“Pur nella grande ricchezza delle nostre lingue, il pensatore si trova spesso in imbarazzo nella ricerca di un’espressione che risponda esattamente al suo concetto… Coniare nuovi termini è come una pretesa di dettar leggi nella lingua.” Così si esprime Immanuel Kant nella “Critica della Ragion pura”, e precisamente nel paragrafo “Delle idee in generale” della “Dialettica trascendentale”, dove tratta il “concetto” d’idea. Qui, il filosofo di Königsberg sembra criticare quello che nelle sue opere compie a getto continuo, ossia creare un nuovo linguaggio filosofico, tanto che i suoi esegeti hanno dovuto compilare un glossario per interpretarlo. “Pertanto, se per un certo concetto si trova soltanto un termine unico, che nel significato già in corso risponda esattamente a questo concetto… conviene conservargli il suo significato peculiare.” Così continua Kant, risalendo un po’ alla fonte di chi per primo, nella storia del pensiero, aveva creato e fissato un linguaggio concettuale: “Platone si servì dell’espressione ‘idea’ in modo che si vede bene che per essa egli intendeva qualcosa che non soltanto non è ricavato mai dai sensi, ma sorpassa anche di gran lunga i concetti dell’intelletto, di cui si occupò Aristotele, in quanto che nell’esperienza non s’incontra mai nulla che vi sia adeguato.” Un po’ più avanti, nel testo, così continua: “Platone osservò molto bene, che la nostra attività conoscitiva sente un bisogno un po’ più alto di compitare semplici fenomeni secondo un’unità sintetica, per poterli leggere come esperienza, e che la nostra ragione s’innalza a conoscenze, che vanno troppo in là perché un qualunque oggetto, che l’esperienza può dare, possa mai adeguarvisi, ma che, ciò nondimeno, hanno la loro realtà, e non sono per nulla semplici chimere.” In questo passo, parlando del filosofo antico, Kant espone il suo pensiero sulle possibilità e i limiti delle nostre facoltà conoscitive: sensibile, intellettiva e razionale. Se con i sensi noi conosciamo i fenomeni intuitivamente e poi con l’intelletto li raccogliamo nell’unità sintetica a priori, con la ragione andiamo al di là del fenomeno, dove sappiamo dell’esistenza di una realtà noumenica, che il fenomeno rivela, ma di cui non possiamo avere esperienza (la prova). Osserviamo che “il bisogno più alto di compitare semplici fenomeni” della ragione di Kant non è altro che “il capo sospeso verso l’alto, con cui ci formò il dio” di Platone, uno sguardo verso il “cielo stellato”, “dove fu la prima origine dell’anima, perché la nostra patria è il cielo” (Timeo, 90 ab). In entrambi i pensatori riconosciamo quel nostro desiderio d’infinito (de-sidera), le stelle infinitamente lontane, che ci rivelano l’insoddisfazione della nostra condizione finita, un sentimento dell’anima cantato dai poeti romantici dell’Ottocento, in Italia più di tutti da Giacomo Leopardi.
Nel Collegium Fredericianum, dove Kant aveva studiato (1732-40), s’insegnava il latino, l'ebraico dell’Antico Testamento ed il greco del Nuovo Testamento, pertanto egli non ebbe modo di conoscere le dottrine di Platone e Aristotele direttamente dalle fonti, ma attraverso l’uso di un qualche compendio di filosofia. I dialoghi di Platone, infatti, furono tradotti in tedesco soltanto nel secolo successivo da Schleiermacher. Ritornando al suo giudizio sul filosofo antico, Kant così prosegue: “Platone trovava segnatamente le sue idee in tutto ciò che è pratico, che cioè si fonda sulla libertà; la quale, dal canto suo, sta tra le conoscenze, che sono un prodotto proprio della ragione.” Qui, siamo arrivati al punto in cui Kant pone l’idea della libertà tra i prodotti della ragione, un qualcosa in sé non esperibile con i sensi. Ed osservando come Platone abbia esteso il suo concetto delle idee anche alle conoscenze speculative, dichiara di non poterlo seguire su questo terreno e nella deduzione mistica delle idee, che venivano da lui ipostatizzate. Quindi, con l’esempio della virtù, afferma che una tale idea è variabile secondo i tempi e le circostanze e non adoperabile come regola. Se invece viene proposto come modello un uomo virtuoso, allora ognuno potrebbe apprezzarlo nel confronto con l’idea che ha nella propria testa. “Il fatto che un uomo non agirà mai in un modo adeguato al contenuto dell’idea pura della virtù, non dimostra per nulla un che di chimerico in tale pensiero. Ogni giudizio sopra il valore o il disvalore morale è infatti possibile soltanto mediante questa idea”, ma soltanto come approssimazione, a causa degli impedimenti propri della natura umana, come dire i dati empirici. Kant non esclude l’esistenza di un mondo ideale di possibili forme perfette, che per lui è un prodotto della ragione: “La Repubblica platonica è diventata proverbiale come un preteso esempio, che salta agli occhi, di perfezione fantastica, che non può avere sua sede se non nel cervello del pensatore sfaccendato.” Questa critica viene però subito temperata con il riconoscimento che porre il principio di libertà a fondamento della costituzione politica dello Stato è un’idea necessaria per avvicinare il più possibile un grado supremo di perfezione. Infine, su Platone, così conclude: “Se si toglie quello che vi è di esagerato nell’espressione, lo slancio spirituale del filosofo per sollevarsi dall’osservazione della copia nell’ordine fisso dell’Universo al suo sistema architettonico secondo scopi, cioè secondo idee, è uno sforzo che merita di essere rispettato e imitato. Ma per quanto riguarda i principi della moralità, della legislazione e della religione, in cui le idee, prima di tutto, rendono possibile la stessa esperienza (del bene), sebbene non vi possano trovare piena espressione, egli ha il merito del tutto particolare, che non si riconosce soltanto perché si giudica attraverso regole empiriche, la validità delle quali come principii viene appunto distrutta dalle idee.” Quindi afferma il suo punto di vista: “Quanto alla natura, infatti, l’esperienza ci fornisce la regola ed è la fonte della verità; ma rispetto alle leggi morali, l’esperienza (ahimè) è la madre delle illusioni, e niente è più riprovevole che voler determinare o limitare la legge di quel che io devo fare guardando a quello che si fa.” Per Platone, la libertà è un bene così prezioso tanto da essere collocato più in alto del cielo, nella verità delle Idee, laddove per Kant volano soltanto le chimere.
