sabato 13 aprile 2024

Narrativa

 

        L'uomo differito (III)



20 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

LIBRO TERZO

METAXY

".... intermedio (metaxy)... tra l'essere e il non-essere, partecipa di entrambi, senza essere né l'uno né l'altro..."
Platone, La Repubblica, 478de

CAPITOLO 1
Danza passi di danza la notte, in cui scivolo nelle tenebre nere del buio sempre più buio. Danzare la danza nel buio progressivamente in discesa, scendendo in tornanti i neri sentieri inclinati nelle viscere del sottoterra. E ancora più giù, dove il principe delle tenebre azzurre della notte è soffio e macchia fluorescente, ectoplasma, fantasma. Scendere a passi di danza, che avvolge il cupo velo dell'ombra sotterranea di morte, nella spirale di danza, che danza la dea nera del buio. Scendere e scendere, dopo ogni curva girando ai tornanti, nel cammino in discesa, tra le ali scure del sottosuolo umido in direzione del fondo. Un malinconico canto accompagna il sonno e l'oblio della discesa nel regno della notte e dell'ombra.
Ho aperto gli occhi e le vette innevate della catena montuosa, di là dai vetri della finestra, non è la Guisane. Risuona smorzata e arrochita un'eco dal buio del sonno e sembra emergere e giungere alla coscienza, per essere poi trascinata di nuovo nei fumi del dormiveglia. E scivolo ancora nella notte del sonno dei passi notturni di danza, che danza il buio della coscienza assopita. Apro gli occhi ed ascolto la voce alla radio che gracchia e vedo la vetta innevata del Sirente, nella luce azzurra del pomeriggio. Abruzzo non Savoia: coscienza di un altrove dei luoghi e sfumati ultimi echi del nero canto arrochito. Solarità del giorno appenninico, luce del freddo di neve nel riquadro della finestra, dove si specchia il cielo limpido, oltre il profilo delle vette imbiancate. La solitudine della stanza del breve riposo pomeridiano, accompagnato dal tono uniforme dei suoni indistinti della voce alla radio, rimanda sentimenti ed immagini altre nel tempo di eguale splendore di neve ed azzurro agli occhi stupiti spalancati al risveglio dal sonno del passato mezzogiorno.
Il profilo delle cime imbiancate delle Alpi Graie è distinguibile dal riquadro della finestra dell'attico di Torino, di qua dal corso d'acqua del Po. Non lontano è il Frejus e la valle di Susa. Qui, nuova ed eguale è la prospettiva del bianco di neve, che riflette il Sirente, a cogliere la nostalgia dell'ascolto di una voce alla radio nel dormiveglia del pomeriggio luminoso di sole. Svaniscono le buie sotterranee rampe in discesa nelle viscere della notte del sonno e fugati sono i passi di danza ed il canto dal ritmo funebre e roco.

Sono andato a passeggio sotto i portici, lanciando occhiate distratte ai negozi e caffè, poi all'incrocio col vicolo, mi sono fermato ad osservare ed a leggere la lapide del Re. Un gatto balza di colpo dai gradini su cui era accovacciato, quando si è spalancata all'improvviso la porta del vecchio edificio, da cui esce un uomo vestito di grigio, alto e allampanato. Entro nel ristorante di fronte ai portici. È un locale con grossi specchi dalle cornici dorate alle pareti. Il soffitto è finemente decorato con stucchi ed amorini dipinti ed in bassorilievo in cima a colonne corinzie scanalate. Prendo posto al centro della pedana. Sposto lo sguardo alle grosse lampade che illuminano a giorno il locale. Da una finestra dell'andito, che dà su una stradina laterale, rispetto alla centrale via dei portici, filtra la luce grigiastra dell'aria. Mi chino a guardare il menù e leggo la lista dei piatti del giorno, mentre intorno è un lieve brusio, intervallato da leggeri rumori di piatti e stoviglie.
Un giovane cameriere in giacca color crema mi ha versato dello spumantino bianco nel calice. Si allontana per riferire in cucina delle mie ordinazioni. Alzo il calice e guardo in fondo alla sala, di fronte a me, dove non c'è nessuno, e senza chiudere gli occhi, rivedo Gabriella Finari.
Che cosa è accaduto Lafleur?

Silvio Minieri ha detto...

Quando sono uscito quella mattina dal carcere e mi sono incamminato per il viale deserto, ho cercato di non pensare più ad Olga Petrovna, a quella donna alta e sottile, che aveva alzato una mano all'altezza della sua tempia destra, lievemente sfiorandola con le dita, per poi accennare all'ultimo esitante timido saluto, lo sguardo inquieto, al momento del congedo risolutivo con Lafleur. Addio, Olga Petrovna! Più in là avrei letto il suo scritto, il memoriale che da poco mi era stato consegnato, dopo la sua morte, un testamento. Ora, volevo concentrare i miei pensieri sull'elaborato, che dovevo consegnare ad Anselmo Serontini, il presidente della Pulchra Service: era tempo! Le vendite dei cosmetici erano aumentate, grazie alla campagna pubblicitaria, basata sugli slogan, che l'ufficio pubblicità della Pulchra aveva ideato, basandosi sui suggerimenti contenuti nella mia prima relazione provvisoria. Ricordo il manifesto del busto di una giovane donna bionda con occhiali chiari, il volto esprimente bellezza e sorriso. Guarda le dita della mano sinistra sollevata: uno smalto rosa per una vita rosa, così la didascalia.
Ma era poi stata la mia relazione provvisoria a promuovere quella campagna pubblicitaria ed a causare il conseguente aumento del volume delle vendite? Così mi assicurava l'amministratore delegato, firmando per conto del presidente dell'azienda, Serontini. La lettera, giunta nel mio ufficio di via Granodelturco, era stata smistata in carcere, superando la censura del direttore, la signora dall'ampia tunica, vestale di custodia e di penitenza.
Ero immerso in questi pensieri, percorrendo l'ampio viale deserto di periferia, quando mi sono accorto di essere stato raggiunto da un giovane. "Un'autovettura per il centro, dottore?" ha detto. Automaticamente ho infilato la mano destra in tasca, tastando il fondo a ghermire un piccolo fascio di banconote ed aggiustandomi sotto l'ascella sinistra il pacco con i miei effetti personali riconsegnatomi in Matricola, al momento del rilascio. Ho guardato il giovane ed ho risposto: "Sì, in piazzale Flaminio." Ho estratto le banconote, mostrandole al mio interlocutore. "Va bene" ha risposto "non costa molto." Si è diretto verso l'automobile di colore scuro ed entrambi siamo saliti a bordo, sistemandoci lui al posto di guida, io indietro a destra. E poi via, filiamo tra gli alberi allineati del viale, nel mattino grigio.
Guardo la nuca dell'autista, abbandono il pacco sul sedile alla mia sinistra e mi distendo. Poi, con calma, estraggo dalla tasca interna della giacca la lettera ricevuta in carcere, conchiglia preziosa sulla spiaggia della mia libertà, bene unico a illuminare il fondo buio della mia detenzione.
Allodola del ricordo.

"Entre les barreaux des locaux disciplinaires / une orange / passe comme un éclair / et tombe dans la tinette / comme une pierre / Et le prisonnier / tout éclaboussé de merde / resplendit / tout illuminé de joie / Elle ne m'a pas oublié / Elle pense toujours à moi."

"Gentile signor Lafleur
sono spiacente delle sue disavventure e le auguro di venirne fuori quanto prima. Resto fedele alla promessa d'inviarle il breve saggio e i commenti sul nome Eugenio. Spero di poterla rivedere presto.
Con amicizia
Gabriella Finari
Torino, 28 ottobre"

Una scrittura con inchiostro blu, allineata e semplice, limpida. Allodola del ricordo. Il pallido viso e lo sguardo gentile, che io, Lafleur, non ho dimenticato.

