] di una qualsiasi cosa, rivolgendo il suo sguardo verso ciò che è sempre allo stesso modo e servendosi di una tale entità come di un modello, realizza la forma e la proprietà di qualche cosa, è necessariamente bello tutto quello che in questo modo realizza. Non è bello se invece ha guardato a quello che è soggetto a generazione, servendosi appunto di un modello generato.”
Quindi Timeo ritorna sulla distinzione preliminare se l’Universo sia ingenerato o generato, subito scegliendo questa seconda opzione: “Esso fu generato. Infatti è visibile e tangibile, fornito di un corpo, e tutte le cose di questo tipo sono sensibili, e le cose sensibili si apprendono con l’opinione mediante la sensazione. Infatti si può vedere e toccare, è fornito di un corpo, e tali proprietà sono tutte cose sensibili, e ciò che è sensibile, che si coglie con l'opinione mediante la sensazione, è evidentemente soggetto a divenire e generato. D'altra parte ciò che è nato diciamo che è necessario che sia generato da una causa. Tuttavia è molto difficile trovare il Poeta (poieten) e Padre (pater) dell’Universo e una volta trovatolo parlarne a tutti.”
Per la figura del Demiurgo, il divino artista creatore dell’Universo, Platone usa i due termini di “poeta”, quello che produce ossia fabbrica una qualche cosa, e “padre”, quello che la genera da sé. Il creazionismo platonico non è ex nihilo, perché altrimenti egli avrebbe dovuto ammettere la contraddizione dell’esistenza del niente. In verità, nel “Sofista” (241d), si afferma proprio questo ossia il dover ammettere il nulla. Dice lo Straniero di Elea: “Sarà necessario sottoporre a prova il discorso del nostro padre Parmenide, e forzare il non ente, sotto un certo rispetto, ad essere, e l’ente, a sua volta, sotto un certo rispetto a non essere.” E questo sarà possibile solo distinguendo il non essere assoluto da quello relativo. Il primo è infatti impronunciabile, indicibile, assolutamente impossibile. Trattando invece il genere del diverso, quando si dirà che un ente “non è” un ente diverso, il “non essere” verrà ammesso nel discorso. Si ha qui un superamento della dottrina eleatica, togliendo all’Essere quella valenza ontologica conferitagli da Parmenide. In questo senso il creazionismo del Demiurgo platonico è una forma di mimesis, imitazione del modello originario.
Ora, questo si deve indagare dell’Universo, dice Timeo: se il Demiurgo l’ha realizzato guardando al modello eterno o a quello generato. E poiché il mondo è bello e il Demiurgo buono, appare evidente che egli ha guardato al modello eterno ed è blasfemo dire che egli abbia guardato a un modello generato. Se l’l’Universo, conclude Platone, è stato così generato, nella realizzazione il Demiurgo ha guardato all’intellegibile, l’immutabile, quello che si comprende con la ragione e l’intelligenza, e quindi il cosmo è l’immagine di qualcosa d’altro.
Discutendo poi sulla questione dell’immagine e l’esemplare di essa, osserva come i discorsi hanno un’affinità con le cose di cui sono espressione, che se immutabili richiedono pertanto discorsi inconfutabili. Invece, i discorsi che si fanno attorno all’immagine di un modello sono verosimili in proporzione agli altri inconfutabili. E come generazione ed essenza stanno tra loro, così stanno opinione fideistica e verità.
“Dunque, o Socrate, se dopo molte cose dette da molti intorno agli dèi e all’origine dell’Universo, non riusciamo a presentare dei ragionamenti in tutto e per tutto concordi con sé medesimi e precisi, non ti meravigliare. Ma se presenteremo ragionamenti verosimili non meno di alcun altro, allora dobbiamo accontentarci, ricordandoci che io che parlo e voi che giudicate abbiamo una natura umana, cosicché accettando intorno a queste cose un racconto verosimile (eikota myton), conviene che non ricerchiamo più in là.”
Posiamo ora capire perché Platone, a proposito del Demiurgo, si sia così espresso: “Tuttavia è molto difficile trovare il Poeta (poieten) e Padre (pater) dell’Universo e una volta trovatolo parlarne a tutti.” È una figura unica e divina, mitica, di cui solo il mito ci può parlare, ed in questo consiste la difficoltà di cercarlo, perché di esso non si può avere verità. Ma se dovessimo sforzarci con la nostra intelligenza a “guardare” la figura originale del Demiurgo, non visibile con l’organo della vista, pur trovandolo, ci risulterebbe poi difficile parlarne, perché chi parla e chi ascolta ha natura umana, e come dice Timeo nell’incipit: “se non vogliamo delirare completamente” dobbiamo invocare la divinità, pregandola di ispirarci per trovare le parole umane in conformità al pensiero divino. [3]
Una volta concluso il proemio, Timeo viene invitato da Socrate a proseguire e spiega perché il Demiurgo ha compiuto la sua opera. Essendo buono [4], egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simile a lui. Quindi, continua a spiegare, che il Mondo così costituito è uno solo e contiene i quattro elementi fisici fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco. Ed ebbe forma sferica perfetta e movimento circolare, non avendo necessità questo corpo di avere mani o piedi.
“Tutto questo ragionamento il Dio che sempre è fece attorno al dio che ad un certo momento doveva essere, e produsse un corpo liscio ed omogeneo, da tutte le parti equidistante dal centro, perfetto e intero, e costituito di corpi perfetti. E posta l’anima nel mezzo di esso, la distese per ogni parte, e con questa stessa avvolse anche al di fuori tutto intorno il corpo di esso, e in questo modo costituì un cielo circolare che gira in cerchio unico e solitario, ma per virtù sua capace di stare con sé stesso, ed esso stesso conoscitore ed amatore di sé medesimo in modo adeguato. Per tutte queste ragioni egli generò questo dio felice.”
