giovedì 14 marzo 2024

Narrativa

 


        L'uomo differito (II)



 

46 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

LIBRO SECONDO

IL VIANDANTE NELLA NOTTE

“Un uomo giunto anche solo relativamente alla libertà della ragione, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante, anche se non un viaggiatore diretto verso un’ultima meta… Certo, per un tale uomo giungeranno le ombre della notte…”
F. Nietzsche, Umano, troppo umano, af.638

CAPITOLO 1

" 'Io non so da quale errata valutazione sia scaturito questo luogo comune considerato oggi verità, secondo cui la giovinezza è la sola epoca felice della nostra vita. Forse deriva dal fatto che dimentichiamo così alla svelta e che il passato appare sempre bello...'
'... visto che da un lato incombe su di noi l'orrore di una fine incerta...'
'... e dall'altro ciò che abbiamo vissuto diventa nostra proprietà, va ad accrescere il nostro patrimonio interiore...'
"Gli eroi omerici lottano intorno alle porte Scee e ciascuno crede che la vittoria o la sconfitta sia affidata alle sue armi. Ma la battaglia degli eroi non è che un riflesso della battaglia che sopra le loro teste combattono gli dèi, per decidere la sorte umana. Gli dèi stessi però non sanno che anche la loro lotta non fa che rispecchiare quella che da tempo è decisa nel petto dell'Altissimo, da cui derivano la pace e la guerra." Franz Werfel.
La Jesenskà scrive sul "Nàrodnì Listy". Siamo nel 1922. L'articolo è datato 23 novembre 1922.
La sua sensibilità è mitteleuropea, la sua lingua è il ceco, la sua ispirazione culturale è nell'area germanica. Scrive a Vienna. Milena Jesenskà scrive anche in tedesco. Anche il praghese Werfel scrive in tedesco. Anche il dottor Kafka.
"Franz Kafka, scrittore di lingua tedesca vissuto a Praga, è morto avant'ieri nel sanatorio di Kierling, presso Klosterneuburg, nei dintorni di Vienna." Così scrive di lui Milena il 6 agosto 1924, sempre su "Nàrodnì Listy". Praga, Vienna, la cultura, l'arte, la vita intellettuale, bohemienne. "
Smetto di leggere gli appunti e guardo attraverso i vetri della porta finestra. L'aria condizionata mantiene fresco l'ambiente. Fuori è l'afa di agosto su Roma. Mi alzo e vado a socchiudere i vetri. Entra un soffio d'aria calda. Lascio così. E torno alla scrivania.
Oggi è domenica. L'altro giorno ho telefonato alla redazione di 'Il Quotidiano di Torino'. Quando ho chiesto un colloquio con il Direttore, Eugenio Lisi, mi hanno passato un altro interno. Mi ha risposto una voce femminile. Un personaggio della cronaca scomparso anni orsono, ho detto, è il tema del colloquio. Mi ha fissato un incontro per lunedì mattina. Sono rimasto leggermente stupito per la rapidità con cui il giornalista si è reso disponibile. Anna Reggiani, penso. Poi continuo a leggere gli appunti:
" 'Ricordo esattamente l'istante in cui, nella mia prima vera e dolorosa giovinezza, cessai di essere giovane. Non accadde niente di particolare, niente di strano, era una sera come tutte le altre, un crepuscolo grigio-blu visto dalla finestra di un edificio a due piani che dava su una strada del tutto comune, desolata, afflitta, dove i tram circolavano in entrambe le direzioni con una fretta assurda, infinitamente buffi. Non ero né felice né infelice, provavo la solita, normale tristezza che ci afferra la sera allorché sentiamo che ci manca qualcosa e non sappiamo dire cosa...'

Silvio Minieri ha detto...

La malinconia della sera, quando se n'è andato un giorno vuoto. Ma quando un giorno è vuoto?”
Mi sembra di avere percepito dei rumori. Smetto la lettura e mi alzo. Vado nell'altra stanza dell'ufficio, sito al terzo piano del palazzo, che fa angolo con piazzale Flaminio. Apro la finestra, che affaccia nel cortile interno. Lancio un'occhiata in alto verso un panorama di finestre chiuse: dappertutto silenzio. In maggioranza sono tutti uffici.
Torno nell'altra stanza e di nuovo siedo alla scrivania. Riprendo a leggere.
Mi distraggo. Ho nuovamente la sensazione di avere udito dei rumori. Smetto di leggere il testo denso e confuso, che la Reggiani ha stampato col personal computer, alzo la testa e mi guardo intorno. Guardo l'ora: sono quasi le undici. Poi torno a leggere e così posso concentrarmi di nuovo e ricapitolare la successione dei pensieri e l'intenzione di Anna Reggiani: a lei quegli appunti servivano come materiale da elaborare per la stesura di un suo articolo sulla rivista 'Presenza Donna'. Infatti così concludeva:
"Elaborare il testo. La giovinezza e la bellezza. Giovinezza è Bellezza. Nella gioventù è la meraviglia, l'incanto del nuovo, che si schiude alla luce. L'illuminarsi della giovinezza è luce divina.”
Odo rumori appena percettibili. Mi alzo ed istintivamente vado alla finestra. Guardo giù in via Granodelturco. Nella strada deserta, un'automobile nera è ferma in sosta davanti al portone dello stabile. Poi i rumori diventano più chiari e distinti. Qualcuno traffica fuori della porta dell'ufficio. Mi volto. La porta si apre ed appare Alexandra. Ha un sussulto, vedendomi. "Oh!" esclama e si ritrae, richiudendo la porta.
"Alexandra!" ho detto.
Riapre la porta. E' in calzoncini corti e indossa un corpetto da mare, che le lascia spalle e braccia nude. Il ridotto abbigliamento mette in rilievo le forme generose del giovane corpo.
Alexandra, la segretaria che ho assunto per il progetto della “Pulchra Service”, ha vent'anni e le efelidi sul viso, i capelli scuri, le guance tonde. La sua bellezza è giovane ed esuberante.
"Oh, mi scusi, signor Lafleur!" esclama ancora e rimane accanto alla porta.
"Credevo che non ci fosse nessuno! Sto andando al mare e sono passata per l'ufficio, per prendere la radio."

Silvio Minieri ha detto...

Nella sinistra regge il manico dell'apparecchio.
L'improvvisa apparizione della giovane ha recato nella stanza un flusso di sensualità prorompente, da cui vengo decisamente investito. Vedo trasparire la mia emozione sul volto della ragazza, che rivela la femminilità lusingata, per aver suscitato attrazione.
Si appoggia allo stipite della porta, rimanendo dritta con le mani incrociate dietro la schiena. Rovescia la testa all'indietro, accarezzando lo stipite con la nuca.
"Se ha bisogno, posso rimanere" dice. "Se ha un testo da copiare oppure qualcosa da dettare..."
Mi riaccosto alla scrivania.
Guardo Alexandra e dico, acquistando un tono professionale.
"No, puoi andare, Alexandra, grazie. Ho finito e sto per andare via."
Lancio un'occhiata alle carte sulla scrivania.
"Buona domenica, signor Lafleur" odo distintamente la pronuncia del saluto.
Alzo lo sguardo verso di lei. È sparita. L'uscio è rimasto socchiuso. Sento i passi in lontananza. Mi avvio alla porta. Tutta la stanza è piena del profumo della giovane.
Apro la porta e guardo nel corridoio. Rimango in attesa, ma non sento più giungere rumori. Torno dentro e chiudo la porta. Mi dirigo verso la scrivania e, restando in piedi, guardo le carte, cercando di leggere qualche frase, ma non riesco a concentrarmi. Sento ancora la presenza femminile di Alexandra. Allora mi avvicino alla finestra e guardo attraverso i vetri. La strada in basso è deserta.
Torno a sedermi sulla scrivania. Riordino i fogli e comincio a leggere, ma alzo subito la testa e guardo al centro della stanza e poi verso l'uscio, dietro cui Alexandra è scomparsa. Non resisto, mi alzo e vado alla porta, quindi apro ed esco nel corridoio. Tendo l'orecchio. Il tempo è come sospeso...
Sono rientrato. Che ore sono? Guardo l'orologio, osservo le lancette sul quadrante, ma sono distratto da altri pensieri. Comunque mi sento insonnolito, perché sono sveglio dall'alba, ed avverto inoltre anche spossatezza. Allora, vado a distendermi sul divano ed abbasso le palpebre.
Ho dormito, perché mi sveglio di colpo, aprendo gli occhi. Mi alzo di scatto e mi siedo sul divano. Poi guardo l'orologio: sono le due pomeridiane passate. Mi riassesto. Vado a chiudere le imposte della finestra, esco dall'ufficio, chiudo la porta, attraverso il corridoio, scendo al piano terra e quindi abbandono lo stabile. La sera stessa parto per Torino.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 2

"Su quella vicenda ho anche scritto un libro" mi dice Lisi "e come può immaginare l'ho intitolato "L'uomo camuffato". Eccolo!" così dicendo, mi tende un libro che ha preso dalla scrivania. Prendo il volume e do uno sguardo alla copertina. In primo piano, leggermente spostato a sinistra, è rappresentato il busto di un uomo col volto ricoperto da un cappuccio bianco, con lo spazio degli occhi libero. Sulla metà inferiore della copertina, predomina il giallo falbo, come se la figura in primo piano fuggisse sullo sfondo di un campo di grano assolato. In alto qualche nuvola bianca nel celeste del cielo ed accanto sulla destra una torre colorata in grigio e rosso mattone.
La copertina non mi piace. Tra l'altro quella figura incappucciata, se non fosse per il bianco panna che ricopre il viso dal mento fino al naso, ricorda più un tipico copricapo arabo, sebbene non quadrettato. E poi quel giallo fulvo mi sembra fuori posto. Infine i colori mi sembrano tutti un po' sbiaditi, sfumati.
Pongo queste osservazioni al Lisi. Sorride.
"La grafica non è mia" dice.
Apro il volume e sul retro della prima pagina leggo: "In copertina disegno di Gabriella Finari".
Continuo a scorrere le pagine. Vi è un'introduzione, in cui l'autore illustra la vicenda, che riferisce avvenimenti realmente accaduti a Ponte nell'estate del 1985. Ovviamente i nomi dei protagonisti sono modificati, ma i fatti si sono veramente svolti, secondo la trama descritta. Scorro rapidamente le pagine del testo e poi chiudo il libro.
Lisi ha suonato ed entra una segretaria. Ha i capelli neri e gli occhi verdi. E' di modi gentili e mi saluta educatamente. Indossa un vestito grigio a quadrettini scuri senza maniche , che mette in risalto il bianco alabastro delle braccia e del viso.
"Vieni Gabriella" dice Lisi.
La ragazza si accosta alla scrivania e lancia un'occhiata distratta alla copertina del libro, che tengo fra le mani. Ed allora mi pento immediatamente di avere esternato le mie critiche, poco prima.
La segretaria ha raccolto la breve disposizione, prendendo un appunto. Saluta entrambi con un sorriso e scompare.
Il discorso del giornalista scivola su Anna Reggiani. Nel suo romanzo verità Anna Reggiani è diventata Alba Valleggiani, Brizi è diventato Rizzo, Ermete Rizzo, e Iorio si è mutato in Ludovico Magliolo. Lui Lisi, che si racconta in terza persona, si è presentato come Elio Carolisi.
"Eh già, caro!" dice, allungando il braccio destro sulla scrivania e subito ritirandolo. "Sarà perché ho sentito spesso usare nella realtà questo vocativo che nella finzione mi sono chiamato così, o, forse, per dare maggiore verità al racconto: Carolisi è un cognome abbastanza diffuso laggiù."
"Elio è il sole" dico per lusingarlo.
Ride.
"No, Elio assomiglia a Eugenio... per omofonia."
Lisi mi guarda, ma segue un suo pensiero; poi, come abbandonandolo, dice, anzi precisa:"Quasi omofonia."
Guardo il giornalista e faccio cenno di sì col capo, per incoraggiarlo a parlare.
Lisi riprende: "Sa che Anna Reggiani una volta mi parlò dei nomi Elio ed Eugenio, confrontandoli ed interpretandoli a modo suo, nell'etimologia voglio dire. Elio, disse, deriva dal greco e vuol dire Sole, Eugenio anche deriva dal greco e vuol dire Bene e Bello."

Silvio Minieri ha detto...

Il mio interlocutore s'interrompe, poi mi domanda:
"Non le sembra un'interpretazione singolare, quest'ultima?"
Rifletto, prima di rispondere. Poi dico: "No, non mi sembra."
Lisi mi osserva per un po', ma al tempo stesso anche lui, come me, sembra riflettere prima di parlare. Poi dice:
"E perché non le sembra singolare? In Eugenio la radice 'eu' significa 'bene', ma 'gene' non mi sembra voglia dire propriamente 'bello'; direi piuttosto 'generazione'."
"Ma la Reggiani ricava da una sua particolare interpretazione di Platone, nel 'Simposio', l'identificazione tra 'ghenos' e 'Bello'. Ho i suoi appunti autografi."
Toh! penso, mentre sto per chinarmi verso la borsa, per prendere i fogli, ma Lisi mi ferma.
"Sì, conosco quella interpretazione. Anna ne parlò anche a me, più di una volta, ma i suoi discorsi non mi hanno mai convinto."
"Il papà era un professore di filosofia di liceo" dico io. "Forse ha derivato da lui quella passione per la scienza del pensiero."
"Scienza del pensiero" commenta Lisi e guarda lontano.
"Sì Anna Reggiani mi ha parlato spesso del suo papà e della nomina da lui ricevuta presso l'Accademia filosofica di Napoli" aggiunge il giornalista.
Guardo interessato il mio interlocutore. Capisce il mio interesse per la vicenda a cui ha accennato ed allora continua di buon grado.
"Mi raccontava di quella sua esperienza, quando il padre si allontanò da loro ed a Napoli ebbe una storia con un'altra donna. La bimba ne rimase ferita. Era molto attaccata al genitore, che poi spesso la condusse con sé in quella città."
Lisi si ferma un istante, poi riprende a parlare:
"Ricordo di un particolare episodio, di cui mi raccontò e su cui tornò più di una volta, perché l'aveva particolarmente colpita. Un giorno, il padre la portò con sé ad un convegno di filosofia all'Accademia. Ricordava il tema dell'incontro: "Il Pensiero ed il Sacro", un dibattito concentrato soprattutto sul dialogo platonico 'Eutifrone'. Quel giorno la bimba, alla fine dell'incontro, si ritrovò da sola nei corridoi dell'Accademia e, all'improvviso, aprendo una porta colse il padre in atteggiamenti d'intimità con la sua nuova amica, che aveva partecipato come spettatrice al convegno. Sa che cosa ricordava di quell'incontro Anna?"
"Che cosa?" domando.
"L'improvvisa vergogna da lei provata, quando un cameriere entrò nella sala, dove lei e l'amica del padre, questa grossa signora tedesca con i capelli rosso rame raccolti in una crocchia sulla testa, assistevano da sole al dibattito, sedute un po' distanti tra loro in mezzo ad una lunga file di sedie vuote. Il giovane, passando attraverso le sedie, ne fece ruzzolare una con grande fracasso ed allora il professore, che conduceva l'incontro, l'apostrofò per rimproverarle il disturbo da lei provocato. A distanza di tempo, Anna, così sensibile, non sapeva ancora darsi pace per quell'ingiusto richiamo."
Lisi tace ed io lo guardo in maniera interlocutoria.
Il giornalista mi fissa, poi, rincorrendo i suoi pensieri davanti a sé, riprende a parlare:
"Quel giorno vagò a lungo da sola per la città, senza sapere neppure lei come. Fu rintracciata soltanto la sera, alla stazione ferroviaria di Mergellina, da un agente di polizia. Quando vide l'uomo in divisa, la ragazzina scappò e nella fuga, attraverso i binari, per poco, non finì sotto un treno sbucato improvvisamente nel buio."

Silvio Minieri ha detto...

Lisi ha finito di raccontare. Guarda ancora davanti a sé, come in cerca di una spiegazione per quello d'incongruente che traspare nell'episodio, di cui ha appena finito di riferire: l'esagerata colpevolizzazione per un rimprovero ingiusto, ma abbastanza superficiale.
"La mortificazione della ragazzina non può certo ascriversi al rimprovero ingiusto" dico io.
"Beh, certo! Il trauma psicologico è dovuto al fatto di avere sorpreso il padre in intimità con l'amica" ammette Lisi.
"E che cosa ricordava di quel vagare a vuoto per la città la ragazza?" interrogo.
Lisi mi guarda con espressione di leggera sorpresa, per questo mio mostrare interesse su un argomento, che lui credeva per me secondario.
"Mah!" dice "ricordi slegati e frammentari: un ascensore vetrato che scende dalla collina al lungomare, il viso di una somala, bambini che giocano in un vicolo e madre che si agita e grida in arabo di tutti loro, piedi pesti e sanguinanti da parte sua."
Squilla il telefono. Lisi solleva la cornetta: "Oh, Françoise!" esclama illuminandosi in volto "sì, certo!" Rimane ad ascoltare.
Intanto ho aperto il libro "L'uomo camuffato", lo sfoglio e leggo un passo a caso, soffermandomi sul capitolo settimo:
"Vi furono alcuni interventi. Magliolo rispose a tutti e non dovette mutare nessuna delle disposizioni che aveva già precedentemente impartito con decreto. Responsabile sul posto di tutti i servizi era il suo vicario, il vice Governatore Pantaleo, in piedi al suo fianco, che nel sentirsi nominare piegò leggermente il capo, in segno di assenso.
Per qualsiasi tipo di servizio investigativo, la sola presenza del Consigliere ministeriale e dei suoi collaboratori romani doveva mantenere tutti tranquilli.
Si era avvicinato il Capo di Gabinetto di Magliolo, che conferì brevemente col suo superiore. Questi ascoltò con attenzione, poi si rivolse ai presenti e dichiarò che la riunione era terminata.
Il Governatore informò Rizzo:
"Da Roma sembra che ci ritirino i rinforzi già da domani..."
Lisi sta concludendo la sua conversazione telefonica; io chiudo il libro e rivolgo nuovamente a lui la mia attenzione.
"Certo, Françoise." Ascolta e risponde: "Non penso che ci vediamo per pranzo. A dopo le cinque." Ascolta ancora. "Sì, a casa, certo."
Il giornalista ha abbassato la cornetta e torna a guardarmi. Si scusa con un sorriso. Poi suona il campanello e con la poltrona girevole si volta a guardare oltre il vetro della finestra. Dall'altezza dell'ottavo piano, dove ci troviamo, si vede il fiume, l'acqua verde che scorre tranquilla.