GLI ABITANTI DELLA LUNA Pensare e conoscere tra metafisica e scienza
“Gli oggetti dell’esperienza non sono mai in sé, ma soltanto dati nell’esperienza e non esistono punto fuori di essa. Che nella luna ci possano essere abitanti, benché nessun uomo li abbia mai percepiti, deve certamente ammettersi, ma questo non significa altro se non che nel progresso possibile dell’esperienza noi potremmo incontrarci in essi; giacché reale è tutto quello che sta in un contesto con una percezione, secondo le leggi del progresso empirico.” Così Kant esemplifica la sua dottrina dell’idealismo trascendentale, che non nega l’esistenza delle cose esterne alla coscienza, ma le dichiara conoscibili (intellegibili), soltanto quando se ne ha la prova attraverso i sensi. In questa prospettiva, tutto quello che si conosce si può pensare, ma non tutto quello che si può pensare si può conoscere, e quindi dirsi realmente esistente, come ad esempio Dio, l’anima e il mondo. Erano questi ultimi i tre temi di fondo di cui trattava la Metafisica, ai tempi di Kant, distinti nella Teologia razionale, Psicologia razionale e Cosmologia razionale, e costituenti per il filosofo le tre idee fondamentali, oggetto di discussione e critica nella sua “Dialettica trascendentale”. Al dogmatismo di questi tre insegnamenti egli oppone la sua critica della ragion pura, che avventurandosi nel territorio meta-empirico mostra i limiti della ragione. Quando siamo di fronte a queste tre idee trascendentali, non abbiamo possibilità di farne esperienza. Dice Kant: “La denominazione di concetto razionale dimostra già fin da principio, che questo non vuole essere limitato dentro l’esperienza, poiché esso concerne una conoscenza, di cui ogni conoscenza empirica (e forse la totalità dell’esperienza possibile o della sua sintesi empirica) è soltanto una parte, e alla quale poi invero non c’è esperienza reale che si adegui mai pienamente, benché tuttavia vi appartenga.” Noi in definitiva, possiamo concepire (pensare) non soltanto oggetti esperibili e quindi percepibili, ma anche quelli che non soggetti ad una tale condizione di esperienza. Se i concetti razionali “contengono l’incondizionato, riguardano qualcosa, sotto cui sta ogni esperienza, ma che per sé stesso non è mai oggetto dell’esperienza”. La condizione di tali oggetti del pensiero è di non dover essere condizionati dall’esperienza, ed in questo senso si può parlare di “incondizionato”. La conoscenza limitata all’esperienza diventa ricerca scientifica, quella che verificando le ipotesi con la prova sperimentale, conduce alla scoperta. Se in ipotesi, la prova è esclusa, non vi è conoscenza, “scienza”, ma pensiero razionale, “metafisica”, di cui nella “Dialettica trascendentale” si dimostrano le contraddizioni e i conflitti, un confronto dialettico inconciliabile fra tesi opposte. Gli astronauti del Novecento sbarcati sulla luna non hanno incontrato abitanti fino ad allora sconosciuti, di cui poter fare esperienza e quindi conoscenza, come quando ci viene presentato da un amico incontrato per strada qualche suo accompagnatore, di cui magari avevamo sentito parlare, ma che non avevamo mai “conosciuto” prima. Ed infatti, stringendogli la mano diciamo: “Piacere di conoscerla”. Ecco, per Kant, questo incontro nell’esperienza quotidiana con Dio, l’anima o il mondo non è possibile, anche se è pensabile, essendo la ragione (non l’esperienza) la fonte inesauribile del pensiero.