Rimetto a fuoco la parete scura, in fondo alla sala illuminata, stucchi e decorazioni, specchi con cornici dorate, lieve muoversi del giovane cameriere con giacca color crema e pantaloni neri, lieve brusio di fondo, una famiglia ben educata al tavolino d'angolo, genitori e figlia e giovane. Il rumore delle posate e delle stoviglie è smorzato.
Ho bevuto il vino spumante bianco e frizzantino. Poso il calice sulla tovaglia bianca. Oh, Lafleur!

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 2
"Mia gemella, mia unica, / cuore diviso, parte di me / volata via nell'attesa / dell'incontro venturo. / Mia diletta, per te, per noi / ho scritto, rispettando / l'antica promessa, / la vita nostra che è stata. / Per tornare domani / insieme per sempre."
Con questa dedica iniziava lo scritto di Olga Petrovna, intitolato "Metaxy", in cui l'autrice rievocava la figura di Anna Reggiani. Era il suo testamento spirituale, da lei affidato all'interlocutore improvviso ed inatteso della sua storia, forse presaga della sua prossima fine. Nella pagina seguente vi era una citazione di Platone tratta dalla "Repubblica" (478de):
"... intermedio (Metaxy)... tra l'essere e il non-essere, partecipa di entrambi, senza essere né l'uno né l'altro..."
Quindi seguiva, nell'altra pagina, l'indice:
"Premessa. Capitolo uno. L'incontro. Capitolo due. Ponte. Capitolo tre. Il padre di Anna e la memoria. Capitolo quattro. La polizia nazionale. Capitolo cinque. I giorni dei campi di grano e delle vendemmie. Capitolo sei. Il mare, l'isola, la scogliera. Capitolo sette. La storia dell'uomo camuffato. Capitolo otto. Il congedo. Capitolo nove. Metaxy. Capitolo dieci. L'esilio."
Ho sfogliato lo scritto composto da circa duecento pagine e poi ho iniziato a leggere la "Premessa":
"Questo libro è la storia di Anna Reggiani, una giovane donna, ufficiale della Polizia Nazionale e poi giornalista e creatrice di moda, nata a Ponte sul Gargano, vissuta in quella città e poi a Roma, dove io l'ho conosciuta, diventando sua amica. Ma questa è anche la storia della nostra amicizia e della mia vita accanto a lei, vissuta nel suo cuore che è il mio, perché i due nostri destini sono stati da sempre uniti nella metaxy. È questa una parola greca usata da Platone per esprimere l'intermedio tra l'Uno e l'Altro, lo spazio che separa ed unisce la Terra e il Cielo, perché metaxy è amphòteron, l'uno e l'altro insieme, partecipando di entrambi. Non è una metafora l'uso della parola metaxy, per esprimere l'unione delle nostre due vite in un'unica storia, ma lo specchio nel linguaggio della realtà umana e divina del tracciato, in cui da sempre consiste il sentiero partecipe al destino di entrambi.
Anna Reggiani è morta in tragiche circostanze, in una notte di dicembre del 1986, a Roma, ma la sua scomparsa non lascia sparire nel nulla il grande sogno della sua giovinezza, che questo scritto si assume il compito di volere consegnare alla pietà della memoria.
Cappella funebre di Ponte, 1997."
Vado avanti nella lettura e passo al Capitolo uno:
"Il giorno del nostro primo incontro è stata una domenica di autunno. In me è nitido il ricordo di quella giornata. Ero tornata da una passeggiata mattutina nel Parco delle fontane, a sud della città, in zona Eur. Accanto alla porta nera dell'ingresso del mio laboratorio di sartoria, in via delle Croci, ho visto la figura di una giovane donna bionda, con un soprabito nero, lungo fino alle caviglie. Aveva le mani in tasca e si guardava intorno nella stradina deserta. Era in attesa. Poi si è girata e mi ha visto."
Uno scalpiccio di passi nel corridoio al piano ed il rumore delle voci di altri avventori dell'albergo mi distraggono dalla lettura, che conduco seduto al piccolo scrittoio della mia camera, con la finestra di fronte alla montagna bianca di neve.
È sera e sono seduto nell'ombra illuminata dal cono di luce azzurra della lampada, che illumina il ripiano della scrivania e le pagine del testo che sto leggendo. Mi alzo e stiro le membra intorpidite. Accendo la luce grande e la stanza s'illumina. Mi guardo allo specchio. Decido di uscire, per andare a fare due passi e respirare un po' d'aria fresca.

Silvio Minieri ha detto...

Ho imboccato la strada del portico. I passanti sono radi. Lancio ogni tanto degli sguardi ad alcune vetrine illuminate. Sento un lontano schiamazzo di giovani, riuniti forse davanti ad una qualche birreria. Quindi sbuco nella piazza. Sono attirato dalla luce verde smorzata di una boutique. Mi avvicino e leggo l'insegna: "Alice". Spio all'interno, ma è buio. Spingo la porta a vetri ed entro. La luce all'interno piove da alte lampade a stelo situate agli angoli del locale. Una donna seduta accanto ad una fila di vestiti esposti ad una parete si alza e mi viene incontro. È di alta statura ed ha i capelli neri. Avrà circa quarant'anni. La corporatura è robusta.
"Vorrei guardare dei vestiti" dico.
"Di che taglia?" domanda lei.
"Penso quarantadue."
La donna comincia a cercare tra le fila dei vestiti allineati. Sposta le grucce e crea un varco. Infine estrae un vestito blu scuro senza maniche e lo depone sul tavolo. Sento un breve trillo, mi volto e vedo entrare dalla porta a vetri un uomo accompagnato da un bambino di circa dieci anni. L'uomo si toglie il cappello blu con la visierina ed attende. Mentre osservo il vestito disteso sul tavolo, l'uomo si avvicina e chiede di vedere cinte per abiti femminili. La venditrice gli indica un angolo accanto ad una fila di vestiti e lo accompagna per un tratto, pilotandolo. Mi accorgo che ora è alle mie spalle. Mi volto e la vedo osservare il vestito sul tavolo. Ha le mani l'una sull'altra, all'altezza del busto.
"Non ve ne sono altri?" domando.
"Guardi!" dice e mi indica la fila dei vestiti, da cui ha estratto l'abito blu.
M'infilo tra i vestiti e comincio a cercare: che cosa cerchi, Lafleur? Mi apro un ulteriore varco tra le stoffe degli abiti e vado avanti e capisco che voglio allontanarmi dalla luce verso il fondo dello scuro corridoio di vestiti femminili. Ma, alla fine del tunnel, vado a sbattere contro il viso della proprietaria o gerente del negozio, improvvisamente spuntata a ridosso della parete.
"Oh, mi scusi!" dico.
"Di niente" risponde e si passa una mano sul labbro.
Lafleur! Lafleur!
"Non avete altro?" domando.
Stiamo andando di nuovo verso il centro del locale. Alla donna si è intanto avvicinato l'uomo con il bambino, tenendo sollevate con la mano sinistra alcune cinte di pelle marrone chiaro, per esibirle. La donna dà un'occhiata, e prima di rispondere all'uomo, si volta a metà verso di me ed indica la scala a chiocciola: "Su" dice. Subito dopo, si rivolge all'altro avventore: "Questa costa venticinquemila" dichiara, indicando col dito una fibbia dal gancio dorato.
Si è di nuovo voltata verso di me: "Vada su, troverà altri modelli." Si sposta all'indietro e preme su un interruttore della luce, illuminando la scala ed il soppalco. Salgo le scale di legno, che scricchiolano sotto i miei piedi. I gradini sono ricoperti da strisce di moquette verde.

Silvio Minieri ha detto...