Silvio Minieri ha detto...

Entra Gabriella, la segretaria, che lanciandomi un rapido sguardo mi porge un gentile sorriso; quindi, si rivolge al suo capoufficio, rimanendo in attesa. Lisi si alza in piedi e si avvicina alla finestra, guarda ancora oltre i vetri, poi si volta verso di noi e dice:
"Accompagno l'ospite a prendere un aperitivo fuori. Vuole, signor Lafleur?"
Nel frattempo mi sono alzato in piedi e, mentre il giornalista parla proponendo di uscire, sto in piedi accanto alla ragazza. Acconsento subito volentieri.
"Allora, Gabriella, avverti l'autista. Scendiamo tra poco."
"Subito, direttore" risponde la ragazza ed esce.
"E' meglio sgranchirsi un po' le gambe, non le pare?"
Approvo con la testa e dico: "Per Torino, questa giornata di fine agosto è proprio bella."
Il cielo è sereno ed illuminato dal sole.
"Ancora qualche giorno e saremo in pieno autunno. Approfittiamone, dunque!"
E' tornata Gabriella, per annunciare che tra non molto l'autista sarà pronto. Provvederà ad avvertirci subito. E' rimasta leggermente esitante nella stanza. Lisi la guarda.
"Grazie" dice "avvertici subito."
La ragazza esce. Lisi si risiede in poltrona e la riavvicina alla scrivania. Apre il cassetto principale. Ne estrae una moneta, tenuta in una custodia plastificata. Richiude il cassetto, scosta la poltrona e si rialza. Quindi, avvicinandomi dall'altra parte dello scrittoio, mi porge la moneta, che ha tirato fuori dalla custodia. Il pezzo numismatico è di forma circolare ed è poco più grande del normale quadrante di un orologio da tasca. E' coniato in metallo d'argento.
Rigiro la moneta sul palmo aperto della mano e noto subito che su entrambe le facce è stampata la stessa figura: un volto di donna colto di profilo con i capelli raccolti sulla testa.
Lisi osserva il mio gesto e commenta:
"E' una moneta rarissima, forse unica; è uno scudo della repubblica marinara di Ponte, coniato nel dodicesimo secolo, prima della dominazione di Federico II."
Io osservo la moneta stringendone l'orlo tra le due dita.

Silvio Minieri ha detto...

"Di particolare ha che" continua il giornalista "fu coniata in quel modo per errore. Sull'altra faccia doveva essere stampata la figura di una spiga di grano ed il numero cinque in cifra araba: è infatti una moneta da cinque scudi."
Lisi ha cercato sullo scrittoio e preleva un catalogo, che subito sfoglia. E' il numero di una rivista di numismatica.
"Ho compiuto delle ricerche ed infine ho trovato la figura del verso della moneta, stampato in maniera giusta" dice, mostrandomi la pagina patinata, dove sono riportate varie figure numismatiche, quasi tutte di colore antracite, tranne due leggermente più chiare. Rappresentano il dritto ed il rovescio della moneta da cinque scudi della Repubblica di Ponte.
Confronto la figura stampata sulla moneta e quella stampata sulla pagina della rivista: sono uguali; il disegno dell'altra faccia inoltre corrisponde alla descrizione verbale fatta da Lisi. "L'originale è conservato nel Museo Numismatico Fredriciano di Lacéra, dove sono raccolte tutte gli esemplari di monete del periodo imperiale. Della collezione fanno parte anche quelle coniate dalle zecche delle repubbliche del Gargano, che avevano il potere di battere moneta" mi dice il giornalista, indicando le immagini della rivista.
Restituisco la moneta.
Egli posa la pubblicazione sullo scrittoio ed ora considera lo scudo d'argento, che tiene sul palmo aperto della mano, soppesandolo.
"Anna Reggiani era come questa medaglia, che da una parte e dall'altra presenta sempre la stessa 'faccia'. La metà assente della figura, quella vera e legittima, era conservata altrove, in una realtà diversa dalla sua" dice.
Ha parlato più che altro a se stesso, perché ora continua a fissare la moneta d'argento; poi la ripone nella custodia plastificata e l'abbandona sul ripiano della scrivania.
E' entrata Gabriella, la segretaria.
Annuncia che l'autista è pronto ed attende in strada con l'autovettura.
Lisi si guarda intorno.
"Tu aspetta qui" dice alla segretaria "se dovesse telefonare il patron..."
La ragazza non risponde.
"Con Françoise ho parlato poco fa e mi sono già messo d'accordo" aggiunge sovrappensiero.
Stiamo per uscire, quando egli ci ripensa; si volta verso la ragazza e dice:
"Fai una cosa... vieni anche tu."
La ragazza si rianima.
"Chiudo e vengo subito" risponde contenta.
Poco dopo siamo tutti e tre accanto all'ascensore. La giovane ha indossato un'elegante giacca a camicia di seta blu e con le maniche corte, che pone in evidenza le spalline graziosamente arricciate.
Scendiamo.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO TRE

L'automobile ha lasciato il quartiere dell'Unità d'Italia, supera il Palazzo delle Esposizioni ed imbocca il viale Massimo d'Azeglio in direzione di corso Vittorio Emanuele, costeggiando il parco del Valentino ed il Po. Ci fermiamo all'altezza del Castello e scendiamo dall'automobile. Giro davanti al cofano anteriore dell'autovettura e mi soffermo a guardare un maestoso palazzo bianco marmoreo; quindi domando di che cosa si tratta, rivolgendomi a Gabriella. La ragazza è scesa dalla parte sinistra e si trova l'edificio di fronte.
"Dovrebbe essere l'Istituto di Geofisica" dice, voltandosi interrogativa verso Lisi, che si trova alle nostre spalle dietro l'autovettura. Il giornalista lancia uno sguardo distratto all'edificio ed accenna di sì col capo.
"Geo fisica" dico "ritorna la radice greca 'ge'."
Intanto il mio ospite ha congedato l'autista e tutti e tre, io nel mezzo e Gabriella alla mia sinistra, ci avviamo a piedi nel parco in direzione del Castello.
"L'attuale aspetto decorativo esterno è dovuto ai lavori di rifacimento, eseguiti nel Seicento per volere di Madama Cristina di Francia" dice Lisi, osservando la facciata della regale residenza.
"Contrasta con la modernità degli edifici del viale, soprattutto del bianco marmoreo dell'Istituto" replico.
Il giornalista lascia cadere la mia osservazione e continua il suo discorso:
"All'interno vi sono preziose pitture decorative d'Isidoro Bianchi, soprattutto nella stanza dei Gigli e nelle stanze delle Rose e dei Fiori d'oro."
"I gigli" ripeto con aria ispirata e guardo Gabriella illuminandomi in volto.
La ragazza sorride.
"Fiori che esprimono tutto il loro candore liliale" aggiungo.
Colpito dal tono con cui pronuncio la frase, Lisi si volta verso di me ed abbozza un sorriso.
Entriamo nello chalet del parco e ci sediamo ad un tavolino. Il locale, adibito a caffé, si chiama "Zampillo d'argento". Prende il nome dalla fontana con vasca circolare, situata nel giardino d'ingresso, lungo il cui orlo gettiti a raggiera convergono attorno alla colonna spumeggiante dello spruzzo centrale, ricadendo sulla superficie limpida e azzurrina dell'acqua.
"Perché mi ha domandato dell'Istituto di Geofisica?" m'interroga la ragazza, sporgendosi lievemente verso di me e riprendendo la conversazione interrotta dal nostro ingresso nel locale.
"La geofisica mi ha riportato ad un discorso tenuto col suo capo questa mattina sul significato della radice greca 'ge'," replico, andando oltre nella risposta. "La piccola controversia è derivata dalla disquisizione sul significato del nome Eugenio."

Silvio Minieri ha detto...

"Eugenio!" esclama allegramente la ragazza, approfittando dell'occasione di potersi rivolgersi al suo capo, pronunziandone confidenzialmente il nome.
I due si guardano: Gabriella continua a mantenere l'espressione vispa. Lisi ha un'aria sornione.
"Mia zia Eugénie..." prosegue la giovane senza malizia, ma lasciando enigmaticamente in sospeso la frase.
"Come Eugénie Grandet!" intervengo.
"Lei, Lafleur, associa la creatura di Balzac al candore liliale" dice Lisi.
Rifletto un istante, poi convengo e dichiaro giusta l'osservazione del giornalista.
"Ecco perché alludeva alla pura delicatezza dei gigli, poc'anzi" aggiunge il giornalista.
"Certo" approvo.
Si avvicina il cameriere ed ordiniamo tè ed un aperitivo analcolico bianco.
"Gabriella può procurarle una scheda con brevi note riassuntive sui principali personaggi storici, che hanno portato questo nome, sia maschi che femmine" dice Lisi.
La ragazza risponde di sì con la testa e mi guarda vivamente compiaciuta quando m'illumino in volto ed esclamo con entusiasmo:
"Oh, sì! Davvero?"
"Sì" conferma lei con entusiasmo.
Guardo fuori gli zampilli argentei della fontana. Lisi sta per parlare, ma la ragazza lo precede: "Mi dia almeno un giorno, però!" sento che dice rivolta a me. Giro la testa verso di lei: "Senz'altro; le telefonerò" rispondo con decisione.
Osservo la giovane segretaria dai capelli neri e dagli occhi verdi e dalla pelle bianca, elegante nel suo spezzato grigio e blu, gentile nei modi e nell'anima. Si è voltata verso Lisi. Il suo capoufficio sta guardando in direzione della vetrata del caffé con aria assente.
Anch'io guardo fuori, grato ad entrambi ed in questo momento aperto e disponibile verso il prossimo intero, colpito dalla premura della giovinezza e bellezza di Gabriella Finari.
Contemplo gli zampilli d'argento, avvertendo la freschezza dell'acqua nella luminosità della giornata e nel tepore dell'aria, sorpreso dall'azzurro del cielo e dal rosso arancione del sole. L'apertura al canto e alla gioia: quasi una primavera.
Poi, all'improvviso, in contrasto con la luce ed i colori del giorno e l'equilibrio dell'ora meridiana, sento come un tonfo e la vampa del mio entusiasmo si esaurisce di colpo e si spegne. Affiora dal profondo un lontano riso di scherno.
Lafleur! Felicità è un ombra! recita il Coro. Sono io il Coro; no, non sono il Coro, sono Edipo Re. La mia colpa! Non è quella di avere giaciuto con Giocasta. Lafleur! La colpa è antica! Sopraggiunge, venendo da lontano. È la Ybris. Ahimé, generazione dei mortali! Eh, certo, Lafleur! mi dico.
Ora sono distratto.

Silvio Minieri ha detto...

È arrivato il cameriere, recando le ordinazioni sul vassoio: tè tiepido per capoufficio e segretaria ed aperitivo analcolico per l'ospite. Osservo la scena con distacco.
Adesso i due mi sembrano più vicini. Il giornalista le sta parlando della moglie Françoise. Gabriella ha alzato lo sguardo verso di me. Lisi versa il tè nelle tazze. Ed io avverto come un'ombra fuggitiva negli occhi di lei.
È un breve panico il mio! Lafleur! Mi riprendo. Fisso con attenzione la teiera deposta sul vassoio e da cui pende il quadratino di carta legato al filo appena visibile.
Si conoscono bene quei due! Eh, certo! Il direttore ha approfittato dell'ospite per uscire con la sua segretaria. Il loro rapporto deve essersi logorato: è l'abitudine. Che cosa è accaduto tra loro? Nulla, immagino. Lei, grazia e candore, è la fanciulla di Balzac: è lei Eugénie Grandet, creatura liliale; non ricca ereditiera del mastro bottaio di Saumur, certo; ma con i suoi Cruchot e des Grassins per la sua festa da venire. Ma forse no, la festa non è di là da venire; ha già lei avuto il suo Charles: sì, lui, Eugenio Lisi, direttore di giornale, giovane di successo.
Giovane? Ha quasi la mia età. Gli mancherà qualche anno ai quaranta. Piace alle donne. In proposito la Petrovna è stata abbastanza precisa: il Lisi? Bei riccioli! Adesso hanno più di un filo d'argento. Invecchi presto, direttore! È gelosia?
Lafleur! Felicità è un'ombra / che subito precipita! Il Coro. Tu, Lafleur, quarantatré anni. A Roma o in giro per il mondo, a Roma, ma non a casa tua, Gloria Sportelli. La sottile giovane di un tempo oggi non più giovane e non più sottile. Lafleur!
Lisi ha fatto un gesto di saluto verso un giovane in giacca e cravatta, che ora si avvicina.
"Ciao Giorgi" dice. "Ti presento il signor Lafleur da Roma, dottore in Scienze della Psiche."
Il giovane sorride e si china a stringermi la mano.
"Piacere Lafleur" dico, accennando ad alzarmi.
"È il nostro migliore cronista di nera" parla compiaciuto il direttore. "Siediti!" ordina a Giorgi.
Il giovane si siede. "Ciao Gabriella" dice rivolgendosi alla segretaria di Lisi. La ragazza risponde, ma senza grande entusiasmo. Dal suo volto è scomparsa ogni forma di apprensione ed ora sembra assumere una lieve espressione di malcelato tedio.
Giorgi si volta verso Lisi. "Niente di nuovo a Torino, direttore," dice "in cronaca nera." Poi mi guarda e con leggero sorriso aggiunge: "A Roma, un altro delitto d'estate." Nota il disinteresse di Lisi e si volta verso di me. "La notizia è su un comunicato Ansa di poco fa" dice per giustificare la nostra ignoranza.
"Pensa che fosse un suicidio o una disgrazia?" domando d'improvviso ad Eugenio Lisi.

Silvio Minieri ha detto...