I GIGLI SULL'ACQUA La Libertà ai confini del Nulla
In genere si critica Kant per la sua distinzione tra “fenomeno” e “noumeno”, obiettando che non si capisce la necessità di distinguere un oggetto reale dalla sua rappresentazione nella nostra coscienza, trattandosi sempre dello stesso oggetto, tranne i casi d’inganno dei sensi, in cui si mostrano come reali aspetti illusori, per i quali comunemente si distingue tra realtà ed apparenza, ad esempio nel miraggio dello specchio d’acqua sull’asfalto d’estate, in realtà una diversa rifrazione dei raggi di luce dovuta al calore. Tranne quest’ultima distinzione, non sembra esserci nessuna differenza in un oggetto, che certo non cambierà, se percepito con i sensi oppure soltanto con il pensiero. Perché distinguere la cosa da come appare (fenomeno) dalla cosa in sé (noumeno)? Vediamo che cosa risponde Kant: “E qui il presupposto, certo comune, ma fallace della realtà assoluta dei fenomeni mostra subito la sua funesta azione sconcertatrice della ragione. Se, infatti, i fenomeni sono cose in sé, non c’è più scampo per la libertà. Allora la natura è la causa completa e in sé sufficientemente determinante di ogni avvenimento, e la condizione di questo è contenuta sempre solo nella serie dei fenomeni, che, al pari dei loro effetti, sono necessariamente subordinati alla legge naturale.” Identificare la rappresentazione della realtà nella nostra coscienza con la realtà esterna, di cui quella interna è il riflesso colto dall’intelligenza, significa togliere ogni possibile libertà non solo al pensiero, ma anche all’azione, che su quella libertà si fonda. Così prosegue Kant, nel suo ragionamento: “Se, invece, i fenomeni non sono presi per nulla più di quello che sono in fatto, non per cose in sé, ma semplici rappresentazioni, legate fra loro secondo leggi empiriche, allora devono avere essi stessi delle cause che non siano fenomeni.” Le cause di cui parla Kant sono i fondamenti (Gründe), non l’abisso del nulla, ma un solido terreno dell’intellegibile. “Ma una tale causa intelligibile, rispetto alla sua causalità, non è determinata da fenomeni, benché i suoi effetti siano fenomeni, e perciò possano essere determinati da altri fenomeni. Essa, dunque, con la sua causalità, è fuori della serie; al contrario i suoi effetti rientrano nella serie delle condizioni empiriche.” Qui il discorso di Kant, che deve conciliare la libertà con la necessità, comincia a divenire oscuro, come egli stesso riconosce: “L’effetto pertanto può, rispetto alla sua causa intelligibile, essere considerato libero, e al tempo stesso tuttavia, rispetto ai fenomeni, come una conseguenza di essi secondo la necessità della natura.” L’equivocità dell’effetto, ad un tempo libero e necessario, non sfugge al giudizio del suo autore: “La distinzione, che si propone in generale e in modo del tutto astratto, deve sembrare straordinariamente sottile ed oscura, ma si chiarirà nell’applicazione.” La dimostrazione di come conciliare libertà e necessità serviva, dunque, per spiegare il perché della distinzione tra il fenomeno e la cosa in sé, da una parte il determinismo del mondo fenomenico, dall’altra la libertà del mondo del pensiero, da un punto di vista speculativo ai confini del nulla, dal punto di vista pratico fondamento dell’azione. Ed in verità l’azione pratica può nascere (essere causata) soltanto dalla libertà, un oggetto trascendentale, come dire un ente di ragione o noumeno, che fonda la sua esistenza su un terreno inconoscibile. Non sappiamo, per usare una suggestiva immagine kantiana, se i gigli affioranti sullo specchio d’acqua di uno stagno abbiano il gambo legato al fondo.
“Il concetto della libertà, in quanto la sua realtà è dimostrata da una legge apodittica della ragion pratica, costituisce ora la chiave di volta dell’intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della ragione speculativa. E tutti gli altri concetti (di Dio e dell’immortalità), che come semplici idee nella ragion pura, rimangono senza punto d’appoggio, si legano ora a quello, e con esso e per esso ricevono consistenza e realtà oggettiva: in altri termini, la loro possibilità viene dimostrata per il fatto che la libertà è reale. Infatti questa idea si manifesta attraverso la legge morale.” La legge apodittica (necessaria) della ragion pratica è la legge morale. Nel mondo fisico, tutto accade seguendo le leggi della natura, almeno questo ci dice la scienza, di cui la metafisica fissa i limiti della conoscenza, nella prospettiva kantiana della critica della ragion pura. Quando piove, tanto per fare un esempio, piove non perché dal cielo Giove pluvio ha deciso di rovesciare l’acqua sulla terra, come dire a causa di una decisione “celeste”, una libera scelta divina, ma per un fenomeno naturale. I nostri sensi percepiscono l’acqua che cade dal cielo e bagna la terra ed il nostro intelletto giudica questo fenomeno “pioggia”. La scienza moderna ci spiega che la pioggia è causata dall’aumento del volume e quindi del peso delle goccioline d’acqua, di cui sono composte le nubi. Quando la loro forza di gravità diviene maggiore delle forze ascensionali che sollevano la nube, comincia a piovere. Nel mondo dell’agire umano, tutto quello che accade non è dovuto alla meccanica di leggi naturali, come dire una successione determinata di fatti, di cui non si scorge l’origine; il tutto, invece, è causato da scelte compiute dalla volontà dell’uomo, il quale liberamente compie le azioni produttive di quegli effetti che noi osserviamo. Nella prospettiva della conoscenza teoretica, gli effetti delle azioni si presentano come fenomeni, vale a dire ricadono sotto il governo di leggi naturali. Se io rovescio dell’acqua dalla finestra di un piano alto della casa sulla strada di sotto, il fenomeno della caduta dell’acqua segue la legge fisica della forza di gravità, ma la caduta non è un fatto dovuto ad una causa, che diciamo naturale ossia necessaria, ma per una libera scelta da me operata. Questa libertà non è osservabile nel mio gesto che rovescia un secchio d’acqua, un fenomeno del mondo sensibile, ma appartiene ad un mondo intellegibile, un noumeno (idea) che si può cogliere soltanto con l’intelletto. In questo senso il mondo pratico non è governato da leggi naturali necessarie, ma da un principio di libertà, proprio dell’uomo. Questi con la sua azione dà inizio alla serie causale dei fatti produttivi di quegli effetti, che nel mondo sensibile sono osservati come fenomeni dalla facoltà conoscitiva della ragione. In conseguenza quello che accade in un certo modo poteva accadere in modo diverso, a seguito di una diversa scelta dell’agente, di un diverso modo di atteggiarsi della sua volontà.