Da su, sento l'uomo contrattare il prezzo della cinghia con la venditrice. Passo tra i modelli dei vestiti. Sento risa e voci soffocate provenire da dietro una porta chiusa, dal cui margine inferiore filtra una luce. Guardo i vestiti, tocco le stoffe, osservo i modelli. Ho preso una gruccia, da cui pende un tailleur color crema. Le risa dietro la porta si sono fatte più distinte. Mi avvicino e la porta si spalanca di colpo. Riesco appena a vedere una ragazza in sottoveste, che si dibatte, per sottrarsi all'abbraccio di un uomo. "Scemo!" gli dice, ridendo. La porta viene subito richiusa. Sento un tramestio, poi la luce che filtra sotto la porta viene spenta. Tacciono. Riappendo il tailleur, giro intorno. Su una panchetta è abbandonato un giornalino a fumetti, intitolato: "Bernardo, gatto testardo". Osservo il pavimento coperto dalla moquette. Raccolgo un pezzetto di carta di caramella rosso trasparente e la depongo sul posacenere accanto al giornalino. Ridiscendo.
La proprietaria è seduta su una sedia e sta cercando di calzare una scarpa. L'uomo ed il bambino sono andati via. La donna si alza e si avvicina.
"Non ho trovato il modello" dico.
Lei si avvicina al tavolo e solleva il vestito blu sopra disteso. Mi guarda.
"Questo potrebbe andar bene" dico. "Quanto costa?"
La negoziante cerca ed estrae il cartellino dal collo:
"Duecentoventicinquemila" legge.
"Senza sconti?"
"È già scontato. Sono i modelli dell'ultima collezione."
Sono dubbioso. La donna sembra voler riporre il vestito.
"Potremmo fare duecentomila?" propongo.
"Duecentodiecimila. È il massimo che posso fare."
"Prendo il vestito dalle sue mani e lo distendo in alto.
"Se non va bene, operiamo anche gli aggiusti" dice.
"Si può cambiare, eventualmente?"
Non risponde.
"Va bene, lo prendo" concludo.

Sono uscito nella sera fredda. Mi aggiro indeciso per la piazza, con il pacco del vestito sotto il braccio. Che idea, Lafleur! Pacchiano! Troppo confidenziale. Un gioiello? Impegnativo! Che cosa dunque? Non certo un vestito. Io, Lafleur, sono convinto che, sul soppalco, la porta, la luce che filtra, le voci, le risa soffocate, la giovane in sottoveste che appare e scompare e dice: "scemo!" e ride con quella classica espressione di ragazza "baciami, stupido!" quella scena non l'ho vissuta, ma l'ho soltanto immaginata. È stata una visione mentale, non reale. Ma va?!
Cammino lungo il portico e vedo la luce bianca che illumina il colonnato nel buio della sera e penso che non posso regalare questo vestito, così da me estemporaneamente comperato, ad una ragazza appena conosciuta, prima che le acque s'innalzassero in colonne ed io finissi annegato nel torpore dei fondali, profondità sottomarine senza tempo. Poi quelle brevi righe. Gentile signor Lafleur sono spiacente delle sue disavventure... Che cosa indicano? Vedi, non ho dimenticato! Allodola del ricordo. Attraverso la strada deserta. In quell'angolo buio, accanto a quei gradini ed a quella vecchia porta, la ragazza ha detto con voce triste: "Io, dalla vita, non ho mai avuto niente." "Ed io che ci sto a fare?" ha risposto la voce risentita del giovane. Passo oltre. Allodola del ricordo, è tuo o è mio... Sento risuonare i miei passi nella strada vuota di notte, prima di rientrare.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 3
Sono salito nella mia camera d'albergo. Sento molto caldo, perché il riscaldamento è al massimo. Il cono di luce azzurra proiettato sulla scrivania dalla lampada, che avevo lasciato accesa, illuminava l'angolo della stanza buia. Non ho acceso la luce principale e, dopo avere depositato il pacco col vestito sul letto, mi sono avvicinato al mini frigorifero, accanto al comodino ed ho tratto fuori una mezza bottiglia di acqua minerale, che appoggio sul tavolino. Tolgo il soprabito, mi avvicino alla finestra e l'apro leggermente. Vado a sedermi alla scrivania.
Oltre allo scritto della Petrovna, avevo portato con me in terra d'Abruzzo un libretto di colore giallo, intravisto a Roma, nell'edicola prospiciente il piazzale dei capolinea degli autobus, alle spalle della stazione Tiburtina, al momento della mia partenza, a metà settembre. Incuriosito dal titolo, che riguardava la mia vicenda processuale, "Il delitto di via Granodelturco", l'ho acquistato. L'autore era un giornalista, come si evinceva dalla lettura della prefazione. Nel ricostruire la vicenda, Argenio Dimarzio, il cronista di "nera", si avvaleva della collaborazione di un investigatore d'alto rango sul caso: il Vicecapo della Brigata Nazionale Criminale Klaus Tartarone. Devo dire che, quando tra i giornali e le riviste, ho scorto il libretto, l'ho istintivamente afferrato e rapidamente sfogliato. Quindi, per non dare nell'occhio (e perché Lafleur?), ho acquistato anche un settimanale illustrato ed un altro libro scelto a caso, ma forse attirato dal titolo: "Scendendo la scala del destino" di Diego Benevoluto.
Avevo portato i libri con me, nella fuga sugli Appennini, da cui ero poi subito disceso verso il mare, in sintonia e sincronia coi mitici pastori, che abbandonavano i pascoli montani, lassù in alto quei pascoli estremi, per condurre le greggi a svernare lungo le pianure della costa adriatica.
"Settembre, andiamo. È tempo di migrare. / Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori / lascian gli stazzi e vanno verso il mare: / scendono all'Adriatico selvaggio / che verde è come i pascoli dei monti."
Lungo le spiagge deserte avverto nell'aria il profumo salmastro. È il profumo delle tamerici. Ed io vagabondo nella grigia aria autunnale, sfiorando la pineta e perdendo il mio sguardo fino all'orizzonte ultimo del mare. E le mie parole sono i canti, i canti delle foreste, delle onde, delle arene, del vento Argeste.
Sul finire dell'autunno, dal litorale adriatico, ormai deserto, sono ritornato su, ad Aquila, tra i primi lievi e danzanti fiocchi di neve di dicembre.
Medito nella solitudine della mia stanza troppo riscaldata dai caloriferi, seduto alla scrivania, i gomiti sul ripiano, le mani appoggiate alle tempie.

Silvio Minieri ha detto...

Metto da parte il testo della Petrovna, che giace ancora aperto alla pagina, in cui l'avevo lasciato prima di uscire e prendo il libro di Diego Benevoluto. Protagonista della storia è Gionata, descritto come un personaggio vagabondo per le vie di Roma. Quest'uomo anziano dai capelli argentei, un comune pensionato, occupa il suo tempo, andandosi a sedere sulle panchine dei parchi pubblici, dove rimane ad osservare i passanti e legge libri.
Ho sfogliato le pagine iniziali del volume ed ho portato la mia attenzione su un passo dell'opera di Benevoluto:
"Gionata sedette sulla panchina di legno verde e guardò le foglie oro del parco delle Fontane. La tristezza dell'autunno era la sua tristezza. Rivide l'automobile, venuta a fermarsi al semaforo, che segnala luce rossa. Le due ragazze a bordo si voltano verso di lui e sorridono nel vederlo. "Buon giorno, ragioniere" dice Carola, la ragazza dai lunghi capelli corvini. Gionata, perché ricordi il volto sorridente di Carola? Gionata guarda la pallida luce del sole appena velato da nubi, riflessa nella pozzanghera. Sei solo, Gionata! Poi, egli, Gionata, tira fuori dalla tasca del cappotto marrone il libro intitolato: "Riflessi d'oro nell'acqua". Comincia a leggere, aprendo direttamente il volume alla pagina contrassegnata dal segnalibro. Scorre lentamente il testo ed ogni tanto gira una pagina. Poi si fa più attento, interessato al brano, che ha sott'occhio. è immobile, immerso nella lettura, seduto sulla panchina nel parco, con i viali segnati da strisce e mucchietti di foglie rosso rame. Sparse un po' ovunque, sui prati e le aiuole e sui rami nudi degli alberi, foglie gialle e rinsecchite. Gionata settuagenario, che cosa leggi? D'un tratto l'uomo sobbalza sulla panchina. Poi alza improvvisamente la testa e si guarda intorno, ma non vede i colori sfumati dell'autunno romano, o meglio li intravede in una visione come di sogno. È scosso da una violenta emozione e l'attenzione della sua mente è concentrata ora sulle immagini suscitate in lui dal brano del libro appena letto. Gionata trae alcuni lunghi sospiri, quindi, cercando di vincere l'emozione, ancora pallido in volto, legge: "Ma per ben comprendere quello che qui tu stai leggendo, io vorrei dirti questo, ora, o lettore: che cosa accadrebbe se, rivolgendomi non a te in astratto, ma a te, a te in concreto, Gionata, geometra ottuagenario, pensionato, seduto sulla panchina di un parco pubblico di Roma, in questa sfumata giornata novembrina, io ti dicessi..." Gionata gira la pagina e non può fare a meno di sorridere internamente, considerando l'errore del testo: "geometra ottuagenario".