Il direttore di giornale mi guarda. Anche lui ha cominciato con la cronaca nera. Addirittura ha scritto un libro, "L'uomo camuffato", su delitti in serie. Ma ha fatto carriera. Per lui la cronaca nera è un passato di giornalista di provincia alle prime armi. Oggi è un affermato Direttore di un grande giornale, che scrive dei libri. Per un attimo solo, ma per un attimo solo, non deve avere capito a quale episodio mi riferivo. Anche Giorgi è rimasto sorpreso e guarda alternativamente me e il suo direttore, per meglio capire. Eugenio Lisi si limita a scuotere la testa riccioluta. Gabriella Finari partecipa, ma sembra annoiata.
"Dinanzi alla scoperta di un cadavere, vi sono tre ipotesi, ognuna delle tre valida al trentatré virgola trentatré per cento: omicidio, suicidio o disgrazia" dico rivolto all'uditorio.
Per il cronista questo mio intervento non chiarisce, ma complica ulteriormente la mia prima domanda.
"Quello di Roma è omicidio" dice, al fine di stabilire un punto fermo.
"Quello di oggi!" replico.
"Sì, quello di ieri" replica a sua volta.
"Riferito alla notizia di oggi."
"Sì, certo."
"Comunque, per l'ipotesi di disgrazia o suicidio, mi riferivo ad un fatto di cronaca di oltre dieci anni fa" dico divertito.
"Questo, l'avevo capito" conclude ridendo Giorgi e per poco non mi dà una pacca sulla spalla, per familiarizzare con il forestiero.
Il direttore è sovrappensiero. Si avvicina il cameriere e Lisi indica Giorgi: "Che cosa ordini?" domanda.
"Oh no, grazie, direttore! Devo andare."
Lisi chiede il conto al cameriere.
"Hai dato la notizia ad Antoniutti, per la cronaca nazionale?" domanda poi al cronista.
L'altro annuisce.
"È per non fare il 'buco'" aggiunge e mi guarda, come per mostrare al cronista di aver posto la domanda più per rendere partecipe l'estraneo che non per saggiare lo scrupolo professionale del suo collega e collaboratore.
Torna il cameriere e il Direttore di "Il Quotidiano di Torino" paga il conto.
Siamo tutti in piedi. "Vi invito a pranzo" dico. Il cronista guarda l'orologio e scuote la testa. Gabriella Finari mi guarda, abbozzando un sorriso, poi si volta verso il suo capoufficio: "Io devo andare a casa" dice. Lisi mi tocca il gomito sinistro, prende a braccetto la sua segretaria e, fra noi due, si avvia verso l'uscio, col cronista alla mia destra.
"Invito io, signor Lafleur" mi dice sulla soglia del locale. Giorgi chiama col cellulare un taxi. Gabriella si sporge in avanti verso di lui e chiede anche per sé. L'altro annuisce.
Siamo su viale Massimo D'Azeglio. Sopraggiungono due taxi uno dietro l'altro. Gabriella Finari mi saluta stringendomi la mano, saluta il direttore e sale sul primo taxi. Giorgi le chiude lo sportello e sale con noi sul secondo taxi. Sul corso Vittorio Emanuele II, noi giriamo a destra per via Roma, mentre il taxi con la segretaria prosegue. In piazza Castello svoltiamo in via Po. Il taxi si ferma e il cronista saluta e scende. Vorrebbe pagare, ma Lisi glielo impedisce. Proseguiamo per piazza Vittorio Veneto, attraversiamo il ponte sul fiume di fronte alla chiesa della Gran Madre e giriamo a sinistra su corso Casale. Poco dopo, ci fermiamo ai piedi della collina di fronte all'ingresso di un ristorante, elegante e fornito di tende bianche dietro la vetrata.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO QUATTRO

Siamo seduti l'uno di fronte all'altro, io e Lisi. Mangiamo le tagliatelle al burro e funghi. Per me, abituato alla cucina mediterranea, questo piatto in estate è pesante.
D'un tratto, il giornalista prende a parlare:
"Vede, Lafleur, sono qui a parlare con lei, perché da quando mi ha telefonato, chiedendomi di una ragazza morta tragicamente sotto un treno, dieci anni fa circa, alla stazione Termini a Roma, in una notte di dicembre, sono precipitato nello stato d'animo di quel tempo. È tornata quella stagione, l'estate di Ponte, con i suoi delitti e le cronache convulse di quel periodo, la luce e i colori di quei giorni della mia giovinezza. È tornata Anna Reggiani, che lei sa è stata per un tratto d'esistenza la mia donna. Sono tornato a rivivere quel pezzo della mia vita."
Lisi s'interrompe e dopo avere avvolto la forchetta nel piatto delle tagliatelle, solleva la posata colma e la tiene sospesa per aria.
"Mi aveva chiesto se fosse stato suicidio o disgrazia" dice ed addenta il boccone e mangia. "Ebbene" prosegue poi, portando il calice colmo di vino rosso alle labbra "penso si sia trattato di disgrazia." Beve una sorso e posa il calice davanti al piatto. Mi guarda.
"Il ferroviere Borracini," interloquisco "nella sua testimonianza resa alla polizia, riferisce di essere inciampato in un paio di scarpe da donna, sul limitare della banchina, quando ha rincorso quella figura, nella notte, sui binari d'ingresso della stazione."
"Sì è vero" risponde Lisi.
"Lei, come seppe?" chiedo.
"Fui avvertito da Francesco Colunno, il genero del Governatore Iorio. Vive qui a Torino. Lavora presso la "Telit spa", nella sede di viale Marconi."
Bevo un bicchiere di birra fresca. Il vino rosso d'estate è contro le mie abitudini. Forse sbaglio. Ho fatto portare anche del vino bianco.
"Ha parlato con Olga Petrovna. Le ha raccontato tutto di Anna e di Ponte, immagino" dice Lisi.
"Ed anche dell'uomo camuffato e dei delitti" aggiungo.
"Curiosità di donna" dice, aggiungendo subito dopo: "quella di Anna."
Lisi guarda nel piatto. Ha quasi finito le tagliatelle.
"Ovviamente le ha parlato anche di Brizi."
"Certo, Ermanno Brizi, il Rizzo del suo 'L'uomo camuffato'. Ermete Rizzo."
Restiamo un attimo in silenzio.
"Andò a Roma?" domando.
"Sì, certo" risponde. "Venne la madre a riconoscere la salma. Ci incontrammo all'obitorio. Ci fu una semplice funzione in chiesa, a Roma. Poi Anna fu traslata a Ponte."

Silvio Minieri ha detto...

Lisi compie una pausa.
"Ricordo che nell'occasione" riprende "volevo restituire all'anziana donna piangente, vestita di nero, la medaglia, lo scudo d'argento, che Anna mi aveva regalato. Me lo diede all'inizio della nostra storia, subito. La figura stampata su questa moneta è come me, mi disse. Su entrambi i lati presenta sempre la stessa faccia."
"E sua suocera, la signora Reggiani, voglio dire, rifiutò?" domando.
"Figlio mio, tu hai voluto bene ad Anna, disse. Tienila tu. Anche l'altro, quel signore tanto bravo, quello che è morto. Singhiozzava. E gli altri. Siete tutti figli miei."
Guardo Lisi. Ha gli occhi lucidi.
"Olga Petrovna era presente al funerale" dico in senso affermativo e non interrogativo.
"Venne anche a Ponte, fino al piccolo cimitero sulle pendici del Gargano."
Una servizievole ragazza porta via i piatti e ci serve il secondo: fettina di carne al limone ed insalata verde, per entrambi. Bevo un bicchiere di vino bianco freddo.
Il giornalista estrae dalla tasca una busta da cui sfila una fotografia a colori, formato 8 x 12. Rappresenta il volto ed il busto di una giovane donna con i capelli biondi e gli occhi marrone. Guardo la fotografia con attenzione, poi gliela restituisco. Mentre Lisi la tiene nelle mani e le dà uno sguardo, leggo sul retro il nome 'Anna' vergato a penna con calligrafia chiara.
"Sono riuscito a sottrarla alla Petrovna" mi dice continuando a fissare l'immagine ritratta nella fotografia. "Le ho lasciato le carte con i suoi appunti. In fondo questa fotografia e le carte parlano della storia d'amore fra Anna e il defunto Consigliere ministeriale di polizia Ermanno Brizi."
Mangio gli ultimi bocconi di carne e bevo altro vino bianco. Freddo, scende giù con maggiore gradevolezza.
Brizi è morto, Anna no, nelle parole di Lisi. Ma nel suo racconto, il libro verità di Eugenio Lisi, "L'uomo camuffato", entrambi rivivono, rivive la Ponte di allora, con tutti i suoi personaggi. Ma dove sono Anna Reggiani, Ermanno Brizi, i delitti, l'estate ed il mare mediterraneo, l'abitato del borgo medioevale, arroccato sulla collina? Les neiges d'Antan.
Quando ho telefonato a Lisi, il giornalista, sentendo di Anna Reggiani, ha citato Schopenhauer, indicando un passo di "Il mondo come volontà e rappresentazione", che ha riportato in epigrafe nel suo libro: "Ma dobbiamo richiamarci alla memoria il passato della nostra esistenza personale e vivacemente riprodurcene le scene nella fantasia e poi domandarci ancora: che cosa è stato di tutto ciò? Che cosa è accaduto?"
Sono allora andato a riguardarmi una vecchia edizione dell'opera del filosofo tedesco e l'ho portata con me qui a Torino. Ero stato colpito dal tema dell’Ubi sunt.
Chiedo al giornalista da quale passo di Schopenhauer avesse citato. Dal libro quarto, mi risponde subito.

Silvio Minieri ha detto...

"Sul particolare delle scarpe" riprende poi il discorso su Anna Reggiani "vorrei raccontarle un episodio, visto che lei, Lafleur, l'ha messo in rilievo, il particolare. Ricordo che quell'aspetto della vicenda mi colpì subito. Fu riportato anche in cronaca.
Quando conobbi Anna a Ponte, i primi tempi, ricordo che andavamo ogni tanto in spiaggia. Era inverno e lei camminava sulla scogliera, che si stendeva per un tratto longitudinalmente sul mare. Portava le scarpe con i tacchi e questo le impediva di procedere speditamente. Camminavo meglio io, che pure non ero abituato agli scogli, venendo da Roma. Allora Anna si toglieva le scarpe e riusciva a correre sulla roccia, lasciandomi indietro. Si divertiva tantissimo. D'altronde, erano pietre spugnose, perché affioranti appena dall'acqua e ricoperte di muschio. Era più facile scivolare che inciampare sugli spuntoni e le asperità della roccia.
Ricordo una volta: lei aveva un soprabito nero lungo fino ai piedi; si tolse le scarpe e cominciò a correre sulla scogliera; io la inseguii e la raggiunsi sull'ultimo masso, dove si era fermata. "Volevi tuffarti in acqua?" le chiesi, cingendola alla vita ed attirandola verso di me. Lei rideva. Dovevamo sembrare una 'cartolina', di fronte a quel mare d'inverno e nello sfondo di un cielo perlaceo."
Racconta bene il giornalista: suscita precise immagini visive nell'ascoltatore. Forse inventa anche, magari nei particolari: "cingendola alla vita ed attirandola verso di me". È la scena di una recita da copione.
Ma Lisi continua il racconto, al fine di cogliere il significato essenziale dell'episodio.
"Staccandosi da me, ha cominciato a parlare di quando era bambina e correva a piedi nudi su quegli scogli d'estate. Ricordava in particolare di una volta in cui il padre era venuto direttamente in spiaggia, al ritorno da una lunga assenza da Ponte. Lei, bambina, gli correva incontro e s'inseguirono sulla scogliera: lui la raggiunse e l'afferrò sull'ultima roccia. Quella volta, scivolando, aveva rischiato di finire in acqua. "Ma sapevo nuotare" disse e rideva."

Silvio Minieri ha detto...

Lisi s'interrompe.
Io la baciai - continuo per me il racconto - e facemmo l'amore lì sugli scogli, perché nel frattempo si era fatto buio. Cioè no, andammo sulla spiaggia, dov'era più comodo. Ma ora con la mente vago altrove verso mie esperienze. Anche il mio interlocutore è assente.
Giunge il cameriere con fragole e gelato.
"E si era fatta sera?" domando.
Aspetta un po' prima di rispondere, poi dice:
"Quella volta..." e muove lentamente la mano sinistra in aria con ampio gesto, come per indicare il muoversi delle ombre della sera, che discendono sulla terra. "Sì" conclude poi con convinzione, guardando davanti a sé.
Consumiamo il dessert e su esortazione del mio ospite, beviamo una grappa. Sento di aver mangiato in abbondanza. È per me una cucina un po' grassa, abituato come sono a più leggeri cibi e condimenti mediterranei. Forse l'olio d'oliva invece del burro e vini più leggeri.
Abbiamo finito di pranzare.
"Chi ama mangiare, ama la vita" dice il giornalista, alzandosi da tavola. Ci avviamo verso l'uscio. Siamo fuori e ci incamminiamo lentamente lungo il parapetto del fiume. Mi fermo a guardare lo scorrere dell'acqua verde del Po.
Il fiume che attraversa la città è il Tevere e la Moldava. Vedo passeggiare sul greto una giovane donna con un tailleur a righe stile anni Trenta e un cappellino con veletta. Nella sinistra stringe un bastone femminile da passeggio.
"So che almeno tu non mi dimenticherai. Per merito tuo posso continuare a vivere. Tu dirai agli uomini chi ero, sarai il mio giudice clemente..."
Anna Reggiani sta passeggiando in riva al Po.
Alla fermata saliamo su un autobus, che sopraggiunge puntuale all'ora indicata sul cartellino, apposto al centro del palo, che sorregge il cartello con l'indicazione delle vie cittadine percorse da quella linea urbana municipale.
Superiamo il ponte e da piazza Vittorio proseguiamo in via Po diretti a piazza Castello. L'autobus infila via Pietro Micca. Dopo un percorso nelle vie del centro, raggiungiamo corso Vinzaglio, dove scendiamo. A piedi, sotto i portici, andiamo verso il mio albergo nei pressi di Porta Susa. Ci congediamo davanti all'ingresso a vetri.
"Mi telefoni, Lafleur, la sua compagnia è sempre gradita."
"Aspetto che lei mi ricambi la visita a Roma. Arrivederla Lisi."
Dopo la stretta di mano, Lisi si avvia verso il piazzale della stazione ferroviaria di Porta Susa. È salito su un taxi, che si muove e scompare a destra del portico, in direzione di piazza Statuto.
Entro in albergo.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 5

Alle sette del mattino mi sveglio, avvertendo un leggero malessere. Mi alzo e vado ad aprire le imposte della finestra: fuori il tempo è piovoso. Una luce grigiastra e scura pervade l'aria. Sento che i cibi del pranzo di ieri e forse anche il vino rosso, bevuto fuori stagione, mi gravano sullo stomaco, sebbene la sera non abbia quasi cenato nulla. In breve tempo sono pronto e scendo nella sala della prima colazione. Sono l'unico cliente, per il quale una giovane cameriera si avvicina, per chiedermi se preferisco latte e caffè oppure tè. Opto per il tè e mi propongo di non toccare cibo. Poi, forse annoiato dall'attesa, imburro leggermente una fetta di pane e la mangio, bevendo il tè che la giovane mi ha servito assieme ad alcune fettine di limone.
Più tardi esco sotto i portici e mi avvio in direzione di Porta Susa. Cade una pioggia leggera. La strada è umida e nerastra. Passo davanti alla stazione ferroviaria e sulla sinistra salgo le scale metalliche, che portano sul viadotto sovrastante i binari del treno. Scendo dall'altra parte e sono in corso Inghilterra, dove vado ad attendere l'autobus per Briançon. La partenza è prevista per le otto e quarantacinque. In strada non c'è nessuno. Ho quasi mezz'ora di tempo. Torno indietro e, alla stazione di Porta Susa, compero il giornale. La pioggerella sottile ha bagnato la mia giubba di cotone ed i pantaloni, ma gli abiti presto si asciugano. Do un'occhiata al giornale, in piedi sotto la tettoia della stazione. Sfoglio le pagine e giungo alla rubrica della corrispondenza coi lettori, intitolata: "Riflesso dei tempi". Una donna scrive lamentando la solitudine dei suoi quarant'anni e lo scorrere dei suoi giorni vuoti. Si è conservata giovane, eppure il tempo fugge via, privandola di quell'amore, che la vita concede a tutti. Sente, scrive in chiusura, la mancanza di quelle viole, che nella stagione della sua giovinezza nessuno le ha donato.
La risposta inizia tra virgolette: "Sono come le ultime rose d'autunno, che danno piacere a vederle, ma i cui petali mostrano qualcosa di freddo e il cui profumo è facile a svanire." Così dice Honoré de Balzac, a proposito della signora des Grassins, per indicare quelle dame di provincia, che si mantengono giovani a quarant'anni, grazie ad un regime di vita claustrale e ad abitudini virtuose.
"Signora, esca dalla sua clausura e sia meno virtuosa, rinunci a queste sue abitudini: perderà di colpo la sua freschezza giovanile, ma di colpo maturerà l'amore."

Silvio Minieri ha detto...

Questo era l'esplicito invito del titolare o della titolare della rubrica. Il mio occhio, l'occhio di Lafleur, scorre verso le iniziali: M.G.F.
Maria Gabriella Finari: così interpreto per esteso quelle iniziali. No, non può essere. Si chiama Gabriella, che è un nome diverso da Maria Gabriella. Ma se così interpreto quelle iniziali, allora Gabriella Finari è nella mia mente: "le viole non donate in primavera" e "le fresche rose d'autunno"; la giovane dai capelli neri, il colorito bianco latte e gli occhi verdi mi ha guardato ieri, esprimendo "questo" nei suoi gesti.
Ho richiuso il giornale ed ora lo stringo agli orli con le dita della mano sinistra: i fogli si sono ripiegati sul braccio ed io ho lo sguardo sospeso per aria. Capisco di avere un'aria imbambolata, perché con la coda dell'occhio, l'occhio di Lafleur, noto la presenza di un persona accanto a me. Mi volto a guardare e noto un uomo leggermente basso ed abbastanza robusto, calvo e con una barba biondastra che gl'incornicia il volto. Incontro il suo sguardo: due occhi lucidi attraverso il riflesso delle lenti. Ha un'espressione atteggiata ad un lieve sorriso ironico. Sembra stia sul punto di dirmi qualcosa, quando mi volto di scatto, abbasso la testa, per guardare l'ora sull'orologio al mio polso sinistro e poi risoluto mi avvio in strada, non prima di aver dato un'ultima occhiata di scorcio al mio vicino.
La pioggia è rada e sottile: poche goccioline che mi bagnano il viso. Riattraverso il viadotto sui binari e mi affretto verso il capolinea degli autobus. Il mezzo sta sopraggiungendo in quel momento. Salgo a bordo insieme con pochi altri passeggeri, mi sistemo in un posto vicino al finestrino, a metà della file di poltrone. Guardo fuori: ha smesso di piovere, sebbene l'aria sia ancora grigia.
L'autobus parte e raggiunge piazza Statuto e, dopo un giro attorno al monumento al Frejus, si ferma all'angolo con corso Francia. Altri passeggeri salgono a bordo, tra cui un anziana donna elegantemente vestita con un completo grigio e calzante un cappellino ornato da un ricamato di stoffa riproducente frutta in miniatura, soprattutto uva fragola.
Prima di ripartire, il conducente esprime a voce alta alcune considerazioni sul tempo piovoso, poi tace e si concentra nella guida. Percorriamo un corso Francia abbastanza deserto ed incontriamo una sequenza di semafori verde. Siamo nell'abitato di Collegno. Dopo non molto giungiamo all'altezza della tangenziale, in località Cascine Vica e presto siamo a Rivoli, dove l'autobus effettua un'altra fermata, raccogliendo altri viaggiatori. Infine imbocchiamo la statale per Susa.

Silvio Minieri ha detto...