Quindi, nel giudizio sulla bontà delle azioni dell’uomo, ovvero nel giudicare se esse siano buone o meno, il problema della libertà umana si rivela come problema morale. Tornando al mio gesto di rovesciare un secchio d’acqua dalla finestra, se di sotto c’erano dei ragazzini che giocavano a pallone o giovani che facevano scorribande in motocicletta, l’azione appare immediatamente riprovevole o nel secondo caso quanto meno eccessiva; se c’era un fuoco che danneggiava persone o cose, l’azione risulta subito provvidenziale. Ma in base a quale criterio possiamo decidere se un’azione sia morale? Quale principio regola il mondo morale? Kant distingue la “massima” dalla “legge”: la massima è una regola “soggettiva” di comportamento, a cui l’uomo si attiene nell’agire; la legge è una regola “oggettiva”, a cui l’uomo “deve” attenersi nell’agire. La differenza consiste nel fatto che la massima ha un contenuto particolare, relativa al soggetto che la formula per sé, onde attuarla, mentre la legge deve avere un contenuto universale, valido per tutti. Ma come rintracciarla? Dice Kant: “Agisci secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale.” E andando avanti nel suo ragionamento, tendente a regolare il mondo pratico con leggi deterministiche, come quelle naturali che governano il mondo fisico, suggerisce l’imperativo universale: “Agisci come se la massima della tua azione dovesse, per la tua volontà, divenire una legge universale di natura.” Ora, noi sappiamo come il filosofo, nell’esporre la sua dottrina della ragion pura teoretica, abbia la costante preoccupazione di escludere qualsiasi possibilità di contaminazione dell’intelletto con i dati empirici, al fine di una corretta critica della facoltà conoscitiva. Uguale preoccupazione egli mostra nella critica della ragion pura pratica, escludendo qualsiasi possibilità di influenza di fattori eteronimi sulla volontà nel suo determinarsi all’azione, come dire esterni rispetto alla sua autonomia di ragion pratica, facoltà dell’agire. La volontà deve essere indipendente da qualsiasi desiderio o inclinazione personale o scopo particolare dell’azione, che non sia quello di adempiere al precetto della legge morale, il comando contenuto nella norma, un imperativo categorico, se si vuole accostare l’ideale della perfezione morale. In questo senso, non sarà mai possibile trovare nell’esperienza un esempio di azione morale, che possa valere come modello, a cui ispirarsi per il proprio comportamento. “Ogni elemento empirico, che volesse aggiungersi al principio di moralità, non solo sarebbe a ciò del tutto inadatto, ma porterebbe un danno estremo alla chiarezza dei costumi. Qui il genuino valore di una volontà assolutamente buona - valore che si eleva al di sopra di tutto ciò che ha un prezzo - consiste appunto nel fatto che il principio dell’azione sia libero da tutti gli influssi di motivi accidentali, quelli forniti appunto dall’esperienza.” Quello che importa per il giudizio di moralità di un’azione non è tanto l’atto della volontà, quanto l’intenzione, la volontà buona. Deve osservarsi che il pensiero di Kant, nel campo della condotta morale dell’uomo, era abbastanza influenzato dall’educazione ricevuta della madre, fedele osservante della religione pietista, la corrente del calvinismo che s’ispira alla pietas, una forma particolare di rispetto del culto. Si può dire che egli, nella sua attività speculativa, pur prendendo le distanze dalle convinzioni religiose, rifletta in maniera laica la dottrina protestante del male radicale, e questo lo induce a considerare come prevalente nelle singole persone l’inclinazione a compiere azioni malvagie, in riferimento al concetto teologico della “natura lapsa”, la natura umana decaduta, spogliata della grazia divina. “Da un legno così storto come quello di cui è fatto l'uomo non si può ricavare niente di perfettamente dritto.”
NOTA Non si può fare a meno di notare come nell’allusione al legno storto, rintracciabile negli “Scritti politici” di Kant, risuoni l’eco dell’affermazione di Aristotele, relativa al giusto mezzo, contenuta nella “Etica Nicomachea” (II 9, 1109 b): “Perciò chi mira al giusto mezzo anzitutto deve tenersi lontano da ciò che gli è soprattutto contrario… Invero dei due estremi uno è più colpevole, l’altro meno… è bene scegliere la seconda rotta, come si suol dire, cioè il minore dei mali… infatti allontanandoci di molto dall’errore, giungeremo al giusto mezzo, proprio come fanno quelli che raddrizzano i legni storti.”