Silvio Minieri ha detto...

Dov'è l'"è" che ci lega? Dov'è, se non qui, in questo preciso istante, l'ora suprema, in cui tu devi dire sì alla vita, e mi sto smascherando e tu lo sai, perché tu mi conosci, Gionata ragioniere, e perdonami se, con canagliesco equivoco ed imperdonabile scherzo, maschere grossolane, ti ho chiamato geometra, in omaggio a quel mio grande amico divino, che mi ha preceduto nel secolo, il tempo, ed alla sua scritta, alla scritta che di lui si dice fece apporre davanti alla sua Accademia: "Qui non si entra se non si è geometri"? Che cosa ti ho raccontato, dunque, Gionata, se non l'eterno ritorno? Ed ora appare sfolgorante sulla nube, in tutta la sua divina bellezza, Apollo! Eppure altro non sono che un povero l'anonimo di Malta! Un interprete forse? E che cos'è l'interpretazione? E nel mio domandare "che cos'è?" non si nasconde il vizio che quel mio divino, non amico, ma nemico, ed invero io mi vanto di avere rovesciato il suo mondo vero, di averlo smascherato, tolta la maschera cioè, e di averne mostrato il suo volto di favola, pura favella, trasparente nel nulla, quel vizio dicevo di procedere nei suoi dialoghi, inserendo sempre il diavoletto, nella sua vera essenza di diaballein, disgiungente, dell'interrogativo "che cosa?", il ti, l'ente, "quale ente". Domandare "che cosa è?" equivale alla domanda: "Quale ente è?" Orbene domandare quale ente è significa dire che l'ente è molteplice e che nella domanda s'interroga a quale fra gli enti si sta riferendo il discorso, in cui appunto la domanda s'inserisce, l'ente che abbia quella determinata qualità, la qualità sottostante il "quale". Ma ho disordinato il filo del mio discorrere con te, Gionata, ed invero un anacoluto è nascosto nel periodo precedente. Il vizio che quell'altro divino, dunque, diciamo amico-nemico, dico così io, l'anonimo di Malta, ci ha tramandato, a noi ultimogeniti eredi del pensiero, lasciandoci soggiacere al giogo dell'ente fluttuante tra l'essere e il nulla, che tanti problemi sembra aver creato a qualche nostro divino contemporaneo, altra mente eccelsa, dice il povero l'anonimo di Malta. Ma, Gionata, dal tuo singolo destino siamo finiti al destino, a quanto pare, di una civiltà! E, invece, tu, tu Gionata, sei curioso di sapere come vai a finire, come vai a finire tu, col tuo carico di dolente umanità! Che dirti, Gionata? Sono accanto a te, Gionata, voltati a guardarmi. Voltati, Gionata!"

Silvio Minieri ha detto...

È ovvio che Gionata non si voltò, perché "sapeva" che nessuno era venuto a sedersi accanto a lui sulla panchina nel parco, accanto a lui, Gionata ragioniere settuagenario, pensionato della ditta "Dolciaria Castelli". "Quale" Gionata? Appunto quest'ultimo Gionata, non il Gionata astratto dalla sua determinazione, "qualità" diremmo, di ragioniere settantenne pensionato, in quella giornata novembrina, seduto su quella panchina nel parco ed intento a leggere il libro: "Riflessi d'oro nell'acqua" dell'anonimo di Malta. Ma è anche ovvio che Gionata, sempre lui, il solito ragioniere settuagenario etc., pensò, si rappresentò nella mente, possiamo dire, l'azione di voltarsi a guardare l'invisibile anonimo di Malta, seduto accanto a lui, perché "sapeva" che era la lettura del libro, cioè il pensiero e non la realtà - come se poi ci fosse un pensiero distinto dalla realtà! - a rimandargli l'idea, l'immagine, la vuota ombra dell'anonimo di Malta seduto accanto a lui, invisibile in quanto appunto idea, immagine, vuota ombra, figura di quel mondo vero, inventato dal divino evocato dall'anonimo di Malta* e smascherato dall'altro divino, che peraltro si nasconde dietro la maschera dell'anonimo di Malta, come mondo di favola. Chi aveva ragione fra i due? Il "sapere" di Gionata è uguale in entrambi i casi? Noi non ci addentreremo nelle risposte a questi interrogativi. Siamo troppo occupati a seguire il destino di Gionata, il "nostro" Gionata che legge il libro dell'anonimo di Malta: "Riflessi d'oro nell'acqua". E dobbiamo ancora vedere, è il caso, proprio il caso, di dire "vedere", se quello che Gionata legge, se continua a leggere, si realizzerà. Ma non sono io a decidere del destino di Gionata, io, in quanto artefice della storia che comprende Gionata settuagenario che legge il libro dell'anonimo di Malta? Sì, è indubbio che io sono il signore del suo destino, ma io non sono soltanto quello che scrive e fabbrica la storia, ma sono anche quello che la legge e che quindi è interessato a sapere come va a finire, la storia, la storia di Gionata, di Gionata settuagenario etc., perché è chiaro che, prima di scriverla, neppure io la conosco, non perché non posso leggerla, ma perché, pur confusamente sapendo, diciamolo va', dionisiacamente straziandomi, l'Apollo che apparirà sulla nube della conoscenza io ancora non posso vederlo, prima della sua apparizione, cioè a dire, in parole non nietzschiane, e va bene, per chi non l'aveva ancora capito - e chi non l'aveva capito? - il divino a cui prima si alludeva, successore e oppositore di un altro divino, fra i divini il più divino di tutti, era lui... ebbene in parole non nietzschiane, prima di avere creato l'opera, la stesura definitiva del testo, neppure io posso conoscerla, intenderla, "vederla", anche se già la conosco nell'inconscio. Quest'ultima proposizione ovviamente è tutta da discutere, ma noi non la discuteremo. Siamo impazienti di conoscere il destino di Gionata. Oh, Gionata!"

Silvio Minieri ha detto...

Ho continuato a leggere il libro di Benevoluto. Mi appariva interessante il modo di procedere nel ragionamento di questo dottore in scienze di conoscenze dell'anima, la sua esperienza della filosofia, soprattutto della filosofia di Nietzsche, che sorprendentemente aveva fatto scivolare nella sua storia di Gionata. Mi sono chiesto: Benevoluto è Gionata? Ho risposto: no!
Poi sono andato a leggermi la nota contrassegnata dall'asterisco. Era interessante. Diceva la nota:
“Il divino di cui si parla è ovviamente Platone. L'altro divino che lo smaschera è, come si capisce, Nietzsche, il quale, nel momento in cui smaschera il dio, assume anche lui la maschera della divinità, Anonimo di Malta, il dio-artista che scrive e regola il destino di Gionata, in cui si specchia il destino di un altro Gionata, contraltare del dio-artista in uno stesso pantheon.
Ma il giuoco delle maschere, che a prima vista sembra svelare il mistero del capriccio divino, finisce per indurci al sospetto che anch'esso è inscritto in un destino più ampio racchiuso nel cerchio del possibile, al di fuori del quale può accadere l'inverosimile, come metamorfosi di forme e figure che si dissolvono e trasformano in altre sempre nuove e cangianti figurazioni.
Ed allora, nello sguardo del Destino, non finiscono per dissolversi, entrambe le maschere di Nietzsche e Platone, per fondersi e formare un Angelus Novus, che reca il suo inaudito messaggio sulla Terra?
Noi siamo qui, nell'ambito della filosofia della Vita, ma è da quest'ambito che sembra volersi sviluppare il dominio sulla vita, che è poi il dominio della Tecnica.”