Ho ripreso il giornale e scorro i titoli di prima pagina. Sono interessato più che altro alla pagina letteraria. E' occupata in gran parte da un articolo su Gabriele D'Annunzio. Mi riprometto di leggerlo e giungo alla pagina della cronaca di Torino. Si parla dei primi temporali e della fine della stagione estiva. In mancanza di eclatanti fatti delittuosi, piccole notizie di cronaca nera sono contenute in brevi trafiletti. Leggo i nomi dei cronisti e tra essi individuo: N. Giorgi. Non ha firmato la cronaca nera, ma il resoconto giudiziario di un processo ad alcuni medici di un ospedale cittadino, per la morte di una paziente, ricoverata nel reparto maternità. È morta subito dopo aver dato alla luce il bambino. Fortunatamente il neonato si è salvato.
Guardo fuori i vetri del finestrino, dove in alto a sinistra è visibile la rocca della Sacra di San Michele, che si avvicina e poi scompare alla vista. Ma un'altra immagine si sovrappone. Nella penombra della cappella, il bambino di dodici anni, vestito con giacca e pantaloni bermuda a righe, è composto in silenzio, con la testa bassa, accanto agli adulti in prima fila, raccolti attorno alla bara. "Perché il Signore nella sua infinita misericordia..." recita il celebrante. Fuori, nell'ombra del giorno grigio di neve, i fiocchi cadono agitandosi nell'aria: scure le giornate di novembre in montagna!
L'autobus si è andato riempendo di altri viaggiatori alle varie fermate. Ed ora cominciamo ad affrontare le prime rampe che portano in alto verso Salice d'Ulzio. Osservo l'anziana signora col vestito grigio e col cappellino ornato da decorazioni di frutta, salita a Torino, a piazza Statuto. Osservandola bene, ho modo di notare che è di corporatura robusta. Un fiocco nero chiude il colletto della camicia bianca ricamata. Un piccolo fiocco egualmente nero pende dalla tesa del cappello: lo noto ora. Forse la dama è in lutto.
Guardando fuori il panorama di montagna, all'ingresso dell'abitato, leggo i nomi delle località, indicati in bianco sullo sfondo azzurro del cartello stradale: "Oulx", accanto alla freccia dritta e "Sauze d'Oulx", accanto alla freccia indicante la svolta a sinistra. Usciti da Oulx, iniziano i tornanti della strada che sale verso Cesana.
Non molto dopo, giungiamo alla frontiera di Claviere. L'autobus si ferma. Il milite con occhiali scuri ed il volto abbronzato fa cenno di passare. L'autobus riprende a muoversi e ci viene incontro il poliziotto francese con il képi.
Non so perché, ma vedendolo sono colto da un vago senso d'inquietudine.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 6

L'autobus giunge a Briançon poco prima di mezzogiorno. Scendiamo nella piazza principale. Il tempo corrisponde allo slogan di "Briançon ville du soleil": scendendo da Mongenevre, la vallata si era andata infatti progressivamente rivelando nella luce dei raggi solari. Ora nello spiazzo degli autobus, si è alzato un vento polveroso. Mi avvio verso la strada d'angolo con la mia borsa. In prossimità degli edifici, alcuni cartelli segnalano il pericolo, ovviamente invernale: "Attention chute neige". Entro nella reception di un piccolo hotel. E' situata al primo piano. Dietro un bancone, nella stanza completamente in ombra, è in attesa una jeune fille con i capelli biondi. Porta occhiali chiari. Chiedo una camera per la notte, indicando come requisiti l'ampiezza ed il bagno in camera. La ragazza mi ascolta, lasciandomi parlare; poi, a sua volta, dice: "Je vous propose une suite..." Mentre continua a parlare, compio cenni di assenso e guardo verso una finestra quadra alle sue spalle, da dove penetra attenuata la luce del giorno.
La ragazza ha smesso d'illustrare la sua proposta d'alloggio. "Ça va" dico. La ragazza sorride. "Voici la sept" dice, allungandomi una chiave legata ad una pesante sfera in metallo dorato, su cui in rosso è inciso il numero sette.
"Merci" rispondo, prendendo la chiave.
"Au troisième étage" dice lei con un cenno di saluto.
Esco sul pianerottolo ed inizio a salire la scala in legno, ricoperta da moquette marrone. Al piano superiore, guardo fuori dalla finestra quadra, simmetricamente disposta sulla stessa verticale rispetto a quella del piano inferiore. Si scorge il panorama di un angusto cortile interno del piccolo hotel, per cui filtra poca luce e la scala ed i pianerottoli risultano tutti in ombra. Giungo infine alla mia camera, dove entro e deposito la borsa; poi m'infilo nel bagno, per rinfrescarmi. Quando ho finito, rientro nella stanza. Mi sono riassettato e sono pronto per uscire; prima però resto fermo un momento nella penombra.
Perché sono venuto a Briançon?
Ho preso la chiave col grosso pomo dorato e l'incisione in rosso del numero sette. Scendo le scale. Al primo piano depongo la chiave sul bancone della reception. Non vi è nessuno: al momento la giovane albergatrice è assente. Scendo al pianoterra ed esco in istrada, senza incontrare nessuno.
Sul marciapiedi, un uomo sorridente sta indicando ad un automobilista la manovra migliore per entrare nel parcheggio, sito nel cortile interno dell'albergo.
Percorro alcune brevi strade della parte bassa della cittadina, quindi attraverso la piccola galleria, che conduce alla piazza col grande spiazzo centrale. Mi fermo al caffé, con i tavolini all'aperto e, dopo essermi seduto, ordino una crêpe al formaggio e una birra. Rivolgo la testa in alto verso il sole e, sebbene protetto da occhiali scuri, socchiudo gli occhi.
Più tardi mi aggiro ancora per le stradine e poi imbocco il viale che esce dall'abitato. Sosto sul piccolo ponte e mi affaccio ad osservare l'acqua fresca del ruscello che scorre di sotto.
Perché sono a Briançon, Lafleur?
- Per dimenticare. - Che cosa? - L'ho dimenticato.
L'acqua verde e chiara del ruscello scorre trasparente sui sassi di montagna.
Hai dimenticato, Lafleur?

Silvio Minieri ha detto...

Un forte crepitare d'elica mi distoglie. Sollevo la testa ed osservo sul prato di fronte un elicottero della Gendarmerie che si alza in volo. Il vento sollevato dal volteggiare radente dell'apparecchio smuove il tappeto erboso in rapide ondate parallele. Nessun gendarme è a terra. Scruto verso l'alto: l'elicottero s'innalza, vira e quindi si allontana in direzione della montagna. Riprendo a camminare ed esco dall'abitato. All'ombra avverto brividi di freddo. passo dalla parte del sole e lentamente torno indietro.
Ora sono di nuovo in paese, fermo al crocevia, immobile e indeciso. Mi volto ed alle mie spalle rimango ad osservare il massiccio montuoso della Guidane ed il crinale che si staglia in alto contro l’azzurro del cielo ancora illuminato dall'ultima luce del sole al tramonto.
NON MI LASCIARE LAFLEUR! Terribile ed altisonante il grido lacera l'aria, spandendo la sua eco, che percorre tutta la vallata. LAFLEUR! LAFLEUR!
Mentre ci arrampicavamo insieme verso l'erta, è scivolato sull'erba. Ha perso gli appigli ed è rotolato all'indietro sempre più velocemente. NOOO!
Scivolo anch'io un pezzo all'indietro, afferro dei rami di arbusto e guardo in basso. Finisce sulla prete ripida e vola giù. Con un ultimo grosso tonfo, scompare inghiottito nel canalone, tra un rovinare di sassi e cupi rimbalzi sulla roccia. Urlo il suo nome, ma nessuno risponde. Con affanno risalgo e raggiungo una piccola spianata. Mi tolgo lo zaino dalle spalle ed estraggo la corda, che lego ad un sasso. Svolgendo la fune, comincio a scendere. Sono sulla parete, guardo giù. E' sul fondo. Avvicinandomi nella discesa, sento i gemiti più distinti. Sono ad una quindicina di metri sopra di lui. La corda è finita. Maledizione! Mi ha sentito ed invoca con voce leggermente soffocata. Lascio la corda e mi aggrappo alla roccia, ma non riesco a scendere più in basso. Comincio a vacillare. Se cado, non ci salviamo. Vacillo ancora di più. Sento i suoi gemiti, ma decido di risalire. Per entrambi?
Con uno sforzo immane riafferro la corda. Egli mi ha visto, si muove ed invoca, gemendo. Il sole è tramontato di colpo e diminuisce la luce del giorno. Comincio la risalita. NON MI LASCIARE LAFLEUR!
La sorpresa dell'urlo m'immobilizza contro la roccia.
È il crepuscolo. Incombe la sera. Con balzi agili e svelti, riprendo a salire, inseguito dall'urlo agghiacciante. LAFLEUR! LAFLEUR! Sono in alto, ma l'urlo mi raggiunge. LAFLEUR! FIGLIO DI CANE!
A Briançon si sono accese le luci serali, benché in alto sia ancora chiaro. Al crocevia, dall'altra parte della strada, attira la mia attenzione il luccichio di una lente, che riflette la luce bianca di un lampione. E' l'uomo con la barba bionda della stazione di Porta Susa di Torino di questa mattina. Attraverso la strada e gli passo accanto. Ha lo sguardo fisso davanti a sé, quando lo sfioro e non fa cenno di avermi notato. Entro nel piccolo supermercato, quasi a mostrare che ho attraversato la strada con quell'obiettivo. Ma mostrare a chi? A chi, Lafleur?

Silvio Minieri ha detto...

Cammino tra gli scaffali e mi fermo vicino alle scatole da tè: ve ne sono di tutti i generi di frutta. Sono in prossimità delle casse. Di sbieco guardo le commesse, che scherzano tra loro. Sono giovani, ridono. Guardo con attenzione le scatole da tè, perché una di quelle ragazze mi ha guardato e si è messa a ridere con la sua amica. Sbircio nella sua direzione e vedo che mima il gesto di sfilarsi la giacca, accennando a lievi mosse sinuose. L'amica e collega ha una risatina complice. Decido di comprare tè al mandarino ed ai frutti di bosco. Sono alla cassa. Pago. Trois francs et cinquante. Le commesse ridono. Io, Lafleur, leggermente irritato, esco.
Sono salito fin su alla cittadella antica, entrando dalla parte bassa. Risalgo per la ripida via principale, la Grande Gargouille, e mentre cammino estraggo i soldi dalla tasca e li conto: mi sono rimasti solo più duecento franchi e poche monete, principalmente due pezzi da dieci ed uno da cinque ed altri spiccioli. Decido di entrare in una trattoria, dove sono esposti i simboli di diverse carte di credito internazionali, tra cui quello della mia, per risparmiare il contante.

È passata mezzanotte ed io mi aggiro tra stradine deserte, con luci accese nelle abitazioni sempre più rare. Ho raggiunto il mio alberghetto, ma la porta d'ingresso è chiusa. Non so che cosa fare. Mi guardo attorno. Mi dirigo verso un locale, dove vedo una luce. Parlo con un uomo, ma sembra non capire quello che dico. Si rivolge ad una donna dietro un bancone, presumibilmente la moglie. La donna non sa che cosa rispondere. Lui prende l'iniziativa e fa una telefonata, dopo avere ripetuto più volte il nome dell'albergo, come da me pronunziato. Ma la telefonata non ha effetto. L'uomo mi guarda. Capisco che ha fatto del suo meglio e che continua a non capire quello che gli sto domandando. Ringrazio e vado via. Torno all'hotel. La porta è chiusa. Suono il campanello. Silenzio. Poi la porta si apre con uno scatto. Entro e salgo nel buio al primo piano, fino alla reception, ma non trovo nessuno, soltanto una luce tenue e soffusa. Mi aggiro per il piccolo corridoio e sento scricchiolare il pavimento di legno sotto la moquette. Ritorno al banco e nella casella col numero sette noto un biglietto bianco piegato in quattro. Mi sporgo per prenderlo, ma non ci arrivo. Giro attorno al banco, prendo il foglio e leggo il messaggio, mentre un piccolo oggetto si è sfilato ed è caduto sulla moquette. Raccolgo una piccola chiave, che subito infilo in tasca. Poi scendo le scale, esco in strada e macchinalmente chiudo il portoncino dietro di me, ma subito mi volto e sto di nuovo per suonare il campanello. Mi blocco in tempo, per estrarre la chiave di tasca ed infilarla nella serratura del portoncino, che con uno scatto secco si apre. Richiudo e mi avvio di nuovo verso il locale di prima, ma la luce è spenta e vado oltre.

Silvio Minieri ha detto...

Sul foglio mi veniva indicato di rivolgermi a Madame Broval, in rue du Commandant André, per ritirare la chiave numero sette della mia camera. Oltrepasso la piazza e mi dirigo verso la luce di un altro locale, dove ho sentore di animazione. Prima di aprire la porta ed entrare, guardo in alto e leggo la targhetta azzurra con i caratteri bianchi: rue du Commandant André. E' un uomo a consegnarmi la chiave col grosso pomo dorato e l'incisione in rosso del numero sette. Credevo non avesse capito che cosa gli avessi domandato ed invece si è voltato ed ha preso la chiave. Ringrazio ed esco.
Cammino nella notte ed esco dall'abitato, dove l'oscurità è più fitta ed il silenzio più profondo e levo lo sguardo dal buio verso l'alto. Nel cielo, muovendosi rapida tra nuvole blu inchiostro, appare splendente il disco d'argento della luna. Ora la notte è illuminata dal chiarore della pallida dea. Ed allora, guardando quello spettacolo di sorprendente chiarezza, come colto da un improvviso panico, simile a quello di chi nascosto nella notte viene colpito dal cono di luce, che lo cerca e lo scova, mettendo a nudo la sua presenza, mi sono messo pazzamente a correre. Corro incespicando sui sassi del sentiero e mi lancio verso il prato infinitamente aperto davanti a me. Ho il cuore in gola ed il fiato mozzo. Corro ancora, ma di colpo, sopraffatto dall'emozione e dallo sforzo, mi viene a mancare il sostegno delle gambe e, contro la mia incredula volontà, ruzzolo sull'erba umida, finendo disteso in avanti con la testa in giù.
Mi sono rialzato e sono rimasto in ginocchio. Alzo lo sguardo verso il cielo, dove splende la luce della luna nella sua immensa chiarezza e, vinti ogni residuo dubbio e inibizione, io, Lafleur, all'astro divino porgo la mia preghiera, la preghiera di Lafleur.
Iside ineffabile, Tu che percorri gli eterni sentieri del silenzio e che dall'infinita lontananza della Tua insondabile giovinezza vegli sul riposo delle nostre notti mortali, volgi la serenità del Tuo sguardo imperscrutabile sull'irrequietudine dei miei affanni, per placare l'orrore della mia solitudine! Salvami dal vuoto di questa disperazione senza fine, sciogliendomi dall'angoscia della colpa e sollevandomi dalla caduta, ed accoglimi nella Tua luce divina, Tu che da sempre Ti muovi al di sopra di ogni abisso, donde eternamente vai!
Divina Selene, discendente di Eurimone, la Dea del Tutto, che all'inizio si avvolse nuda col Vento del Nord e depose nel grembo dell'Oscurità l'Uovo d'argento, da cui schiudendosi nacque Fanete, l'ermafrodito dalle ali d'oro, che diede origine all'Universo e a Tutte le Cose, orfica Luna, io Ti prego dalla mia condizione mortale, abbracciato all'umida Terra, di sollevarmi fino a Te, alla tua uranica bellezza.
Tu, gelida Luna, che nel corso del Tuo cammino perenne governi dall'alto della Tua suprema indifferenza tutte le cose mortali, specchiate nell'imperturbabilità del Tuo volto misterioso, ascolta il sospiro del mio essere nudo avvinghiato alle viscere della Grande Madre. Non allontanare il Tuo olimpico sguardo, nella notte profonda, dal battito del mio cuore mortale, che invoca il Tuo divino conforto ed implora, Luna splendente, la consolazione della Tua inaccostabile giovinezza. Affondato nel ventre molle della Terra Madre, su cui inorridito giaccio madaròs, madido, inzuppato d'umore materno nel lordo connubio con la materia, che insudicia l'umana bassezza della mia condizione, io Ti prego di sollevarmi fino alle irraggiungibili altezze del Tuo intatto splendore.
Il silenzio della Luna, che passa tra le nuvole, rivelando l'indifferenza del volto imperscrutabile, chiude la mia preghiera. Mi sono alzato e nella notte raggiungo, come in sogno, il luogo del mio riposo notturno, scivolando in un sonno profondo.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 7