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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L'IDEA DELLA LIBERTÀ
Le chimere oltre il cielo
“Pur nella grande ricchezza delle nostre lingue, il pensatore si trova spesso in imbarazzo nella ricerca di un’espressione che risponda esattamente al suo concetto… Coniare nuovi termini è come una pretesa di dettar leggi nella lingua.” Così si esprime Immanuel Kant nella “Critica della Ragion pura”, e precisamente nel paragrafo “Delle idee in generale” della “Dialettica trascendentale”, dove tratta il “concetto” d’idea. Qui, il filosofo di Königsberg sembra criticare quello che nelle sue opere compie a getto continuo, ossia creare un nuovo linguaggio filosofico, tanto che i suoi esegeti hanno dovuto compilare un glossario per interpretarlo.
“Pertanto, se per un certo concetto si trova soltanto un termine unico, che nel significato già in corso risponda esattamente a questo concetto… conviene conservargli il suo significato peculiare.” Così continua Kant, risalendo un po’ alla fonte di chi per primo, nella storia del pensiero, aveva creato e fissato un linguaggio concettuale: “Platone si servì dell’espressione ‘idea’ in modo che si vede bene che per essa egli intendeva qualcosa che non soltanto non è ricavato mai dai sensi, ma sorpassa anche di gran lunga i concetti dell’intelletto, di cui si occupò Aristotele, in quanto che nell’esperienza non s’incontra mai nulla che vi sia adeguato.”
Un po’ più avanti, nel testo, così continua: “Platone osservò molto bene, che la nostra attività conoscitiva sente un bisogno un po’ più alto di compitare semplici fenomeni secondo un’unità sintetica, per poterli leggere come esperienza, e che la nostra ragione s’innalza a conoscenze, che vanno troppo in là perché un qualunque oggetto, che l’esperienza può dare, possa mai adeguarvisi, ma che, ciò nondimeno, hanno la loro realtà, e non sono per nulla semplici chimere.”
In questo passo, parlando del filosofo antico, Kant espone il suo pensiero sulle possibilità e i limiti delle nostre facoltà conoscitive: sensibile, intellettiva e razionale. Se con i sensi noi conosciamo i fenomeni intuitivamente e poi con l’intelletto li raccogliamo nell’unità sintetica a priori, con la ragione andiamo al di là del fenomeno, dove sappiamo dell’esistenza di una realtà noumenica, che il fenomeno rivela, ma di cui non possiamo avere esperienza (la prova).
Osserviamo che “il bisogno più alto di compitare semplici fenomeni” della ragione di Kant non è altro che “il capo sospeso verso l’alto, con cui ci formò il dio” di Platone, uno sguardo verso il “cielo stellato”, “dove fu la prima origine dell’anima, perché la nostra patria è il cielo” (Timeo, 90 ab).
In entrambi i pensatori riconosciamo quel nostro desiderio d’infinito (de-sidera), le stelle infinitamente lontane, che ci rivelano l’insoddisfazione della nostra condizione finita, un sentimento dell’anima cantato dai poeti romantici dell’Ottocento, in Italia più di tutti da Giacomo Leopardi.
Nel Collegium Fredericianum, dove Kant aveva studiato (1732-40), s’insegnava il latino, l'ebraico dell’Antico Testamento ed il greco del Nuovo Testamento, pertanto egli non ebbe modo di conoscere le dottrine di Platone e Aristotele direttamente dalle fonti, ma attraverso l’uso di un qualche compendio di filosofia. I dialoghi di Platone, infatti, furono tradotti in tedesco soltanto nel secolo successivo da Schleiermacher. Ritornando al suo giudizio sul filosofo antico, Kant così prosegue: “Platone trovava segnatamente le sue idee in tutto ciò che è pratico, che cioè si fonda sulla libertà; la quale, dal canto suo, sta tra le conoscenze, che sono un prodotto proprio della ragione.” Qui, siamo arrivati al punto in cui Kant pone l’idea della libertà tra i prodotti della ragione, un qualcosa in sé non esperibile con i sensi. Ed osservando come Platone abbia esteso il suo concetto delle idee anche alle conoscenze speculative, dichiara di non poterlo seguire su questo terreno e nella deduzione mistica delle idee, che venivano da lui ipostatizzate. Quindi, con l’esempio della virtù, afferma che una tale idea è variabile secondo i tempi e le circostanze e non adoperabile come regola. Se invece viene proposto come modello un uomo virtuoso, allora ognuno potrebbe apprezzarlo nel confronto con l’idea che ha nella propria testa. “Il fatto che un uomo non agirà mai in un modo adeguato al contenuto dell’idea pura della virtù, non dimostra per nulla un che di chimerico in tale pensiero. Ogni giudizio sopra il valore o il disvalore morale è infatti possibile soltanto mediante questa idea”, ma soltanto come approssimazione, a causa degli impedimenti propri della natura umana, come dire i dati empirici. Kant non esclude l’esistenza di un mondo ideale di possibili forme perfette, che per lui è un prodotto della ragione: “La Repubblica platonica è diventata proverbiale come un preteso esempio, che salta agli occhi, di perfezione fantastica, che non può avere sua sede se non nel cervello del pensatore sfaccendato.” Questa critica viene però subito temperata con il riconoscimento che porre il principio di libertà a fondamento della costituzione politica dello Stato è un’idea necessaria per avvicinare il più possibile un grado supremo di perfezione.