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 4
Ho meditato sul contenuto della nota, esplicativa del pensiero del Benevoluto, quindi ho ripreso la lettura del testo, che m'incuriosiva: la vicenda di Gionata, il suo destino direi, il finale della storiella.
"Gionata continuava a leggere il libro dell'Anonimo di Malta, seduto sulla panchina nel parco, nei colori sfumati della luce novembrina: "Caro Gionata, leggerai tutto il libro fino alla fine, restando seduto sulla panchina, saltando i passi meno interessanti, qua e là. Leggerai attentamente la fine. Certo, il tuo destino non ha molto a che vedere con questo libro e con la storia narrata in questo libro, ma io resterò seduto qui, a fianco a te, a te invisibile, a te che neppure nella tua realtà più o meno "vera" della mia, non so, a te, che, non voltandoti verso di me, non hai dato cura delle mie premonizioni, ordini da un altro mondo, non è così, Gionata! Devi mantenere il punto, vero? Vecchio settuagenario! Pausa. Ed ora che accontentandomi ti sei voltato, continuami a leggere. Leggi, Gionata!"
Il vecchio ragioniere settuagenario, non voltandosi, restò molto soddisfatto dall'essere riuscito a discostarsi nella realtà da quello che, in quel punto del libro che stava leggendo, appariva come il racconto in contemporanea dello svolgersi della sua vita. All'improvviso, il momento presente gli si era rivelato come un istante irripetibile, in cui le due strade, quella del passato (lo scritto) e quella del futuro (la vita che viveva) si erano scontrate e congiunte, formando un immane attimo, l'Attimo presente. Ma la soddisfazione o felicità di Gionata fu di breve durata. Si rese immediatamente conto che doveva leggere quel libro, per sapere come lui doveva andare a finire nella pre-visione dell'Anonimo di Malta, e poi controllare se quelle profezie da Nostradamus della filosofia venivano ad avverarsi. Ma come? E se nel finale del libro Gionata moriva e si parlava dei suoi funerali, eventi che egli non avrebbe potuto riscontrare... E dunque? Gionata fu colto da un attimo di smarrimento. Una sottile angoscia lo pervase. Era, a giudicare dalle pagine lette, a metà circa del libro. Non riuscì a trattenersi e corse alla fine. Era sicuro che la fine trattasse della sua morte, quasi un sigillo: muori, Gionata! Ma si sbagliava. L'ultima frase si accordava ad un diverso andamento del testo: "Ora che siamo giunti alla fine del labirinto di vetro, dove l'enigma dei rimandi è stato sciolto, anche se non possiamo riconoscere o ricordare il percorso compiuto e perduto, ora noi siamo liberi di rientrare e riuscire, liberi di avventurarci di nuovo nel labirinto e di venirne fuori, con la coscienza sempre di non poterci più smarrire."

Silvio Minieri ha detto...

Gionata considerò il testo, ritornando all'indice, posto all'inizio. Il libro era diviso in due libri: il libro primo ed il libro secondo. Il libro primo, che occupava quasi la metà del volume, consisteva in una lunga disquisizione sul significato della psiche negli esseri viventi. Il libro secondo era suddiviso in tre parti numerate, ma senza titolo e comprendeva tre storie, riconducibili a tre titoli di libri, che comparivano nel mezzo dello svolgimento di ogni storia, citati con l'espediente del protagonista di ognuna di codeste storie colto nell'atto di leggere un libro. E così era per Gionata in "Riflessi d'oro nell'acqua", frase quest'ultima utilizzata anche come titolo principale di tutta l'opera, Livia in "Nella profondità dello specchio", Livia ancora in "Il labirinto di vetro". Quello che a Gionata restava non chiarito, nel sommario esame del volume dell'anonimo di Malta, era come si legassero le tre storie tra loro, seppure divise nelle tre parti, di cui risultava composto il libro secondo. Passò allora a leggere il brano iniziale, riguardante la storia di "Nella profondità dello specchio": "Quando Livia si guarda nello specchio vede la sua immagine, ma è cosciente che lì, in quella profondità dello specchio, quella figura riflessa, che la guarda negli occhi, è il suo Sé-altro, quello "vero". Sa che, se toglie lo specchio, quello che rimane non è la realtà, ma un vuoto esistere, privo d'immagine e quindi privo di verità. Senza lo specchio, dove leggere, "vedere" la realtà, quella vera che si svolge nella profondità dello specchio? E non perché siano stati rovesciati i significati di vero e falso, nominando vero il falso e falso il vero, per cui risulta che la realtà del mondo, della vita, dei sensi sia divenuta falsa e l'immagine speculare rinviata dalla superficie levigata, che rimanda i raggi di luce, sia divenuta vera. Ma perché noi non sappiamo di vivere nella profondità del grande specchio cosmico, immagini riflesse di una verità che si svolge altrove da noi, in quell'oltre-celeste regno, che secoli fa, sulle sponde del Mediterraneo, un pensatore greco nominò come Iperuranio."
Gionata non era soddisfatto sfogliò di nuovo le pagine, tornando indietro, per cogliere la connessione tra le due storie quella di Gionata di "Riflessi d'oro nell'acqua" e quella di Livia di "Nella profondità dello specchio". Andò diverse volte un po' avanti e un po' indietro con le pagine, finché non soffermò la sua attenzione sul passo finale della prima parte del libro secondo.

Silvio Minieri ha detto...

"E l'anziano ragioniere raccolse alcuni sassolini da terra: erano bagnati o meglio umidi; li osservava nel palmo della sua mano e gli sembrò di cogliere sulla sfaccettatura di uno di essi un raggio di luce iridescente. Si avvicinò un'ombra che rese opaca la luminosità di quegli umidi sassolini raccolti tra la ghiaia del parco. Gionata alzò la testa e vide la donna giovane, ferma davanti a lui. Aveva i capelli neri bagnati ed il vestito scuro con l'orlo inferiore, che cadeva molto al di sopra del ginocchio, mostrando due gambe lunghe e tornite. Accanto a lui un bambino con un cappottino blu ed un cappello blu scuro che gli copriva anche le orecchie. "Oh, me li regala, signore!", disse il bambino guardando i sassolini levigati e umidi raccolti sul palmo della mano di Gionata. "Certo, prendili!" rispose Gionata e porse i sassolini al bambino, che subito li afferrò e li strinse nel piccolo pugno. Poi riaprì il palmo della manina, osservò con attenzione le sfaccettature lucenti dei sassolini ed esclamò: "Sono multicolori!". Saltellò felice allontanandosi e disse: "Grazie, signore!" Gionata osservò la madre, che era ferma di fronte a lui e muta lo fissava negli occhi, e si accorse che lei aveva il volto bagnato ed il vestito bagnato. "Piove," disse, "piove sul ciglio della strada, sulla soglia dei viali nel parco, sul suo volto bagnato." La donna domandò: "Ma è questo il parco delle Fontane?". Fissava Gionata con i suoi occhi neri, in attesa della risposta. "Sì, signora!" "Grazie!" rispose lei e si allontanò, seguendo il bimbetto. Gionata rimase ad osservare l'alta e piena figura di donna, mentre raggiungeva la piccola sagoma in fondo al viale e si sentì ancora sotto l'effetto di quella presenza femminile, che aveva lasciato intorno a sé come un'impronta di aura sensuale.
Ed allora Gionata si alzò e s'incamminò sul viale in quella giornata novembrina, sul viale del parco cosparso di foglie rosso rame ed oro, tra gli alberi dai rami nudi. È solo Gionata nel parco e si avvia in fondo al viale. Dove andrà? Gli dèi non lo sanno. Ma lo sanno i mortali? Conoscono i mortali il destino di Gionata? O pretenderanno forse di divinarlo, scrutando nel futuro, lì, in alto nei cieli o, forse, altrove, in imi più profondi?"
Gionata girò il foglio: mancavano quasi una pagina e mezzo alla fine della parte prima del libro secondo del testo dell’Anonimo di Malta. Ed allora l'anziano pensionato pose il dito indice fra le pagine, chiuse il volume, lo posò su una gamba e restò soprappensiero, guardando in fondo al viale, illuminato dalla luce del pallido sole autunnale. Poi lentamente si voltò alla sua sinistra, guardando il lato vuoto della panchina, ma subito con un leggero sussulto, seguito da un breve sorrisetto di ripensamento, guardò dinanzi a sé. Si era ricordato di quanto l'anonimo scriveva al punto in cui aveva interrotto la lettura della storia di "Riflessi d'oro nell'acqua", per passare impaziente in avanti e saltare alla fine e si era reso conto di avere eseguito la predizione, sebbene in breve differita. Sempre sorridendo tra sé, Gionata settuagenario riaprì il libro, ritornando al punto in cui l'aveva lasciato. Riprese a leggere il testo un po' più sopra dell'ultimo passo già letto prima.