Apro gli occhi e riconosco distintamente la mia stanza d'albergo nella penombra illuminata dal sole che filtra tra le imposte socchiuse. Resto con gli occhi aperti supino sul letto. Poi mi volto sul fianco destro e riprendo a dormire. Il sonno è leggerissimo ed infatti, dopo non molto tempo, sono di nuovo sveglio. Mi sento riposato. Mi alzo e vado ad aprire le imposte della stanza. La luce dorata del sole invade la stanza, illuminandola a giorno. Vado a distendermi di nuovo sul letto, dove assumo una posizione supina, con le mani congiunte sotto la nuca. È quasi mezzogiorno.
Ripenso all'ultimo avvenimento notturno. Alla luce del giorno, ne conservo un ricordo confuso, provando al contempo un certo imbarazzo. Le potenze ctonie, che si sono scatenate nella notte, conducendomi a quel gesto pagano di preghiera, sembrano essersi ora dissolte nella solarità del mezzogiorno.
Sono sazio di sonno e questo senso di sazietà non m'invoglia ad alzarmi per una colazione senz'altro tardiva. Raccolgo il giornale, "Il Quotidiano di Torino", acquistato ieri a Porta Susa ed apro, fermandomi sulla pagina culturale, contenente l'articolo su Gabriele D'Annunzio, che mi ero ripromesso di leggere.
È un commento alla raccolta di poesie: "Alcyone"; in particolare sono citati versi soprattutto da "La pioggia nel pineto" e da "Novilunio di settembre".
Leggo alcuni brani.
"Il libro, "immaginato sul mare etrusco", è il terzo del più ampio affresco lirico, intonato alle "Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi", un insieme pittorico musicale, le cui prime due parti il poeta intitolò rispettivamente "Maia" ed "Elettra". È una lode alla molteplice bellezza del mondo, un canto alla divina varietà della vita della natura.
Nel preludio si reca l'annuncio che il grande Pan "non è morto" e questo gli consente di cantare le sue "laudi eterne", attingendo alla "Eterna Fonte" del dio, che in ogni dove echeggia dei suoi "mille nomi" e da ogni parte spande le sue "membra innumerevoli".
L'ispirazione nietzscheana, che risuona nel tono profetico e messianico (ed è forse un caso che il poeta contenga nel suo nome l'indicazione di un annuncio?), anima il fondo dell'intera composizione dell'opera e confluisce nel misticismo orfico ed in un nuovo sentimento della natura, dove nell'elemento panico dei cieli infiniti, del mare profondo, della terra..."
Sospendo la lettura e, per riposare gli occhi, guardo fuori i vetri della finestra. La luce del giorno ha perso la sua precedente luminosità d'intenso mezzogiorno, perché ora il sole è stato probabilmente velato da qualche alta nube. Riporto lo sguardo sul giornale e distrattamente lo sfoglio in avanti, dando rapide occhiate ai titoli in grassetto. Con l'indice e col medio destro, mi accingo a voltare la pagina di "Cronaca dall'Estero", che affianca a destra quella di "Cronaca dall'Italia", che ho saltato; ma, prima di passare oltre, do una scorsa a quel foglio. Guardo la fotografia, che campeggia sotto il titolo di cronaca nera e poi, in un attimo d'incuriosito stupore, ho un tuffo al cuore, sobbalzando dal letto, dove ero disteso con calma su un fianco a scorrere le pagine del quotidiano. È Alexandra!
Rileggo il titolo di cronaca nera: "Muore strangolata giovane donna". Guardo di nuovo con doloroso stupore il volto della mia giovane segretaria. M'interrogo confusamente, poi leggo con attenzione l'articolo, che nel sottotitolo precisa: "Alessandra Pannoncelli, 21 anni, è stata uccisa per soffocamento da uno sconosciuto. Il cadavere ritrovato nelle cantine di uno stabile di via Granodelturco".

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 8

È mattina. Prima di lasciare Boulevard Jean-Pain, mi fermo a leggere distrattamente la scritta posta su un cartello o meglio su un manifesto murale, à coté de l'Hotel de Ville:
"Bonnes vacances et bienvenue à Grenoble qui vous accueille en toute liberté. Les vacances sont ces moments privilégiés où l'on se retrouve, où le corps se sent bien, où l'esprit est plus sensible à la beauté. Avant de quitter le massif alpin, faites un arrêt a Grenoble." Una firma in corsivo è posta sotto la dicitura: "Le Président du Syndacat d'Initiative".
Mi aggiro per le strade della città. Osservo una donna di mezza età con i capelli biondi seduta al tavolino di un caffé, che beve un bicchiere di Orangina. Poi mi fermo ad osservare la facciata barocca dell'edificio scolastico, il liceo internazionale intestato a Stendhal. Ho raggiunto il fiume, l'Isère, e rimango ad osservare dal parapetto l'acqua verde che scorre sotto. D'intorno, alzando lo sguardo in alto, contemplo lo splendore azzurro dei massicci montuosi della Belledonne e della Grande-Chartreuse. Cammino ancora e posso distinguere, stagliati controluce, i vagoncini dell'ovovia che conducono su in alto alla Bastille.
Ormai è passato mezzogiorno, l'ora dell'ombra più corta, e le strade sono quasi deserte. Sono colto nell'assolato meriggio da alcuni tocchi di campana. Poi, non so perché, ma penso di essere invisibile. Una famiglia di turisti, forse italiani… ehi Lafleur! Non li riconosci? Sono italiani. Sì, invero, ma quell'anziano signore che ho incrociato poc'anzi era francese o quanto meno tedesco, in ogni caso non italiano.
Osservo la famiglia che si muove nella piazza deserta e capisco che essi ignorano la mia presenza lì tra loro, perché appunto sono diventato invisibile, in quanto appartenente ad un altro mondo. Lui ha bermuda bianchi, larghi ai fianchi, una maglietta a manica corta rosa ed i capelli biondo castani, con la scriminatura a sinistra. Calza mocassini estivi. Dimostra meno dei suoi quarantacinque anni. Lei ha capelli neri ed un colorito leggermente olivastro, gli occhi scuri, ed è piena nelle forme del corpo, rivelando così tratti tipicamente mediterranei. Avrà quarant'anni. Sta richiamando il marito che si accinge a bere dalla fontanella e gli porge una bottiglia di plastica. Il figlio maggiore ha una maglietta bianca a righe verdi e pantaloni lunghi chiari.
È quasi alto quanto la madre, potrà avere dodici o tredici anni. Il figlio piccolo, di sette otto anni, avanza con l'aria crucciata. Indossa una salopette celeste ed una maglia marroncino con le maniche arrotolate. Ha entrambe le mani in tasca. Tutte e due i ragazzi, soprattutto nella pettinatura dei capelli, assomigliano al padre.
Mi rendo conto che se parlano io non riesco a sentire che cosa dicono. In verità le immagini mi scorrono davanti nella quiete del pomeriggio senza suoni. Ecco perché avevo il dubbio se fossero italiani. Vivo in un altro mondo.
Mi avvicino anch'io alla fontana, al centro della piazza e con lo sfondo della facciata di una chiesa di stile romanico. La fontana è posta su un basamento quadrangolare, che sorregge una scultura dedicata all'assemblea rivoluzionaria di Vizille. Giro intorno e sulle tre facce della base quadrangolare leggo le tre parole fondamentali della Rivoluzione francese: Liberté, Egalité, Fraternité. Incuriosito, vado a leggere la quarta parola incisa: Justice.
Ora la donna italiana, dopo aver riempito d'acqua un bicchiere di plastica dalla fontanella, lo porge al bambino piccolo. Lascio la piazza e mi ritrovo in rue Lafayette. Noto nell'angolo in fondo alla strada l'insegna di una pizzeria con un distintivo verde bianco e rosso.
Infine sono arrivato alla Gare ed ora sono in attesa del treno per Chambery e Modane. Su una banchina, un personaggio inquietante, un uomo anziano in divisa bianca da marinaio, è salito poco fa su un treno diretto a Barcellona.
Quindi, io, Lafleur, dopo la breve vacanza nel Delfinato, rientro in Italia.

Silvio Minieri ha detto...

Il treno è giunto alla Stazione di Porta Susa. Scendo. Raggiungo a piedi piazza Castello. Cerco un ristorante e ne trovo uno all'aperto in piazza Carignano.
Quando la giovane cameriera, in gonna nera e camicia bianca, mi porta come aperitivo un bicchiere di vino spumante bianco secco, riordino le mie idee. Sfilo dalla borsa i documenti di Anna Reggiani, che a Roma Olga Petrovna mi aveva consegnato nel corso del nostro secondo incontro al Gianicolo e di cui mi aveva parlato, qualche giorno prima, Eugenio Lisi. Esamino le carte.
Quei documenti, consistenti in uno scritto di Brizi su un sogno da lui compiuto e la susseguente analisi, che gli rivela il suo innamoramento radicale, erano stati protocollati e fotocopiati. Perché? Penso un attimo alla storia dell'uomo camuffato, all'ambiente di provincia in cui si è sviluppata, alla autorità del Governatore della provincia, Iorio, di cui Lisi mi aveva detto che, dopo quella storia, aveva fatto carriera, con un importante incarico ricevuto al Ministero dell'Interno, Capo dei Servizi Informativi per la Sicurezza Nazionale.
Leggendo con attenzione il testo, noto come sia lui che il genero vengono citati direttamente; eppure, penso che non sia stato il Capo del SINS l'ispiratore della burocratizzazione ministeriale di quel documento di carattere essenzialmente privato. Uno zelante subalterno, per piaggeria, avrà investito dell'affare il suo superiore e questi avrà disposto di restituire le carte al legittimo destinatario. Rifletto che mi può essere utile, per meglio conoscere i risvolti della storia dell'uomo camuffato e dei suoi protagonisti, chiedere di essere ricevuto a casa dei coniugi Iorio Colunno, che risiedono qui a Torino. Non appena avrò sbrigato il mio piccolo affare a Roma, sarò di ritorno per compiere la visita. Ma un altro motivo, più nascosto nel mio cuore, mi invita a tornare in questa città: il velato impegno con Gabriella Finari. Non so che il mio ritorno avverrà dopo molti mesi e dopo inimmaginabili (ma proprio tali!) vicissitudini o meglio credo di non saperlo, io, il Lafleur seduto lì al ristorante.
Intanto sgombero il ripiano del tavolino dalle carte e le ripongo nella borsa. Alzo la testa e vedo la sorridente cameriera, che mi porge il piatto di tagliatelle con sugo alla bolognese da me ordinato. Ripenso alla frase detta a pranzo da Lisi, qualche giorno prima, quando mi aveva mostrato la fotografia a colori di Anna Reggiani, formato 8x12: "In fondo questa fotografia e le carte parlano della storia d'amore tra Anna e il defunto Consigliere ministeriale di polizia Ermanno Brizi".
Ebbene di quelle carte, a me esperto di Scienze della psiche e non di Scienze di polizia, aveva colpito il particolare non tanto che fossero state fotocopiate e studiate per inutili investigazioni, ma che le fotocopie erano state così disinvoltamente consegnate all'interessato, a rivelargli senza complimenti che scritti privati e di carattere così intimo fossero stati convertiti in una fredda pratica burocratica.
Certo, alla poliziotta, tutto quello spiare, seppure a suo danno, non doveva aver provocato la minima emozione, semmai un fondo di rassegnata irritazione, di fronte a procedure da lei ben conosciute. Ma soprattutto, Lafleur, alla ragazza non deve essere importato nulla di eventuali irrilevanti manipolazioni formali: era il sostanziale contenuto di tale documentazione che le stava a cuore. E quanto!
Quale sconvolgimento deve avere provato alla lettura del testo? Forse, per un istante immane ed infinito, il cuore deve avere smesso di pulsare, per poi riprendere a battere in maniera furiosa, dopo quella sospensione senza tempo. Immagino lei sopraffatta dall'emozione e poi con la ritrovata calma il sopraggiungere della repentina caduta senza fondo nel vuoto di un indicibile rimpianto.

Silvio Minieri ha detto...

Ebbene, penso io, Lafleur, che cosa sarà importato, signori miei, a questa giovane donna infelice e sfortunata, che un grigio ed oscuro funzionario ministeriale, per chissà quale incarico ed in quale forma ricevuto, era venuto a conoscenza dei suoi segreti, studiati con burocratica pedanteria? Che cosa volete che importasse ad Anna Reggiani che i suoi amori fossero stati spiati, derisi, perseguitati, calpestati, negati, alla maniera prevertiana? Se avesse potuto, avrebbe gridato in faccia al mondo intero il suo immenso, inestinguibile amore.
Ora mi sono passato la mano destra sulla fronte ed abbandonando pensieri ed immagini mi guardo intorno. Penso di capire che forse tutte queste mie ultime accese fantasie, queste mie esaltate elucubrazioni, questa mia interiore ribellione, suscitata dalla lettura della documentazione degli estinti amori di un consigliere ministeriale, devono essere effetto del vino bevuto o di altre passioni che mi attraversano l'anima.
Che accade? Sono qui, in piazza Carignano, a Torino, in una sera ancora estiva, seduto a cenare ai tavolini di un ristorante all'aperto, inseguendo lontane avventure e storie d'amore tra due personaggi defunti da oltre un decennio. Inseguo ombre, Lafleur, fantasmi. Il mio aspetto deve tradire il mio stato d'animo lugubre. Inseguo ombre e da ombre sono inseguito, ombre del passato: NON MI LASCIARE LAFLEUR! FIGLIO DI CANE! Ombre del presente: ALEXANDRA!
Guardo in alto verso il cielo notturno e vengo colpito da un benefico e provvidenziale soffio di vento; ora mi sento più leggero. Quindi, non capisco come, ma ho la sensazione di librarmi in alto, nel vasto buio del cielo, dove scintillano i tremolanti infiniti punti d'oro: via dalle fradice sozzure, via dagli umori nefasti, via dai lezzi e dagli scarti, via!
Ma è un attimo soltanto. Riabbasso lo sguardo e non mi accorgo della giovane, che mi serve. I miei gesti ora sono automatici. Fisso il vuoto. Sono molto triste. Ombre e fantasmi mi vengono incontro e svaniscono nel buio. Vado oltre, avanzando nell’incerta luce lunare, viandante nella notte, in cammino verso più occulti ed impenetrati sentieri.
Ho pagato il conto con una banconota di grosso taglio. Mi alzo e mi allontano. La ragazza m'insegue, parla, indica il piattino, che stringe tra le mani. "Che cosa?" dico. L'altra risponde. Non capisco. Vado via.
Ho imboccato via Lagrange in direzione di Porta Nuova. Cammino nelle strade illuminate della sera e dal portico sbuco in corso Vittorio Emanuele, di fronte alla maestosa facciata della stazione ferroviaria. Alzo in alto lo sguardo: sul quadrante del grande orologio a muro le lancette segnano le ventidue e quaranta.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 9

Ebbene, penso io, Lafleur, che cosa sarà importato, signori miei, a questa giovane donna infelice e sfortunata, che un grigio ed oscuro funzionario ministeriale, per chissà quale incarico ed in quale forma ricevuto, era venuto a conoscenza dei suoi segreti, studiati con burocratica pedanteria? Che cosa volete che importasse ad Anna Reggiani che i suoi amori fossero stati spiati, derisi, perseguitati, calpestati, negati, alla maniera prevertiana? Se avesse potuto, avrebbe gridato in faccia al mondo intero il suo immenso, inestinguibile amore.
Ora mi sono passato la mano destra sulla fronte ed abbandonando pensieri ed immagini mi guardo intorno. Penso di capire che forse tutte queste mie ultime accese fantasie, queste mie esaltate elucubrazioni, questa mia interiore ribellione, suscitata dalla lettura della documentazione degli estinti amori di un consigliere ministeriale, devono essere effetto del vino bevuto o di altre passioni che mi attraversano l'anima.
Che accade? Sono qui, in piazza Carignano, a Torino, in una sera ancora estiva, seduto a cenare ai tavolini di un ristorante all'aperto, inseguendo lontane avventure e storie d'amore tra due personaggi defunti da oltre un decennio. Inseguo ombre, Lafleur, fantasmi. Il mio aspetto deve tradire il mio stato d'animo lugubre. Inseguo ombre e da ombre sono inseguito, ombre del passato: NON MI LASCIARE LAFLEUR! FIGLIO DI CANE! Ombre del presente: ALEXANDRA!
Guardo in alto verso il cielo notturno e vengo colpito da un benefico e provvidenziale soffio di vento; ora mi sento più leggero. Quindi, non capisco come, ma ho la sensazione di librarmi in alto, nel vasto buio del cielo, dove scintillano i tremolanti infiniti punti d'oro: via dalle fradice sozzure, via dagli umori nefasti, via dai lezzi e dagli scarti, via!
Ma è un attimo soltanto. Riabbasso lo sguardo e non mi accorgo della giovane, che mi serve. I miei gesti ora sono automatici. Fisso il vuoto. Sono molto triste. Ombre e fantasmi mi vengono incontro e svaniscono nel buio. Vado oltre, avanzando nell’incerta luce lunare, viandante nella notte, in cammino verso più occulti ed impenetrati sentieri.
Ho pagato il conto con una banconota di grosso taglio. Mi alzo e mi allontano. La ragazza m'insegue, parla, indica il piattino, che stringe tra le mani. "Che cosa?" dico. L'altra risponde. Non capisco. Vado via.
Ho imboccato via Lagrange in direzione di Porta Nuova. Cammino nelle strade illuminate della sera e dal portico sbuco in corso Vittorio Emanuele, di fronte alla maestosa facciata della stazione ferroviaria. Alzo in alto lo sguardo: sul quadrante del grande orologio a muro le lancette segnano le ventidue e quaranta.

Silvio Minieri ha detto...