Infine, su Platone, così conclude: “Se si toglie quello che vi è di esagerato nell’espressione, lo slancio spirituale del filosofo per sollevarsi dall’osservazione della copia nell’ordine fisso dell’Universo al suo sistema architettonico secondo scopi, cioè secondo idee, è uno sforzo che merita di essere rispettato e imitato. Ma per quanto riguarda i principi della moralità, della legislazione e della religione, in cui le idee, prima di tutto, rendono possibile la stessa esperienza (del bene), sebbene non vi possano trovare piena espressione, egli ha il merito del tutto particolare, che non si riconosce soltanto perché si giudica attraverso regole empiriche, la validità delle quali come principii viene appunto distrutta dalle idee.”
Quindi afferma il suo punto di vista: “Quanto alla natura, infatti, l’esperienza ci fornisce la regola ed è la fonte della verità; ma rispetto alle leggi morali, l’esperienza (ahimè) è la madre delle illusioni, e niente è più riprovevole che voler determinare o limitare la legge di quel che io devo fare guardando a quello che si fa.”
Per Platone, la libertà è un bene così prezioso tanto da essere collocato più in alto del cielo, nella verità delle Idee, laddove per Kant volano soltanto le chimere.
GLI ABITANTI DELLA LUNA
Pensare e conoscere tra metafisica e scienza
“Gli oggetti dell’esperienza non sono mai in sé, ma soltanto dati nell’esperienza e non esistono punto fuori di essa. Che nella luna ci possano essere abitanti, benché nessun uomo li abbia mai percepiti, deve certamente ammettersi, ma questo non significa altro se non che nel progresso possibile dell’esperienza noi potremmo incontrarci in essi; giacché reale è tutto quello che sta in un contesto con una percezione, secondo le leggi del progresso empirico.” Così Kant esemplifica la sua dottrina dell’idealismo trascendentale, che non nega l’esistenza delle cose esterne alla coscienza, ma le dichiara conoscibili (intellegibili), soltanto quando se ne ha la prova attraverso i sensi. In questa prospettiva, tutto quello che si conosce si può pensare, ma non tutto quello che si può pensare si può conoscere, e quindi dirsi realmente esistente, come ad esempio Dio, l’anima e il mondo. Erano questi ultimi i tre temi di fondo di cui trattava la Metafisica, ai tempi di Kant, distinti nella Teologia razionale, Psicologia razionale e Cosmologia razionale, e costituenti per il filosofo le tre idee fondamentali, oggetto di discussione e critica nella sua “Dialettica trascendentale”.
Al dogmatismo di questi tre insegnamenti egli oppone la sua critica della ragion pura, che avventurandosi nel territorio meta-empirico mostra i limiti della ragione. Quando siamo di fronte a queste tre idee trascendentali, non abbiamo possibilità di farne esperienza. Dice Kant: “La denominazione di concetto razionale dimostra già fin da principio, che questo non vuole essere limitato dentro l’esperienza, poiché esso concerne una conoscenza, di cui ogni conoscenza empirica (e forse la totalità dell’esperienza possibile o della sua sintesi empirica) è soltanto una parte, e alla quale poi invero non c’è esperienza reale che si adegui mai pienamente, benché tuttavia vi appartenga.” Noi in definitiva, possiamo concepire (pensare) non soltanto oggetti esperibili e quindi percepibili, ma anche quelli che non soggetti ad una tale condizione di esperienza. Se i concetti razionali “contengono l’incondizionato, riguardano qualcosa, sotto cui sta ogni esperienza, ma che per sé stesso non è mai oggetto dell’esperienza”. La condizione di tali oggetti del pensiero è di non dover essere condizionati dall’esperienza, ed in questo senso si può parlare di “incondizionato”.
La conoscenza limitata all’esperienza diventa ricerca scientifica, quella che verificando le ipotesi con la prova sperimentale, conduce alla scoperta. Se in ipotesi, la prova è esclusa, non vi è conoscenza, “scienza”, ma pensiero razionale, “metafisica”, di cui nella “Dialettica trascendentale” si dimostrano le contraddizioni e i conflitti, un confronto dialettico inconciliabile fra tesi opposte.
Gli astronauti del Novecento sbarcati sulla luna non hanno incontrato abitanti fino ad allora sconosciuti, di cui poter fare esperienza e quindi conoscenza, come quando ci viene presentato da un amico incontrato per strada qualche suo accompagnatore, di cui magari avevamo sentito parlare, ma che non avevamo mai “conosciuto” prima. Ed infatti, stringendogli la mano diciamo: “Piacere di conoscerla”.
Ecco, per Kant, questo incontro nell’esperienza quotidiana con Dio, l’anima o il mondo non è possibile, anche se è pensabile, essendo la ragione (non l’esperienza) la fonte inesauribile del pensiero.