Silvio Minieri ha detto...

"Certo, il tuo destino non ha molto a che vedere con questo libro e con la storia narrata in questo libro, ma io resterò seduto qui, a fianco a te, a te invisibile, a te che neppure nella tua realtà più o meno "vera" della mia, non so, a te, che, non voltandoti verso di me, non hai dato cura delle mie premonizioni, ordini da un altro mondo, non è così, Gionata! Devi mantenere il punto, vero? Vecchio settuagenario! Pausa. Ed ora che ti sei voltato, accontentandomi, continuami a leggere. Leggi, Gionata!
Guarda nell'aria autunnale illuminata dal pallido sole che riflette i suoi deboli raggi d'oro nell'acqua della pozzanghera, osserva le foglie gialle rosse ed ocra cadute dai rami degli alberi ora nudi e sparse nei viali del parco e sui prati d'intorno. Certo, tu, ora, salti oltre nella lettura, colto da un improvviso panico di poter conoscere in anticipo il tuo destino e la tua rapida occhiata qui sotto, prima di passare oltre, sembra lasciarti intuire o credere che io, l'anonimo di Malta, continui sul tema dell'autunno nel parco.
Non è così, Gionata settuagenario! E lasciami dire che io tendo sempre a te dei tranelli, come quando più sopra ti ho dato dell'ottuagenario, spingendoti a non obbedirmi subito. Hai sorriso, Gionata, credendo di poterti sottrarre al mio giogo: ma ora sai che non è così! Ti sei voltato, vero? Verso di me, verso di me, invisibile ed anonimo, da Malta. Caro, vecchio Gionata. Lasciami impiegare queste trite espressioni, tipo: caro, vecchio etc. Ma creano esse, con quel loro essere scontate, un'aura più familiare tra noi e meno decisamente preziosa o formale.
E dunque? Andremo così avanti ancora per un pezzo tra giochi e rinvii dalla lettura alla "tua" realtà e dalla realtà tua alla lettura, come in un gioco di specchi e di specchietti tra favola e realtà. Ma, alla fine, e tu lo sai, chiuso questo libro, tu ti alzerai dalla panchina e t'incamminerai lungo il viale, dove in fondo incontrerai il tuo destino, nell'ora del meriggio d'autunno, quando i riflessi d'oro del sole sfumati riluceranno sulla trasparenza dell'acqua della pozzanghera.
Chi è quell'uomo, in fondo al viale, che giace disteso bocconi? Chi è quella donna, a metà inginocchiata accanto a lui, nell'atto di soccorrerlo. Vedi, Gionata, alla donna, piegandosi, si è alzata ancor di più sulle cosce la veste già corta, mostrando quasi per intero le gambe sode e tornite e suscitando così in te, Gionata settuagenario, ma sempre vitale, il desiderio dei sensi. Che, Gionata? Non è forse l'istinto vitale, il desiderio dei sensi, quello che si ridesta al momento finale, quello della dipartita nello spirito, l'ultimo disperato sussulto della carne moribonda. Oh, Gionata!"
L'anziano ragioniere alzò gli occhi dal libro e guardò in fondo al viale del parco d'autunno. Si rappresentò un uomo disteso bocconi ed una donna china a soccorrerlo, mostrando in quell'atto le gambe e rinvenne nella sua memoria l'antico gioco infantile, che in quella parte del corpo femminile spiato scopriva le prime immagini di uno sconosciuto desiderio, venuto a turbare i suoi sogni di adolescente. Ma perché?
Gionata continuò a leggere il libro seduto sulla panchina, saltando i passi e andando di nuovo oltre, sino alla fine. Quindi chiuse il libro, restò per alcuni momenti a guardare i rami nudi e le foglie rosso rame e gialle sparse d'intorno e la luce autunnale e il sole sfuocato nel cielo, poi si alzò e s'incamminò lungo il viale, andando incontro al suo destino."

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 5
Mi appariva chiaro che la trama del testo del Benevoluto si svolgeva sul tema sotteso della relazione tra l'artista ed i personaggi da lui creati, come metafora dell'interrogativo epistemico fondamentale, a cui trova risposta l'opera di un dio-artista creatore del mondo e delle sue creature, cioè il nostro mondo, popolato da noi, esseri mortali. Era ovvio che l'interrogativo trascinava con sé il quesito sul problema della libertà, che alla luce della metafora del dio-artista veniva a risolversi come libertà necessitata, assenza di libertà nella necessità della predeterminazione.
Inoltre, l'autore del libro, il Benevoluto, presentava tale interrogativo filosofico nella forma in cui l'ha formulato Nietzsche, il primo Nietzsche di "La nascita della tragedia". Invero, di fronte all'interrogativo di tutti e di sempre e che da sempre costituisce ogni autentico pensare filosofico, di un pensiero cioè che insegue il desiderio di sapere, di fronte all'interrogativo, dunque, del "chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?", anche il primo, ed alcuni dicono autentico ed unico, Nietzsche ha risposto, ha dovuto rispondere come l'antico greco, che fu il primo a dare soluzione, a voler dare soluzione, a questo interrogativo, così come ci resta testimonianza nella nostra civiltà occidentale. Come ha risposto Nietzsche?
"L'esistenza del mondo è giustificata unicamente come fenomeno estetico... dietro ogni accadere (si riconosce) solo un senso e un senso recondito d'artista. - un "Dio", se si vuole, ma certo solo un Dio-artista..."
Nietzsche presenta il pensiero greco come l'apollineo che toglie al disordine della passione dionisiaca la maschera ovvero le varie maschere introdotte dal mito, ordinando il caos nelle categorie del pensiero socratico, così come ci sono state tramandate da Platone, il primo che contribuì a costruire quel grande inganno del mondo delle Idee, che avrebbe improntato di sé tutta la storia occidentale e che, attraverso la tradizione patristica medievale, avrebbe costruito la morale cristiana, volta al rifiuto del mondo e contro cui appunto si sarebbe scagliato Nietzsche nel suo furore distruttivo di Anticristo. Contro "l'ostilità alla vita" del cristianesimo, "la rabbiosa e vendicativa avversione alla vita", Nietzsche avrebbe rivendicato la bellezza e la sensualità della vita stessa, rovesciando il mondo vero del platonismo, l'essere che fissa il caos del divenire nelle Idee, nel mondo apparente ed il mondo apparente del divenire nel mondo vero, che lascia fluire le forze caotiche del divenire, per andare poi oltre il rovesciamento di questo mondo apparente nel mondo vero, rovesciamento che lascia ancora sussistere una differenza tra "mondo apparente" e "mondo vero", eliminando anche il "mondo vero", se la verità è errore: Nietzsche, il nichilismo.

Silvio Minieri ha detto...

