[N. d. B.] Presento un’anteprima del racconto narrativo discorsivo: “Il giardino degli assoluti”, limitato alla prima delle quattro “determinazioni”. Come risulta chiaro, “L’enigma dell’epigrafe” è un addendum della prima determinazione.
LA PRIMA DETERMINAZIONE Devo la scrittura di questo racconto alla lettura di alcune pagine di Borges, o meglio ad una scorsa soltanto di alcune sue storie, parte della raccolta “Il manoscritto di Brodie”. La prima, “L’Intrusa”, l’avevo letta tempo fa, e nel rileggere l’inizio mi sono ricordato della trama, ed allora sono saltato alla fine. Il sigillo finale è l’abbraccio dei due fratelli, dopo l’eliminazione della donna che li divide, l’intrusa. Ho perso un po' di tempo per rendermi conto, ma lo sospettavo, che la citazione in epigrafe era finta: “Il secondo libro dei Re, 1, 26”. Ma la mia piccola ricerca biblica mi ha fornito il nome di un diavolo, il suo ascendente, Baal-Zebùb, dio di Ekron. E non è stato un caso che il cucciolo di Asmodeo, Asmodeino, mentre mi accingevo a scrivere, mi abbia guardato indeciso se scegliere di restare con me o salire al piano di sopra, dal suo padrone, che non è Asmodeo. Ha scelto l’altro da me ed è salito su di corsa, arrampicandosi a quattro zampe. Ora ho due nomi di diavoli, nel mio giardino degli assoluti, uno era divenuto abituale, Asmodeo, l’altro giunto come un intruso, Belzebù. E dovrò trovare un angolo del giardino, dove sistemare questa nuova divinità filistea, non so ancora dove. Immagino che la rivedrò andare in giro a fine estate e anche prima, ma è ancora inverno. Nel tempo del racconto, sappiamo, le stagioni si rincorrono ed incontrano, ed io comincio da quella vuota estate di tre anni fa, l’afa agostana senza ristoro, nell’ora del meriggio, apparve dietro i cancelli laterali, era Lilith? Ogni assoluto è absolutus, sciolto da ogni determinazione, e la figura femminile giovanissima era l’unica determinazione dell’assoluto vuoto del giardino. Devo assolutamente trovarle un nome, senza rigirare attorno alle parole: Lilith, anche se non era e non poteva essere Lilith. “Mi hanno fatto del male” disse, no, non disse così. “Le hanno fatto del male” disse ed alludeva a sé bambina, perché agli occhi dell’uomo, che l’aveva incontrata, appariva bambina. L’uomo si avviò per allontanarsi, e lei lo seguì, quasi voleva aggrapparsi a lui, unica risorsa vivente di quel vuoto giardino d’estate. Ecco, se si fosse fermato e non fosse andato via, egli avrebbe incontrato Lilith, sebbene la ragazza, che non era Lilith, gli dovesse dire ancora qualcosa, che l’uomo già sapeva. Ecco perché andava via, l’avrebbe rivista in una diversa stagione in compagnia di un’amica, ma forse non era lei, e se lo era, non era più sola. Una placca in terracotta del II millennio a.C. raffigura Lilith, la dea dalle ali di morte, nelle mani i simboli della giustizia, sorretta da due leoni, tra due gufi, i ciuffi di piume sulle orecchie, segni che li distinguono dalle civette. Era questa immagine l’archetipo del male, che tiene insieme la sofferenza e la colpa, la forza del leone e il funesto presagio augurale dei gufi, nell’ordine della giustizia? L’immagine di questa dea è il negativo disarmonico di ogni fanciulla d’estate, di quella Lilith che non era la dea, la cui immagine ci raggiunge dalla lontananza di oltre quattromila anni.