I GIGLI SULL'ACQUA
La Libertà ai confini del Nulla
In genere si critica Kant per la sua distinzione tra “fenomeno” e “noumeno”, obiettando che non si capisce la necessità di distinguere un oggetto reale dalla sua rappresentazione nella nostra coscienza, trattandosi sempre dello stesso oggetto, tranne i casi d’inganno dei sensi, in cui si mostrano come reali aspetti illusori, per i quali comunemente si distingue tra realtà ed apparenza, ad esempio nel miraggio dello specchio d’acqua sull’asfalto d’estate, in realtà una diversa rifrazione dei raggi di luce dovuta al calore. Tranne quest’ultima distinzione, non sembra esserci nessuna differenza in un oggetto, che certo non cambierà, se percepito con i sensi oppure soltanto con il pensiero. Perché distinguere la cosa da come appare (fenomeno) dalla cosa in sé (noumeno)? Vediamo che cosa risponde Kant: “E qui il presupposto, certo comune, ma fallace della realtà assoluta dei fenomeni mostra subito la sua funesta azione sconcertatrice della ragione. Se, infatti, i fenomeni sono cose in sé, non c’è più scampo per la libertà. Allora la natura è la causa completa e in sé sufficientemente determinante di ogni avvenimento, e la condizione di questo è contenuta sempre solo nella serie dei fenomeni, che, al pari dei loro effetti, sono necessariamente subordinati alla legge naturale.” Identificare la rappresentazione della realtà nella nostra coscienza con la realtà esterna, di cui quella interna è il riflesso colto dall’intelligenza, significa togliere ogni possibile libertà non solo al pensiero, ma anche all’azione, che su quella libertà si fonda.
Così prosegue Kant, nel suo ragionamento: “Se, invece, i fenomeni non sono presi per nulla più di quello che sono in fatto, non per cose in sé, ma semplici rappresentazioni, legate fra loro secondo leggi empiriche, allora devono avere essi stessi delle cause che non siano fenomeni.” Le cause di cui parla Kant sono i fondamenti (Gründe), non l’abisso del nulla, ma un solido terreno dell’intellegibile. “Ma una tale causa intelligibile, rispetto alla sua causalità, non è determinata da fenomeni, benché i suoi effetti siano fenomeni, e perciò possano essere determinati da altri fenomeni. Essa, dunque, con la sua causalità, è fuori della serie; al contrario i suoi effetti rientrano nella serie delle condizioni empiriche.”
Qui il discorso di Kant, che deve conciliare la libertà con la necessità, comincia a divenire oscuro, come egli stesso riconosce: “L’effetto pertanto può, rispetto alla sua causa intelligibile, essere considerato libero, e al tempo stesso tuttavia, rispetto ai fenomeni, come una conseguenza di essi secondo la necessità della natura.”
L’equivocità dell’effetto, ad un tempo libero e necessario, non sfugge al giudizio del suo autore: “La distinzione, che si propone in generale e in modo del tutto astratto, deve sembrare straordinariamente sottile ed oscura, ma si chiarirà nell’applicazione.”
La dimostrazione di come conciliare libertà e necessità serviva, dunque, per spiegare il perché della distinzione tra il fenomeno e la cosa in sé, da una parte il determinismo del mondo fenomenico, dall’altra la libertà del mondo del pensiero, da un punto di vista speculativo ai confini del nulla, dal punto di vista pratico fondamento dell’azione.
Ed in verità l’azione pratica può nascere (essere causata) soltanto dalla libertà, un oggetto trascendentale, come dire un ente di ragione o noumeno, che fonda la sua esistenza su un terreno inconoscibile.
Non sappiamo, per usare una suggestiva immagine kantiana, se i gigli affioranti sullo specchio d’acqua di uno stagno abbiano il gambo legato al fondo.
IL LEGNO STORTO
L’ideale della perfezione morale
“Il concetto della libertà, in quanto la sua realtà è dimostrata da una legge apodittica della ragion pratica, costituisce ora la chiave di volta dell’intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della ragione speculativa. E tutti gli altri concetti (di Dio e dell’immortalità), che come semplici idee nella ragion pura, rimangono senza punto d’appoggio, si legano ora a quello, e con esso e per esso ricevono consistenza e realtà oggettiva: in altri termini, la loro possibilità viene dimostrata per il fatto che la libertà è reale. Infatti questa idea si manifesta attraverso la legge morale.” La legge apodittica (necessaria) della ragion pratica è la legge morale.
Nel mondo fisico, tutto accade seguendo le leggi della natura, almeno questo ci dice la scienza, di cui la metafisica fissa i limiti della conoscenza, nella prospettiva kantiana della critica della ragion pura. Quando piove, tanto per fare un esempio, piove non perché dal cielo Giove pluvio ha deciso di rovesciare l’acqua sulla terra, come dire a causa di una decisione “celeste”, una libera scelta divina, ma per un fenomeno naturale. I nostri sensi percepiscono l’acqua che cade dal cielo e bagna la terra ed il nostro intelletto giudica questo fenomeno “pioggia”. La scienza moderna ci spiega che la pioggia è causata dall’aumento del volume e quindi del peso delle goccioline d’acqua, di cui sono composte le nubi. Quando la loro forza di gravità diviene maggiore delle forze ascensionali che sollevano la nube, comincia a piovere.
Nel mondo dell’agire umano, tutto quello che accade non è dovuto alla meccanica di leggi naturali, come dire una successione determinata di fatti, di cui non si scorge l’origine; il tutto, invece, è causato da scelte compiute dalla volontà dell’uomo, il quale liberamente compie le azioni produttive di quegli effetti che noi osserviamo. Nella prospettiva della conoscenza teoretica, gli effetti delle azioni si presentano come fenomeni, vale a dire ricadono sotto il governo di leggi naturali. Se io rovescio dell’acqua dalla finestra di un piano alto della casa sulla strada di sotto, il fenomeno della caduta dell’acqua segue la legge fisica della forza di gravità, ma la caduta non è un fatto dovuto ad una causa, che diciamo naturale ossia necessaria, ma per una libera scelta da me operata.