In passato, leggendo "Introduzione alla metafisica" di Heidegger, mi ero imbattuto nella frase: "Nessuno può saltare oltre la propria ombra". In quella occasione, mi era subito tornato alla mente il passo finale di "Schatten im Paradies" di Enrique Marie Remarque, quando il protagonista racconta dei suoi ultimi giorni di esilio in America, prima di tornare in Europa, alla fine della Seconda guerra mondiale: "... ma ogni volta mi ripetevo che non si sarebbe arrivati a nulla. Non potevo scavalcare con un salto l'ombra che accompagnava la mia vita e mi andavo dicendo che era meglio lasciare una cosa sepolta com'era piuttosto che continuare a ferirsi...". Avevo annotato: Remark, anagrammando in maniera più fedele il vero nome dello scrittore, Erich Maria Kramer.
Da Heidegger ero facilmente risalito a Nietzsche e da quest'ultimo ovviamente a Schopenhauer, suggeritore delle espressioni nietzschiane dell'eterno ritorno, del grande meriggio e della volontà di potenza, secondo le mie annotazioni.
Intanto chiudo il libro di filosofia, che ripongo sul comodino, da cui prendo una rivista mensile. E' il numero di ottobre del 1986. Tratta argomenti di moda femminile, salute, bellezza ed arredamento casa.
Sfoglio le prime pagine e mi soffermo a guardare la fotografia in bianco e nero nel riquadro piccolo in cima alle due colonne di stampa dell'articolo e sotto il titolo, che raffigura il volto di Anna Reggiani, cronista autrice del servizio. E' la stessa immagine della fotografia a colori, formato otto per dodici, che Lisi mi aveva mostrato e che raffigurava a mezzo busto la giovane donna bionda e dagli occhi marrone. Sento uno scossone ed avverto la spinta di partenza della carrozza ferroviaria. Il treno si muove lentamente, ma si ferma subito.
Poso la rivista sul comodino e, sollevando il lembo di una tendina, guardo attraverso il finestrino le pensiline illuminate e le colonne e banchine dei binari di destra della stazione. Sono le undici e quattro minuti. Poi l'ultimo sbattere di porte ed il fischio di partenza. Lentamente il convoglio riprende a muoversi e quindi progressivamente comincia ad aumentare la velocità. Uscendo dalla stazione, le luci si allontanano rapide. Abbasso la tendina e spengo la lampada.
Rigiro il cuscino dalla parte fresca, lo tiro giù e m'infilo supino sotto le lenzuola, col braccio destro sopra la testa. Il treno accelera e sento alcuni scossoni sugli scambi dei binari. Poi l'andatura diventa costante ed il treno corre nella notte. Stiamo entrando in una zona buia. In alto e d'intorno una luce rossastra, quasi un riverbero di fiamme. Vedo la maestosa figura indossante un ottocentesco vestito nero muoversi in direzione della massa più scura al centro. La capigliatura fulva gli corona la testa. Scivola lentamente in avanti rigido sulle acque nere e poi si arresta.
Apro gli occhi. Mi volto nel letto per prendere sonno. Poi mi rendo conto che il treno è fermo. Sento un rumore di passi e voci all'esterno. Tiro indietro una tendina del finestrino e lo scompartimento viene illuminato dalla luce bianca della stazione centrale di Milano. Guardo la cupola vetrata. Una donna con la valigia ha raggiunto la porta della carrozza ferroviaria attaccata al vagone letto ed è salita sul treno.

Silvio Minieri ha detto...

Richiudo la tendina. Nel buio il convoglio è ancora fermo. Dall'esterno non giungono rumori. Chiudo gli occhi. Dormo.
Sento bussare alla porta, più volte. Nel dormiveglia mi accorgo del buio dello scompartimento. Aprendo gli occhi, distinguo la sagoma della porta. La voce del conduttore mi dice che sono le cinque e che tra poco saremo a Mestre. Finisco di svegliarmi completamente. Il treno viaggia veloce.
Alle cinque e dieci il convoglio rallenta ed entra nella stazione di Mestre, poi si ferma. Scendo assonnato. E' ancora buio. Ho comperato dei giornali ed esco fuori in istrada in cerca di un bar aperto. Ripenso al sogno: l'immagine principale è il dipinto di Bocklin, raffigurato sulla copertina del libro di Schopenhauer. Ho una strana sensazione, come se gli ultimi avvenimenti di questi giorni stiano svanendo con le ombre della notte, che si va schiarendo. Per la strada non vi sono luci.
Alle cinque e quaranta, rientro e vedo il locale del bar illuminato. Sono indeciso, ma non voglio perdere tempo, nel caso la macchina dell'espresso debba ancora essere riscaldata. Torno al binario e salgo sul treno in sosta. Nello scompartimento si presenta il conduttore e mi offre il caffè in un bicchiere di carta. E' compreso nel servizio del vagone letto.
Ormai si è fatto chiaro. Il treno è partito e, mentre attraversiamo il lungo viadotto, posso con calma osservare l'azzurro dell'acqua della laguna. Prima delle sei entriamo nella stazione di Santa Lucia. Quando il treno si ferma, apro lo sportello, scendo e mi avvio sulla banchina, mentre i raggi di un pallido sole mi colpiscono gli occhi, filtrando tra le colonne sotto la pensilina.
Scendo dal vaporetto a San Marco. Sotto il colonnato di Palazzo Ducale, un uomo parla da solo, agitandosi ogni tanto. Un passante si ferma per dargli l'elemosina. Sono seduto al suo fianco sul marmo della panchina e leggo i titoli dei giornali, sentendomi appesantito dal poco sonno.
Mi imbarco per il Lido, dove all'hotel "I gigli e le rose" è prevista la tre giorni del convegno: "Donna duemila. La presenza e l'immagine: il volto".
Sono seduto a prua ed il vento di questo fresco mattino d'inizio di settembre mi sveglia definitivamente.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 10

Domenica mattina, l'ultimo giorno del convegno, ho lasciato il Lido, dove nel pomeriggio era prevista una sfilata di modelle per un concorso di bellezza, a conclusione della manifestazione "Donna duemila".
Alla stazione di Santa Lucia ho preso il treno per Verona e di lì, nel primo pomeriggio, mi sono recato a Bardolino, per assistere ad una gara di triathlon. Ho visto i nuotatori tuffarsi e nuotare nelle acque del lago verso il sole. Sono riemersi e nel piccolo parco sono sfilati veloci sulle biciclette. Allora, confuso tra i capannelli di spettatori ed accompagnatori dei triathleti, mi sono disteso sull'erba ed ho chiuso gli occhi. Ho visto le dolci colline che circondano il lago e con la mente sono andato a qualche anno prima. Sono in bicicletta e dopo una breve salita, attraverso un falsopiano. La strada è deserta. Mi fermo davanti ad una villa. Scendo e vado a rinfrescarmi al getto d'acqua di una pompa, che una donna lì presente mi porge. Rimonto in sella ed accelero il ritmo delle pedalate. Affronto al massimo sforzo una salita lunga, ma con pendenza lieve. Giungo stremato alla sommità e vedo l'acqua azzurra del lago, in cui si riflettono i raggi dorati del sole inclinato sull'orizzonte. In uno sfolgorio di luce, mi sento sopraffatto dallo sforzo e gli occhi si riempiono di lacrime. Un'ultima spinta sui pedali e poi giù per i tornanti in discesa, verso l'acqua azzurra del lago, incontro al traguardo.
Apro gli occhi. La gara è quasi finita. Incoraggiati da ultimi divertiti spettatori, giungono sparuti i triathleti ritardatari. Abbandono il parco e prima che il sole tramonti, mi tuffo per una nuotata ristoratrice.
Passeggio per il lungolago. Guardo la distesa di acqua azzurra. Proprio sotto di me avanza, nuotando nell'acqua, un nutrito gruppetto di anatre. All'imbarcadero si è fermato un vaporetto che svolge servizio di linea tra i paesini lacustri. Quando si fa sera, mi siedo al tavolino di un ristorante all'aperto, ahimè molto affollato. Ma la lunga attesa è compensata dall'arrivo di una profumata trota arrostita, che mangio con gusto ed accompagno con alcuni calici di vino bianco freddo gradevolissimo.
Passeggio ancora dopo cena. Vedo molti giovani in giro e un folto gruppo staziona all'ingresso di una discoteca.
Nel buio rientro in albergo. La ragazza della reception, con i capelli ricci e neri e gli occhi scuri e la pelle bianchissima, m'interpella, con accento tedesco:
"Il signor Lafleur?"
"Sì?"
"Una telefonata!"
"Chi?"
"Sua moglie."
"Lì" dico e accenno con la testa alla cabina del telefono nella hall.
Con la testa fa cenno di sì.
Entro nella cabina telefonica e prendo il ricevitore. Compongo il numero.
"Pronto!"
"Sì?"
"E allora?"
"Sei tu?"
Vengo aggredito da una lunga fila d'ingiurie ed epiteti offensivi, che corrono veloci sul filo del telefono, tra Roma e Verona, pronunziati con veemenza da Gloria Sportelli, mia moglie separata.
"E chi vuoi che sia: io!" conclude.
"Ho inviato con ritardo l'assegno, perché sono impegnato con un lavoro. Riguarda una..." m'interrompo un attimo: se pronuncio un nome femminile, verrò sicuramente travolto e seppellito sotto una valanga d'improperi. Per Gloria Sportelli, Anna Reggiani altri non sarà che una donna di facili costumi, naturalmente amica mia. È morta dieci anni fa ed io non l'ho mai conosciuta? Allora è una donna che si accompagnava con chiunque, tanto per usare una metonimia, figura stilistica sconosciuta all'eloquio della Sportelli Gloria.

Silvio Minieri ha detto...

Allora dico:
"... riguarda la storia di un uomo camuffato."
Ma il riferimento all'uomo camuffato non mi risparmia una nuova sequela d'insulti e parolacce, che mi vengono rovesciate addosso con la disinvoltura di chi svuota un secchio d'acqua.
"Sei tu l'uomo camuffato!" conclude la voce inviperita dall'altro capo del filo del telefono.
Taccio.
Nel ricevitore non odo nulla per un attimo. Ma è un attimo soltanto. Sento un sospiro, seguito da una precisa minaccia:
"Se lunedì non ho i soldi, vado da..."
"No, aspetta. Lunedì, sono a Roma."
"Ah!" sento un sospiro di soddisfazione nel ricevitore.
"Lunedì devo presentarmi... "
Dall'altro capo non giunge una parola: silenzio.
"... alla polizia" dico.
"Ah!"
"Hanno ucciso Alexandra Pannoncelli!"
"Ah! E chi è? Una... "
"... la mia segretaria."
"Ah! "
"Devono interrogarmi, credo."
"Ah, sì!"
"È stata uccisa!"
"Ah!... Sei stato tu!"
"Ci vediamo lunedì, domani" dico in fretta e interrompo la comunicazione.
Se Gloria Sportelli afferma che io ho ucciso Alexandra Pannoncelli, allora io so di essere innocente, indipendentemente dal fatto se l'abbia uccisa o meno io. Comunque anche i poliziotti e i giudici si dovranno rendere conto, se la interrogano, che quella donna, mia moglie separata, è una mitomane, un'esaltata.
Esco mestamente dalla cabina telefonica. Sto considerando la mia disgraziata situazione esistenziale, che mi condanna ad un infelice rapporto coniugale con quella donna, premio strega di qualsiasi concorso matrimoniale.
Invece di salire in camera, mi dirigo verso l'uscita. La ragazza tedesca, che fa la cameriera in questo albergo italiano, qui sul lago di Garda, frequentato per la maggior parte da suoi connazionali, mi lancia un'occhiata. Poi si affaccia all'esterno, dopo essersi spostata sull'ingresso. Esco e nel sorpassarla, vedo che mi lancia una nuova occhiata.
Certo, una ragazza tedesca, giovane e graziosa, Fräulein, bitte.... ma poi diventa come quella italiana di Roma. Cambia il lessico delle contumelie: non più l'italo idioma, ma l'alemanno, più gutturale, anche se a sentirlo dalla voce gentile delle kellerine sher musicalish.

Silvio Minieri ha detto...

All'alba mi sono svegliato e da Bardolino, con un autobus di linea, ho raggiunto Verona. Poco dopo mezzogiorno sono a Roma Termini. Dalla banchina del treno ho raggiunto le biglietterie automatiche dell'atrio della stazione. Ho pensato all'uomo con gli occhiali d'oro e la barba bionda di Porta Susa e che mi era sembrato di riconoscere, mentre attraversavo quell'incrocio a Briançon. Ed allora ho capito che quello sconosciuto l'avevo incontrato la prima volta, e forse anche l'ultima, lì in quell'atrio, vicino a quei distributori automatici, alcune settimane prima. Mi aveva anche rivolto la parola. Era il tecnico di quelle macchinette, che aveva voluto spiegarmi il funzionamento dei congegni, notando la mia indecisione.
A Torino Porta Susa ed a Briançon la mia fantasia accesa aveva identificato quel tizio, di cui ora avevo un ricordo nitido, con sconosciuti a lui simili per caratteristiche fisiche. Qui, a Roma, mi rendevo conto che a Torino e in Francia dovevo essere sbalestrato, perché fuori del mio ambiente consueto.
Sorrido rasserenato ed esco in piazza dei Cinquecento, dove accanto ai taxi noto una volante della polizia: guardo incuriosito in quella direzione.
Una domanda, indubbiamente a me diretta, mi sorprende alle spalle: "Il signor Lafleur?"
Mi volto. Un giovane alto, indossante un impermeabile bianco, con la fronte spaziosa, ed invero di lui mi colpisce questo particolare, si è avvicinato e mi ha posto la domanda. Attende la risposta.
"Sì, sono io" dico.
Il giovane tira fuori da una tasca laterale della giacca una placca di riconoscimento con il numero di matricola.
"Sono l'Ispettore Tricesimo della polizia giudiziaria. Deve venire con noi. Il magistrato vuole interrogarla."
"Alexandra Pannoncelli, la mia segretaria" dico.
L'Ispettore fa cenno di sì col capo. Si avvicinano altri giovani, presumibilmente agenti di polizia in borghese. Andiamo assieme verso un'automobile nera. Saliamo tutti e partiamo. La volante con i colori della polizia ci segue.
Io, Lafleur, sono stato arrestato, perché accusato di omicidio nei confronti della giovane Alexandra Pannoncelli.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 11

A sorpresa, Gloria Sportelli non mi ha accusato. Al contrario, mi ha difeso. Addirittura ha rischiato di essere arrestata per falsa testimonianza. Ha raccontato che il giorno del delitto, quella domenica di fine agosto, doveva incontrarmi e per questo motivo è venuta, a prima mattina, a casa mia. Ha riferito di avermi assediato per tutta la mattinata, restando fuori la porta, che io ostinatamente mi rifiutavo di aprire. Verso mezzogiorno, era scesa ed era rimasta davanti al portone, mangiando in macchina biscotti. Era di nuovo salita su ed aveva tempestato di pugni la mia porta di casa, che era rimasta pure danneggiata. Si poteva controllare! Inoltre voleva entrare, anche perché aveva sete. Non ho fatto entrare la moglie legittima in casa! Neppure per farla bere! Allora lei è scesa ed è andata in cerca di un bar aperto, ma non l'ha trovato. Poi ad una fontanella ha riempito una bottiglia d'acqua e quindi, dopo soltanto una mezz'ora, è tornata davanti alla mia porta di casa. Sentiva benissimo che io ero dentro, perché mettevo dei mobili davanti alla porta, nel timore che questa cedesse.
"Ed in quella mezz'ora, volete che lui, il Lafleur, da casa all'Appio sia andato sino al Flaminio e, commesso il delitto, sia tornato! Ma neppure con la città deserta, com'era Roma in quella domenica d'agosto, questo era possibile!
Ho bussato tutto il giorno, ma lui non ha aperto la porta e io, quando si è fatto sera, sono venuta via. Era molto tardi. Era notte. Quello, in casa, si era addormentato, perché ormai non mi sentiva più.
Vedete, io ero andata da quel disgraziato, perché lui mi doveva l'assegno mensile, quello che mi serve per vivere. La legge gl'impone l'obbligo. Capite? È un obbligo di legge."
Ma quest'obbligo di legge, su cui Gloria Sportelli ha a lungo insistito, non ne ha impedito l'incriminazione per falsa testimonianza. Alla fine la donna è stata considerata, com'era naturale che accadesse ad un soggetto del genere, teste inattendibile e fantasioso.
In verità, l'episodio riferito da quella donna era realmente accaduto: soltanto si era verificato il mese prima. E inoltre non era durato neppure dieci minuti e si era concluso, quando sono uscito precipitosamente da sotto la doccia, per correre ad aprire, non appena ho udito i colpi ripetuti e violenti. E i segni del danneggiamento erano ancora visibili. Gli inquirenti hanno anche compiuto un sopralluogo, per accertare il particolare. Ma quella prova non è bastata.
Sono rimasto in carcere sette mesi. Alla fine il giudice, che mi ha interrogato, ha concluso:
"Quindi lei, Lafleur, mentre Alexandra Pannoncelli veniva assassinata, dormiva?"
"Sì, signora" ho risposto.
La donna giudice, una signora quarantenne, elegante nell'abbigliamento e curata nella persona, mi ha fissato per lunghi istanti, poi ha detto:
"Firmi qui, Lafleur."
Ho firmato il verbale, composto dai quattro fogli dell'interrogatorio, prima in basso a destra e poi sul margine sinistro a lato, ogni foglio. Il segretario ha raccolto le carte ed entrambi, accompagnati dall'agente di polizia penitenziaria, hanno lasciato la saletta, mentre io rientravo in cella sotto scorta.

Silvio Minieri ha detto...