__________________________
[1] Nel “Timeo”, quello che noi indichiamo con il termine Universo è nominato da Platone con 1) ouranos, il cielo che come coppa contiene tutto il visibile, il sensibile; 2) kosmos, il cosmo, ordine armonico, mondo; 3) pan, il tutto.
[2] Demiurgo è il termine usato da Platone per indicare l’artefice ovvero l’artigiano. Il termine si costruisce su demos, distretto della città di Atene, ed ergon, lavoratore. Osservando il lavoro di un comune artigiano del popolo, si nota come questi fabbrica una sedia, un tavolo o altro, usando la materia a cui dà una forma, che egli copia o da un modello esistente o da un modello ideale. Il creatore di un modello ideale, più che artigiano, noi lo chiamiamo artista, colui che crea un genere, un genio, un “poeta”.
[3] Nella prospettiva platonica, solo un testo sacro, contenente la parola divina, può riportare un racconto vero e non verosimile. Filone di Alessandria (30 a.C. – 45 d.C.), filosofo greco di cultura ebraica, nella sua interpretazione della Bibbia, ebbe come riferimento il “Timeo”.
[4] La dottrina dell’Idea suprema del Bene, da cui discendono Verità ed Essere viene esposta da Platone nella “Repubblica”, servendosi dell’esempio del sole: “Il sole non soltanto dirai, io credo, che fornisce ai visibili la capacità di essere veduti, ma anche la generazione, la crescita e il nutrimento, pur non essendo esso generazione… E così anche ai conoscibili, dirai, che proviene dal Bene non solo l’essere conosciuti, ma anche l’essere e l’essenza provengono loro da questo, pur non essendo il Bene essere, ma ancora al disopra dell’essere, superiore ad esso per dignità e potenza.” (VI, 509b)
Al “Timeo” seguì il “Crizia”, il dialogo interrotto a metà, in cui doveva essere descritta, la Città ideale in azione, in riferimento all’antica Atene. La trama, peraltro, anticipata nel prologo del “Timeo” riferiva del famoso mito di Atlantide. Il racconto Crizia l’aveva appreso dal nonno suo omonimo, che a sua volta l’aveva appreso da Solone. A questi era stato riferito direttamente dai sacerdoti egizi, che conservavano nelle loro scritture gli eventi più significativi e memorabili. Si parla dei diluvi che si abbattono ciclicamente sulla Terra, in cui viene distrutta ogni cosa e di cui i pochi superstiti hanno perso la memoria del passato. Solo le scritture dei sacerdoti egizi conservano questa perduta memoria del passato, ricordando i fatti più eminenti della storia non solo d’Egitto, ma anche di altri paesi. È verosimile che Platone, nel fantasticare sul mito di Atlantide si sia ispirato alle periodiche inondazioni del Nilo, estendendole a diluvi universali. Ora, dopo l’ultimo diluvio, è rimasta memoria della grande impresa dell’antica Atene che riuscì a bloccare l’invasione di Atlantide di tutti i paesi al di qua delle colonne d’Ercole. Il discorso interrotto nel “Crizia” e non continuato in un “Ermocrate”, mai scritto, può essere riconosciuto in ipotesi nel testo del “Menesseno” e del III libro delle Leggi, che raccontano la storia dell’antica Atene. È noto che quel progetto di Città ideale Platone tentò di realizzarlo a Siracusa, quando volle passare dalla teoria all’azione, senza però riuscirvi.
Quello che noi possiamo trarre come conclusione è che la vita del cosmo con la sua armonia sembra destinare l’ordine della nostra vita. Un tempo, nello studio degli astri, l’astrologia era strettamente connessa all’astronomia, ma già in Platone abbiamo una condanna di questa dottrina: “Quanto poi alle danze di questi astri e ai loro incontri reciproci e ai percorsi dei loro cerchi in sé medesimi e alle loro processioni, e quali di tali dèi nelle congiunzioni si avvicinino reciprocamente e quali si oppongano fra di loro, e dietro a quali e in quali tempi taluni di essi a vicenda ci si nascondano e di nuovo, riapparendo, a chi non sappia fare i calcoli mandino paure e segni delle cose che in seguito dovranno accadere: ebbene, il discorrere di queste cose senza avere sotto gli occhi immagini di esse, sarebbe una vana fatica.” (Timeo, 40c)
Leggere di un’intelligenza divina nell’armonia del cosmo ed avvertirne il riflesso nella propria coscienza non è stato soltanto un modo di comprensione della filosofia antica, anche in tempi moderni possiamo intravederne traccia nella celebre espressione di Kant, posta a sigillo della sua “Critica della ragion pratica”: “Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me.” Ma quale nell’armonia del cosmo la traccia della vita dell’uomo e il suo destino?
LA SOGLIA SCURA
“Gli uomini dopo la morte sono attesi da cose che non sperano né immaginano.” (Eraclito, fr. 27)
Che cosa accadrà di noi dopo la morte? L’interrogativo è inquietante, ma si trova occultato nel sottofondo della nostra coscienza, quindi più un sentimento emotivo che un interrogativo con cui confrontarsi nel quotidiano. La morte è quella soglia scura nella notte, che sta di là dei nostri giorni, è nostra compagna ad ogni momento della nostra vita, segna il nostro cammino di mortali. Ecco perché interroghiamo le stelle. Che ne sarà di noi? Che cosa è questo nostro passaggio sulla Terra?
Posta un commento