Ero immerso in questi miei pensieri che la lettura dei brani del libro del Benevoluto mi aveva suscitato, quando ho sentito improvvisamente freddo. Mi sono alzato e sono andato ad accertarmi se i termosifoni fossero stati spenti. Avutane contezza, mi sono diretto verso la finestra leggermente socchiusa ed ho chiuso ermeticamente i vetri. Sono tornato alla scrivania ed ho guardato l'ora sul quadrante dell'orologio: la lancetta segnava quasi l'una. Nel silenzio della notte, ho pensato di riprendere la lettura, anche se ero distratto dal pensiero del nichilismo, che si era affacciato nel mondo della mia immaginazione concettuale. Ho pensato che sarebbe stato più opportuno riflettere su questo tema in altra occasione e sono tornato alle mie considerazioni sui temi sottesi dal Benvoluto nell'esposizione della trama del suo libro, "Scendendo la scala del destino".
Era indubbio che l'autore aveva espresso nel titolo il suo disegno: scendere i gradini significava procedere sempre più verso livelli, contenuti l'uno nell'altro. Ma perché scendere? E scendere dove? In questo scendere doveva rintracciarsi il senso recondito del libro, il suo vero significato, al di là dell'immaginario letterario, percorso dall'interrogativo filosofico di fondo. Il nucleo del pensiero del Benevoluto era dunque racchiuso nel libro secondo del testo, che l'autore faceva leggere al protagonista della storia da lui raccontata, quel Gionata ragioniere, pensionato settuagenario, che leggendo il libro "Riflessi d'oro nell'acqua" vedeva il suo presente specchiarsi nell'azione del libro. Ma ovviamente il Benevoluto parlava di un libro inesistente ed il cui contenuto eventuale io non potevo facilmente rintracciare nel suo testo, senza doverlo leggere tutto dal principio alla fine. Pertanto, pensai che forse l'autore aveva seguito lo svolgimento della trama del libro, come l'aveva immaginata per il libro letto dal suo personaggio.
Comunque chiusi il volume e andai a osservarne la copertina, che raffigurava una scala stilizzata discendente (ma perché discendente? Non poteva essere vista nella prospettiva contraria della risalita? L'elemento del discendere era suggerito dal titolo, certo!) tra nubi bianche in un cielo azzurro. Ma, poi, erano nubi quelle macchie bianche ed era cielo quello sfondo turchino? Al centro della scala in un riquadro era raffigurato un uomo con una folta capigliatura bianca, seduto su quella che apparentemente poteva ritenersi un'altalena. Aprii e lessi sul risvolto della copertina, in caratteri bianchi su sfondo azzurro, la presentazione editoriale.

Silvio Minieri ha detto...

Ero immerso in questi miei pensieri che la lettura dei brani del libro del Benevoluto mi aveva suscitato, quando ho sentito improvvisamente freddo. Mi sono alzato e sono andato ad accertarmi se i termosifoni fossero stati spenti. Avutane contezza, mi sono diretto verso la finestra leggermente socchiusa ed ho chiuso ermeticamente i vetri. Sono tornato alla scrivania ed ho guardato l'ora sul quadrante dell'orologio: la lancetta segnava quasi l'una. Nel silenzio della notte, ho pensato di riprendere la lettura, anche se ero distratto dal pensiero del nichilismo, che si era affacciato nel mondo della mia immaginazione concettuale. Ho pensato che sarebbe stato più opportuno riflettere su questo tema in altra occasione e sono tornato alle mie considerazioni sui temi sottesi dal Benvoluto nell'esposizione della trama del suo libro, "Scendendo la scala del destino".
Era indubbio che l'autore aveva espresso nel titolo il suo disegno: scendere i gradini significava procedere sempre più verso livelli, contenuti l'uno nell'altro. Ma perché scendere? E scendere dove? In questo scendere doveva rintracciarsi il senso recondito del libro, il suo vero significato, al di là dell'immaginario letterario, percorso dall'interrogativo filosofico di fondo. Il nucleo del pensiero del Benevoluto era dunque racchiuso nel libro secondo del testo, che l'autore faceva leggere al protagonista della storia da lui raccontata, quel Gionata ragioniere, pensionato settuagenario, che leggendo il libro "Riflessi d'oro nell'acqua" vedeva il suo presente specchiarsi nell'azione del libro. Ma ovviamente il Benevoluto parlava di un libro inesistente ed il cui contenuto eventuale io non potevo facilmente rintracciare nel suo testo, senza doverlo leggere tutto dal principio alla fine. Pertanto, pensai che forse l'autore aveva seguito lo svolgimento della trama del libro, come l'aveva immaginata per il libro letto dal suo personaggio.
Comunque chiusi il volume e andai a osservarne la copertina, che raffigurava una scala stilizzata discendente (ma perché discendente? Non poteva essere vista nella prospettiva contraria della risalita? L'elemento del discendere era suggerito dal titolo, certo!) tra nubi bianche in un cielo azzurro. Ma, poi, erano nubi quelle macchie bianche ed era cielo quello sfondo turchino? Al centro della scala in un riquadro era raffigurato un uomo con una folta capigliatura bianca, seduto su quella che apparentemente poteva ritenersi un'altalena. Aprii e lessi sul risvolto della copertina, in caratteri bianchi su sfondo azzurro, la presentazione editoriale:

Silvio Minieri ha detto...

Ero rilassato, la lettura era piacevole e l'umorismo del Benevoluto mi stimolava a proseguire, non ostante il sonno. Aggiustai la lampada, che scottava, mi accomodai meglio sulla sedia e ripresi a leggere:
"All'inizio dell'era moderna si affaccia il dubbio di Cartesio e marca definitivamente la distinzione tra res cogitans e res extensa, tra spirito e materia, tra anima e corpo. Oggi noi ragioniamo, ritenendo indiscussa l'esistenza di questa distinzione. Ma non è arrivato il tempo di ricominciare a ridiscuterla ed a ripensare le categorie, che riteniamo definitivamente acquisite dal pensiero moderno, di anima e corpo, materia e spirito, soma e psiche?
Gli antichi ritenevano che il corpo si potesse ammalare e l'uomo morire, ma non l'anima, che Platone dichiarò immortale e che descrisse come trasmigrante di corpo in corpo (quindi per Platone l'eventuale sarchiapone ha un'anima), secondo la dottrina orfica. Il cadavere inanimato è il simbolo del mortale, lo spirito animato che vaga nei corpi è il simbolo dell'immortale. La morte è la frontiera, il confine tra il corpo e l'anima.
Nel Medio Evo, saltando la tradizione gnostica dell'esistenza come caduta dell'anima nell'esilio della terra, la vis patristica, vera violenza, degradò gli esseri animati, che non fossero il bipede eretto con attributi sessuali maschili, a esseri inanimati, senza soffio..."
Improvvisi e violenti colpi alla porta mi destarono dall'estasi della lettura. Mi volsi verso il buio della porta. Il cuore cominciò a battere violentemente, mentre sentivo scendere il sangue dalla testa. Ero paralizzato dalla sorpresa! Soprattutto per la violenza dei colpi. Allungai una mano sul pulsante della lampada e la spensi. Nel buio mi parve di sentire l'eco del "tic" prodotto dal pulsante schiacciato. Distinsi la linea di luce, che filtrava dal corridoio illuminato ed avvertii distintamente uno scalpiccio di passi che si allontanavano, poi tornavano, si fermavano, quindi si allontanavano, questa volta definitivamente. Sentii scendere le scale. Rimasi a lungo seduto al buio. Ma chi era stato? E perché, al di là della sorpresa, avevo avuto paura? Quasi fossi stato colto nella flagranza di un'attività illecita, contraria alle buone norme del vivere civile, come per esempio fare un rumore infernale in ore notturne, mentre tutti riposano. Pensai al gran baccano degli spiriti liberi di nietzscheana invenzione e repressi un riso isterico prorompente nel petto. L'incubo ebbe termine. Mi alzai, facendo rumore con la sedia e riaccesi la lampada. Poi andai verso l'interruttore della luce e premetti. La stanza s'illuminò. Tornai alla scrivania, e dopo essermi versato un bicchiere d'acqua, bevvi avidamente. Continuai a bere dal collo della bottiglia. L'aria della stanza era secca. Andai alla porta, la spalancai, e deciso, mi affacciai sul corridoio deserto. Poi, senza richiudere la porta, mi avviai verso il pianerottolo degli ascensori e discesi una rampa di scale. Ero giunto al piano di sotto e cominciai a percorrerlo, quando la luce a tempo si spense. Rimasi sorpreso e mi fermai al buio. Vidi una luce filtrare al di sotto di una porta di una stanza. Cautamente mi accostai alla porta ed alzai il pugno per bussare. Restai col braccio sospeso per aria. Avevo intenzione di vibrare colpi secchi e violenti. Poi capii di essere come prigioniero di un incantesimo e mi spostai di lato. Riaccesi la luce a tempo ed il corridoio s'illuminò. Lessi automaticamente il numero della porta, a cui avevo avuto intenzione di bussare, violentemente: era il numero ventisette. Voltai le spalle mi allontanai. Risalii le scale e tornai nella mia stanza. Richiusi la porta. Spensi la luce della lampada sulla scrivania, spensi la luce che illuminava la stanza. Spostai il pacco col vestito, che avevo comperato nella bottega di "Alice", sull'altro lato del letto matrimoniale e mi distesi. Chiusi gli occhi.