Questa libertà non è osservabile nel mio gesto che rovescia un secchio d’acqua, un fenomeno del mondo sensibile, ma appartiene ad un mondo intellegibile, un noumeno (idea) che si può cogliere soltanto con l’intelletto. In questo senso il mondo pratico non è governato da leggi naturali necessarie, ma da un principio di libertà, proprio dell’uomo. Questi con la sua azione dà inizio alla serie causale dei fatti produttivi di quegli effetti, che nel mondo sensibile sono osservati come fenomeni dalla facoltà conoscitiva della ragione. In conseguenza quello che accade in un certo modo poteva accadere in modo diverso, a seguito di una diversa scelta dell’agente, di un diverso modo di atteggiarsi della sua volontà.
Quindi, nel giudizio sulla bontà delle azioni dell’uomo, ovvero nel giudicare se esse siano buone o meno, il problema della libertà umana si rivela come problema morale.
Tornando al mio gesto di rovesciare un secchio d’acqua dalla finestra, se di sotto c’erano dei ragazzini che giocavano a pallone o giovani che facevano scorribande in motocicletta, l’azione appare immediatamente riprovevole o nel secondo caso quanto meno eccessiva; se c’era un fuoco che danneggiava persone o cose, l’azione risulta subito provvidenziale. Ma in base a quale criterio possiamo decidere se un’azione sia morale? Quale principio regola il mondo morale?
Kant distingue la “massima” dalla “legge”: la massima è una regola “soggettiva” di comportamento, a cui l’uomo si attiene nell’agire; la legge è una regola “oggettiva”, a cui l’uomo “deve” attenersi nell’agire. La differenza consiste nel fatto che la massima ha un contenuto particolare, relativa al soggetto che la formula per sé, onde attuarla, mentre la legge deve avere un contenuto universale, valido per tutti. Ma come rintracciarla? Dice Kant: “Agisci secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale.” E andando avanti nel suo ragionamento, tendente a regolare il mondo pratico con leggi deterministiche, come quelle naturali che governano il mondo fisico, suggerisce l’imperativo universale: “Agisci come se la massima della tua azione dovesse, per la tua volontà, divenire una legge universale di natura.”
Ora, noi sappiamo come il filosofo, nell’esporre la sua dottrina della ragion pura teoretica, abbia la costante preoccupazione di escludere qualsiasi possibilità di contaminazione dell’intelletto con i dati empirici, al fine di una corretta critica della facoltà conoscitiva. Uguale preoccupazione egli mostra nella critica della ragion pura pratica, escludendo qualsiasi possibilità di influenza di fattori eteronimi sulla volontà nel suo determinarsi all’azione, come dire esterni rispetto alla sua autonomia di ragion pratica, facoltà dell’agire. La volontà deve essere indipendente da qualsiasi desiderio o inclinazione personale o scopo particolare dell’azione, che non sia quello di adempiere al precetto della legge morale, il comando contenuto nella norma, un imperativo categorico, se si vuole accostare l’ideale della perfezione morale.
In questo senso, non sarà mai possibile trovare nell’esperienza un esempio di azione morale, che possa valere come modello, a cui ispirarsi per il proprio comportamento. “Ogni elemento empirico, che volesse aggiungersi al principio di moralità, non solo sarebbe a ciò del tutto inadatto, ma porterebbe un danno estremo alla chiarezza dei costumi. Qui il genuino valore di una volontà assolutamente buona - valore che si eleva al di sopra di tutto ciò che ha un prezzo - consiste appunto nel fatto che il principio dell’azione sia libero da tutti gli influssi di motivi accidentali, quelli forniti appunto dall’esperienza.” Quello che importa per il giudizio di moralità di un’azione non è tanto l’atto della volontà, quanto l’intenzione, la volontà buona.
Deve osservarsi che il pensiero di Kant, nel campo della condotta morale dell’uomo, era abbastanza influenzato dall’educazione ricevuta della madre, fedele osservante della religione pietista, la corrente del calvinismo che s’ispira alla pietas, una forma particolare di rispetto del culto. Si può dire che egli, nella sua attività speculativa, pur prendendo le distanze dalle convinzioni religiose, rifletta in maniera laica la dottrina protestante del male radicale, e questo lo induce a considerare come prevalente nelle singole persone l’inclinazione a compiere azioni malvagie, in riferimento al concetto teologico della “natura lapsa”, la natura umana decaduta, spogliata della grazia divina. “Da un legno così storto come quello di cui è fatto l'uomo non si può ricavare niente di perfettamente dritto.”
NOTA
Non si può fare a meno di notare come nell’allusione al legno storto, rintracciabile negli “Scritti politici” di Kant, risuoni l’eco dell’affermazione di Aristotele, relativa al giusto mezzo, contenuta nella “Etica Nicomachea” (II 9, 1109 b): “Perciò chi mira al giusto mezzo anzitutto deve tenersi lontano da ciò che gli è soprattutto contrario… Invero dei due estremi uno è più colpevole, l’altro meno… è bene scegliere la seconda rotta, come si suol dire, cioè il minore dei mali… infatti allontanandoci di molto dall’errore, giungeremo al giusto mezzo, proprio come fanno quelli che raddrizzano i legni storti.”
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