L’ENIGMA DELL’EPIGRAFE Nel riprendere, dopo sette mesi, la stesura di questo racconto, ho dovuto riscontrare un anacoluto, uso il termine in maniera impropria, per indicare quello che definisco “un lasciato in sospeso”, un “vuoto di spiegazione”, variando con una metafora la locuzione proverbiale “vuoto di memoria”. Non ero riuscito a risolvere l’enigma dell’epigrafe, che Borges aveva premesso al racconto “L’intrusa”, ed ero giunto a una errata soluzione, ritenendo che lo scrittore argentino avesse posto una citazione biblica di finzione. Ma come si dice nella ricerca scientifica, “provando e riprovando”, alla fine ho risolto l’enigma. Contrariamente alla prima volta, la nuova ricerca sul web è stata più fortunata: https://www.docsity.com/it/docs/il-manoscritto-di-brodie. Nel commentare il testo del racconto “L’intrusa”, l’autore scrive: “Secondo libro dei Re 1, 26 – L’epigrafe biblica qui presente e che precede il racconto è fondamentale. Infatti, in Borges non c’è mai nulla di casuale. Il passo del secondo Libro dei Re, al quale si allude, è una parte del lamento intonato da Davide alla notizia della morte di Saul e del figlio di lui Gionata. Davide afferma che l’amicizia di Gionata era per lui più preziosa dell’amore di una donna.” La citazione è il fondamento del racconto, e come avevo la prima volta riscontrato, nella conclusione, “il sigillo finale è l’abbraccio dei due fratelli, dopo l’eliminazione della donna che li divide, l’intrusa.” Ma il riferimento al passo biblico, il secondo Libro dei Re, non corrispondeva allora, e neppure ora. Sono andato a ricercare nella Bibbia il lamento di Davide, e l’ho trovato nel secondo Libro di Samuele. Borges aveva sbagliato nell’indicazione biblica? Impossibile. E allora? Ecco la risposta della IA alla mia opportuna domanda – "I quattro libri dei Re" si riferisce in realtà ai primi quattro libri dei Re della Bibbia ebraica e cristiana, che nella tradizione ebraica sono conosciuti come I e II Samuele e I e II Re, ma che, seguendo la tradizione della versione greca dei Settanta e latina, costituiscono i libri di I, II, III e IV Re (o Regni). Questi libri sono testi storici religiosi che narrano la storia dei monarchi di Israele e Giuda, dalla vecchiaia di Davide alla caduta del regno di Giuda. – La citazione di Borges non era errata: immagino che nell’edizione inglese della Bibbia posseduta dallo scrittore argentino, il secondo libro di Samuele corrisponda al secondo libro dei Re. Correggere senza annullarla la mia errata interpretazione a distanza di sette mesi rende omaggio alla verità della narrazione, che come il tempo degli eterni, il destino, conserva e custodisce in sé non soltanto la verità, ma anche l’errore, ossia la verità dell’errore. Annichilire l’errore non significa, nella testimonianza del destino, lo stare stabilmente (in eterno) senza cedere, il destino della necessità, far cadere l’essere dell’errore nel niente, ma semplicemente farlo apparire nel cerchio del non apparire del suo essere un eterno. Ogni tanto, tanto per variare, uso il linguaggio della filosofia dello scomparso filosofo Emanuele Severino, il quale ha detto cose antiche con un linguaggio nuovo, portandosi al bivio d’inizio, come lui dice, della civiltà occidentale e percorrendo il sentiero intentato, quello dove errano i mortali, diciamo noi. E quale necessità mi ha condotto qui a variare il linguaggio, diciamo tradizionale, della filosofia, ovvero il linguaggio concettuale, quello astratto delle Idee, inaugurato e stabilito una volta per tutte da Platone? Riferendosi ai Naturalisti, i Fisici, a cui si fa risalire l’inizio della filosofia, Nietzsche non li definisce presocratici, ma preplatonici. I primi, infatti, usavano un linguaggio riferito alla Natura, da Platone in poi il linguaggio, invece, si riferisce al mondo delle Idee, l’Eidon, la visibilità dell’invisibile. Per quanto riguarda Socrate, poi, rimandiamo a un testo a parte: “Plebaglia”.
PLEBAGLIA Socrate apparteneva, per origine, al popolino: Socrate era plebaglia. Si sa, lo si vede ancora, quanto fosse brutto. Ma la bruttezza, di per sé un'obiezione, presso i Greci è quasi una confutazione. Socrate fu del tutto un Greco? La bruttezza è abbastanza spesso l'espressione di uno sviluppo per incroci, ostacolato dall'ibridazione. Altrimenti essa appare come uno sviluppo che va declinando. Gli antropologi criminalisti ci dicono che il tipico criminale è brutto: monstrum in fronte, monstrum in animo. Ma il criminale è un décadent. Socrate fu un criminale tipico? — Ciò per lo meno non sarebbe in contrasto con il giudizio dato da quel famoso fisiognomo, che suonò tanto sconveniente per gli amici di Socrate. Uno straniero che si intendeva di volti, passando per Atene, disse in faccia a Socrate che era un monstrum — che nascondeva in sé ogni brutto vizio e ogni brama. E Socrate rispose semplicemente: «Lei mi conosce, signore!» Nietzsche, “Il crepuscolo degli idoli”, (1888).
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
4 commenti:
[N. d. B.]