Silvio Minieri ha detto...

CAPITOLO 6
Nella luce azzurrina della notte, sentii bussare alla porta. Socchiusi gli occhi e sentii sussurrare: "Lafleur!" Poco dopo, la porta si aprì ed una donna in sottoveste bianca s'introdusse nella stanza. Silenziosamente, s'infilò sotto la coperta, distendendosi accanto a me. Sentii il suo corpo flessuoso aderire al mio. Mi voltai verso di lei, abbracciandola e baciandola sulle labbra. Era Alice. Il desiderio e la sensualità si confusero in gesti d'amore. Un conturbante piacere mi avvolse nel sonno. Ora dormivo.
Mi sono svegliato. Sono sceso dal letto, e senza guardare alla forma distesa accanto a me, mi sono alzato. Poco dopo, sono già pronto e scendo giù nella sala della prima colazione. È deserta. Torno nell'atrio. Il portiere sta esaminando i registri dell'albergo. Mi avvicino al bancone e chiedo un caffelatte.
Guardo la televisione, appoggiato ad una colonna dell'atrio, mentre sorseggio il caffelatte, in un bicchiere di vetro, quasi fosse una bevanda alcolica. Sullo schermo televisivo a colori, compare il presentatore e pronuncia il buongiorno: "Signori e signore, animali ed animalesse, buongiorno!" Divertito, osservo con più attenzione l'immagine sullo schermo e scopro che il presentatore ha una testa di volpe e indossa giacca e cravatta. Sempre più divertito da questi programmi per ragazzi trasmessi da canali televisivi privati, mi volto verso il portiere, accosto il bicchiere alle labbra, e dopo una breve sorsata di caffelatte, abbasso il bicchiere. Sorrido e mi sorprendo a fare l'occhiolino al portiere. L'uomo, imbarazzato, abbassa lo sguardo sui registri, dove sono segnati gli arrivi e le partenze dei clienti dell'albergo. Risalgo in camera e mi distendo al buio. Chiudo gli occhi per dormire, li riapro e mi accorgo di avere sognato, perché la stanza è al buio ed accanto a me tasto con la mano soltanto il pacco col vestito. Ma quei colpi violenti alla porta li ho sognati oppure appartengono alla realtà di ieri sera, prima che mi addormentassi? Mi rigiro nel letto e torno a dormire. Ora, distintamente, sento dei leggeri tocchi alla porta. Apro gli occhi. La stanza è inondata dalla luce del giorno. Questa volta mi sono svegliato per davvero. I tocchi alla porta si ripetono, leggeri. Mi metto a sedere sul letto: "Avanti!" esclamo a voce alta. La porta si apre ed entra una giovane donna da camera, recando un vassoio. "Tè o caffè?" interroga e mi guarda. "Caffè" rispondo. Si riaffaccia sul corridoio e traffica con le tazze e le tazzine sul vassoio. Infine entra e si avvicina al mio letto, portandomi il vassoio con la tazzina del caffè. Nel porgermela, la giovane donna si china e lascia intravedere una generosa scollatura. Do una sbirciatina ed osservo la pelle rosea leggermente macchiata da efelidi del seno fiorente. Prendo la tazzina che mi porge e ringrazio. Lei si volta verso il carrello, che si è portata dietro e prende alcune zollette dalla zuccheriera. "Lo zucchero" dice, mostrandomi le zollette. Allungo la tazzina verso di lei, che di nuovo si china, interrogando: "Quante? Due o una?". "Due" rispondo e torno a guardarle il seno florido. Lascia cadere le zollette, sollevando un piccolo zampillo di caffè. Poi, invece di ritrarsi, si avvicina col seno verso il mio viso. Mi volto verso la finestra a guardare la luce del giorno e mi sento confuso. Mi volto di nuovo verso di lei, senza guardarla ed affondo il viso in quella soffice mollezza, che inopinatamente avverto fresca e non teneramente tiepida. Mi rigiro, assaporando la soffice morbidezza del cuscino.

Silvio Minieri ha detto...

Ho aperto gli occhi. Ora sono veramente sveglio, del tutto. È giorno. La visione di bellezza e sensualità femminile si è definitivamente dissolta. È giorno, Lafleur! I miei piedi penzolano da un lato del letto. Infine mi decido, poso i piedi a terra e mi alzo. Ora sono in piedi, completamente sveglio, nella stanza d'albergo dell’Aquila. Ma chi è stato che ha bussato violentemente alla porta ieri notte, inducendomi a quella strana incursione notturna nel piano di sotto?
Ripenso al sogno, o meglio ai sogni appena fatti. La prima presenza femminile notturna senza volto era la proprietaria o gerente il negozio di abbigliamento “Alice", ma di chi era il volto della giovane donna da camera dell'ultimo sogno mattutino, quello che ha immediatamente preceduto il risveglio? Riflettendo meglio, mi tornano nella mente altre immagini della notte: ho sognato dell'altro. Mentre mi aggiro per la stanza e vado in bagno a lavarmi, ricordo con maggiore precisione: nella notte, passeggio sotto i portici di via Po, a Torino, venendo da piazza Vittorio. È buio. Ma le luci del portico illuminano il viso di lei, il viso pieno di efelidi della giovane donna da camera, che è Claudia, il mio antico amore, ai tempi dell'università e di Casiero. Claudia! Quel giovane viso è per me rimasto così, immutato, a contrastare la rovina del tempo. Il tempo non cancella i volti scolpiti nella memoria. Non tornare alla realtà, Lafleur! Ritorna nel sogno, rimani nel sogno!
Ripenso con nostalgia al colonnato, illuminato dalla bianca luce al neon. Da dove viene questa immagine? Riprendo i libri dalla scrivania, rimetto tutti i miei effetti nella valigia, compreso il pacco col vestito. Quando il bagaglio è pronto ed io mi sono sistemato, do un'occhiata alla stanza, per osservare se ho lasciato qualche cosa di mio. Poi esco e scendo nell'atrio.
Una donna bassa e pienotta parla nervosamente con un uomo alto e con i capelli bianchi, il volto pieno di rughe. Forse quello strano visitatore notturno che ha picchiato violentemente alla mia porta alle tre di notte, ieri sera, era un nevrotico che non riusciva a dormire ed attribuiva la sua insonnia ad una radio immaginaria, che rimandava suoni, seppure attutiti, ma ingigantiti nella notte o nella sua mente malata. Forse era lei il nevrotico visitatore notturno, quella donna bassa e pienotta, che si agita così nervosamente col marito, presumibilmente il marito, quell'uomo alto ed asciutto, con i capelli bianchi ed il viso rugoso. E credeva di avere localizzato i rumori, unicamente reali nella sua testa di esaurita mentale, giudicandoli provenire dalla mia stanza, dove soltanto alto era il baccano degli spiriti liberi. Ohé!
Al bancone, pago il conto e mi allontano, recando il bagaglio con me. Mi avvio verso la piazza degli autobus. Parto. Per andare dove?