Non sono stato creduto e paradossalmente, paradosso della giustizia, non paradosso di Lafleur, sono finito a giudizio per omicidio in concorso con Carpinieri, che in un primo tempo contumace è stato poi catturato e condotto al processo in stato di detenzione. Io, invece, in aula sono comparso libero. Il dibattimento si è tenuto a distanza di un anno dal mio arresto.
L'arringa del mio avvocato è stata convincente.
"Signori, l'imputato Lafleur è innocente. Perché? Voi mi domanderete. È molto facile rispondere a questa domanda. Esaminiamo insieme la versione dei fatti, subito resa alla polizia giudiziaria dal mio cliente e poi confermata ai giudici e mai ritrattata. Ebbene che cosa racconta? Racconta di essersi recato la mattina del delitto in via Granodelturco, nel suo ufficio, dove era impegnato a compilare una relazione per la Pulchra Service spa, la società di cosmetici con cui aveva stipulato un contratto come consulente. Lavora quel mattino in un ufficio deserto di un palazzo deserto in una città deserta. In quel silenzio, ode dei rumori: allora si alza, va alla finestra e giù nella strada nota un'automobile nera lì ferma. I rumori si fanno più distinti. Si volta e sulla soglia dell'ufficio appare Alexandra. Che fa il Lafleur?
Leggiamo i verbali dei suoi interrogatori: sono tutti sostanzialmente uguali. Quando la ragazza si è presentata, che ore erano? Le undici circa, senz'altro prima delle undici. E l'imputato non nasconde nulla dell'incontro imprevisto con la sua giovane segretaria, da lui da poco assunta. 'Sono rimasto meravigliato ed anche leggermente turbato dall'abbigliamento succinto della giovane, che era in tenuta più che altro da spiaggia.' Il Lafleur non ha nessuna difficoltà ad ammettere questa circostanza e la sua reazione emotiva. Anche la giovane è rimasta sorpresa nel vederlo e scusandosi si ritrae subito, ma lui la richiama. La giovane entra e, trattenendosi sulla soglia, spiega la sua presenza imprevista in quel luogo, nel giorno festivo: recandosi al mare, è passata in ufficio per prendere la radio. E qui spontaneo sorge un interrogativo: quell'incontro in ufficio è un caso, così come lo sto descrivendo io, ripetendo la versione dell'imputato Lafleur o il risultato di un indiretto appuntamento, conoscendo la ragazza le abitudini del suo datore di lavoro? Il giudice che ha istruito il processo scrive: 'Noi non sappiamo se quell'incontro sia stato programmato o sia da ascrivere ad un caso ovvero sapientemente provocato dalla giovane segretaria che conosceva le abitudini del suo capo ufficio. Noi non lo sappiamo, ma sappiamo soltanto che quell'incontro c'è stato. Bisogna attenersi a questo fatto.' Ebbene, signori giurati, come l'accusa anch'io mi attengo ai fatti e quindi dico: l'incontro c'è stato. Ma... ma... oltre il Lafleur, soltanto la povera morta avrebbe potuto riferire dell'incontro. Ed io pongo la domanda: ma vi sembra proprio possibile che un colpevole, in assenza di testimoni, avrebbe spontaneamente riferito questa così compromettente circostanza? Non avrebbe potuto concordare un comodo alibi con la moglie? Non dimentichiamo che la donna, sebbene separata ed in conflitto acerrimo con il marito, un tale alibi gli ha offerto. Ma il giudice dell'istruttoria preliminare dice: 'Ci sono le intercettazioni telefoniche che lo avrebbero smentito.' E proprio quelle, dico io, riflettono la sua innocenza! Ecco il testo, dunque.

Silvio Minieri ha detto...

S.: - Pronto?
L.: - Sì?
S.: - E allora?
L.: - Sei tu?
S.: - ... serie d'ingiurie irripetibili... e chi vuoi che sia? Io!
L.: - Ho inviato con ritardo l'assegno, perché sono impegnato con un lavoro. Riguarda una... pausa... riguarda la storia di un uomo camuffato.
S.: - ... serie d'ingiurie irripetibili... sei tu l'uomo camuffato!
L.: - ... silenzio...
S.: - Se lunedì non ricevo i soldi, vado da...
L.: - No, aspetta! Lunedì sono a Roma.
S.: - Ah!...
L.: - ... silenzio... lunedì devo presentarmi...
S.: - ...silenzio...
L.: - ... alla polizia.
S.: - Ah!
L.: - Hanno ucciso Alexandra Pannoncelli!
S.: - Ah! E chi è? Una...
L.: - ... la mia segretaria
S.: - Ah, sì!
L.: - È stata uccisa!
S.: - Ah... sei stato tu!
L.: - Ci vediamo lunedì, domani... aggancia.
Orbene, signori, ci vuole molta fantasia per interpretare questa telefonata come una prova di colpevolezza! E questa buona dose di fantasia all'accusa non manca.
Leggiamo: "Non si può non riconoscere che la telefonata intercorsa tra l'imputato Lafleur e la moglie, dopo il delitto, ed intercettata dalla polizia giudiziaria sia una prova di colpevolezza del citato Lafleur. Seguiamo le battute del dialogo: S.:- Pronto! L.:- Sì? S.:- E allora? L.:- Sei tu? Il Lafleur non risponde, ma assume un atteggiamento guardingo, provocando una reazione della moglie, che sospetta la verità e non riesce a capire le reticenze del marito nel parlare più chiaro. Ecco perché sbotta in una serie d'insulti, dando sfogo al suo carattere irruento. Possiamo non condividerne la forma, ma comprendiamo il perché. Il Lafleur allora cambia discorso e parla dei suoi obblighi alimentari, che con scarso senso della legalità non ha rispettato, ma subito dopo tradisce la sua preoccupazione principale: L:- ... Perché sono impegnato con un lavoro. Riguarda una... Qui, il soggetto compie una pausa, è indeciso se continuare, teme di tradirsi. E allora? Allora tira fuori una storiella, la prima che gli viene in mente, l'uomo camuffato. Di fronte a questa burla, la moglie giustamente s'infuria e prorompe istintivamente in una sequela d'insulti.
Ma lo scrupolo professionale ci ha spinto ad investigare anche sull'allusione a questa storia dell'uomo camuffato. È un romanzetto giallo di un certo Eugenio Lisi, giornalista, uno di quegli autori dei così detti romanzi verità, come dire cronache romanzate, in cui si raccontano un cumulo di fantasie. Il libro è stato allegato agli atti: il protagonista è un assassino "mascherato", che commette una serie di delitti.

Silvio Minieri ha detto...

La moglie di Lafleur, che ben conosce il suo uomo (e chi meglio di lei?), "smaschera" il colpevole: - Sei tu l'uomo camuffato! L'assassino vuol dire. E invero il marito, di fronte ad un'accusa gridata in maniera così chiara ed inequivocabile, inorridisce e tace. È senza scampo, perché la moglie lo incalza e minaccia la denuncia: - Se lunedì non ricevo i soldi, vado da... Da chi? Alla polizia, naturalmente! Lui la implora: - No, aspetta. Lei lo tiene sulla corda e lui pensa di imbrigliarla, manifestando ambiguamente l'intenzione di presentarsi egli stesso alla polizia. Gioca d'anticipo, ma il gioco non riesce. Deve spiegarsi e parla dell'omicidio, scatenando i facili sarcasmi della moglie, con cui goffamente tenta di far passare una versione di fatti, che attribuisce a soggetti impersonali e innominati la responsabilità del delitto. Ma la donna ribatte il tentativo, come dimostrano le battute finali del dialogo: L.: - È stata uccisa! S.: - Sei stato tu! Di fronte all'accusa diretta ed inequivocabile, il colpevole si appresta a chiudere in fretta la comunicazione, non prima di aver lanciato un ultimo approccio d'intesa: - Ci vediamo lunedì, domani... ed aggancia subito, per non dare modo a lei di ribattere. Non riuscirà nel suo intento, perché all'indomani, mentre si accinge a recarsi dalla consorte, viene intercettato dalla polizia giudiziaria ed arrestato."
Il mio avvocato compie una pausa e poi conclude con una battuta questa parte dell'arringa: "Acta est fabula!"
Ma il colpo ad effetto, posto a sigillo della versione dell'accusa - il racconto fantastico è terminato e quindi passiamo ad esaminare la realtà - e, ad un tempo, prodromo della versione della difesa, non mi scuote dal torpore. Continuo ad ascoltare quello che l'illustre giurista viene esponendo sui fatti, ma vago lontano, molto lontano e da quella lontananza lancio il mio sguardo, lo sguardo di Lafleur, verso quel remoto trono di giustizia, che dalla sua distanza irraggiungibile mi rimanda l'immagine della figura nero togata, dal volto imperscrutabile, assisa su quel trono, contro cui si è infranta la mia convinzione dell'inattendibilità processuale di Gloria Sportelli. Il ritornello delle "porte Scee" comincia a mulinare nella mia mente. Intanto, il mio difensore continua la sua arringa:
"Ebbene, contro questa interpretazione fantastica ed irreale del colloquio telefonico tra il mio assistito e la moglie separata, noi opponiamo una più semplice e quotidiana verità.
La sera prima del ritorno, da fuori Roma, Lafleur telefona alla moglie, che lo aveva cercato, per reclamare verosimilmente il suo assegno alimentare mensile, come si desume dall'inizio del dialogo tra i due. Quindi l'uomo riferisce delle sue difficoltà di lavoro e del momento d'impaccio che attraversa, a causa dell'assassinio della sua giovane collaboratrice; dalla donna però ottiene in risposta solo sarcasmi ed insulti, dovuti a quella insofferenza di carattere, che senz'altro ha condotto alla rottura tra i due.
È attendibile una testimone del genere? È attendibile una donna, che interrogata dal giudice investigatore riferisce il falso, per fornire un tardivo alibi al marito? Perché assume questo comportamento apparentemente contraddittorio? E soprattutto perché alla fine tace, subendo l'incriminazione per falsa testimonianza?"
Il giurista inizia a rispondere con logica stringente agli interrogativi posti, ma la mia mente vaga lontano, mentre l'ombra appena accennata di un sorriso, il sorriso di Lafleur, sembra disegnarsi sul mio volto. È l'intermezzo degli dèi di Franz Werfel, ma non sono sul Bosforo.
Ed allora, Lefleur, dove sono? Molto più in alto del Giorno! Forse in una sfera di pura Necessità! Forse. Un cielo inaccessibile ai mortali.

Silvio Minieri ha detto...

[N. d. B.]
Il richiamo alle Porte Scee si riferisce al capitolo primo, dove viene citata una frase dello scrittore Franz Werfel, tratta dal suo romanzo: "Il quaranta giorni del Mussa Dagh".

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 12

La Corte di giustizia, i due giudici nero togati, seguiti in fila indiana dai sei giurati con le fasce tricolori ad armacollo, si ritira in camera di consiglio. Quanto tempo costoro resteranno chiusi lì dentro? Il tempo, ma poi conta il tempo, Lafleur?
Ripenso alla vecchina, alla testimonianza della vecchina in nero. Un teste balzato su a sorpresa nel dibattimento. Un coniglio bianco estratto dal cilindro nero dell'accusa, un coniglio sorprendente, sorprendentemente bianco, bianco di purezza e puro di libertà, libertà per Lafleur. Fissava me la teste nerovestita, mi ha fissato a lungo. E ho pensato che preferisse guardare me, per non guardare l'altro, l'imputato in gabbia, la cui posizione processuale veniva ad aggravarsi sempre più con la sua testimonianza, irrimediabilmente. Ma poi ho pensato che no, che una vecchina così proprio nulla temeva, la vecchina in nero così testarda, così precisa. Sì, ricordava bene la grossa automobile nera, parcheggiata lì, domenica 24 agosto, in via Granodelturco, quasi all'angolo con piazzale Flaminio, nella strada deserta, alle undici circa del mattino. Non l'aveva vista arrivare, ma ricordava bene di avere notato, dopo un po', un giovane scendere dall'autovettura ed entrare nel portone.
"E quando l'ha visto uscire?" ha interrogato il presidente della Corte di giustizia.
"Ero affaccendata in casa."
"Quindi, non l'ha visto uscire?"
"No, quando sono tornata a guardare in istrada, sarà stato mezzogiorno, l'automobile non c'era più."
Il vuoto di almeno un'ora per un delitto. Può bastare, Lafleur! Molto meno, molto meno, Lafleur!
"È l'imputato che lei vede in aula, trattenuto dietro le sbarre?"
"Sì, signor giudice!"
"Lo riconosce?"
La teste si è voltata verso la gabbia ed ha fissato a lungo il giovane, in silenzio. Carpinieri ha ricambiato lo sguardo per tutto il tempo, durante il quale l'altra lo ha fissato. Aveva un'espressione più che altro imbronciata, l'imputato detenuto.
Poi lei si è rivolta di nuovo verso lo scranno, dov'era assiso il presidente della Corte di giustizia.
"Sì, signor giudice, lo riconosco: è lui!" ha pronunciato con voce ferma.
Quando si è alzata, alla fine della deposizione, la teste minuta nero vestita è passata dinanzi alla gabbia ed ha fissato Carpinieri. Poi si è allontanata.

Silvio Minieri ha detto...

Vi è odore di chiuso in quest'aula di giustizia. Vado a ripescare nelle immagini del passato e ripenso a quel giorno in cui sono andato al mare, l'anno scorso, al Circeo: il giorno in cui leggevo gli appunti di Anna Reggiani sulla "Metafisica" di Aristotele, che Olga Petrovna sapientemente mi aveva trasmesso. Era luglio? o ancora giugno? "... anche colui che possiede la conoscenza degli esseri in quanto esseri deve poter dire quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo." Così diceva Aristotele. Ma non diceva così anche Platone? Ora mi domando, in questa grigia aula di giustizia, in attesa del verdetto di un processo, che mi vede imputato, in stato di libertà, di omicidio, omicidio passionale di una ragazza ventunenne, Alexandra Pannoncelli, ed accusato in concorso con certo Luigi Carpinieri, detenuto. Diceva dunque anche Platone del "filosofo", ma dove? Nel Sophista, naturalmente: "Questa scienza, dunque, Teeto, come la chiameremo? Per Zeus! Senza rendercene conto, ci siamo forse imbattuti nella scienza degli uomini liberi, e rischiamo, mentre stiamo cercando il sofista, di avere trovato prima il filosofo?" (253c) E più avanti è più chiaro: "Il filosofo, invece, attraverso i suoi ragionamenti sempre vincolato all'Idea dell'ente, non è per niente facile da vedere, viceversa, a causa dello splendore del luogo." (254a) "... sempre vincolato all'Idea dell'ente", dunque. E parlando della filosofia, il nostro, lo Stagirita, non diceva: "... questa è la scienza prima"? E così anche Platone, Aristocle dalle larghe spalle, fratello di Glaucone e di chi più? Ah, sì, fratello di Adimanto (e di Potone, la sorella, il cui figlio Speusippo successe allo zio nella direzione dell'Accademia) e figlio di Aristone e Perittione, la quale ultima discendeva in linea diretta da Solone. Platone, dunque. Dove egli dice dell'episteme la più importante? Nel Sophista, naturalmente: "Certo che occorre una episteme, e la più grande, anche!" (253c). Questa episteme è la dialettica (dialectiché).
Ma perché Aristotele? Perché Platone? Perché ora, qui, in quest'aula bigia? In questa contingenza così materiata dello spirito? Perché, Lafleur? Associa, dunque, le idee... Platone, Aristotele, Olga Petrovna... associa! E come? Ricorda!
Era uno dei primi giorni di aprile. Aspettavo la scarcerazione, che il mio avvocato mi aveva preannunciato imminente, quando inopinatamente mi colse la notizia di una visita. Nei miei sette mesi ed oltre di detenzione nessuno era mai venuto a cercarmi, all'infuori di persone che non fossero il giudice o il mio avvocato. Seguo l'agente di polizia penitenziaria, che avanza con passo pesante nei lunghi e tetri corridoi. Porte di metallo e cancelli, che egli apre e poi chiude alle mie spalle, stridono nel silenzio della galera. L'agente di polizia penitenziaria ha i capelli ricci nero scuri, che contrastano con la divisa grigio chiara, l'abbozzo di un sorriso all'angolo della bocca. Perché abbozza un sorriso? Mi precede nel cammino ed incontra la giunonica signora lungo vestita con ampia tunica pieghettata azzurra, un fiore dai petali lividi tra le mani. Sorride in silenzio al suo collaboratore la signora, direttore del carcere. Risponde con un cenno il giovane agente al suo superiore. Ecco a chi sorride! Continua ad avanzare, con passo pesante, uniforme, fuori nel cortile e poi di nuovo nel corridoio che conduce alla sala dei colloqui ed io, Lafleur, dietro di lui, attraverso la successione dei cancelli e delle porte di ferro sbattute, col risuono metallico di chiavi e chiavistelli. Siamo entrati nella sala vuota ed il giovane agente nero riccioluto si sposta ed io, Lafleur, distinguo, ferma dall'altra parte della stanza, dritta, in piedi, in attesa, la figura alta e sottile, che riconosco, di Olga Petrovna.

Silvio Minieri ha detto...