Presento un’anteprima del racconto narrativo discorsivo: “Il giardino degli assoluti”, limitato alla prima delle quattro “determinazioni”. Come risulta chiaro, “L’enigma dell’epigrafe” è un addendum della prima determinazione.
IL GIARDINO DEGLI ASSOLUTI
LA PRIMA DETERMINAZIONE
Devo la scrittura di questo racconto alla lettura di alcune pagine di Borges, o meglio ad una scorsa soltanto di alcune sue storie, parte della raccolta “Il manoscritto di Brodie”. La prima, “L’Intrusa”, l’avevo letta tempo fa, e nel rileggere l’inizio mi sono ricordato della trama, ed allora sono saltato alla fine. Il sigillo finale è l’abbraccio dei due fratelli, dopo l’eliminazione della donna che li divide, l’intrusa. Ho perso un po' di tempo per rendermi conto, ma lo sospettavo, che la citazione in epigrafe era finta: “Il secondo libro dei Re, 1, 26”. Ma la mia piccola ricerca biblica mi ha fornito il nome di un diavolo, il suo ascendente, Baal-Zebùb, dio di Ekron. E non è stato un caso che il cucciolo di Asmodeo, Asmodeino, mentre mi accingevo a scrivere, mi abbia guardato indeciso se scegliere di restare con me o salire al piano di sopra, dal suo padrone, che non è Asmodeo. Ha scelto l’altro da me ed è salito su di corsa, arrampicandosi a quattro zampe. Ora ho due nomi di diavoli, nel mio giardino degli assoluti, uno era divenuto abituale, Asmodeo, l’altro giunto come un intruso, Belzebù. E dovrò trovare un angolo del giardino, dove sistemare questa nuova divinità filistea, non so ancora dove. Immagino che la rivedrò andare in giro a fine estate e anche prima, ma è ancora inverno. Nel tempo del racconto, sappiamo, le stagioni si rincorrono ed incontrano, ed io comincio da quella vuota estate di tre anni fa, l’afa agostana senza ristoro, nell’ora del meriggio, apparve dietro i cancelli laterali, era Lilith?
Ogni assoluto è absolutus, sciolto da ogni determinazione, e la figura femminile giovanissima era l’unica determinazione dell’assoluto vuoto del giardino. Devo assolutamente trovarle un nome, senza rigirare attorno alle parole: Lilith, anche se non era e non poteva essere Lilith. “Mi hanno fatto del male” disse, no, non disse così. “Le hanno fatto del male” disse ed alludeva a sé bambina, perché agli occhi dell’uomo, che l’aveva incontrata, appariva bambina. L’uomo si avviò per allontanarsi, e lei lo seguì, quasi voleva aggrapparsi a lui, unica risorsa vivente di quel vuoto giardino d’estate. Ecco, se si fosse fermato e non fosse andato via, egli avrebbe incontrato Lilith, sebbene la ragazza, che non era Lilith, gli dovesse dire ancora qualcosa, che l’uomo già sapeva. Ecco perché andava via, l’avrebbe rivista in una diversa stagione in compagnia di un’amica, ma forse non era lei, e se lo era, non era più sola.
Una placca in terracotta del II millennio a.C. raffigura Lilith, la dea dalle ali di morte, nelle mani i simboli della giustizia, sorretta da due leoni, tra due gufi, i ciuffi di piume sulle orecchie, segni che li distinguono dalle civette. Era questa immagine l’archetipo del male, che tiene insieme la sofferenza e la colpa, la forza del leone e il funesto presagio augurale dei gufi, nell’ordine della giustizia? L’immagine di questa dea è il negativo disarmonico di ogni fanciulla d’estate, di quella Lilith che non era la dea, la cui immagine ci raggiunge dalla lontananza di oltre quattromila anni.
L’ENIGMA DELL’EPIGRAFE
Nel riprendere, dopo sette mesi, la stesura di questo racconto, ho dovuto riscontrare un anacoluto, uso il termine in maniera impropria, per indicare quello che definisco “un lasciato in sospeso”, un “vuoto di spiegazione”, variando con una metafora la locuzione proverbiale “vuoto di memoria”. Non ero riuscito a risolvere l’enigma dell’epigrafe, che Borges aveva premesso al racconto “L’intrusa”, ed ero giunto a una errata soluzione, ritenendo che lo scrittore argentino avesse posto una citazione biblica di finzione. Ma come si dice nella ricerca scientifica, “provando e riprovando”, alla fine ho risolto l’enigma. Contrariamente alla prima volta, la nuova ricerca sul web
è stata più fortunata: https://www.docsity.com/it/docs/il-manoscritto-di-brodie.
Nel commentare il testo del racconto “L’intrusa”, l’autore scrive: “Secondo libro dei Re 1, 26 – L’epigrafe biblica qui presente e che precede il racconto è fondamentale. Infatti, in Borges non c’è mai nulla di casuale. Il passo del secondo Libro dei Re, al quale si allude, è una parte del lamento intonato da Davide alla notizia della morte di Saul e del figlio di lui Gionata. Davide afferma che l’amicizia di Gionata era per lui più preziosa dell’amore di una donna.” La citazione è il fondamento del racconto, e come avevo la prima volta riscontrato, nella conclusione, “il sigillo finale è l’abbraccio dei due fratelli, dopo l’eliminazione della donna che li divide, l’intrusa.” Ma il riferimento al passo biblico, il secondo Libro dei Re, non corrispondeva allora, e neppure ora. Sono andato a ricercare nella Bibbia il lamento di Davide, e l’ho trovato nel secondo Libro di Samuele. Borges aveva sbagliato nell’indicazione biblica? Impossibile. E allora? Ecco la risposta della IA alla mia opportuna domanda – "I quattro libri dei Re" si riferisce in realtà ai primi quattro libri dei Re della Bibbia ebraica e cristiana, che nella tradizione ebraica sono conosciuti come I e II Samuele e I e II Re, ma che, seguendo la tradizione della versione greca dei Settanta e latina, costituiscono i libri di I, II, III e IV Re (o Regni). Questi libri sono testi storici religiosi che narrano la storia dei monarchi di Israele e Giuda, dalla vecchiaia di Davide alla caduta del regno di Giuda. – La citazione di Borges non era errata: immagino che nell’edizione inglese della Bibbia posseduta dallo scrittore argentino, il secondo libro di Samuele corrisponda al secondo libro dei Re.
Correggere senza annullarla la mia errata interpretazione a distanza di sette mesi rende omaggio alla verità della narrazione, che come il tempo degli eterni, il destino, conserva e custodisce in sé non soltanto la verità, ma anche l’errore, ossia la verità dell’errore. Annichilire l’errore non significa, nella testimonianza del destino, lo stare stabilmente (in eterno) senza cedere, il destino della necessità, far cadere l’essere dell’errore nel niente, ma semplicemente farlo apparire nel cerchio del non apparire del suo essere un eterno. Ogni tanto, tanto per variare, uso il linguaggio della filosofia dello scomparso filosofo Emanuele Severino, il quale ha detto cose antiche con un linguaggio nuovo, portandosi al bivio d’inizio, come lui dice, della civiltà occidentale e percorrendo il sentiero intentato, quello dove errano i mortali, diciamo noi.
E quale necessità mi ha condotto qui a variare il linguaggio, diciamo tradizionale, della filosofia, ovvero il linguaggio concettuale, quello astratto delle Idee, inaugurato e stabilito una volta per tutte da Platone? Riferendosi ai Naturalisti, i Fisici, a cui si fa risalire l’inizio della filosofia, Nietzsche non li definisce presocratici, ma preplatonici. I primi, infatti, usavano un linguaggio riferito alla Natura, da Platone in poi il linguaggio, invece, si riferisce al mondo delle Idee, l’Eidon, la visibilità dell’invisibile. Per quanto riguarda Socrate, poi, rimandiamo a un testo a parte: “Plebaglia”.
PLEBAGLIA
Socrate apparteneva, per origine, al popolino: Socrate era plebaglia. Si sa, lo si vede ancora, quanto fosse brutto. Ma la bruttezza, di per sé un'obiezione, presso i Greci è quasi una confutazione. Socrate fu del tutto un Greco? La bruttezza è abbastanza spesso l'espressione di uno sviluppo per incroci, ostacolato dall'ibridazione. Altrimenti essa appare come uno sviluppo che va declinando. Gli antropologi criminalisti ci dicono che il tipico criminale è brutto: monstrum in fronte, monstrum in animo. Ma il criminale è un décadent. Socrate fu un criminale tipico? — Ciò per lo meno non sarebbe in contrasto con il giudizio dato da quel famoso fisiognomo, che suonò tanto sconveniente per gli amici di Socrate. Uno straniero che si intendeva di volti, passando per Atene, disse in faccia a Socrate che era un monstrum — che nascondeva in sé ogni brutto vizio e ogni brama. E Socrate rispose semplicemente: «Lei mi conosce, signore!» Nietzsche, “Il crepuscolo degli idoli”, (1888).
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