Con gesto esitante, l'espressione lievemente tormentata, la mano sospesa, la donna m'invia un cenno di saluto. Io mi siedo sulla panca, incrociando le gambe. Lei siede di fronte a me. È vestita con giacca e pantaloni bianchi ed ha un foulard chiaro annodato intorno al collo. Calza un cappello a falda tesa.
"Lafleur" dice e mi guarda negli occhi."Mi scusi, per la visita inattesa" prosegue poi.
"Sono molto lieto di vederla, Olga Petrovna" rispondo inespressivo.
La donna abbassa gli occhi, poi li rialza. Ha l'espressione ancora più tormentata.
"Ho un pacco per lei... ho pensato..."
"Grazie, signora" dico.
La donna porge il pacco all'agente. "Frutta e dolciumi" dice.
Il giovane nero riccioluto scarta il pacco, lo apre, controlla. Poi lo richiude e me lo consegna. Olga Petrovna osserva. Prendo il pacco e lo depongo di lato.
"Grazie" dico.
"Devo spiegarle il motivo della mia presenza, qui."
"Se vuole."
Con voce chiara, passaggi semplici e concetti limpidi, l'amica di Anna Reggiani mi espone i motivi di quel colloquio. Spiega come la mia prima richiesta d'incontrarla, l'estate precedente, le avesse procurato un certo scombussolamento. E infatti non era quasi riuscita a reggere il primo incontro con me. Ero la prima persona, che dopo oltre una decina d'anni veniva ad interessarsi direttamente da lei dell'unica persona cara della sua vita, dell'unica persona che era stata la ragione della sua vita. Ecco, il mio interessamento era come se avesse riportato in vita Anna, suscitando emozioni sopite. E volle spiegarmi così il perché della sua fretta, quella sera di giugno, lì in via Frattina. Forse non aveva smarrito a caso la busta gialla contenente gli appunti su Aristotele della sua amica defunta. Forse era un comune destino, un semi-destino (Olga Petrovna disse proprio così: "semi-destino"). Era una metaxy.
L'anziana ucraina dall'alta e snella figura s'interrompe e concentra il suo sguardo nelle mie pupille: "Lei mi comprende, Lafleur!" "Certo" ho risposto. "Dottor Lafleur..." e la donna, con questo inatteso, ma significativo vocativo, riprende il dialogo, che è più un monologo. Parla la visitatrice ed io ascolto e seguo i miei pensieri, o meglio rifletto inseguendo i nascosti motivi dei suoi pensieri e dei suoi gesti, del suo agire, senza però distrarre l'attenzione dalle sue parole presenti. Perché Olga Petrovna era venuta a trovarmi? Perché aveva pronunziato l'antica parola greca: metaxy? Perché quell'aria, quel tormento? Perché veniva a svelarmi ora, proprio ora, il suo scontato espediente dello smarrimento degli appunti su Aristotele, primo irrituale approccio con uno sconosciuto inquietante da parte di un'anomala signora, ed appunti sul quarto libro della "Metafisica"? Appunti a lei cari, cara memoria di giorni trascorsi accanto ad una ragazza che non c'era più, il culto della memoria e dei ricordi, il lutto sull'altare dell'amore. Alla folla degli interrogativi avrei risposto con più calma, ordinatamente, dopo, in cella forse, in solitudine, solo con i miei pensieri, sentendo l'ansimare nel sonno dei miei compagni della disadorna stanza del carcerato.

Silvio Minieri ha detto...

Spiegava la Petrovna che io rappresentavo l'unico legame vivente tra lei ed il mondo svanito di Anna Reggiani, svanito nei vapori dei ricordi, nostalgie e rimpianti. Proseguiva su questo tono per rievocare il suo passato, riviverlo, rimpiangere e compiangersi, continuando a parlare. "Perché metaxy, la raison d'etre di questo nostro colloquio e del rapporto che fonda la nostra mutua conoscenza sono l'intreccio che volge al termine...", diceva, quando l'agente in divisa grigia e nero riccioluto si mosse. Era il momento del commiato. Io non so se la donna avesse sapientemente calcolato il tempo di scadenza del colloquio, per esprimersi in quella tempestiva allusione all'ora del congedo (e penso sicuramente di sì). Certo, il giovane agente di polizia penitenziaria disse: "Sono le undici e quindici". Osservò una pausa e poi concluse: "L'orario della visita è terminato."
La visitatrice si è alzata in piedi, tacendo. Mi ha guardato senza riprendere la parola ed io, alzandomi a mia volta, ho detto: "Grazie, Olga Petrovna", stringendo la mano che mi porgeva. Si è ritratta di un passo ed ha quindi rivolto un impercettibile inchino all'agente penitenziario; poi, guardando di nuovo me, ha sollevato e lievemente mosso la mano. "Addio, amico" ha detto, soggiungendo un attimo dopo: "È il mio congedo, Lafleur." "Sono convinto che ci rivedremo presto, signora" ho risposto. Poi ci siamo separati. Non ho più rivisto Olga Petrovna. Il congedo nella sala colloqui del carcere di Campo di Marte è stato definitivo.
Seguo l'ondeggiante divisa grigio chiara nei tetri corridoi, nel silenzio scandito dallo sbattere delle porte in ferro e dal cigolare dei cancelli aperti e poi richiusi con rumore metallico di chiavi, ma riemergo dall'immagine passata nel presente ambiente della grigia aula di giustizia.
Il mio avvocato sta parlando con il Procuratore d'accusa. Scuote la testa. Posso notare, di spalle, la grigia corona di capelli che circonda la testa calva. Scherza il penalista con la bionda signora dell'accusa. I due nero togati si avviano verso l'uscita. Arriveranno alla macchinetta del caffè posta nel corridoio, fuori dell'aula. Mentre passano, noto il colore olivastro del volto del mio difensore.
Poi le ore scorrono. Si è fatto tardi. E' sera inoltrata. La sala delle udienze si svuota. Il detenuto Carpinieri è stato portato via da tempo. Non si aspetta il verdetto per questa sera. Abbandoniamo l'aula, torneremo domani.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 13

Sono le dieci del mattino e sono seduto sul banco degli imputati nell'aula di giustizia, in attesa del verdetto. Quando hanno rinviato la camera di consiglio al giorno dopo, l'avvocato mi ha sussurrato che la sentenza sarebbe uscita probabilmente all'indomani. Ma ora non è qui. Al suo posto siede accanto a me un giovane procuratore: non parla, si guarda intorno e preferisce poi leggere il giornale.
Ieri sera ho mangiato molto tardi. Ho dormito poco e male: soltanto all'alba sono riuscito a prender sonno. Mi sento leggermente raffreddato. Sarà stata l'umidità della notte, assorbita per un paio d'ore sul terrazzo dopo cena. Ed ora la tensione dell'attesa acuisce lo stato febbrile.
Ma l'identità del luogo e la medesima atmosfera di sospensione che regna nell'aula riannodano i miei pensieri presenti a quelli di ieri: Platone, Aristotele, Olga Petrovna, il carcere, l'anima, la metafisica, la metaxy. Perché il carcere? Perché l'anima? Diceva Platone che il corpo è il carcere dell'anima. Dove? Nel "Fedone" certo. Sì, Lafleur, ma riordina meglio i pensieri. È metaxy il ricordo da far riemergere. Da dove? Dice Platone...
Scantoni, Lafleur! Che cosa pensasti quella sera in cella, quando i tuoi due compagni di prigione, "il tenente" e "l'ambasciatore" si addormentarono? Metaxy è quello che sta nel mezzo, è il "fra". Perché la Petrovna aveva citato metaxy, il "tramite"? Lafleur è il "tramite", ovvero metaxy, tra lei Olga Petrovna e la morta, l'ex-colonnello di polizia Anna Reggiani. Gli appunti sulla "Metafisica" della defunta ragazza sono il "metaxy" tra te, Lafleur, ed Olga Petrovna. Medium? Pretesto? Metaxy come intermediario dell'aldilà o espediente per intessere un colloquio, messaggio cifrato, simbolo di quello che si vuol dire, ma non si può o non si riesce a confessare tout court da parte di una donna tormentata ed apparentemente anodina ad uno sconosciuto? Un espediente, certo, ma che racchiude nello scrigno del suo segreto un più inquietante segreto, quel nascosto "ponte" tra la terra e il cielo, l'arcobaleno invisibile che unisce gli uomini agli dèi, da quella estrema lontananza pure a noi così prossima, in cui i celesti ci abitano.
E la sorpresa Lafleur?
Ebbene, due giorni dopo la visita che ricevetti in carcere da Olga Petrovna, ebbi notizia di un avvenimento inaspettato. Era mattina, quando, dopo la frugale colazione di acqua, orzo e pane, giunse l'atteso mio decreto di scarcerazione. Il "tenente" festeggiò l'avvenimento, mangiando gli ultimi residui dei dolciumi e della frutta, avanzati dal pacco generosamente abbondante, dono della Petrovna. "Appena fuori anch'io, verrò a trovarti, Socrato" mi disse stringendomi in un forte abbraccio. Era alto e corpulento, sui cinquant'anni, con una massa di capelli neri, striati di grigio. Ci aveva raggiunti in cella, qualche giorno dopo la fine del mio isolamento, durato circa tre settimane dal giorno dell'arresto. Era accusato di lesioni gravissime in danno della moglie o meglio l'amica con cui viveva negli ultimi tempi, quando finalmente era stato promosso ufficiale e si era potuto sistemare a Roma, dopo una vita nomade in Italia e nel Medio Oriente. "Mi dispiace solo che non è morta!" commentò al termine di un breve resoconto della sua storia.

Silvio Minieri ha detto...

"L'ambasciatore" invece era dentro, a causa delle calunnie di suoi nemici politici. In verità era un pubblico amministratore accusato di avere distribuito denaro proveniente dalla sua attività d'imprenditore, per accaparrarsi consensi elettorali alla provincia. Il "tenente" lo aveva soprannominato "l'ambasciatore", perché, nel prestare distratto ascolto ai discorsi di quest'ultimo, ne aveva equivocato i termini del racconto. Sono felice di avere incontrato in questa cella galantuomini, professori, grandi ufficiali, ambasciatori, diceva quello. E "il tenente", gratificato con il titolo di grande ufficiale, lo aveva interrotto: "Grazie, ambasciatore, ma sono soltanto tenente in promozione a capitano." "Non sono colonnello e nemmeno generale" aggiunse subito dopo con aria di sufficienza.
Quella mattina della scarcerazione, fui accompagnato nell'ufficio del direttore del penitenziario. La stanza appariva luminosa. L'ampia vetrata dava sul cortile, e sebbene il cielo fosse coperto da nuvole grigie e l'aria smorta, il contrasto col buio dei corridoi donava egualmente bagliore a quella livida luce del giorno. Era rimasto nelle mie orecchie il sogghigno del commento ultimo del tenente rivolto all'ambasciatore, compagno di cella, mentre l'agente richiudeva la porta in ferro: "E così esce pure Socrato... quello che ha fatto l'uxicidio vero!"
Ermenegildi, il consigliere alla provincia, deve aver sorriso alla battuta. Anche lui mi aveva abbracciato, superando la timidezza, grazie allo slancio che gli derivava dall'imitare i gesti istintivi del sanguigno ufficiale dell'esercito. Qualche mese dopo, l'ho rivisto vicino al Ministero della Marina. Ero sul marciapiede, quando una macchina ha rallentato e l'autista ha suonato il clacson. Ermenegildi si è affacciato al finestrino, ha salutato con la mano sorridendo ed è ripartito. Ho risposto con un cenno della testa, ricambiando il sorriso, il sorriso della libertà.
Ma perché, tu, Lafleur, sei passato per l'ufficio del Direttore del penitenziario e non soltanto per la sala della Matricola? Si è alzata la giunonica signora, il volto illuminato, secondo la sua espressione di sempre. L'ampio vestito a tunica, dal taglio sacerdotale, scende fino alle caviglie, nascondendo le forme abbondanti del corpo. Ondeggia lievemente sul lato sinistro. Guardandola bene in viso, mi accorgo che non sorride e capisco che è il volto paffuto a conferirle un'espressione ilare.
"La sua amica" dice. Tace, mi guarda. Appare riflessiva. "La sua amica Olga Petrovna Kalintinskaya" dice ancora e mi fissa negli occhi. Non intervengo con domande interlocutorie. Il direttore del carcere conclude: "È morta." Abbassa lo sguardo sul ripiano della scrivania. "Ieri mattina alle cinque, in via Clemente Alessandrino, nel quartiere diciannovesimo."

Silvio Minieri ha detto...

Il direttore rialza lo sguardo su di me, mentre io lancio un'occhiata sul ritaglio di giornale posato sulla scrivania. Dunque, Olga Petrovna è morta. Perché? "Perché?" dico. "Ecco!" risponde il funzionario della direzione penitenziaria e mi porge un plico chiuso in busta bianca, su cui con pennarello blu è scritto: "X Lafleur". "Può ritirare i suoi effetti personali in matricola" dice la grossa signora dall'ampia tunica monacale. Osservo l'acconciatura dei capelli rossi, tagliati corti e con una frangia sulla fronte. Gli occhi di un azzurro intenso illuminano l'espressione del volto grassoccio. Lei guarda l'agente al mio fianco. "Buon giorno, signora" dico e mi allontano al seguito del mio custode.
Ha tossito. Il giovane procuratore, seduto accanto a me nell'aula di giustizia, ha tossito. Ed io mi desto dai miei pensieri, ritornando al presente. In aula si avverte un crescente brusio, accompagnato da un certo fermento. "Forse è la sentenza" dice il giovane legale voltando a metà la testa verso di me, ma senza guardarmi. Poi forma un numero col telefonino. Si è messo in contatto con lo studio. Ha risposto la segretaria. Lui attende. Poi brevemente comunica che la Corte di giustizia sta per uscire dalla Camera di consiglio. Riferirà del verdetto in contemporanea.
Il fermento in aula è aumentato ancora. Il via vai di giornalisti, fotografi, uscieri, gendarmi, impiegati giudiziari e il fervore tra il pubblico presente si accentua, per poi arrestarsi di colpo.
Eccoli! La porta della Camera di consiglio si è spalancata ed esce il nunzio cancelliere di dibattimento. Indossa una toga scarlatta, annodata sotto la gola con un fermaglio dorato. Anche gli orli della toga del nunzio sono dorati. Impugna un bastone argentato, stringendolo sotto il pomo istoriato. Il cancelliere di dibattimento è di statura molto bassa, che rasenta il nanismo. Si rivolge verso di noi, solleva il bastone in alto, al di sopra della testa, e vibra due colpi, che risuonano sul pavimento. "La Corte!" grida. Tutti si alzano in piedi. Con la coda dell'occhio, noto Carpinieri balzare dalla panca, dove era un attimo prima seduto, ed afferrarsi con entrambe le mani alle sbarre della gabbia. Solennemente, in fila indiana, nello stesso ordine con cui erano entrati, escono dalla porta spalancata i due giudici nero togati, seguiti dai sei giurati con la fascia tricolore ad armacollo. Vanno ad assidersi sugli scranni alti disposti contro la nuda parete color crema, su cui campeggia una croce nera con i quattro lati di uguale dimensione e la sottostante scritta in caratteri maiuscoli: JUSTITIA. Volgo la testa a sinistra, e al di là delle toghe nere del mio procuratore, del procuratore di giustizia e dell'avvocato d'accusa... ehilà!... altolà!... mi ferisce gli occhi il riflesso d'oro! Impallidisco e tremo all'urlo senza suono che saetta nella mente... chivalà! Di scatto raddrizzo il capo e guardo, raggelato dall'emozione, in direzione della Corte assisa. Osservo il nunzio cancelliere compiere tre passi avanti, con le sue gambe tozze ed arcuate. Solleva in alto il bastone di giustizia e grida. "Il verdetto dell'Assise!" Riflessi della peluria di una barba bionda e dei vetri degli occhiali d'oro ha assorbito d'un colpo la coscienza: un brivido!

Silvio Minieri ha detto...

I giudici si sono alzati dagli scranni e il presidente della Corte legge dal soglio più alto con voce rituale: "In nome dei cittadini tutti dello Stato e residenti, questa Assise pronuncia..." Le parole risuonano nell'aula e l'eco rimanda i suoni nel vuoto cosciente dell'ambiente sordo: pronunciaaa... nuuunciaaa... imputati... taaatiii... omicidio... ciiidiiiooo... Pannoncelli...ceeelliii... condanna...daaannaaa... Carpinieri... iiieeeriii... assolve... sooolveee... Lafleur... fleeeuuur... condanna... daaannaaaa... falsa testimonianza... niiiaaanzaaa... Sportelli... teeelliii... così deciso... ciiisooo... Roma... maaa...
Mi muovo inebetito nell'aula, dove tutti si spostano tra banchi di giustizia e banchi del pubblico. I gendarmi stanno portando via il condannato, ora in catene. Che cosa Lafleur? Lafleur... fleeeuuur... sooolveee... Il giovane procuratore parla al telefonino, riferendo eccitato della vittoria. Esulta. Voci si rincorrono tra le toghe nere di accusa e difesa: appello impugnazione motivazioni sentenza. Il mio procuratore di difesa ha chiuso la comunicazione e mi dice con voce sicura e raggiante in volto: "La sentenza giusta è inoppugnabile!"
Il mio destino processuale, il destino processuale di Lafleur, imputato di omicidio in danno di Alexandra Pannoncelli è compiuto, sembra. Invero la pubblica accusa impugnò la mia assoluzione, ma l'appello fu respinto, quattordici mesi dopo, con la seguente motivazione: "La sentenza giusta è inoppugnabile." Sic!
Lungo la via del Moro. Che dici? Saraceni, Terrasanta, Goffredo di Buglione, Imbroglione. A briglia sciolta, senza catene, Pierrot fumista, sogno di libertà. Libertà! Va gridando: Libertà! Libertà! Libertà!
Due giorni dopo, sono partito per l'Abruzzo, verso la transumanza.